Secondo alcuni quotidiani la premier Giorgia Meloni avrebbe invitato la segretaria del Pd Elly Schlein ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia che si terrà dal 14 al 17 dicembre. Al momento non sono arrivati inviti formali ma, in base a quanto si apprende, al Nazareno non sarebbero comunque favorevoli all’idea di una partecipazione della segretaria dem. «Con FdI ci confrontiamo e discutiamo in parlamento, a partire dalla Manovra di bilancio», tagliano corto.
Donzelli: «Sto gestendo io gli inviti, e mi sembra prematuro».
Anche se, secondo quanto riporta La Stampa, il responsabile organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli, ha smentito l’invito spiegando di averlo «letto dai giornali» e che comunque «sembra tutto un po’ prematuro». Nel corso della trasmissione Agorà su Rai3, anche il ministro per i Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, ha glissato alla domanda sul presunto invito a Elly Schlein a partecipare alla kermesse: «È una nostra tradizione quella di invitare tutti gli avversari politici. Invitammo anche Conte ai tempi, Letta e tutti i rappresentanti delle opposizioni, ma allora le parti erano invertite, per dire che secondo noi il terreno di scontro è il parlamento ma non ci deve essere né ghettizzazione né criminalizzazione dell’avversario. Noi le abbiamo subite e non le facciamo. Sarebbe bello che il Pd di Schlein sapesse cogliere la sfida che la premier Meloni ha lanciato, cioè quella di cambiare l’Italia insieme». Proprio qualche giorno fa, Ciriani aveva lanciato un appello alle due leader a collaborare per cambiare il Paese.
La Commissione Ue ha inviato all’Italia la lettera con il parere motivato riguardo alla procedura d’infrazione per la questione delle concessioni balneari. Il mancato adeguamento del Paese alla direttive Bolkenstein preoccupa Bruxelles da mesi. Un portavoce della Commissione, durante l’incontro quotidiano con la stampa, ha affermato: «Abbiamo inviato un parare motivato. Questo dà ora al governo italiano due mesi per fornire risposte e allora decideremo sui prossimi passi». E ha spiegato che le trattative in corso non si fermeranno: «La nostra preferenza è sempre di trovare un accordo con gli Stati membri, piuttosto che andare in giudizio. È un parere motivato e non pregiudica le trattative continue che avremo con le autorità italiane».
La mappatura un nodo centrale
Nel febbraio 2023, dopo la bozza del decreto Milleproroghe, la Commissione europea aveva parlato di «sviluppi preoccupanti», analizzando le norme previste dall’Italia che prevedevano la possibile proroga delle concessioni balneari. Queste scadrebbero nel 2023 secondo il Consiglio di Stato, ma nel 2024 per il Milleproroghe. E intanto l’Italia ha anche avviato la mappatura delle coste e a ottobre è stata conclusa. Si è giunti alla conclusione che non si tratta di una risorsa «scarsa», come spiega Repubblica, poiché soltanto un terzo dell’intero territorio mappato è occupato dagli stabilimenti balneari. Per l’Europa, però, la mappatura non va effettuata soltanto sul litorale, ma a livello nazionale, con un focus poi sulle coste, così da poterne determinare il valore economico reale.
Dossier balneari al palo
Intanto nemmeno nel decreto Omnibus il governo ha inserito nuove regole per i balneari. Il 2023 volge al termine ma le eventuali gare per le concessioni demaniali marittime non sono nemmeno vicine. Soltanto la trattativa con l’Ue potrà risolvere la situazione. Intanto, però, la procedura d’infrazione prosegue.
Magari non sarà Atreju il momento di confronto per farlo, ma Elly Schlein ha accolto l’appello della regista di C’è ancora domani, Paola Cortellesi, affinché la segretaria dem e la premier Giorgia Meloni mettendo da parte le differenze per lavorare insieme nel contrasto alla violenza di genere.
Schlein a Meloni: «Mettiamo da parte l’aspra dialettica»
Ai microfoni di Fanpage.it, Schlein ha detto: «Ha ragione Cortellesi. E io ci sto. Da qualche tempo rivolgo un appello alla presidente Meloni affinché almeno sul contrasto alla violenza di genere possiamo mettere da parte l’aspra dialettica tra maggioranza e opposizione e far fare passi avanti al Paese, non solo sulla repressione ma anche sulla prevenzione». La segretaria ha così risposto all’invito di Paola Cortellesi, che in un’intervista a Vanity Fair aveva chiesto al governo di essere più incisivo nella lotta alla violenza di genere. Aggiungendo che «per la prima volta a capo del governo e a capo dell’opposizione due donne: è evidente che non basta alla causa, a meno che questa concomitanza di circostanze non porti a tendersi una mano». Al momento Giorgia Meloni non ha ancora commentato le dichiarazioni dell’attrice e regista.
Secondo quanto riportato da una nota del Quirinale, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella mercoledì 15 novembre 2023 ha autorizzato la presentazione alle Camere del disegno di legge costituzionale recante “Disposizioni per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”. Si tratta di un passaggio necessario per procedere alla discussione della proposta. Nelle ore precedenti la premier aveva detto che l’esecutivo lavorerà «in Parlamento perché possa avere il più ampio consenso possibile e possa raggiungere la maggioranza dei due terzi». E sull’ipotesi referendum, la presidente del Consiglio non si è detta per nulla preoccupata, perché gli italiani «coglieranno l’occasione storica di accompagnare il Paese nella Terza Repubblica».
Mattarella ha anche emanato il decreto legge per il Piano Mattei
A distanza di pochi minuti, nel corso della stessa sera del 15 novembre, il capo dello Stato ha anche emanato il decreto legge recante Disposizioni urgenti per il “Piano Mattei” per lo sviluppo in Stati del Continente africano e autorizzato la presentazione alle Camere del relativo disegno di legge di conversione.
Matteo Renzi su X e sulla sua E-News ha parlato del ritorno in tv di Beppe Grillo, sottolineando soprattutto il «bel gettone di presenza» ricevuto. L’ex premier e attuale leader di Italia Viva ha scritto: «Venendo a cose meno serie: Beppe Grillo. È tornato in TV perché i soldi garantiti dal Movimento 5 stelle non bastavano più».
#ENEWS 2-Venendo a cose meno serie: Beppe Grillo. È tornato in TV perché i soldi garantiti dal Movimento Cinque Stelle non bastavano più. Ha detto anche cose giuste tipo che lui ha fallito e rovinato l’Italia (una sana autocritica, finalmente) e che quando parla Conte nessuno…
Renzi ha poi proseguito parlando anche dei contenuti dell’intervista rilasciata da Grillo a Fabio Fazio. «Ha detto anche cose giuste», ha spiegato il leader di Italia Viva, «tipo che lui ha fallito e rovinato l’Italia (una sana autocritica, finalmente) e che quando parla Conte nessuno capisce. Poi però Grillo ha detto una frase che mi sconvolge: “Se il mondo entra nella tua famiglia, te la sfascia la famiglia”. Io dico: ma con quale faccia Beppe Grillo può dire in TV una cosa del genere dopo essere stato il più grande distruttore di famiglie altrui? Perché Fazio non gli ha chiesto conto di questa contraddizione? Ma non c’è nessuno nel Movimento Cinque Stelle che avverta il bisogno di prendere le distanze dalla violenza verbale e social di questi anni? Ma vi rendete conto che vita di inferno avete fatto passare agli altri? Capite quanto odio avete seminato?»
«Sospendete immediatamente le forniture di armi a Israele. Il mio governo lo ha fatto con alcuni Paesi. Per farlo serve solo una cosa che vi manca: il coraggio». Lo ha detto nell’Aula della Camera il leader di Movimento 5 stelle Giuseppe Conte in replica al question time, rivolgendosi al ministro degli Esteri Antonio Tajani. Davanti alla crisi di Gaza, ha aggiunto l’ex premier, «la risposta della politica non può essere nel segno della pavidità» che il governo ha avete adottato il 27 ottobre. «Vi siete pilatescamente astenuti all’Onu su una risoluzione per una tregua umanitaria. Un atteggiamento codardo che allontana l’Italia dal tradizionale ruolo di protagonista di dialogo nel Medio oriente», ha aggiunto il presidente del M5s. La replica di Tajani a stretto giro: «Noi chiediamo pause umanitarie più lunghe, i codardi non stanno certamente sui banchi di questo governo, onorevole Conte».
Nella giornata anche la telefonata Meloni-Erdogan: la Turchia si aspetta che l’Italia sostenga un cessate il fuoco
Le parole di Conte giungono nel corso di una giornata che ha visto anche il colloquio telefonico tra la premier italiana Giorgia Meloni e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ankara, ha detto il Sultano, si aspetta che l’Italia sostenga un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. «Le atrocità contro la terra palestinese si stanno intensificando e stanno aumentando ogni minuto le morti dei civili», ha detto Erdogan a Meloni, come riporta la presidenza della Repubblica turca, aggiungendo che il Paese adotterà iniziative per portare Israele, «che ha commesso crimini di guerra», davanti ai tribunali internazionali.
L’Italia non vuole concedere alcun risarcimento alle famiglie delle vittime del naufragio di Cutro. Questo è quanto è emerso nell’aula del tribunale di Crotone, durante il processo contro i presunti scafisti. A spiegarlo è stata l’avvocata Giulia Bongiorno, che rappresenta che rappresenta la Consap, la concessionaria servizi assicurativi pubblici a cui fa capo il fondo di garanzia dello Stato per il risarcimento delle vittime di incidenti in strada o in mare.
Bongiorno: «Lasciateci fuori dal processo»
La legale ha spiegato che il governo non ritiene di dover risarcire nessuno. E questo perché la barca naufragata non può essere considerata «un’imbarcazione adibita al trasporto e dunque assoggettabile al codice delle assicurazioni». Bongiorno ha dichiarato: «Noi chiediamo di essere lasciati fuori da questo processo». Il tribunale di Crotone, nella precedente udienza, aveva accolto la richiesta dei rappresentanti dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime e per questo è stata chiamata in causa la Consap.
Gli avvocati: «Comportamento sbalorditivo»
L’avvocato Francesco Verri, uno dei legali delle famiglie, ha spiegato: «Eravamo riusciti ad ottenere dal tribunale il diritto di far intervenire nel processo la Consap perché risarcisca i danni in caso di condanna. E invece lo Stato dice “non contate su di me, non risarcisco nulla”. E dunque, non solo lo Stato quella notte si è lavato le mani, non solo ha lasciato morire le vittime di questo naufragio, non solo non ha neppure pensato di intervenire con un’operazione di polizia, non solo ha lasciato navigare un’imbarcazione non assicurata ma oggi dice “io non intendo prendermi cura neanche delle vittime ne risarcire loro i danni”. Dunque il comportamento dello Stato, appellandosi ad un cavillo, è sbalorditivo e non intende assumersi nessuna responsabilità neanche nei confronti dei superstiti e dei familiari delle vittime».
«Nel mio partito ci sono più omosessuali che al gay pride». Parola di Simone Pillon. L’ultracattolico ex senatore della Lega – tenace sostenitore di un complotto sull’ideologia gender alimentato dalla lobby LGBT per sovvertire l’ordine morale del mondo – lo ha detto nel corso della trasmissione Zona Bianca su Rete4. Non è certo la prima volta che Pillon – lo stesso che ai tempi della discussione sul ddl Zan si disse pronto a farsi esplodere come un kamikaze se la legge fosse stata approvata – solleva il tema. Nell’ottobre 2021 quando scoppiò lo “scandalo” Morisi (lo spin doctor di Matteo Salvini al centro di una vicenda sessuale dai contorni ambigui), in una conversazione col Foglio, poi smentita, si era detto “non” stupito dell’accaduto, «viste le note abitudini del personaggio» e quindi che la giustizia divina aveva semplicemente «fatto il suo corso».
Il caso Morisi e la cosiddetta corrente Mykonos
Nella stessa occasione Pillon aveva aggiunto che Morisi non gli era mai piaciuto, anche perché gli aveva «sempre fatto la guerra». Per esempio cercando, nel 2019, di convincere – per altro senza successo – il segretario Salvini a non partecipare al World Family Congress (o Family Day) di Verona, la kermesse ufficialmente organizzata per promuovere la bellezza della famiglia, ma rivelatasi di fatto una manifestazione (a cui intervennero, tra gli altri, l’attuale presidente della Camera e allora ministro della Famiglia Lorenzo Fontana e l’allora ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, oltre a Salvini) impregnata di omofobia e discriminazione delle diversità, all’insegna dello slogan scandito da vari gruppi di estrema destra partecipanti (si distinsero Forza Nuova, Fortezza Europa e CasaPound) “Dio, Patria, Famiglia”. Non contento, Pillon aveva anche definito Morisi un tipico esponente della cosiddetta “corrente Mykonos” (così ribattezzata perché sull’isola greca il dem Zan vide un collega leghista particolarmente aggressivo in Aula contro il Ddl che portava il suo nome baciare un uomo) sostenendo di conoscere tutti i nomi di chi vi faceva parte, quasi a minacciare un perfido “outing” (l’outing a differenza del coming out è lo “sputtanamento pubblico” di persone gay che non si sono dichiarate volontariamente).
Quando dichiararsi gay nella Lega è un boomerang
Pillon, per dirla tutta, aveva anche detto che l’omosessualità dei suoi colleghi non rappresenta, di per sé, un problema, ma che sarebbe meglio che i “mykonosiani” almeno si dichiarassero pubblicamente come tali. Cosa che, visto qualche precedente, non si è rivelata del tutto utile per i diretti interessati. È il caso di Stefano Guida, ex parrucchiere, gay dichiarato (nel suo curriculum anche la partecipazione a un film porno, dal titolo inequivocabile di Gay Party Underwear), che, nel 2011, poco più che 30enne, si candidò, senza successo, alle elezioni comunali di Bologna proprio tra le file leghiste. Pare che la mancata elezione fosse stata dovuta alla “contro-campagna” organizzata nei suoi confronti dal Carroccio bolognese che non gli aveva perdonato, più che i trascorsi cinematografici, un’intervista molto “aperta”, rilasciata dal candidato a un sito online di informazione.
LOS(T) in Padania
Guida era stato candidato “in quota” LOS (Libero Orientamento Sessuale) Padania, gruppo fondato, coraggiosamente, va detto, all’interno del Carroccio a metà Anni 90, per fare da “contraltare” al celodurismo imperante nel movimento, dove l’epiteto “culattone” rivolto dai leghisti (Calderoli e Bossi docunt) ai nemici politici era molto gettonato. Il LOS era stato fondato dai veneti Carlo Manera e Marcello Schiavon (e pare accolto favorevolmente da Roberto Maroni) proprio per sensibilizzare la Lega, ma in generale il centrodestra, nei confronti dei diritti degli omosessuali. Riuscì a raccogliere una cinquantina di militanti che parteciparono anche a qualche gay pride imbracciando bandiere celtiche, ma ebbe una vita effimera, durando, come si dice, lo spazio di un mattino. Venne riesumato a inizi Anni 2000 e, dopo la vicenda bolognese, sparì. Chissà, forse inghiottito dalle nebbie padane. LOS(T) in Padania.
Il livello di tensione nel governo ha raggiunto i livelli di guardia, tanto da far paventare scenari impensabili fino a pochi giorni fa. A meno di un anno dalle Politiche del 2022 torna addirittura ad aleggiare, seppure come extrema ratio, l’ipotesi delle elezioni anticipate. Giorgia Meloni, come scrive Repubblica, avrebbe addirittura “minacciato” Matteo Salvini di portare il Paese alle urne, in una sorta di Papeete in salsa Fratelli d’Italia, pur di ottenere una posizione di maggiore forza. Si tratta di un’esagerazione, si dirà: difficile immaginare un’altra estate in campagna elettorale. Intanto la notizia non è stata nemmeno smentita. E le parole della presidente del Consiglio sono un valido indicatore delle incomprensioni nella coalizione di centrodestra. Del resto la settimana che sta finendo ha portato con sé piccoli quanto significativi incidenti parlamentari: dall’assenza dei senatori azzurri Claudio Lotito e Dario Damiani al voto in commissione fino al ko del governo su un emendamento del ddl Province. Senza dimenticare l’ulteriore slittamento della nomina del commissario per l’alluvione in Emilia-Romagna, oggetto della contesa tra Meloni e Salvini. Come se non bastasse il caso Santanchè sta agitando Fdi mentre l’arresto dell’ex leghista Gianluca Pini getta un’ombra sul Carroccio.
Il dossier Mes spacca la Lega
I dossier bollenti sul tavolo dunque non mancano, e creano divisioni a più livelli: sia all’interno partiti della maggioranza sia nella dialettica tra alleati. Un bel rompicapo. Il Mes è il nodo più complicato. La presa di posizione del ministero dell’Economia, guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti, ha rappresentato un punto di rottura. Il leader del partito, Matteo Salvini, ha subito confermato la contrarietà all’approvazione della ratifica del fondo salva-Stati, facendo ripetere in stereofonia il concetto ai suoi fedelissimi. «Non ci metteremo in mano ai fondi stranieri», ha scandito ancora oggi il ministro delle Infrastrutture, sconfessando il Mef. «Gli italiani hanno votato un governo politico, non tecnico», ha ribadito. Insomma, non vuole mostrare cedimenti e aveva finanche pensato di votare contro in commissione, facendo infuriare la premier Meloni, consapevole che ilproblema resta e che bisogna muoversi con prudenza: il governo è pressato dall’Unione europea, che chiede una risposta – positiva – entro l’anno. E il parere tecnico di via XX Settembre ha sottratto qualsiasi argomentazione alla propaganda sovranista. Così nella Lega si sta consolidando l’ala più pragmatica, allineata a Giorgetti, con il presidente della Regione Friuli-Venezia-Giulia, Massimiliano Fedriga, uscito allo scoperto: «Spero che la valutazione, in un senso o nell’altro, venga fatta scevra di connotazioni ideologiche. In Italia stiamo ideologizzando qualsiasi cosa», ha ammesso in un’intervista a La Stampa. Ad appesantire il clima c’è stato poi l’arresto di Gianluca Pini nell’ambito dell’inchiesta che ha portato ai domiciliari Marcello Minenna. Un brutto colpo per Giorgetti, visto che l’ex deputato leghista era molto vicino alle sue posizioni. Nonostante il ministro dell’Economia sia totalmente estraneo alle indagini, è indubbio che la notizia crei un problema di immagine a tutta la Lega, non solo a un suo vicesegretario.
Forza Italia cerca un equilibrio e Ronzulli ha già incassato il ridimensionamento di Fascina
Sul fronte Mes, tra gli azzurri orfani di Silvio Berlusconi, monta la convinzione di dover battere un colpo e lanciare un segnale al Ppe. «Siamo liberali ed europeisti. Il parere tecnico fornito dal Mef ha confermato che il Mes non è un problema. Perché dovremmo aderire alla battaglia ideologica degli altri partiti?», si chiede, a microfoni spenti, un deputato azzurro, immaginando uno smarcamento dagli alleati. I vertici forzisti sono posizionati sulla linea di non alimentare nervosismi. Uno scontro nello scontro in un partito che deve cercare la propria fisionomia. Superata lentamente l’onda emotiva per la morte del fondatore, il cammino verso la normalizzazione non è affatto semplice: il coordinatore Antonio Tajani sta già facendo i conti con le richieste della minoranza capeggiata dalla capogruppo al Senato, Licia Ronzulli, che sta già incassando il ridimensionamento di Marta Fascina, che ancora deve tornare a Montecitorio. Ed è solo l’inizio.
L’affaire Santanchè e le preoccupazioni del Colle
L’aria più pesante si respira però dalle parti di Fratelli d’Italia. L’inchiesta di Reportsugli affari di Daniela Santanchè imbarazza e non poco Meloni. Un eventuale coinvolgimento del presidente del Senato Ignazio La Russa preoccupa il Colle. Insomma la crisi potrebbe diventare istituzionale e le dimissioni della ministra del Turismo potrebbero presto non essere più un tabù. La presidente del Consiglio ha capito che la questione può rivelarsi scivolosa ed evita di esporsi. Il compito di dettare la linea ufficiale è stato affidato al capogruppo alla Camera Tommaso Foti: «La sinistra chiede le dimissioni di un altro ministro», ha detto polemizzando con gli avversari. Solo che il collega della Lega, il presidente del gruppo Riccardo Molinari, è molto più tiepido su Santanchè: «Aspettiamo che il ministro spieghi le sue ragioni in Aula». Non proprio una difesa sulla fiducia.
Il caso Santanchè rischia di superare i confini del governo. E arrivare fino ai vertici delle istituzioni, dove il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è seriamente preoccupato che la vicenda possa avere strascichi pericolosi. Se l’inchiesta giornalistica sulle società della ministra del Turismo dovesse allargarsi ulteriormente, con nuove rivelazioni, il timore del Colle è che riesca a travolgere anche la figura della seconda carica dello Stato: il presidente del Senato Ignazio La Russa, collega di partito della Pitonessa in Fratelli d’Italia e già sfiorato dalle torbide vicende aziendali documentate da Report.
Dai fornitori non pagati al fondo di Dubai, cosa non torna
La storia è diventata un caso politico dalla sera di lunedì 19 giugno, quando la trasmissione tivù di Rai3 condotta da Sigfrido Ranucci ha scoperchiato una gestione poco oculata (eufemismo) delle società di Santanchè, in particolare Visibilia e Ki Group. Le accuse nei confronti della ministra sono di non aver pagato i fornitori, di aver licenziato i dipendenti senza il versamento del tfr né dei contributi previdenziali, di essere andata in televisione ai tempi del Covid a dire che per i suoi lavoratori aveva attivato la cassa integrazione, quando invece non era vero. Per non parlare dell’intricato giro di società svuotate e di un prestito poco trasparente da un fondo di Dubai, per far fronte a una carenza di liquidità.
Nel 2019, per far fronte a una grave crisi di liquidità la società di Daniela Santanché Visibilia ha chiesto un prestito alla società di investimento di Dubai Negma. Ma chi c’è dietro al fondo che ha salvato la società? Segui #Report ora live su #Rai3https://t.co/ncB8yhNKKRpic.twitter.com/nQPoph2r6l
Santanchè però va al contrattacco e minaccia querele
Santanchè per ora tira dritto e anzi contrattacca, minacciando querele e parlando di «notizie prive di corrispondenza con la verità storica». Secondo la ministra insomma i fatti sono stati rappresentati «in forma del tutto suggestiva e unilaterale per fornire una ricostruzione che risulta radicalmente non corrispondente al vero, ispirata esclusivamente dalla finalità di screditare l’immagine e la reputazione della sottoscritta presso l’opinione pubblica». E quindi è pronta a difendersi: «I responsabili della trasmissione televisiva erano stati preventivamente invitati a evitare di diffondere notizie non veritiere, purtroppo invano. Per questi motivi ho dato mandato ai legali di fiducia per le necessarie iniziative nelle opportune sedi giudiziarie».
La testa della ministra per salvarne un’altra: quella di La Russa
L’irritazione della premier Giorgia Meloni però non si è placata, tanto che da ore si rincorrono le voci di possibili dimissioni di Santanchè, con l’ipotesi di deleghe prese ad interim dalla stessa presidente del Consiglio. Adesso però il passo indietro, chiesto ovviamente anche dalle opposizioni, potrebbe assumere pure un altro significato: dare “in pasto” all’opinione pubblica una testa e salvarne un’altra più importante, cioè quella di La Russa.
La firma del presidente del Senato in due diffide
Ma in che modo è invischiato nella storia anche l’ex militante del Movimento sociale italiano, eletto presidente del Senato il 13 ottobre 2022 alla prima votazione con 116 voti? Nel raccontare in particolare il flusso di denaro – 3 milioni di euro – dal già citato fondo di Dubai a Visibilia, Report ha mostrato come in una diffida inviata al giornale online MilanoToday – che da tempo indaga sulla vicenda – da parte di quel fondo degli Emirati, Negma, di cui non si conoscono gli investitori, la firma in calce è proprio dell’avvocato Ignazio Benito Maria La Russa. Che tra l’altro aveva spedito allo stesso giornale una precedente diffida, questa volta però per conto di Visibilia. Come cioè se fosse consulente per entrambe le parti. Lui al Corriere ha detto di non c’entrare più nulla: «Allo studio, che non è più mio, ma di mio figlio e dei miei collaboratori, si appoggia Daniela Santanchè per altre questioni sue, non abbiamo mai seguito le società ed escludo di essermene occupato anche perché non faccio più l’avvocato da quanto sono presidente». Ma le due minacce di querela e i verbali di Visibilia sembrano andare in un’altra direzione.
Alle richieste di chiarimento del giornalista di Report, La Russa ha risposto in maniera scontrosa e poco istituzionale: «Dai, adesso levati!». La verità è che forse sarebbe meglio per lui che a “levarsi” di torno fosse proprio l’amica Santanchè, con un passo indietro dal governo che darebbe un minimo di respiro a Fratelli d’Italia e alla maggioranza di destra-centro, incalzati dalle ripercussioni che sta avendo l’inchiesta. Evitando così che lo “scandalo” arrivi fino ai piani superiori. Uno scenario che il Quirinale per primo vuole evitare.
I suoi avvocati ora evidenziano che a lui «viene contestato» soltanto «un episodio nel marzo 2020: essersi adoperato in favore di un imprenditore vicino alla Lega per sbloccare una sua fornitura di mascherine ferme alla dogana di Milano in cambio di una entratura nel partito». Fatto sta che l’inchiesta di Forlì – quel «pactum sceleris» con l’ex leghista Gianluca Pini per essere accreditato nel Carroccio e assicurarsi la conferma alla guida dell’Agenzia – e gli arresti domiciliari sono, almeno per il momento, una brutta tegola sulla testa di Marcello Minenna, la cui parabola politica e istituzionale si fa sempre più travagliata. Il suo ultimo incarico, dal quale è stato adesso sospeso in via automatica, è quello di assessore regionale all’Ambiente, alle Partecipate, alla Programmazione unitaria e ai Progetti strategici nella Giunta calabrese di centrodestra guidata dal forzista Roberto Occhiuto. Il presidente azzurro lo ha subito difeso: «I fatti che gli vengono contestati dalla Procura di Forlì riguardano il periodo nel quale Minenna è stato direttore dell’Agenzia delle Dogane: sono certo che dimostrerà la sua estraneità».
Gli ‘incidenti’ di percorso all’Agenzia delle Dogane
Tuttavia, ora viene messa a dura prova la sua capacità di reinventarsi come uno Zelig istituzionale per cavare il meglio dalle diverse stagioni politiche. Dopo essere stato uno degli alfieri dell’intellighenzia (economico-finanziaria) dell’area M5s, era riuscito a salvarsi anche durante il governo Draghi e poi aveva saltato il fossato per entrare nelle grazie del centrodestra. Anzi, si vociferava che aspirasse a un ruolo di rilievo in Cassa depositi e prestiti in quota Lega. Ambizioni che adesso rischiano di finire in frantumi, al netto della dovuta presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato. E così sembrano quasi bazzecole gli “incidenti di percorso” durante il suo mandato da direttore dell’Agenzia delle Dogane: come il caso delle auto sequestrate ai criminali e assegnate in modo discrezionale a politici, vip e manager senza bandi né aste pubbliche. Una pratica stigmatizzata dal Mef che poi dispose le restituzioni. E che dire della promozione a dirigente, svelata dal Foglio, con tanto di stipendio da 110 mila euro l’anno, per l’ingegner Lorenzo Monti, fratello di Nina Monti, editor del blog di Beppe Grillo e spin doctor del fondatore M5s?
L’anti-Vegas della Consob
Nato a Bari, 51 anni, Minenna è economista, commercialista, revisore dei conti, esperto di mercati finanziari e obbligazionari. Ha studiato alla Bocconi ed è stato professore nello stesso ateneo milanese e alla London Graduate School of Mathematical Finance, oltre a insegnare alla Sapienza e alla San Raffaele di Roma. Master alla Columbia University di New York, vanta anche trascorsi da editorialista del Sole24Ore, Wall Street Journal e Financial Times, oltre a fregiarsi spesso di essere stato allievo di Carlo Azeglio Ciampi. Dopo un avvio di carriera in Procter&Gamble, nel 1996 vince un concorso, entra in Consob e viene collocato all’Ufficio ispettorato. Con i progressi di carriera nell’authority di vigilanza dei mercati crescono anche le rogne: dal 2007 è responsabile dell’Ufficio analisi quantitative e pian piano si costruisce l’immagine di fustigatore che denuncia le scelte della Consob da lui bollate come anomale o comunque al servizio dei poteri finanziari vigilati. Diventa l’eroe delle associazioni dei consumatori e dei piccoli investitori. E al tempo stesso la spina nel fianco dell’allora presidente Giuseppe Vegas, già esponente di spicco di Forza Italia. Attorno a Minenna iniziano a pullulare voci maligne, indiscrezioni velenose, anche esposti in procura. Qualcuno lo definisce “la talpa” in Consob, per i suoi difensori si tratta invece di una enorme macchina del fango messa in moto a protezione dei soliti poteri forti e Milena Gabanelli lo considera addirittura «mobbizzato».
Consigliori del M5s sui temi economico-finanziari
È così che l’ex direttore delle Dogane diventa un punto di riferimento per il Movimento 5 stelle appena entrato in parlamento. Il partito di Grillo vede in lui il paladino dei piccoli investitori in Borsa contro i potentati che sono il bersaglio perfetto del M5s barricadero nell’età aurea del renzismo. Minenna assurge al ruolo di prezioso consigliori dei cinque stelle sui temi economici e finanziari, suggeritore della strategia sul Fiscal compact e per la creazione di una Banca pubblica degli investimenti. Ma veste i panni di chioccia pure nella battaglia grillina sulle perdite riferite ai derivati di Stato, crociata che consente al Movimento di chiamare in causa addirittura Mario Draghi in relazione ai tempi in cui era direttore generale del Tesoro. Senza scordare gli scandali della fusione Unipol-Fonsai e di Banca Etruria, rispetto ai quali la competenza tecnica di Minenna è pienamente al servizio della narrazione pentastellata contro i sancta sanctorum del presunto “inciucio” tra politica e alta finanza.
La chiamata nella Giunta Raggi e la rottura con la sindaca
Il personaggio divide, non piace a tutti: risultano poco apprezzati soprattutto certi eccessi egotistici e un fare azzimato e impettito, per quanto usualmente cortese e brillante. Ma il cinquestelle ha bisogno di saperi economici e tutto sommato non dispiace nemmeno la storica vicinanza di Minenna alla Cgil. Il padre dell’economista pugliese era stato un funzionario Anas e girava voce che fosse addirittura il riferimento di Massimo D’Alema nel colosso pubblico delle strade. Così, quando il M5s vince alle Amministrative del 2016, è Luigi Di Maio in persona a corteggiare e a volere Minenna nella Giunta del Campidoglio, accanto a Virginia Raggi. Anche perché l’ex Consob conosce già la macchina, essendo stato membro della segreteria tecnica del prefetto-commissario, Francesco Paolo Tronca. Inizialmente l’economista si ritrae, poi cede e prende la delega cruciale di assessore al Bilancio e alle Partecipate. Ma con la sindaca il feeling non scatta mai e dopo poche settimane, nell’estate 2016, Minenna lascia per divergenze sulla gestione delle aziende capitoline e per i veleni attorno al cosiddetto “raggio magico” e alla figura di Raffaele Marra. Le voci di palazzo hanno sempre favoleggiato di una sua cura maniacale per l’estetica e la forma fisica. Tanto che, si dice, anche nell’ufficio in Campidoglio Minenna non mancasse di fare regolarmente flessioni ed esercizi a corpo libero per tenersi tonico.
Le tensioni all’interno dell’Agenzia delle Dogane
Il periodo alla guida delle Dogane, nominato dal secondo governo Conte nel 2020, è comunque quello più tribolato fino all’arresto di ieri. Oltre agli scivoloni già ricordati, Minenna è incappato infatti in un’indagine per abuso d’ufficio della procura di Roma. Stando a un esposto depositato in tribunale e alla Guardia di finanza, l’ex dirigente Alessandro Canali sarebbe stato licenziato per aver denunciato presunte irregolarità relative alle spese per viaggi e missioni istituzionali di Minenna, accompagnato dalla dipendente Patrizia Bosco. L’Agenzia aveva fatto sapere che l’ex dirigente era stato rimosso in ragione di una riorganizzazione già comunicata da tempo, ma Canali ha fatto ricorso d’urgenza alla sezione lavoro del tribunale di Roma contro la cancellazione del posto di vicedirettore che avrebbe determinato l’interruzione anticipata del suo incarico. Ricorso successivamente respinto. Il nome di Canali si intreccia anche ai difficili rapporti di Minenna con un altro dipendente delle Dogane. La procura di Roma, il 31 gennaio scorso, ha mandato all’ex direttore un avviso di conclusione delle indagini pure per minaccia e calunnia nei confronti dell’allora funzionario dell’ufficio antifrode Miguel Martina. Anche qui fanno capolino la pandemia e le mascherine anti-Covid: Martina, infatti, aveva compiuto diversi accessi alle banche dati perché stava indagando, su precisa delega dell’autorità giudiziaria, circa la regolarità delle forniture dei dispositivi approvvigionati dalla Protezione civile per somme molto ingenti. Quando Minenna seppe dell’attività di Martina, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbe iniziato a minacciarlo per fargli rivelare notizie coperte da segreto istruttorio. Anzi, il funzionario fu sottoposto a procedimento disciplinare e denunciato alla procura stessa per accesso abusivo alle banche dati istituzionali. Il Tribunale di Roma, però, ha poi accolto la richiesta di archiviazione dei pm. Inoltre, non ottenendo risultati per via diretta, Minenna avrebbe provato a rivolgersi ad altri dipendenti – come l’allora diretto superiore di Martina, Gianfranco Brosco – che comunque non avrebbero ottemperato alle sue richieste. Alla fine, il numero uno delle Dogane sarebbe in ogni caso riuscito nell’intento di ritirare le password di accesso, rimuovendo Martina e trasferendolo all’Ufficio giochi dell’agenzia. Adesso l’ultima tegola, con gli anni duri della pandemia e le mascherine che tornano alla ribalta. E l’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, che in un’intervista a L’Identità dice sibillino: «Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto. Penso che ora tante altre verità potranno venire a galla».
Dopo la morte di Silvio Berlusconi, l’ascesa di Forza Italia nei sondaggi in cui si rilevano le intenzioni di voto degli italiani appare senza sosta. Il partito del Cavaliere cresce ancora, per la seconda settimana consecutiva, e stavolta il dato è ancora più eclatante perché gli azzurri superano la Lega di Matteo Salvini. Secondo l’ultima rilevazione della Supermedia Agi/Youtrend, infatti, Forza Italia guadagna quasi due punti, l’1,8 per cento, e si assesta a quota 8,8. Contemporaneamente tutti gli altri partiti di centrodestra frenano o registrano flessioni: Fratelli d’Italia, partito della premier Giorgia Meloni, perde lo 0,3 per cento e scende al 28,8; la Lega perde la stessa percentuale e si ferma all’8,6, subendo superata sebbene di poco da Fi.
In calo anche Pd e M5s
Fratelli d’Italia resta però nettamente in testa al 28,8 per cento, staccando sensibilmente anche il Pd di Elly Schlein, sceso al 20,4 e in calo dello 0,2, e il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte, che perde lo 0,4 per cento fermandosi a quota 15,5. Resta da capire quanto durerà l’effetto generato dalla morte del leader politico: Forza Italia continuerà a correre anche dopo la riorganizzazione del partito?
Gli altri partiti: sale solo Verdi/Sinistra italiana
Stazionari o in fase calante anche gli altri partiti di opposizione. Azione di Carlo Calenda, scivola al 3,5 per cento (-0,3) ed è tallonato da Verdi e Sinistra italiana, unico altro gruppo in risalita oltre a Forza Italia. La sinistra ha guadagnato lo 0,2 per cento, salendo al 3,2 e allungando le distanze da Italia Viva data al 2,7 per cento (-0,3). Infine +Europa resta stabile al 2,3, mentre Italexit cala all’1,9 (-0,3). Tra le coalizioni, il centrodestra guadagna l’1,1 e vola a quota 47,2 per cento, nettamente avanti al centrosinistra, ora al 25,9 per cento.
Una sigla, dal significato a tutta prima incomprensibile, messa sui fogli con la lista degli ospiti dei talk show politici che vengono approvati dalla direzione generale dell’informazione Mediaset, da anni dominio incontrastato di Mauro Crippa, manager di lunga data del Biscione: VSM. Che mai vorrà dire? L’arcano non regge molto: VSM è infatti l’acronimo di Villa San Martino, ossia la magione di Arcore dove, negli ultimi anni con la compagna Marta Fascina, ha vissuto Silvio Berlusconi, tanto da diventare un luogo simbolico del suo potere.
Le partecipazioni a Stasera Italia e Quarta Repubblica erano fissate
Ma facciamo un passo indietro. Il 30 maggio esce I potenti al tempo di Giorgia, il libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron (direttore di questo giornale) edito da Chiarelettere. Giornali e tivù ne parlano diffusamente, e a Mediaset non vogliono essere da meno. Così la casa editrice aveva concordato con la produzione di Stasera Italia, il programma condotto da Barbara Palombelli che va in onda su Rete 4 dal lunedì al venerdì, l’esclusiva della prima uscita televisiva del libro: gli accordi con Chiarelettere prevedono un’intervista faccia a faccia con la giornalista della durata di 12 minuti. Nel contempo un altro talk politico di punta della rete si fa avanti. Così che Quarta Repubblica, la trasmissione del lunedì sera condotta da Nicola Porro, invita Bisignani, per altro più volte ospite del programma, nella puntata di lunedì 12 giugno. Tutto deciso dunque.
Poi la doppia cancellazione arrivata per ordini aziendali
Quand’ecco una prima sorpresa: il 5 giugno la produzione di Stasera Italia chiama Bisignani e a malincuore gli dice di essere costretta per ordini aziendali a cancellare la sua partecipazione. Qualche giorno dopo stesso copione per Quarta Repubblica, dopo che domenica 11 Bisignani, come da accordi intercorsi con la produzione, aveva ricevuto un sms che gli dava le coordinate, ora e luogo (22.40 agli studi del Palatino) chiedendogli addirittura la targa dell’auto per predisporre il pass d’ingresso agli studi. Videonews, la testata cui fanno riferimento tutti i programmi di approfondimento giornalistico sempre alle dipendenze di Crippa, poi avrebbe completamente sconvolto la scaletta del suo e di tutti i programmi delle reti per la morte del Cavaliere, avvenuta proprio la mattina del 12 giugno.
Niet implacabile da Videonews: sarà anche perché nel libro si rivelano dei retroscena sul ruolo di Andrea Giambruno, lanciatissimo conduttore del Biscione nonché compagno di Giorgia Meloni?
La produzione di Quarta Repubblica comunque avvisava Bisignani di voler provare a inserire la sua partecipazione nelle ultime due puntate prima della pausa estiva. Proposito però frustrato dall’ennesimo niet implacabilmente arrivato da Videonews: di quel libro non si deve parlare. Sarà perché rivela per la prima volta i dettagli del patto tra Giorgia Meloni e Marina Berlusconi per garantire l’appoggio delle televisioni e la fine della fronda di Forza Italia al governo? Sarà perché il libro racconta nel dettaglio l’irresistibile ascesa di Marta Fascina da meteorina a finta moglie di Silvio? Sarà perché si rivelano dei retroscena sul ruolo di Andrea Giambruno, lanciatissimo conduttore del Biscione nonché compagno della presidente del Consiglio?
Una grave e pesante censura, anche controproducente
Ma qualunque sia la motivazione, resta il caso di pesante e grave censura da parte di un gruppo il cui fondatore si è professato fino all’ultimo paladino di libertà e tolleranza. Un libro messo all’indice come nei più nefasti regimi dittatoriali dove la libertà di pensiero e di opinione fanno paura. Oltretutto una decisione controproducente, perché a Mediaset nel momento in cui l’hanno presa avranno immaginato anche che la cosa sarebbe diventata pubblica. Infatti ne ha scritto Carmelo Caruso sul Foglio del 21 giugno. L’ordine di cancellare le due partecipazioni porta un marchio d’autore, VMS, Villa San Martino, e viene direttamente da Arcore. Non da Berlusconi, che stava male e che non avrebbe mai preso una simile iniziativa, ma dalla sua quasi moglie Marta Fascina.
Pier Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri sono stati informati?
Mediaset si è adeguata, perché sulla perversa dialettica tra partito e azienda ha prevalso il partito, ossia Fascina, la donna che in quel momento l’aveva in pugno tanto che aveva già cominciato a ridisegnarne gli organigrammi mettendo dei suoi fedelissimi nelle posizioni di comando. Ubi maior, devono aver pensato a Videonews Crippa e i suoi fedelissimi vicedirettori (ma hanno informato Pier Silvio e Fedele Confalonieri?): di quel libro non s’ha da parlare. Una scelta che, pur forzata dall’obbedienza a un diktat della donna del capo, certo non fa onore all’azienda di Cologno Monzese. E non rende un buon servizio nemmeno alla memoria del suo fondatore, perché Berlusconi da liberale qual era, sicuramente non l’avrebbe mai presa.
Non c’è più Silvio Berlusconi, e i suoi fedelissimi ora non sanno più come ammazzare il tempo. Ieri, per esempio, Gianni Letta è stato a lungo da Vittorio Sgarbi, nell’ufficio che il critico d’arte ha al ministero della Cultura in via del Collegio Romano. Sgarbi è anche riuscito a dare un cellulare a Letta per fare una sorpresa alla madre di un suo assistente, ovviamente incredula di poter parlare al telefonino con quello che era il braccio destro del Cavaliere…
Outsider Garbatella, la Rai c’è
Si chiama Outsider Garbatella Film Fest ed è un festival di cortometraggi organizzato da Elodia Cinematografica, alla sua prima edizione: si svolgerà a Roma dal 23 al 25 giugno. Il nome ricorda un po’ l’“underdog” di meloniana memoria. E poi si svolge proprio alla Garbatella, zona che ha visto crescere Giorgia Meloni. Comunque, media partner è Rai Pubblica Utilità: come hanno detto alcuni a viale Mazzini, «chissà che ci azzecca la Rai con questo festival…»
Bruno Barbieri al Relais Todini
Nella serata di giovedì 22 giugno Sky regala le visite di Bruno Barbieri alle residenze umbre. E dove va? Nel Relais Todini, quello caro a Luisa Todini, politica e imprenditrice. Verrà raccontato che «Francesco gestisce, insieme a sua moglie Claudia, il Relais Todini, una bellissima residenza storica che in passato era una torre di avvistamento, un distaccamento del feudo di Todi». Quando la famiglia Todini nel 1995 acquistò la dimora, i due vi lavoravano come dipendenti. Successivamente è stata loro affidata la gestione della struttura. Si avvicinano le elezioni europee, per Luisa…
L’energia nucleare di Renzi
A Matteo Renzi piace l’energia nucleare, e non a caso nasce l’intergruppo parlamentare dedicato al tema. Con quale obiettivo? «Per rompere un tabù ed eliminare i pregiudizi che continuano a far scontare al nostro Paese ritardi inspiegabili, una follia che l’Italia ha pagato caro con la crisi energetica», afferma la senatrice Silvia Fregolent, della presidenza del gruppo di Azione-Italia Viva -Renew Europe, promotrice dell’intergruppo, che continua: «Sappiamo che ci sono stati due referendum, ma da quel momento le tecnologie sono andate avanti e i nostri migliori tecnici stanno lavorando all’estero proprio per creare il nucleare pulito. L’intergruppo potrà garantire il dialogo tra il mondo istituzionale e i player del settore nucleare in modo da permettere la condivisione di elementi tecnici che possano determinare una decisione da parte delle istituzioni in modo consapevole e senza pregiudizi».
L’amore di Siddi per Silvio
«È morto un protagonista dell’impresa e della storia italiana di mezzo secolo. Un protagonista assoluto delle sfide epocali della radiotelevisione, un sistema d’impresa solido, competitivo, innovativo»: chi lo ha detto? Franco Siddi, Presidente di Confindustria Radio Televisioni, alla notizia della scomparsa di Silvio Berlusconi. «Il polo privato di carattere generalista che il Cavaliere ha fondato è oggi una televisione nazionale proiettata anche su sfide europee». Ma è lo stesso Siddi che una volta faceva il sindacalista dei giornalisti, difendendo a spada tratta la Rai contro Mediaset?
Il grande gelo è calato da giorni, i rapporti sono ai minimi termini. E anche alla festa della Guardia di finanza i più attenti hanno notato sguardi e occhiatacce glaciali tra la premier Giorgia Meloni e la ministra del Turismo Daniela Santanchè. Il motivo è noto: quel servizio di Report andato in onda lunedì 19 giugno sugli affari “opachi” della Pitonessa ha suscitato diversi mal di pancia dentro Fratelli d’Italia, con la presidente del Consiglio a essere la prima degli irritati. Tanto che già si parla di possibili scossoni dentro la squadra di governo.
Dipendenti e fornitori non pagati, cig annunciata ma non versata
L’inchiesta del programma televisivo condotto da Sigfrido Ranucci si è fatta notare, dentro e fuori il centrodestra: è stata vista da 1 milione 765 mila spettatori (il 10 per cento di share), praticamente il doppio del pubblico di Quarta Repubblica su Rete4, nonostante la tanto strombazzata intervista di Nicola Porro a Elon Musk. Ma alla gente interessava poco del magnate e imprenditore di Tesla, Space X e Twitter: la gente voleva sapere cosa ha combinato Santanchè con le sue aziende, Visibilia e Ki group, che non sono fallite ma hanno visto il loro valore crollare in Borsa. Report ha tirato fuori storie di dipendenti non pagati, poi licenziati senza tfr né versamenti previdenziali. I fornitori? Stesso trattamento. Durante l’epoca Covid Santanchè, non ancora ministra, era persino andata in tivù nella veste di imprenditrice fiaccata dalla pandemia, annunciando di aver «anticipato come tanti colleghi la cassa integrazione» ai lavoratori. Che però ora hanno denunciato di non aver ricevuto nulla. E in alcuni casi di essere stati messi addirittura in cig a zero ore a loro insaputa, continuando a lavorare.
L’ipotesi dimissioni comincia a prendere piede, non solo sui social
In un dedalo di aziende svuotate, debiti monstre e operazioni spericolate – si parla anche di un prestito a una misteriosa società di investimento di Dubai, Negma, per cercare di tamponare una pesante crisi di liquidità aziendale – quello che non è mai mancato sono i super compensi per il consiglio di amministrazione, arrivati a superare i 600 mila euro all’anno. Accuse circostanziate e gravi, che adesso stanno insinuando il seme del dubbio fuori e dentro la maggioranza: può una ministra invischiata in una storia del genere restare al suo posto come se nulla fosse? L’ipotesi dimissioni ha cominciato a circolare più insistentemente col passare dei giorni, cavalcata sui social dall’hashtag “Open to dimissioni”, chiaro riferimento all’altra vicenda poco fortunata che ha visto coinvolta Santanchè, stavolta sì in veste di ministra, cioè quella della criticatissima – per qualità e costi – campagna pubblicitaria Open to meraviglia che avrebbe dovuto promuovere il turismo verso il nostro Paese ma si è trasformata in un gigantesco meme.
Interrogazione delle opposizioni. Deleghe ad interim a Meloni?
Anche le opposizioni hanno incalzato Santanchè, non lasciandosi sfuggire l’occasione. Toni Ricciardi del Partito democratico ha presentato un’interrogazione ricordando a Giorgia Meloni che «Visibilia, in qualità di concessionaria, ha anche venduto spazi pubblicitari per circa 120 mila euro a Media Italia, società del Gruppo Armando Testa, l’azienda che si è aggiudicata la campagna di promozione del ministero del Turismo “Open to meraviglia”». Secondo Nicola Fratoianni di Sinistra italiana «in qualunque Paese dell’Unione europea se una trasmissione tivù facesse un’inchiesta così approfondita e documentata come ha fatto Report sulle spregiudicate operazioni finanziarie della ministra Santanchè con le sue aziende, quella ministra verrebbe allontanata dopo poche ore». Mentre Alessandra Todde del Movimento 5 stelle ha chiesto alla ministra di venire a riferire in parlamento: «Si lamentava a reti unificate dei ritardi. Ora scopriamo che se ne approfittava da “imprenditrice”. Oggi è ministro, con un “leggerissimo” conflitto d’interessi». Cosa farà Meloni? C’è chi tratteggia già scenari da passo indietro per Santanché. Con la premier pronta a prendere le sue deleghe ad interim.
Il ministero dell’Economia che dà un parere positivo alla ratifica del Mes, fumo negli occhi per i sovranisti nostrani al potere. La maggioranza che va sotto in commissione e non solo non riesce ad approvare un parere sul decreto Lavoro ma si fa beccare a copiare gli emendamenti dell’opposizione facendo arrabbiare pure la parte di minoranza più dialogante. Un caos in cui evidentemente a nulla è servito il richiamo del ministero dei Rapporti con il Parlamento su presenze in commissione e ordine nella presentazione degli emendamenti.
L’apertura alla ratifica del Mes da parte del Mef gela Meloni e Salvini
Che la giornata di mercoledì sarebbe stata quantomeno convulsa si era capito fin dal mattino. Alle 8.30 in commissione Esteri alla Camera era arrivato un parere del Mef sulla ratifica del Mes. «Per quanto riguarda gli effetti diretti sulle grandezze di finanza pubblica, dalla ratifica del suddetto accordo non discendono nuovi o maggiori oneri rispetto a quelli autorizzati in occasione della ratifica del trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità del 2012», si legge in una lettera inviata dal capo di gabinetto del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Quindi, «non si rinvengono nell’accordo modifiche tali da far presumere un peggioramento del rischio legato a suddetta istituzione». Una bomba sulla maggioranza e sulla premier Giorgia Meloni, visto che sul ‘no’ alla ratifica Lega e Fratelli d’Italia hanno costruito parte della campagna elettorale che li ha portati al governo. La risposta è buttare la palla in calcio d’angolo, prendere tempo, lasciando spazio all’esecutivo di provare a modificare il Meccanismo, cercando di mantenere in stand by la proposta di legge delle opposizioni.
Maggioranza sotto in commissione Lavoro: dito puntato sugli assenti forzisti
Ma i motivi di tensione non finiscono qui. Alcuni giornali infatti si accorgono che è stato tagliato il Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro. In base a un decreto ministeriale del Lavoro si fissa il risarcimento massimo a 14.500 euro, 8 mila euro in meno rispetto ai 22.400 dell’anno scorso. Ridotto anche l’indennizzo minimo, da 6 mila a 4 mila euro. Maggioranza e governo si mettono alla ricerca delle risorse per evitare un taglio difficile da giustificare in un Paese dove le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail entro aprile sono state 187.324 (-26,4 per cento rispetto ad aprile 2022), 264 delle quali con esito mortale (+1,1 per cento). I soldi spuntano fuori ma durante un passaggio tecnico in commissione Bilancio al Senato sul decreto Lavoro mancano due senatori di Forza Italia e la maggioranza non riesce ad approvare il parere necessario per far passare alcuni emendamenti, compreso il rifinanziamento del Fondo vittime. Gli assenti? Dario Damiani e Claudio Lotito. Partono le illazioni. Qualche senatore – ovviamente sotto anonimato – giura di aver visto Damiani festeggiare il proprio compleanno al ristorante (e in effetti ieri era proprio il compleanno dell’azzurro pugliese), mentre altri mettono il dito in piaghe un po’ più profonde. Lotito sta spingendo per ottenere norme più stringenti per contrastare la pirateria degli abbonamenti tv per seguire il calcio. Ma non starebbe trovando sponda in maggioranza. Da qui, la vendetta. Con qualche cronista che origlia dalla bocca di Lotito: «È solo l’antipasto…». Lotito, come si legge in qualche retroscena, sarebbe anche finito nel mirino di Antonio Tajani, proprio per il suo attivismo parlamentare non concordato (dallo spalma debiti per le società sportive all’allungamento dei diritti tv sempre per lo sport). «Sono quello con più presenze in assoluto. Non ho mai saltato una commissione da quando sono stato eletto, non sono mai arrivato in ritardo. Sono il primo ad arrivare al Senato e sono l’ultimo ad uscire. Praticamente lo chiudo Palazzo Madama…», si è difeso il presidente della Lazio parlando all’Adnkronos, declassando l’incidente a semplice contrattempo. Ma sul banco degli imputati finisce anche il presidente della commissione Bilancio, Nicola Calandrini, di Fratelli d’Italia. I colleghi di coalizione lo accusano di aver proceduto al voto senza rendersi conto che mancavano alcuni senatori. Qualcuno bisbiglia che avrebbe dovuto trovare un escamotage, prendendo tempo.
Marattin e le accuse di plagio al governo
Ma la giornata è ancora lunga. Si passa alla delega fiscale. Il governo nei giorni scorsi ha presentato una serie di emendamenti. Uno di questi prevede una stretta sulla cannabis legale. L’obiettivo era quello di introdurre «un regime di tassazione delle parti della canapa coltivata suscettibili di essere utilizzate come succedanei dei prodotti da fumo ovvero da inalazione», assimilando la cannabis light ai prodotti da fumo. Era previsto anche uno stop alla pubblicità e alla vendita ai minori. Tutto liscio? No, lo stesso governo ha fatto sparire l’emendamento dal tavolo. Non solo. Il senatore di Italia viva, Luigi Marattin, su Twitter accusa la maggioranza di ‘copiare’ gli emendamenti di Iv e Azione. «In tanti anni di storia parlamentare della Repubblica, a memoria d’uomo è la prima volta che capita», ha scritto. Aggiungendo un post scriptum: «Per i non-addetti ai lavori. Quello che è successo è che pur di non dare soddisfazione all’opposizione di approvare un loro emendamento, la maggioranza fa un copia e incolla e lo presenta come suo. Tecnicamente si chiama plagio». Pur di intestarsi qualche bandierina strappandola all’opposizione, la maggioranza rischia di inimicarsi le anime più dialoganti. Una strategia poco lungimirante visto l’alto rischio di incidente parlamentare.
Quello a sinistra è un emendamento alla delega fiscale presentato un mese fa dal gruppo @ItaliaViva+@Azione_it: riguarda l’abolizione del meccanismo saldo-acconto per i lavoratori autonomi. Che il governo e la maggioranza potrebbero approvare, se condiviso.
Che l’ambiente si fosse surriscaldato lo si capiva anche dal quadro politico, con la maggioranza in fibrillazione dopo essere andata sotto in Commissione Bilancio al Senato. Ma qui il clima sta per diventare irrespirabile anche a livello delle mere temperature stagionali, e così il capo di gabinetto del ministero delle Imprese e del Made in Italy Federico Eichberg, puntualissimo sull’inizio ufficiale dell’estate, ha pensato bene di mandare una circolare a tutti i colleghi per dare una sorta di (temerario) via libera sul modo di vestire: «Entriamo oggi nella stagione estiva, con il prevedibile aumento delle temperature ed il conseguente minore comfort della prestazione lavorativa resa in sede. Poiché abbiamo tutti a cuore la tematica del benessere organizzativo sul luogo di lavoro, ritengo che, nel periodo estivo (quindi da oggi fino alla seconda decade di settembre inclusa), anche noi che prestiamo servizio presso gli Uffici di diretta collaborazione del Ministro potremmo concederci – pur sempre nel rispetto del decoro delle Istituzioni che rappresentiamo e delle condivise regole di compostezza che si debbono all’appartenenza ad un pubblico ufficio – un abbigliamento meno formale e più adatto alle temperature».
Dopo Draghi, ancora i condizionatori nel mirino
Quindi niente più giacca? Camicia a maniche corte sì o no? E le donne possono far sparire i tailleur nell’armadio dei capi invernali? Non è dato sapere. Ma soprattutto: c’era bisogno di specificarlo? Di certo c’è che il capo di gabinetto di Adolfo Urso, invece di preoccuparsi dei dossier arenati al Mimit, sembra più attento alla calura incombente: «Ciò è funzionale anche alla tematica del risparmio energetico, che riguarda non solo il nostro Ministero ma tutta la Nazione. Infatti, in questo modo, sarà senz’altro più agevole fare un uso limitato dei condizionatori d’aria, che vi raccomando solo nelle ore più calde della giornata e con temperature moderate, e sfruttare al massimo, ove possibile, le risorse naturali, in primis l’areazione dei locali (anche creando “riscontro d’aria” ove ricorrano le condizioni, con le stanze prospicienti) nelle ore fresche». Cioè siamo persino oltre all’aut aut «preferite la pace o il condizionatore» pronunciato nella primavera del 2022 da Mario Draghi, visto che almeno in quel caso si trattava di una domanda provocatoria: qui il livello è consigli della nonna, “tieni aperte due finestre così fa corrente” (nell’afa romana, ciao core). Almeno però non si può non dire che il governo non faccia qualcosa contro il global warming: meno condizionatori, più indumenti sbottonati.
Stretta anche sul consumo di carta e toner
Eichberg ha infine concluso: «II tema dell’uso oculato delle risorse che utilizziamo al Ministero (messeci a disposizione dai cittadini italiani per servire al meglio il Bene Comune) è – ovviamente – indipendente dalle stagioni e chiedo, con l’occasione, una specifica attenzione da parte di tutte e di tutti (me in primis) al consumo di carta e toner, anche a beneficio dell’ambiente e di una maggiore salubrità dei luoghi di lavoro. Insomma si tratta di aspetti molto rilevanti la cui cura, da parte di tutte e tutti noi, può contribuire alla nostra missione di servire al meglio le istituzioni ed il bene Comune. Vi ringrazio per la collaborazione e vi auguro buon lavoro per gli impegni che ci attendono prima di godere di qualche giorno di meritato riposo». Per le mise eleganti arrivederci in autunno.
Se è vero che nulla avviene per caso, dev’esserci un senso se la sorprendente riscoperta delle poesie di Umberto Bossi, fondatore della Lega Lombarda, poi Lega Nord, avviene proprio in questo momento. Quello più immediato e ovvio è evidenziare quanto è caduta in basso la leadership del Carroccio in due sole generazioni: dal profeta-poeta-visionario al tiktoker compulsivo specializzato in liste. Ma in questo inatteso ripescaggio si può leggere un monito apparentemente controintuitivo: la poesia, anche non eccelsa, è meno effimera della fortuna politica. Bossi è ancora vivo, ma politicamente defunto a causa dell’età e delle malattie. La sua eredità è stata in parte snaturata dall’ambizione e dalla pochezza dei suoi successori, che a malapena citano il suo nome, se non nella kermesse annuale di Pontida (da lui inventata, peraltro). Eppure a rinverdire la sua figura oggi non sono le sue gesta da leader di partito o da ministro, ma, a sorpresa, la misconosciuta opera giovanile di poeta e chansonnier, che gli avversari gli avevano sempre rinfacciato con disprezzo. Ed è internet, cui Bossi fu sempre estraneo, per ragioni anagrafiche e caratteriali, a ripescare un piccolo corpus bossiano di carmi composti fra gli Anni 60 e 70 (l’era della riscoperta del folk, da sinistra, area in cui all’epoca militava l’imberbe Umberto) e raccolti qualche anno fa nel blog della giornalista Nicoletta Maggi.
Bossi poeta, ribellismo ma con il coeur in man
Com’è il Bossi poeta? Con un po’ di cattiveria si potrebbe dire che è un ragazzo della via Gluck che non ha superato lo shock e continua a domandarsi «perché continuano a costruire case e non lasciano l’erba», però in dialetto lombardo. I suoi temi sono il ripudio dell’industrializzazione e del consumismo, il rimpianto per la semplicità della vita agreste, l’invettiva contro i «padròn», la tenerezza verso i deboli, lasciati sul ciglio della strada dall’irresistibile avanzata del progresso. Ribellismo, ma con il coeur in man, insomma. La scelta del dialetto, in quegli anni, non aveva connotazioni campanilistiche o etniche, ma sociopolitiche: esprimeva il rifiuto per dell’omologazione imposta dallo sviluppo prepotente e dall’onnipotenza delle fabbriche che divoravano terre, acque e persone, così come l’italiano della televisione, della pubblicità e della scuola (istituzione con cui il giovane Bossi non era mai andato molto d’accordo) soppiantava le parlate locali, che per le classi popolari erano ancora la lingua madre, quella con cui si era imparato a parlare e a ragionare in un’Italia ancora prevalentemente contadina. È il dialetto a dare alle poesie del futuro Senatùr un’efficacia che non ti aspetti: il lombardo stacca le parole dalla carta, dà loro uno spessore che in italiano si perde, non solo perché è in lombardo che sono state scritte, ma anche perché obbligano il lettore non lombardòfono a cambiare il proprio punto di vista (o di udito), a fare più attenzione a quei termini un po’ stranieri e un po’ no. E la poesia è sempre l’incontro di due attenzioni, quella del poeta e quella del fruitore.
Dall’urlo ginsberghiano al celodurismo in canottiera
Ecco, in traduzione, l’urlo ginsberghiano dell’angry young Bossi: «Ho visto gli intestini della mia terra/seccarsi al sole/come cent’anni di pane raffermo,/ di ciotoline che hanno picchiato per niente./Io canto il muggire della carne in scatola/canto il fetore della cultura/Canto il domani/come un calcio nella pancia». Ehi, ma è lo stesso tizio che 10 anni dopo fonderà la Lega che «ce l’ha duro», sdoganerà le canottiere a vista, evocherà i «100 mila bergamaschi armati» e darà del «terrone» a due presidenti della Repubblica? Eh, sì. Proprio lui. E leggendo una poesia come Dü Fioeu (Due ragazzi), «von di nostra e un teron, butej den na bozza coi tulitt di tumatis voeuj» («uno dei nostri e un terrone, buttateli in un buca, con i barattoli dei pomodori vuoti», entrambi vittime di padroni che li abbattono come giovani pioppi) viene da chiedersi che cosa è andato storto. O che cosa si è raddrizzato, a seconda di come la si pensi, visto che invece di finire fra i matti o fra i clochard, destino abbastanza frequente fra gli artisti scioperati e incompresi, l’Umberto è approdato prima in parlamento e poi al governo.
Quel verso inconsapevolmente profetico: «Perché d’un rivoluzionari/n’han fai un lecapè?»
Il paragone con il pittore mancato che divenne Führer è inevitabile, e ci vorrebbero critici più esperti di me per valutare se il successo letterario di Bossi avrebbe danneggiato la poesia tanto quanto la fortuna di Adolf Hitler come pittore di paesaggi avrebbe degradato le arti figurative. Quel che è certo è che sarebbe stato meglio per tutti se qualcuno avesse incoraggiato entrambi a inseguire i loro sogni giovanili invece che trasformare la personale frustrazione in carburante per carriere di arruffapopoli (nel caso di Hitler, anche distruggipopoli). Oggi i dipinti dell’uomo di Braunau rimangono invenduti alle aste, non solo perché sono croste imbarazzanti o perché è imbarazzante alzare la mano in pubblico per fare un’offerta, ma perché girano un sacco di falsi praticamente indistinguibili da quelli veri (dipingere un paesaggio alpino alla Hitler è impresa alla portata di qualunque imbrattatele). Ed è difficile che le poesie di Umberto da Giussano, ancorché dignitose, finiscano nelle antologie. A storcere il naso non sarebbe il ministro dell’Istruzione Valditara, affezionato fin da ragazzo alle poesie milanesi di Carlo Porta, cui dedicò il suo tema di maturità, ma lo stato maggiore del Carroccio. Un verso bossiano inconsapevolmente profetico, «perché d’un rivoluzionari/n’han fai un lecapè?» (perché di un rivoluzionario ne han fatto un leccapiedi?) costringerebbe ogni dirigente leghista a un doloroso esame di coscienza.
Il centrodestra è scivolato sul dl Lavoro. I partiti di maggioranza non sono riusciti a far votare positivamente il pacchetto di emendamenti presentato in mattinata in commissione Bilancio al Senato. Tutta colpa dell’assenza degli esponenti di Forza Italia, che hanno fatto scendere quindi a 10 il numero di senatori dell’area di centrodestra, contro altri 10 di opposizione. E così il voto si è concluso con una parità che di fatto blocca i lavori: seduta sospesa e polemiche da parte di Pd e M5s, che ne hanno subito approfittato per attaccare gli avversari politici. Ora bisognerà decidere come proseguire in conferenza dei capigruppo, per sbloccare l’iter e portare il dl Lavoro all’esame in Aula al Senato.
Patuanelli all’attacco: «Lo stato comatoso continua»
Tra i primi ad attaccare la maggioranza c’è stato il capogruppo del Movimento 5 stelle, Stefano Patuanelli. Su Twitter scrive: «Sul loro provvedimento simbolo, il decreto Precariato, che chiamano decreto Lavoro, la maggioranza va sotto in commissione Bilancio. Lo stato comatoso continua…». Dal canto suo, Fratelli d’Italia risponde con la relatrice del dl Lavoro, Paola Mancini: «È stato un incidente che non doveva accadere, ma rimediamo pure a questo». Adesso sarà richiesto un nuovo parere al Mef, da porre in votazione in commissione nei prossimi giorni.
Sul loro provvedimento simbolo, il Decreto Precariato (che chiamano Decreto Lavoro), la maggioranza va sotto in Commissione Bilancio. Lo stato comatoso continua…
Critiche anche dal Partito democratico. Il capogruppo dem a Palazzo Madama, Francesco Boccia, parla di centrodestra «nel caos. Non si può fare finta di niente. Non esiste il voto pari, un emendamento è respinto se non c’è voto in più e quindi oggi la Commissione ha bocciato gli emendanti». E insiste: «Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oggi sono stati bocciati tutti gli emendamenti presentati dalla maggioranza, non è possibile riproporli e non è più possibile tollerare il regolamento à la carte». Il responsabile economico dei dem Antonio Misiani ha commentato invece così: «Maggioranza divisa e schiantata contro un muro. Decisiva l’assenza dei senatori di Forza Italia. Aula bloccata. Dilettanti allo sbaraglio».
Niente di nuovo sul fronte nomine. Il governo Meloni non è ancora riuscito a trovare una quadra definitiva sulle presidenze Istat e Covip (la Commissione di vigilanza sui fondi pensione). Il presidente dell’Istituto nazionale di statistica infatti è ancora pro tempore. Francesco Maria Chelli indicato come reggente dell’Istituto dopo la scadenza, lo scorso 22 marzo, del mandato di Gian Carlo Blangiardo, il 9 maggio è stato nominato con un decreto della Presidenza del Consiglio come “facente funzione”. Insomma, è presidente ma senza prospettive, visto che l’esecutivo ha altre intenzioni. Il problema è che in parlamento non si riescono a trovare i numeri per riportare Blangiardo su quella poltrona. E la stessa situazione rischia di riproporsi alla Covip dove al momento siede una presidente supplente.
Lo stallo sull’Istat: il centrodestra non ha i numeri per riconfemare Blangiardo
Il caso dell’Istat è emblematico, perché va avanti da ormai tre mesi senza che si intraveda uno sbocco. La presidenza è ostaggio di una forzatura politica, una sorte di ossessione, mentre al comando si è accomodato Chelli che rischia di diventare un “facente funzioni” a tempo indeterminato. Palazzo Chigi è intenzionato a riconfermare Blangiardo, fortemente voluto dal vicepremier Matteo Salvini, che lo aveva già indicato già ai tempi del governo gialloverde, il primo di Giuseppe Conte. In questo modo il leader leghista sa di poter contare su un profilo amico in una casella importante, l’Istituto che fotografa il Paese. E che, soprattutto, è allineato alla destra sulla battaglia per l’incremento demografico. Per rieleggerlo serve però il passaggio nelle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, chiamate a esprimere il proprio parere con una votazione vincolante. E al governo hanno fatto i conti senza l’oste: per avallare la nomina è necessaria la maggioranza qualificata dei due terzi, significa 20 voti su 30 nella commissione a Montecitorio e 14 su 21 a Palazzo Madama. Nonostante i numeri schiaccianti in entrambi i rami del Parlamento, il centrodestra non può farcela da solo. Da qui è iniziato il lungo braccio di ferro con le opposizioni che, almeno una volta, si sono trovate compatte nel respingere la proposta. Nemmeno la mano del Terzo polo sarebbe sufficiente e per questo è stata intavolata una trattativa con Movimento 5 stelle e Partito democratico, provando sotto traccia a inserire una contropartita con le presidenze delle altre commissioni. Un tentativo naufragato e che ha provocato lo stallo per settimane. Le opposizioni hanno dato la disponibilità a votare un tecnico voluto dalla destra, a patto che non sia Blangiardo, anche perché non è sopita l’irritazione per il modus operandi della maggioranza che inizialmente ha pensato di tirare dritto. Fatto sta che all’ordine del giorno delle commissioni è sparito il parere sulla presidenza dell’Istat. Secondo fonti interpellate da Lettera43, l’unica soluzione sarebbe la rinuncia del presidente uscente. Inevitabilmente Chelli è stato investito della presidenza, nelle vesti del facente funzione, in attesa di trovare una soluzione.
Il lungo braccio di ferro su Inps e Inail e i tentennamenti sulla presidenza Covip
Il caso-Istat segue la lunga querelle su Inps e Inail: con un decreto, il governo aveva azzerato la vecchia governance, ma poi ha impiegato un mese e mezzo per indicare i commissari. La scelta, quasi per sfinimento, è caduta su Micaela Gelera per l’ente di previdenza e Fabrizio D’Ascenzo per l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni. Lo stesso film si sta per ripetere sulla presidenza Covip: Mario Padula ha concluso a marzo il mandato di presidenza. Da allora è subentrata, sempre come facente funzione, l’ex vice sindaca di Milano (giunta Pisapia), Francesca Balzani, che nel frattempo ha illustrato in parlamento la relazione sullo stato della previdenza complementare. Aveva tutti i titoli per farlo, certo, ma anche in questo caso, senza l’assegnazione ufficiale dell’incarico da parte del governo, manca una prospettiva a lungo termine. Si prospettano tempi non proprio brevi: occorre trovare l’accordo politico per individuare il profilo adatto da sottoporre poi al vaglio delle commissioni parlamentari competenti.
Il commissario per l’alluvione in Emilia-Romagna? Può attendere
Sul fronte delle nomine in stand-by c’è inoltre quella a più elevato impatto mediatico: l’indicazione del commissario per l’alluvione in Emilia-Romagna. Il niet sul nome del presidente della Regione Stefano Bonaccini da parte di Meloni e Salvini è irremovibile. Così, in linea con la propria strategia, si va avanti a tentoni. Anzi a facente funzioni.