La storica firma si è spenta a Roma a 84 anni. Sulle pagine di tutti i più prestigiosi quotidiani nazionali ha messo in luce per decenni i difetti della politica e degli italiani.
Giampaolo Pansa, storica firma del giornalismo italiano, è morto a Roma a 84 anni. Ha scritto negli anni per La Stampa, il Giorno, il Corriere della Sera e soprattutto Repubblica, di cui è stato anche vicedirettore. Nato a Casale Monferrato nel 1935, iniziò a lavorare a La Stampa nel 1961 e lo scorso settembre aveva ripreso a scrivere per il Corsera. Autore di diversi libri sulla Resistenza e sul fascismo, è stato per decenni il grande fustigatore della politica italiana e in particolare la bestia nera della sinistra.
I REPORTAGE E LA POLITICA
Dagli esordi torinesi con un memorabile reportage sulla Strage del Vajont agli articoli sull’attentato di Piazza Fontana e quelli sullo scandalo Lockheed, nella sua lunga carriera ha messo a segno tanti colpi. Sua per esempio l’espressione “Balena Bianca” per definire la democrazia cristiana. Alla fine degli anni ’80 del Novecento lancia dalle pagine di Panorama la sua celebre rubrica IlBestiario , che poi porta sull’Espresso ed infine su Libero.
LE ACCUSE DI REVISIONISMO
Tra i libri più noti, Il Sangue dei vinti, nel quale mette a punto le sue idee poi accusate di revisionismo sulla Resistenza. Provocatore fino all’ultimo con un autoritratto intitolato Quel fascista di Panza e poi con un pamphlet su SalviniRitratto irriverente di un seduttore autoritario. Nel 2016 aveva perso il figlio Alessandro, ex ad di Finmeccanica morto di malattia a 55 anni.
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In un libro scritto con il cardinale Robert Sarah, Benedetto XVI si esprime contro la possibilità di ordinare come preti persone sposate. Sulla questione è attesa la decisione di papa Francesco.
«Io credo che il celibato» dei sacerdoti «abbia un grande significato» ed è «indispensabile perché il nostro cammino verso Dio possa restare il fondamento della nostra vita», ha affermato Benedetto XVI in un libro a quattro mani con il cardinale Robert Sarah, che uscirà il 15 gennaio e del quale Le Figaro pubblica delle anticipazioni. «Non posso tacere», scrivono Ratzinger e Sarah citando una frase di Sant’Agostino.
Il monito del Papa emerito Benedetto XVI arriva dopo il Sinodo sull’Amazzonia dello scorso ottobre che ha avuto tra i temi centrali di discussione proprio la possibilità di ordinare come sacerdoti persone sposate. Opzione, questa, che è entrata nel documento finale, mentre è attesa la decisione di Papa Francesco che dovrà pronunciarsi con l’esortazione apostolica post-sinodale. Documento che potrebbe essere pubblicato nei prossimi mesi. A fare riferimento all’ultimo Sinodo, parlando però di “uno strano Sinodo dei media che ha prevalso sul Sinodo reale”, sono gli stessi Ratzinger e il card. Sarah che è il Prefetto della Congregazione per il Culto divino e in un certo senso il rappresentate di quell’ala conservatrice che è in Vaticano. “Ci siamo incontrati, abbiamo scambiato le nostre idee e le nostre preoccupazioni”, scrivono Ratzinger e Sarah
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Dalle rivolte contro il regime alla caduta di Gheddafi, fino alle lotte tribali, i tentativi falliti di transizione democratica e gli interessi di potenze straniere. I nove anni di guerra dell’ex Jamahiriya.
Gli ultimi nove anni di crisi libica testimoniano che il Paese nordafricano, nonostante il lungo regno di Muammar Gheddafi, di fatto non sia mai esistito.
Una debolezza storica, che attira ora le mire espansionistiche turche e russe, intenzionate a spartirsi il territorio e a mettere fuori dalla porta europei e italiani.
Ecco una cronistoria della crisi dell’ex Jamahiriya.
16 FEBBRAIO 2011 – LA PRIMAVERA ARABA INFIAMMA LA LIBIA
I primi scontri in Libia scoppiano a febbraio 2011, a seguito delle proteste scatenate dall’arresto dell’avvocato Fathi Terbil, noto oppositore di Gheddafi, che stava curando gli interessi dei parenti di alcuni attivisti politici morti 15 anni prima nelle galere libiche. A Bengasi si riversano in piazza migliaia di persone e la repressione della polizia non si fa attendere: muoiono quattro persone e 14 restano ferite. Ventiquattro ore dopo si incendiano tutte le principali città libiche. Negli scontri del 19 febbraio muoiono oltre 80 civili.
La Comunità internazionale biasima il pugno di ferro con cui Gheddafi gestisce la situazione. Imbarazzato il governo italiano, storico partner del Paese con noti e ingenti interessi economici in Libia.
21 FEBBRAIO 2011 – SCOPPIA LA GUERRA CIVILE
Il 20 febbraio, quando i morti sono ormai più di 120 e i feriti superano il migliaio di unità, l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si limita a dichiarare: «Siamo preoccupati per quello che potrebbe succederci se arrivassero tanti clandestini. La situazione è in evoluzione e quindi non mi permetto di disturbare nessuno».
Il 21 febbraio Gheddafi dispone l’uso dell’esercito: i tank bombardano i manifestanti, che ormai vengono definiti «ribelli» e hanno preso la città di Bengasi. La propaganda del regime sostiene che dietro le proteste ci sia Osama bin Laden. «Combatterò fino alla morte come un martire», dichiara il raìs alla televisione libica.
26 FEBBRAIO 2011 – L’ITALIA SOSPENDE IL TRATTATO DI AMICIZIA
Il 26 febbraio il nostro Paese sospende unilateralmente il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due Paesi siglato a Bengasi il 30 agosto 2008. Ventiquattro ore dopo il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone all’unanimità il divieto di viaggio e il congelamento dei beni di Muammar Gheddafi e dei membri del suo clan mentre il regime viene deferito al Tribunale Corte Penale Internazionale dell’Aja.
10 MARZO 2011 – L’UE RICONOSCE IL CNT COME NUOVO INTERLOCUTORE
Si muove infine anche l’Europa. Nel vertice straordinario dei capi di Stato e di Governo di Bruxelles si decide che Gheddafi deve abbandonare subito il potere e il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) è il nuovo interlocutore politico.
19 MARZO 2011 – LA FRANCIA ENTRA IN GUERRA
Parigi dà il via all’operazione Odissey Dawn. La coalizione, guidata da Parigi e Londra, coinvolge anche gli Usa, la Spagna e il Canada. Roma, per non restare esclusa dalla spartizione che seguirà e non vedere danneggiati i propri interessi, volta le spalle al Colonnello e partecipa al conflitto.
OTTOBRE 2011 – LA FINE DI GHEDDAFI
La situazione per il raìs, che in un primo tempo era sembrato avere la meglio grazie all’arrivo in Libia di migliaia di mercenari al suo servizio, precipita durante l’estate. I ribelli irrompono nella sua fortezza di Tripoli e il Colonnello anziché combattere fino alla fine «come un martire» si dà alla fuga. Viene ucciso il 20 ottobre dello stesso anno, quando cade Sirte, la sua città natale.
GENNAIO 2012 – PROTESTE CONTRO IL CNT
Non c’è però pace per la Libia. Dopo pochi mesi i cittadini tornano in piazza per protestare contro il Consiglio nazionale di transizione. A luglio si elegge il Congresso nazionale generale e ad agosto avviene l’avvicendamento alla guida del Paese dei due collegi. Ma nemmeno questo apparente ritorno alla normalità ferma la rivoluzione.
11 SETTEMBRE 2012 – VIENE UCCISO L’AMBASCIATORE USA IN LIBIA
Chris Stevens, ambasciatore americano in Libia, viene ucciso da un comando di miliziani islamici nei pressi del consolato Usa di Bengasi, insieme a un agente dei servizi segreti e due marines. L’allora presidente statunitense Barack Obama decide di richiamare tutto il personale diplomatico e invia altre truppe nel tentativo di pacificare un Paese sempre più dilaniato.
ESTATE 2013 – CROLLA LA PRODUZIONE DI PETROLIO
Mentre in parlamento i Fratelli musulmani riescono a intercettare i candidati indipendenti, ponendo fine alla laicità del governo imposta per oltre 40 anni dall’ex dittatore, le guerre tra tribù e gli attentati costringono il Paese a chiudere gli impianti principali. La produzione quotidiana di petrolio crolla dagli 1,5 milioni di barili di giugno 2013 ad appena 180 mila.
FEBBRAIO 2014 – FALLISCE IL GOLPE DI HAFTAR
Contro una Libia sempre più islamica si schiera Khalifa Haftar, generale in pensione (nel 2014 ha già 71 anni) che nel 1969 partecipò al golpe che portò al potere Muammar Gheddafi. Proprio per questo non gode del favore del governo di transizione che teme voglia diventare il nuovo raìs libico. Il militare, che gode invece dell’appoggio dell’Egitto, in febbraio attua un colpo di Stato e prova a destituire il parlamento di Tripoli, ma l’esercito filogovernativo ha la meglio.
AGOSTO 2014 – L’AVANZATA DI ALBA DELLA LIBIA
Nemmeno le nuove elezioni del giugno 2014, con la vittoria di uno schieramento più moderato, consentono al Paese di avviare l’agognata transizione democratica. In estate le milizie islamiste riescono a unirsi sotto la guida dei temuti combattenti di Misurata e fondano il gruppo al Fajr Libya (Alba della Libia), conquistando Tripoli. Si crea così un governo ombra, parallelo a quello ufficiale ma costretto all’esilio nella città di Tobruk che crea ulteriori difficoltà nei rapporti con i Paesi esteri. Sono infatti due i ministri del Petrolio. Gli Emirati arabi sostengono entrambe le fazioni (durante il dialogo con Tobruk hanno infatti finanziato tutte le guerre di Haftar) nel tentativo di far salire al potere l’ex ambasciatore di Tripoli ad Abu Dhabi, Aref Ali Nayed, rendendo ancora più difficile il ruolo delle Nazioni Unite.
OTTOBRE 2014 – NASCE IL CALIFFATO DI DERNA
Dopo il ritiro delle Nazioni Unite e mentre le due milizie combattono per Bengasi, viene fondato a Derna, in Cirenaica, il Califfato islamico di Abu Bakr al Baghdadi. La città diventa covo di jihadisti che esercitano il potere con il terrore ed esecuzioni brutali. Ventuno egiziani cristiani vengono decapitati scatenando la dura repressione militare del Cairo. Intanto l’Isis conquista Sirte e sferra una serie di colpi alle ultime rappresentanze occidentali nel Paese. Il 27 gennaio viene assaltato l’hotel Corinthia di Tripoli, dove alloggia anche il premier islamista Omar al Hasi, scampato all’attentato che però causa la morte di cinque stranieri (tra cui un americano). Il 4 febbraio viene attaccato un giacimento a Mabrouk gestito dalla francese Total.
FEBBRAIO 2015 – CHIUDE L’AMBASCIATA ITALIANA A TRIPOLI
«Siamo pronti a combattere nel quadro della legalità internazionale». Questa frase, pronunciata dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è sufficiente a mettere l’Italia nel mirino dell’Isis che dichiara di essere pronta a fermare le nuove «crociate blasfeme» che partiranno da Roma. Il premier Matteo Renzi decide di chiudere l’ambasciata a Tripoli, l’ultima rimasta nel Paese. «Abbiamo detto all’Europa e alla comunità internazionale che dobbiamo farla finita di dormire», è il suo appello, «che in Libia sta accadendo qualcosa di molto grave e che non è giusto lasciare a noi tutti i problemi visto che siamo quelli più vicini».
17 DICEMBRE 2015 – L’ACCORDO DI SKHIRAT
L’accordo di Skhirat, in Marocco, stretto tra gli esecutivi di Tripoli e Tobruk, permette la nascita del governo guidato da Fayez al-Serraj e riconosciuto dall’Onu.
GENNAIO 2016 – IL GOVERNO PROVVISORIO IN TUNISIA
Le Nazioni Unite, finora rimaste sullo sfondo, provano la carta del governo provvisorio, ma la situazione in Libia è tale che deve insediarsi all’estero, in Tunisia e non viene riconosciuto né dal governo più laico di Tobruk né da quello islamista di Tripoli. Verrà fatto sbarcare in nave solo nel mese di marzo che segna il ritorno del personale delle Nazioni Unite nel Paese.
2016-2018 – LA CACCIATA DELL’ISIS
Inizia la controffensiva nei confronti dell’Isis che durerà più di due anni. Nel luglio 2018 l’esercito di Khalifa Haftar espugna Derna, roccaforte del Califfato.
APRILE 2019 – LO SCONTRO FINALE PER TRIPOLI
Archiviata la minaccia dello Stato islamico, nell’aprile 2019 riparte la battaglia per Tripoli. E mentre in strada si combatte, in altre cancellerie si guarda già alla pacificazione. Gli Emirati Arabi non sono i soli a portare avanti la politica dei due forni.
2017-2019 – I MALDESTRI TENTATIVI FRANCESI DI ESCLUDERE L’ITALIA
Anche la Francia di Emmanuel Macron è protagonista di una politica assai ambigua: ufficialmente appoggia Serraj, ma ufficiosamente sembra invece puntare su Haftar, nella speranza di ribaltare a proprio favore i rapporti tra Tripoli e Roma in tema di rifornimenti energetici. Il 29 maggio 2018 l’inquilino dell’Eliseo accelera e convoca un vertice con i rappresentanti libici al fine di indire nuove elezioni il 10 dicembre.
Non è la prima volta: il 24 luglio 2017 Macron aveva chiamato a Parigi Serraj e Haftar con la speranza di arrivare a una pacificazione benedetta dai francesi senza l’ingombrante presenza mediatrice di Roma. Particolarmente duro il ministro dell’Interno italiano, che in quel periodo è Matteo Salvini: «Penso che dietro i fatti libici ci sia qualcuno. Qualcuno che ha fatto una guerra che non si doveva fare, che convoca elezioni senza sentire gli alleati e le fazioni locali, qualcuno che è andato a fare forzature».
DICEMBRE 2019 – GENNAIO 2020 – L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA
Le Forze armate turche a fine dicembre si sono dette pronte a un possibile impegno in Libia a sostegno del governo di Tripoli contro le forze del generale Khalifa Haftar, come richiesto dal presidente Recep Tayyip Erdogan. L’ingresso delle truppe turche, col voto del parlamento di Ankarafavorevole all’invio di soldati in aiuto a Fayez Al-Sarraj, è destinato a spostare gli equilibri del conflitto libico. Una mossa che ha spiazzato l’Italia e l’Unione europea, che da tempo cercano una soluzione diplomatica, ma anche gli Stati Uniti, con Donald Trump che ha chiamato Erdogan per esprimergli la sua contrarietà all’intervento. E che ha spinto il generale Khalifa Haftar a lanciare la sua invettiva contro il presidente turco.
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La neo titolare dell’Istruzione avrebbe usato brani di testi specialistici senza citare le fonti. La Lega all’attacco: «Si dimetta subito».
La Lega va all’attacco della neoministra dell’Università Lucia Azzolina che, secondo il quotidiano La Repubblica, avrebbe realizzato la tesi riprendendo testi specialistici. «Confrontando diversi passi dell’estratto del lavoro disponibile online», riporta il quotidiano, «corrispondente alle prime tre pagine, con i rispettivi originali, si scopre che più o meno la metà di quel che c’è scritto in quell’estratto è il risultato di un plagio. E la ministra dell’Istruzione non solo non virgoletta quel che non è farina del suo sacco, e già il fatto sarebbe di per sé molto grave, ma nei luoghi corrispondenti ai passi interessati, per giunta, non cita nessuna delle fonti cui ha attinto a man bassa».
«Fare peggio del ministro Fioramonti sembrava impossibile. E invece Azzolina ci stupisce: non solo si schiera contro i precari ma ora scopriamo che copia pure le tesi di laurea. Un ministro così non ha diritto di dare (e fare) lezioni. Roba da matti. Si vergogni e vada a casa», ha commentato il segretario della Lega Matteo Salvini.
«Appena hanno capito che si chiamava AzzolinA e non Azzolini è uscito fuori questo! Ora facciamo come la Germania, dove Guttenberg, nel 2011, si dimise. Avete vilipeso il vostro Paese dipingendolo come un focolaio di corruzione? Ora seguite i vostri modelli», scrive su Twitter il senatore della Lega Alberto Bagnai.
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Gianni Amelio si concentra sull’umanità del leader Psi. Sottrarsi a ogni giudizio e presa di posizione, però, rappresenta una delle debolezze del film.
Gianni Amelio racconta con Hammamet gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi, interpretato da un camaleontico Pierfrancesco Favino.
E lo fa senza mai nominarlo: il leader Psi è soltanto “il Presidente”.
Il regista propone il ritratto di un uomo invecchiato e in “esilio”, che trascorre il suo tempo tra problemi di salute e famiglia, dialogando con i suoi ospiti del passato e, ovviamente, di politica.
Il film non dà alcun giudizio sulla figura di Craxi e racconta la permanenza a Hammamet come una sorta di diario-confessione. I personaggi secondari sono solo abbozzati e risultano stereotipati. Anche per questo, senza la presenza di Favino Hammamet faticherebbe a convincere lo spettatore.
Regia: Gianni Amelio; genere: drammatico (Italia, 2020); attori: Piefrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi, Federico Bergamaschi, Roberto De Francesco, Adolfo Margiotta, Massimo Olcese, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna e con Renato Carpentieri e Claudia Gerini.
HAMMAMET IN PILLOLE
TI PIACERÀ SE: ti piacciono i film che affrontano la recente storia italiana concentrandosi sul lato umano dei protagonisti.
DEVI EVITARLO SE: ti aspetti un film che prenda posizione su una delle figure più discusse della politica italiana.
CON CHI VEDERLO: con chi ha assistito alla caduta del leader socialista e alla fine della Prima Repubblica.
LA SCENA MEMORABILE: Le riflessioni sulla politica di Craxi.
LA FRASE CULT: «Finanziamenti illeciti, chi li ha mai negati! Ma non tutto serviva per la parata!»
1. NON È UN BIOPIC
La sceneggiatura, scritta da Gianni Amelio in collaborazione con Alberto Taraglio, si è concentrata sul lato più privato e umano degli ultimi sei mesi di vita del politico, malato da tempo di diabete e con un tumore al rene. Il regista ha sottolineato che non si tratta di un film biografico, ma di un progetto che dà spazio agli «spasmi di un’agonia».
2. L’INCREDIBILE TRASFORMAZIONE DI FAVINO
Pierfrancesco Favino è stato trasformato in Craxi da un team di truccatori italiani che hanno studiato in Inghilterra. Per ottenere l’incredibile livello di realismo, sono stati impiegati molti mesi. L’attore ha sottolineato: «Ricordo che durante il rituale dell’applicazione arrivava il momento, quello in cui venivano messe le sopracciglia finte e indossavo gli occhiali, che era per me il momento dell’oblio di sé, capace di aprire la porta verso qualcosa di nuovo e di diverso. Una porta che, non ci fosse stata, non sarei stato in grado di entrare in un mondo altro e di toccare le cose e le corte che ho toccato». Trovare la giusta voce è stato invece frutto di un lavoro meticoloso basato sulla visione di molti video e interviste.
3. L’UOMO PRIMA DEL POLITICO
Favino ha ammesso di conoscere, prima del film, solo il politico Craxi, non l’uomo. Per addentrarsi nella storia senza prendere posizione o esprimere giudizi, l’attore si è concentrato sul concetto di “eredità” e sulla figura di un padre.
4. LE LOCATION DEL PRESIDENTE
Per aumentare ulteriormente l’aderenza con la realtà, alcune sequenze del film sono state girate nei luoghi in cui ha vissuto Craxi tra cui la casa di Hammamet dove l’ex presidente del Consiglio è rimasto fino alla morte, il 19 gennaio 2000.
5. UN FILM DI INNOMINATI
Gianni Amelio ha eliminato tutti i nomi propri dal film. «Non si fanno», ha spiegato il regista, «perché si conoscono anche troppo». La scelta invece di modificarne alcuni e chiamare la figlia Anita invece di Stefania è stata presa pensando alla venerazione del politico nei confronti di Garibaldi.
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Dall’aglio nero al miglio bruno, passando per la Moringa e i funghi Shiitake. Ecco gli alimenti vegetali più di moda che, sotto forma di succhi, bacche o farine, promettono di migliorare la nostra salute.
Le tendenze 2020 hanno un colore: il verde. Secondo una ricerca di Whole Food Market la cucina del futuro sarà sempre più orientata verso il vegetable friendly e il salutista. Via libera dunque a verdure, frutta, farine, bacche e oli essenziali.
E, naturalmente, non possono mancare i cosiddetti superfood, le star del momento: alimenti vegetali ricchi, tra le altre cose, di minerali e antiossidanti considerati toccasana e che promettono meraviglie (anche se in molti casi la comunità scientifica è divisa).
Insieme alla nutrizionista Francesca Giancane, abbiamo individuato sei superfood da tenere d’occhio.
1. LE BACCHE DI GOJI
Piccole e dal colore rosso, le bacche di Goji hanno diversi pregi nutrizionali e fitoterapici, tanto da essere considerate un elemento essenziale della medicina tradizionale asiatica. Ricche di vitamine e sali minerali, promettono di essere immunostimolanti, antiossidanti e da anni ormai hanno conquistato il mercato occidentale dove sono usate soprattutto come snack.
2. AGLIO NERO
Ottenuto dalla fermentazione dell’aglio bianco, quello nero ha un sapore più delicato e un odore meno intenso. Ricco di fosforo, proteine e calcio, ha tante proprietà benefiche che vanno dalla prevenzione dell’invecchiamento alla riduzione dell’affaticamento, ma è efficace anche contro le infezioni. In cucina viene usato spesso per preparare creme dense, ideali per primi e secondi.
3. FUNGHI SHIITAKE
Il Lentinus edodes, originario del Giappone ma coltivato anche in Cina, è considerato un fungo della salute. Ricco di vitamina D, zinco, selenio e rame che gli conferiscono poteri antiossidanti, tonici e depurativi, promette di ridurre la formazione del colesterolo cattivo e di contribuire alla fissazione del calcio nelle ossa. In cucina viene usato soprattutto nella preparazione di brodi e zuppe.
4. MORINGA
La Moringa oleifera è una tipica pianta dell’India e dell’area himalayana. Ricca di vitamine A, B, C, di tanti sali minerali e di grassi buoni, ha proprietà antiossidanti, protegge dai radicali liberi, combatte l’invecchiamento precoce, favorisce la digestione. È una pianta antistress naturale e in cucina viene utilizzata in tutte le sue parti: dalle foglie alle radici e corteccia, passando per baccelli e semi. È molto versatile e può presenziare in tutto il menù, dall’antipasto ai dolci, ma occhio al suo gusto leggermente piccante.
Particolarmente ricca di nutrienti (proteine, vitamine B e C, ferro, calcio) l’erba di grano e di orzo è un potente antiossidante e disintossicante, migliora la digestione, è un efficace alcalinizzante e disintossicante. Si trova anche sotto forma di succo e di polvere.
6. MIGLIO BRUNO
Conosciuto anche con il nome tedesco di Braunhirse, il miglio bruno è la varietà selvatica di uno dei cereali più ricchi in assoluto di sali minerali. È un naturale alleato di ossa e muscoli e, grazie all’acido silicico, ha effetti benefici sul sistema immunitario, sulla salute di pelle, unghie,denti e capelli. L’antinfiammatorio naturale è presente in cucina sotto forma di farina che viene usata nella preparazione di dolci, pizze, ma può essere aggiunta anche a zuppe, frullati e yogurt.
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Un ragazzo e una ragazza sono caduti mentre camminavano sul Monte Sella. Erano legati tra di loro.
Due giovani, un ragazzo e una ragazza, sono morti dopo essere caduti dalla parete che guarda il rifugio Nello Conti del monte Sella, sulle Alpi Apuane, nel territorio di Massa Carrara. È quanto si apprende dal 118 che ha inviato sul posto l’elisoccorso. Inutili i tentativi di salvare loro la vita: i due giovani erano già entrambi morti quando sono arrivati i sanitari.
ERANO LEGATI TRA DI LORO
Sembra che stessero camminando e sarebbero state legate l’uno con l’altra. Questo quanto emerso al momento dal Soccorso alpino e speleologico della Toscana. Sempre da quanto appreso, sembra che fossero partiti da un vicino rifugio da quale poi qualcuno li avrebbe visti cadere, facendo scattare l’allarme. Non ancora fornite notizie sull’identità e l’età delle due vittime. Da poco sarebbe stato dato l’ok alla rimozione delle salme. Sul posto si trovano il medico inviato dal 118 e il tecnico del Sast, portati dall’elisoccorso Pegaso 3 decollato dal Cinquale, nel comune di Massa. Del caso si stanno occupando anche i carabinieri.
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Il presidente Usa ha commesso l’errore di voler abbandonare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro. Così rischia l’arroccamento degli Stati Uniti fra i due Oceani.
Una campagna elettorale sarebbe, in tempi normali, già decisa. La disoccupazione è negli Stati Uniti ai minimi storici dal 1969 anche se in un mercato assai diverso e molto più “atipico”; la Borsa è ai massimi; la crescita del Pil ha continuato con il presidente in carica una marcia avviata nel giugno del 2009, ormai da sei mesi un record storico, superiore all’espansione marzo 1991-marzo 2001 e primato assoluto di durata da quando vengono elaborati dati del genere, cioè dal 1854.
Tutto è più contenuto che in passato, la crescita cumulativa è più bassa, la disoccupazione è calata più lentamente, ma i risultati ci sono. In più, gli avversari democratici del presidente Donald Trump non hanno in campo per ora candidati particolarmente forti. Ma Trump ugualmente, pur rimanendo a tutt’oggi il favorito, non avrà una campagna scontata in partenza, anche se non è facile scalzare al voto un presidente in carica.
L’impeachment deciso dalla Camera il 18 dicembre 2019, e che probabilmente il Senato a controllo repubblicano boccerà (serve la maggioranza qualificata dei due terzi), c’entra fino a un certo punto, anche se trasformerà il voto presidenziale del prossimo 3 novembre più che mai in un referendum sull’immobiliarista newyorkese diventato campione del neonazionalismo americano.
LA POLITICA ESTERA DI TRUMP NON ESISTE
La decisione di far saltare in aria a Baghdad il 3 gennaio scorso con razzi sparati da un drone il generale delle milizie iraniane Qasem Soleimani, l’organizzatore da 20 anni della presenza armata iraniana in tutto il Medio Oriente, spiega meglio le difficoltà del presidente. Da un lato un gesto rapido e decisivo contro un ben noto nemico dell’America è piaciuto in sé alla base che ha dato a Trump nel 2016 la Casa Bianca, grazie a 77 mila voti giudiziosamente distribuiti in vari collegi di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin e con un voto popolare nazionale inferiore a quello ottenuto da Hillary Clinton, cosa però perfettamente legittima nel sistema americano dove conta non solo il numero ma anche la geografia delle scelte popolari.
Dall’altro però il caso Suleimani, seguito subito da un Trump minaccioso e poi dopo pochi giorni da un Trump che tende la mano all’Iran, pone allo stesso elettorato trumpiano, in genere molto contrario ad avventure internazionali e tutto concentrato sull’economia, l’immigrazione e la riaffermazione di una supremazia dell’America bianca, un chiaro quesito: che politica estera ha il presidente? Trump ha una politica elettorale, non una politica estera.
L’ATTACCO ALL’IRAN COZZA CON IL NAZIONALISMO ISOLAZIONISTA
In genere gli americani votano sulla base dell’economia e delle questioni interne, e assai meno della politica internazionale, che ha pesato solo nel voto del 1948 e del 1952, quando veniva organizzato il sistema della Guerra Fredda, e in parte quello del 1968 e 1972, quando si trattava di chiudere la malaugurata partita del Vietnam, e in parte ancora minore in quello del 1960, ancora all’ombra dello choc Sputnik (1957). Trump ha ereditato la guida della prima potenza mondiale, leader di un sistema multilaterale ormai vecchio di 70 anni ma non facilmente superabile, che va dall’economia ai commerci fino alla strategia militare di cui la residua Nato è l’esempio più chiaro ma non unico.
Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare
Ma Trump è un immobiliarista, grosso ma neppure molto stimato, forte di una crassa ignoranza su come e perché questo sistema è stato costruito dai suoi predecessori, a partire da Franklin D. Roosevelt e, soprattutto, da Harry Truman e Dwight Eisenhower. È diffusa a Washington l’opinione che se al presidente venisse chiesto un brevissimo riassunto improvvisato su come il suo Paese ha organizzato tra il 1945 e il 1947 l’enorme potere che la Seconda guerra mondiale a la presenza dell’Urss gli concessero sbaglierebbe abbondantemente nomi, date e la gerarchia delle decisioni più importanti. Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare se non per fare quattrini, e il cui motto è rimasto il «…the chief business of the American people is business..» dichiarato dal presidente Calvin Coolidge nel gennaio del 1925.
Coolidge aggiungeva anche che gli americani «sono profondamente interessati a comperare, vendere, investire e prosperare nel mondo», il che implica una politica estera. Ma gli “America firsters” che ancora nel 1940 volevano un Paese fuori da ogni conflitto (anche la famiglia Kennedy li appoggiava e finanziava per spirito irlandese antibritannico) a occuparsi solo dei non meglio precisati fatti propri dovettero aspettare Pearl Harbour nel dicembre 1941 per guardare in faccia la realtà. Trump viene da qui, e il resuscitato America First come noto è il suo motto, puro nazionalismo con forti tentazioni isolazioniste. Questo lo ha fatto vincere nel 2016. E con questo un drone contro Suleimani non ha molto a che fare, come mossa politica. È solo una vendetta. Ma anche questa è politica. E allora?
TRUMP DESTABILIZZA IL VECCHIO MONDO SENZA PROPORNE UNO NUOVO
I guai che Trump sta facendo come leader nazionalista di un Paese ancora molto condizionato da un multilateralismo che a lungo è stata la sua bandiera sono numerosi e gravi, sul piano commerciale e strategico. Anche Richard Nixon era un nazionalista e non esitò a gettare a mare nel ’71 quello che era forse in economia il perno del sistema, le parità monetarie di Bretton Woods, ma la sua base non erano i cranks bensì l’ala destra repubblicana da cui poi emergeranno, in parte, i neoconservatori degli Anni 90, nazionalisti ma tutt’altro che isolazionisti. Trump ha commesso l’errore di voler lasciare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro, che non deve necessariamente abolire il precedente, ma cambiarlo in modo significativo, che non vuol dire in modo totale.
Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo
Dov’è questo mondo di Trump? Nell’alleanza con Boris Johnson e nella semi-alleanza con Vladimir Putin, nemico-amico. E nei suoi tweet, nell’insofferenza per i collaboratori più stretti, con la girandola di ministri e altri con rango ministeriale più ampia, in tre anni, rispetto a tutti i predecessori da Nixon in poi, persone uscite in gran parte perché impossibilitati a collaborare a una strategia che non c’è. L’uccisione di Suleimani che cosa vuol dire, più o meno Medio Oriente per gli Stati Uniti? Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo (ma invocano a gran voce una politica più coerente, o meglio una politica tout court).
Trump è stato definito da vari commentatori americani un geopolitical destabilizer. Uno che cambia il vecchio senza però saper proporre un nuovo che non sia un impossibile, almeno oggi, arroccamento dell’America fra i due Oceani. Del resto Johnson e mezza Gran Bretagna pensano sia possibile un arroccamento con la protezione della Manica. Far fuori un avversario è in sé cosa gradita a tutti i cranks d’America, ma bisogna vedere poi le conseguenze, e queste non sono chiare. Neppure sulle prospettive elettorali, che certamente hanno pesato sulla scelta di mandare due droni a far fuori il patron delle operazioni speciali dei rivoluzionari islamici iraniani.
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Caduto nella settima tappa della corsa in Arabia Saudita, è deceduto per le ferite riportate.
Un altro morto alla Dakar. Una caduta è costata la vita al motociclista portoghese Paulo Gonçalves, 40enne veterano della corsa che si sta correndo in Arabia. Il pilota è caduto nel corso della settima tappa da Riad a Wadi al Dawasir all’altezza del chilometro 276. Gonçalves è stato trasportato in elicottero all’ospedale di Layla, ma le ferite erano troppo gravi e i medici non hanno potuto che constatarne la morte. Il portoghese nel 2015 era giunto al secondo posto della Dakar, ma soprattutto era alla sua tredicesima partecipazione alla grande corsa.
UNA LUNGA SCIA DI MORTE
Emigrata in Arabia, la Dakar resta comunque la corsa della morte. Gonçalves è il 30esimo pilota che perde la vita nella storia di questa competizione, che ha provocato anche una quarantina di altre vittime fra giornalisti, assistenti di gara, meccanici e spettatori. Il primo fu il motociclista Patrick Dodin, che morì sempre per una caduta, mentre tentava di sistemarsi il casco che gli si era allentato. L’ultimo incidente mortale alla Dakar, prima di Gonçalves, era accaduto invece nel 2015, in Argentina, quando a perdere la vita fu il motociclista 39enne polacco Michal Hernik, caduto nella terza tappa. L’anno prima, sempre in Argentina, ancora un motociclista, il 50enne belga Eric Palante era deceduto in un incidente nei pressi di Chilecito.
NEL 2005 LA MORTE DI MEONI
Nel 2005 la lista nera della corsa accolse anche il motociclista italiano Fabrizio Meoni, trionfatore delle edizioni 2001 e 2002. Il 47enne campione azzurro, in sella a una Ktm, ebbe un arresto cardiaco durante l’11esima tappa, dopo una caduta nello sterrato fra Atar e Kiffa in Mauritania. Quell’anno perse la vita anche lo spagnolo José Manuel Perez, motociclista anche lui, come i due morti nell’edizione 2013, il francese Thomas Bourgin, 25enne e lo spagnolo Jorge Martinez Boero. Un altro italiano morì nel 1986, era anche lui un motociclista, Giampaolo Marinoni, cadde a 40 chilometri dal traguardo, ma si rialzò e portò a termine la corsa, arrivando 13esimo. Poche ore dopo, un malore, e due giorni dopo la morte.
NEL 1986 LA MORTE DELL’INVENTORE DELLA CORSA
L’incidente più grave, collaterale alla corsa vera e propria, avvenne nel 1986, quando cadde un elicottero e morirono i cinque passeggeri, tra cui l’inventore della corsa, Thierry Sabine. Nel 2008 la Dakar fu invece annullata, per la prima volta nella sua storia a causa dell’omicidio in Mauritania di quattro turisti francesi. Nel 1991, in Mali, il pilota di un camion fu colpito alla testa da un proiettile vagante. Il 2010 fu funestato al via dalla morte di una spettatrice, Natalia Sonia Gallardo, investita: nello stesso anno l’incidente gravissimo al sardo Luca Manca. Nel 2011 altro sangue: stavolta a perdere la vita fu Marcelo Reales, 43 anni, un contadino investito da uno dei concorrenti, Eduardo Amor. L’anno prima un altro motociclista, il francese Pascal Terry, fu addirittura ritrovato solamente tre giorni dopo la morte.
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Aveva 27 anni. Malato dal 2017, raccontava la sua battaglia sui social. Dopo le feste aveva scelto la sedazione profonda.
La lunga battaglia di Giovanni Custodero si è conclusa la mattina di domenica 12 gennaio. Il portiere di 27 anni di Pezze di Greco, frazione di Fasano (Brindisi), malato di sarcoma osseo, aveva da poco annunciato su Facebook di voler ricorrere alla sedazione profonda, per lenire il dolore. Il calciatore aveva giocato nella squadra di calcio a 5 del Fasano, nel campionato di C2.
MALATTIA DIAGNOSTICATA NEL 2017
La malattia gli era stata diagnosticata nel 2017 e contro di essa aveva lottato tenacemente con il sorriso, pubblicando sui social le sue emozioni e le cure, e facendosi promotore di molte iniziative di beneficenza. Aveva anche subito l’amputazione di una gamba. Qualche giorno fa il post che aveva suscitato commozione: «Ho deciso di trascorrere le feste lontano dai social ma accanto alle persone per me più importanti. Però, ora che le feste sono finite, e insieme a loro anche l’ultimo granello di forza che mi restava, ho deciso che non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che il destino ha in serbo per me». Infine l’annuncio: «Da domani sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere».
IL CORDOGLIO DEL SINDACO
«Giovanni Custodero è diventato in questi anni il simbolo di quanti lottano ogni giorno contro la malattia e la sofferenza, con una forza d’animo che è di esempio per tutti», ha detto il sindaco di Fasano Francesco Zaccaria, «a nome mio personale e di tutta la città, che in queste ore sta manifestando alla famiglia tutta la sua vicinanza, con un calore e un affetto che mi rendono orgoglioso di esserne alla guida, voglio abbracciare idealmente lui, i suoi cari e tutti quanti stanno affrontando un percorso di dolore, dandoci esempio di amore per la vita, supremo bene».
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Aveva 27 anni. Malato dal 2017, raccontava la sua battaglia sui social. Dopo le feste aveva scelto la sedazione profonda.
La lunga battaglia di Giovanni Custodero si è conclusa la mattina di domenica 12 gennaio. Il portiere di 27 anni di Pezze di Greco, frazione di Fasano (Brindisi), malato di sarcoma osseo, aveva da poco annunciato su Facebook di voler ricorrere alla sedazione profonda, per lenire il dolore. Il calciatore aveva giocato nella squadra di calcio a 5 del Fasano, nel campionato di C2.
MALATTIA DIAGNOSTICATA NEL 2017
La malattia gli era stata diagnosticata nel 2017 e contro di essa aveva lottato tenacemente con il sorriso, pubblicando sui social le sue emozioni e le cure, e facendosi promotore di molte iniziative di beneficenza. Aveva anche subito l’amputazione di una gamba. Qualche giorno fa il post che aveva suscitato commozione: «Ho deciso di trascorrere le feste lontano dai social ma accanto alle persone per me più importanti. Però, ora che le feste sono finite, e insieme a loro anche l’ultimo granello di forza che mi restava, ho deciso che non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che il destino ha in serbo per me». Infine l’annuncio: «Da domani sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere».
IL CORDOGLIO DEL SINDACO
«Giovanni Custodero è diventato in questi anni il simbolo di quanti lottano ogni giorno contro la malattia e la sofferenza, con una forza d’animo che è di esempio per tutti», ha detto il sindaco di Fasano Francesco Zaccaria, «a nome mio personale e di tutta la città, che in queste ore sta manifestando alla famiglia tutta la sua vicinanza, con un calore e un affetto che mi rendono orgoglioso di esserne alla guida, voglio abbracciare idealmente lui, i suoi cari e tutti quanti stanno affrontando un percorso di dolore, dandoci esempio di amore per la vita, supremo bene».
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Doppietta italiana nella gara in cui cadono Shiffrin e Vhlova. Secondo posto per Wendy Holdener.
Splendida doppietta italiana nella combinata femminile di Coppa del Mondo di sci alpino a Zauchensee, in Austria. A esultare dal gradino più alto del podio è Federica Brignone, al suo dodicesimo successo in carriera. Terzo posto per Marta Bassino, che conferma l’ottimo avvio di stagione. Fra le due azzurre, secondo posto per la favoritissima svizzera Wendy Holdener, che paga un errore nella parte alta dello slalom.
BRIGNONE SECONDA IN COPPA
Federica Brignone ha chiuso la prova in 2’03”45. A 29 anni è la sua seconda vittoria stagionale, la 12esima in carriera oltre a 10 secondi e10 terzi posti, in un palmares che vede anche un argento mondiale e un bronzo olimpico. Per la valdostana, grande specialista del gigante ma anche eccellente polivalente, è il terzo successo in questa disciplina e la vittoria la riporta al secondo posto nella classifica generale di Coppa del mondo con 565 punti, alle spalle della statunitense Mikaela Shiffrin, in testa con 826, rimasta a secco in combinata per via dell’uscita nella discesa, stessa sorte di un’altra delle grandi favorite della prova, Petra Vhlova.
ANCORA PODIO PER BASSINO
Terzo posto per Marta Bassino in 2’04”27. Per la piemontese di 23 anni, vincitrice del gigante di Killington, è il nono podio in carriera. Molto buona anche la prova anche di Elena Curtoni, quinta in 2’05”95 La prossima tappa di Coppa del mondo è prevista per la sera di martedì 14 gennaio, nella vicina Flachau, con lo slalom speciale notturno.
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Il leader socialista è stato capro espiatorio di un sistema politico. A 20 anni dalla sua morte, bisognerebbe avere il coraggio di riconoscerne la statura.
Ho visto ieri sera Hammamet di
Gianni Amelio. Lo davano in due sale dello
stesso cinema, tutte e due piene. È
un gran film, girato con mano leggera da un regista attento e padrone
del suo tempo con attori formidabili, non solo Pierfrancesco
Favino, eccezionale, non solo Renato
Carpentieri e Omero
Antoniutti o il soffertissimo Vincenzo
Balzamo di Giuseppe
Cederna, ma anche la formidabile Livia
Rossi nel ruolo difficile di Stefania
Craxi.
FUORI DALLA DAMNATIO MEMORIAE
“Un gran bel film” è
una osservazione da spettatore, neppure particolarmente cinefilo che
non può sfuggire, tuttavia, alla valutazione politica del lavoro di
Amelio. Un primo risultato il regista e i produttori Agostino
e Maria Grazia Saccà l’hanno raggiunto togliendo il dibattito su Craxi dal
politichese o peggio ancora dalla damnatio
memoriae. Quando tanti spettatori vanno
al cinema per vedere un film come questo, non vuol dire solo
ricatturare l’attenzione di vecchi socialisti e di antichi
comunisti, ma tornare a parlare a un pubblico che non ha creduto che
la storia italiana sia cominciata con Beppe
Grillo e Matteo
Salvini.
NON RISOLVE IL “CASO CRAXI”
Il film tuttavia non
risolve, né poteva, il “caso Craxi”. È
probabile che chi sia entrato nella sala cinematografica con un
pregiudizio favorevole al leader Psi lo abbia visto confermato. È
credibile che altri abbiano mal digerito l’autodifesa strenua che
Craxi fa di sé e alcuni commenti ascoltati in sala a fine
proiezione fanno pensare che molti anti-craxiani siano rimasti tali.
Tuttavia non credo che Amelio, che non conosco, né Agostino e Maria
Grazia Saccà, che non conosco, volessero con il film dare una svolta
alla lettura della vicenda umana e politica di Bettino Craxi.
Volevano semplicemente raccontare una storia
dura, complessa, una tragedia
italiana, con le parole e con il punto di
vista della “vittima”.
IL PUNTO DI VISTA DELLA VITTIMA
Perché di questo si
tratta: Hammamet
racconta il punto di vista della vittima. Uso questo termine
deliberatamente perché i vent’anni che ci separano dalla sua morte
restituiscono appieno al leader socialista il ruolo di capro
espiatorio di un sistema politico e
l’obiettivo di una magistratura che si rivelò, anche in quella
occasione, totalmente priva di umanità. Craxi è un
uomo malato, che si è rifugiato nella sua
casa tunisina e che combatte perché la sua storia non diventi storia
criminale. Chiama gli altri partiti politici alla comune
responsabilità del finanziamento illegale. È
incazzatissimo con i comunisti o ex che, secondo lui, si sono
avvantaggiati delle azioni di una procura che li aveva risparmiati.
Si ribella ai compagni di partito, c’è un netto riferimento a Giuliano Amato, che
non lo difendono. Sia Craxi sia Moro, anni prima, hanno la netta
consapevolezza che la loro fine potrebbe travolgere non solo partiti,
non solo il sistema politico, ma modificare le basi stesse della
democrazia. Così è stato. Ma non se ne discute. Il “caso Moro”
viene chiuso nella rassegnazione di una fine inevitabile e nel
dibattito successivo (il solito) su quanto Stato ci sia dietro gli
assassini. Nel “caso Craxi” c’è l’ottusità di chi non vuole
uscire dal circuito mediatico-giudiziario.
LA FINE DEI SOCIALISTI
Lasciamo perdere Moro,
ora. Il “caso Craxi” porta alla luce poche cose molto chiare. I
socialisti dopo la morte del loro capo si sono dispersi,
molti sono diventati combattivi militanti di destra. Nel loro
orizzonte la storia del Psi inizia e finisce col leader più
discusso, al punto che sono rare i dibattiti sull’intera e
grandiosa storia socialista italiana. Per tantissimi socialisti il
“caso Craxi” è la conferma dell’odio reciproco con i
comunisti. Dall’altra parte abbiamo la cultura, e oggi la classe di
governo, giustizialista che con i “casi Craxi” ha trovato la
legittimazione per creare movimenti politici, per arrivare al governo
del Paese, dando il peggio di sé, come si vede quotidianamente. Nel
mio mondo, quello ex comunista, alcuni hanno fatto sforzi
per restituire a Craxi la dignità del grande capo politico
(dispiace molto che i socialisti e la famiglia Craxi tuttora non
dicano una parola sui tentativi di Massimo
D’Alema, allora premier, e di molti suoi
“seguaci” di portare Craxi in Italia senza l’offesa della
carcerazione e delle manette). Tuttavia questi ex
comunisti “revisionisti” hanno parlato
solo a se stessi nel timore che l’anima
antisocialista e anticraxiana, molto forte
negli ex Pci, potesse ribellarsi.
L’UOMO TORNA AL CENTRO
Il film aiuta invece
questo processo. Aiuta a rimettere al centro l’uomo Craxi e il suo
discorso politico. E aiuta a fare gesti esemplari. Avevo proposto che
un gruppo di ex dirigenti dell’ex Pci si recasse ad Hammamet
nel ventennale anche scontando l’eventuale
immorale presenza di Salvini. Alcuni
dirigenti socialisti hanno chiesto a Zingaretti
di capeggiare una delegazione del Pd. Perché
tanto silenzio? Perché accettare quest’ultimo ricatto dei perdenti
della storia, cioè il mondo giustizialista e grillino, e rifiutare
di fare i conti con un uomo, un partito, le sue idee, i suoi errori,
l’orrore di una morte annunciatissima. Perché, mi chiedo, noi che
siamo stati comunisti dobbiamo, vent’anni dopo, farci rinchiudere nel
recinto di una cultura antipolitica
guidata da procure e da giornalisti? Deve emergere un punto di vista
della politica che, sulla base di una seria ricostruzione – attendo
di leggere il libro di Fabio Martini
–, possa avviare una riconciliazione fra
tutte le sinistre dove non ci siano più
figli di un dio minore, uomini di malaffare, puri senza macchia.
LO SPESSORE UMANO DELLA POLITICA
Il “caso Craxi” non si
chiuderà mai e non si deve chiudere mai. Il film ci parla anche
dello spessore umano che dovrebbe avere la
politica. Noi stiamo vivendo anni atroci in
cui l’avversario non è solo nemico ma un
“oggetto” che deve essere annichilito.
Chi ha visto il film capisce quanto dolore si crea, quando dolore si
sparge (quel gruppo di gitanti ad Hammamet che insultano Craxi),
quando ci allontaniamo da una società veramente civile.
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L’ultimo libro dell’autore israeliano, La vita gioca con me, è una genealogia della colpa: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. Ma non è sempre il perdono a interrompere la catena dell’odio.
Vale anche per i personaggi di David Grossman quello che Nietzsche sosteneva nella sua introduzione alla Genealogia della morale: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?».
L’ultimo romanzo di Grossman, La vita gioca con me (Mondadori, pagg. 300, euro 21) nella efficace traduzione di Alessandra Shmoroni, è una genealogia della «colpa», più che della morale: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, nodi che non si sono ancora sciolti, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. E questo male, Grossman lo sa molto bene avendo vissuto quasi dagli inizi l’epopea del neo-Stato ebraico, si trasmette di generazione in generazione, fino a che non si arriva, talvolta, alla possibilità di un chiarimento. Ed ecco, allora, il corto circuito improvviso che scatena a terra la forza distruttrice del passato e ricrea nuovi spazi per la libertà e l’amore. Non sempre per il perdono, ma quello che possiamo fare è interrompere la catena dell’odio e riprendere in mano le nostre vite. Può sembrare poco, ma è già tantissimo.
L’ultimo romanzo di Grossman, a differenza dei precedenti, è costruito su una storia reale, quella di Eva Nahir-Panic, un’ebrea-croata trasferitasi in Israele dopo la morte del marito, ufficiale serbo. Dal punto di vista narrativo il romanzo ha una struttura a più livelli che intreccia microcosmo e macrocosmo, vita privata e frammenti di storia del Novecento, in un continuo elastico tra presente, passato e perfino futuro. Ci sono tre donne di generazioni successive che si incontrano in un kibbutz in Israele per la festa di compleanno della più anziana, Vera, che festeggia novant’anni con la figlia Nina, la nipote Ghili, che è anche l’io narrante del libro, e il figliastro e padre di Ghili, Rafael. Tre donne segnate dalla perdita devastante di un amore.
Quando il marito di Vera, Miloš Novak, muore suicida in Croazia per sfuggire alle torture della polizia di Tito, Vera rifiuta di infangarne la memoria e per questo viene condannata alla prigionia nel terribile campo di rieducazione di Goli Otok, una piccola isola selvaggia di fronte a Zara convertita a luogo di prigionia per dissidenti politici e criminali comuni. Ma la decisione di Vera ha un prezzo: l’abbandono al suo destino della figlia di sei anni e mezzo. Ecco il secondo amore infranto. Nina vivrà l’allontanamento dalla madre come un rifiuto e inizierà una vita infelice e raminga, incapace di costruire relazioni solide, neppure con il marito Rafael che continuerà ad amarla devotamente nelle sue fughe dalla famiglia e da Israele. Così, anche Ghili, la figlia di Nina, vive la stessa esperienza di dolore e abbandono, i medesimi rancori riversati sulla madre, generazione dopo generazione. Quando avviene l’incontro per il compleanno di Vera, il «quadrilatero degli affetti» sembra ritrovare una sua geometria, o almeno un tentativo di realizzarla. Ma la ricomposizione richiede un’ulteriore catarsi, un pellegrinaggio dei quattro personaggi nel passato di Vera in Croazia, fino al campo di Goli Otok.
Nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria
Il pretesto narrativo è il documentario che Ghili propone di girare sulla storia della nonna, un modo per provare a rileggere il passato da un altro punto di vista, con la mediazione dell’obiettivo di una telecamera, come se le ferite, così profonde, rendessero impossibile alle tre donne raccontare il proprio destino direttamente alle altre. E, a Goli Otok, la genealogia della colpa si risolve finalmente nella catarsi, con le tre protagoniste che riemergono dolorosamente dal proprio passato con la prospettiva di una riconciliazione di nuovo possibile. Alla fine, la telecamera e il documentario famigliare diventano inutili, la parola, che per Grossman, come tutti gli ebrei, ha echi ben più profondi di quelli comuni, compie il miracolo: nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria. Lettera43 ha incontrato lo scrittore israeliano in Italia per la presentazione del libro.
DOMANDA. Sono la parola, il racconto che guariscono dall’odio. Nel caso dell’ebraico è una “parola” che ha radici antichissime: quanto pesa questa eredità su uno scrittore? RISPOSTA. C’è certamente un peso nella lingua ebraica: ha 4 mila anni di storia. È la lingua del ricordo, dell’identità nazionale che è costitutiva dell’universo mentale dei parlanti ebraico. Ma ha anche molti strati: il Talmud, la lingua medievale, quella attuale, di cui l’io narrante Ghili è espressione. Questo non lo vedo come un fardello, ma come un privilegio, perché nella mia scrittura c’è l’eco di tutto questo passato.
Questo è un libro sulla memoria, quella del passato che aiuta le tre donne a trovare una riconciliazione, e quella che andrà a perdersi nella mente di Nina, afflitta demenza senile. È vero, questo è un libro sulla memoria: dolorosa, ma allo stesso tempo piena di freschezza, di verità. La memoria costa moltissimo sforzo, perché ti richiede di ricordare tutto in modo esatto, individuando il momento in cui sei diventato dipendente dal ricordo e come questo ti ha cambiato la vita. Ci sono popoli e persone che diventano prigionieri della memoria. Scelgono di aggrapparsi a essa e non vogliono muoversi su nuovi territori dove sarebbero molto più liberi di guardare al futuro. Soffrono dalla loro infanzia e questi sentimenti di dolore se li portano come un fardello per tutta la vita. Solo facendo posto a qualcosa d’altro possiamo riprendere a muoverci senza essere influenzati dal passato, ritornando a respirare a pieni polmoni. In questo modo possiamo riporre il dolore al suo posto, gli assegniamo un confine.
Le donne, tra cui l’io narrante, sono le protagoniste del racconto. Com’è possibile per uno scrittore identificarsi completamente nell’animo femminile? Ho voluto scrivere questo romanzo come se non sapessi di essere io a scriverlo. Volevo capire innanzittutto chi erano queste tre donne. Ci sono tanti modi di essere donna, tanti quanto sono le donne al mondo. Non è un processo facile perché la tua anima ha una comfort zone da cui non vuole uscire. Il personaggio principale di A un cerbiatto somiglia il mio amore è Ora (in ebraico luce), una donna, appunto. Non riuscivo a impersonarlo pienamente, era come se io stessi mettendo delle parole che mancavano di un filamento. Quindi, preso dallo sconforto le scrissi una lettera: perché non ti arrendi a me, perché non ti lasci capire? Dopo compresi che non era Ora a doversi arrendere a me, ma io a lei. Solo dopo aver superato questi meccanismi di difesa ed essermi completamente esposto ho capito che cosa Ora rappresentava per me e per il romanzo.
Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere
In questo caso non si è trattato solo di costruire un personaggio femminile, ma di mettere in scena una relazione molto problematica tra tre donne forti e complesse. Nel libro c’è un forte conflitto tra di loro, si vede come sono vicine e poi si allontanano. Ma, se ci pensiamo, solo nelle famiglie troviamo questo dramma dell’essere vicini e dell’allontanarsi. È come una danza la cui intensità si sviluppa dentro ogni famiglia ed è determinata dagli eventi più o meno difficili che vi avvengono. Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere.
Perche il narratore è Ghili, la donna più giovane delle tre? Io volevo che fosse una delle tre donne a essere il narratore del romanzo, ma non poteva essere Vera troppo suscettibile di essere caricaturizzata per il forte accento della sua lingua croata d’origine. Nina, poi, è così lontana dagli altri, chiusa in sé stessa, non poteva essere la storyteller. Ghili m’ispirava un’aria di maggiore leggerezza, non era vittima dello scontro tremendo tra madre e figlia. E poi è ironica e mi permetteva di usare un ebraico più moderno.
C’è un unico protagonista maschio, Rafael, non certamente il punto forte del quadrilatero. Rafael è dipendente dalle tre donne, ma serve a rendere stabile il rapporto tra di loro: è figlio di Vera anche se non biologico, è marito di Nina anche se non vivono insieme ed è un buon padre di Ghila. Rafel è apparentemente un carattere debole, è diventato un semplice assistente sociale e non un regista cinematografico come anelava a essere, ma è il luogo in cui le tre donne possono riposare prima di ripartire per le loro battaglie.
La conclusione del suo libro apre uno spiraglio alla speranza: possiamo davvero perdonare chi ci ha fatto del male? Non so se è sempre possibile. Ma, se guardo indietro alla mia vita, devo riconoscere che sono stato condizionato dal voler tenere vivo il fuoco della vendetta, ed è come se una parte di me fosse rimasta sospesa. La sensazione che provo oggi è che forse non riesco a perdonare, ma ho preso una distanza da questo dolore. Non voglio più dipendere da esso.
La scrittura aiuta in questo? L’arte, e quindi anche la scrittura, è sentirsi simultaneamente parte sia del nulla, di tutto quello che non conosciamo, il vuoto e il baratro che attende ciascuno di noi rappresentato dalla morte, e, al tempo, stesso della vita nella sua pienezza. Io, che non sono credente in senso religioso, nell’arte credo fortemente.
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A partire dalla mezzanotte del 12 gennaio, il conflitto si ferma. Ma entrambi promettono una dura reazione contro chi dovesse rompere la tregua.
Il cessate il fuoco in Libia è in vigore dalla mezzanotte del 12 gennaio. Il capo del Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna), Fayez al Serraj, ha infatti accettato la tregua proposta da Turchia e Russia dopo che alla stessa avevano aderito anche le forze del generale dell’Est, Khalifa Haftar. In un comunicato pubblicato nella notte sulla pagina media del Gna, il premier libico Sarraj, oltre a confermare l’adesione al cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte e a promettere di difendersi in caso di sua violazione, invita le parti a una trattativa sotto l’egida dell’Onu su come pervenire a una tregua duratura e a lavorare con tutti i libici per una conferenza nazionale in vista della Conferenza di Berlino per giungere alla pace.
IL MESSAGGIO DI HAFTAR
Poche ore prima, Ahmed Al Mismari, portavoce dell’ Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, aveva annunciato in un video il cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte. Una dura rappresaglia, ha affermato, verrà attuata contro chi non lo rispetterà. «Le forze di Haftar hanno accettato il cessate il fuoco: è il primo passo per perseguire una soluzione politica. Ancora tanta strada da percorrere, ma la direzione è quella giusta», aveva scritto su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che proprio nella giornata di sabato 11 gennaio era impegnato a Roma ad accogliere Sarraj, mentre a Mosca, nelle stesse ore, si incontravano la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente russo Vladimir Putin.
CONTE OSPITA SARRAJ
L’Italia ha avuto il suo bel da fare per rimediare al pasticcio diplomatico della visita a Roma di Haftar. Alla fine il premier libico Fayez al Sarraj ha deciso di accettare l’invito di Conte. «Ho rappresentato con forza ad Haftar» la posizione dell’Italia, ha dovuto chiarire Conte, «che lavora per la pace» e gli ho espresso «tutta la mia costernazione per l’attacco all’accademia militare di Tripoli». Anche Putin ha mandato un messaggio al generale che sostiene, dopo aver incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel. «Conto molto che a mezzanotte, come abbiamo esortato con Erdogan, le parti in contrasto cesseranno il fuoco e smetteranno le ostilità: poi vorremmo tenere con loro ulteriori consultazioni». Messaggio che alla fine è stato recepito.
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Il candidato democratico Michael Bloomberg deciso a innaffiare la campagna col suo denaro. Anche se dovesse uscire sconfitto dalle primarie. Finanzierebbe Sanders o Warren. Pur di sconfiggere il presidente.
Pronto a tutto pur di liberare gli Stati Uniti da Donald Trump. La corsa alla Casa Bianca è destinata a diventare una guerra tra miliardari, a prescindere da chi tra i democratici otterrà la nomination per le presidenziali. L’ex sindaco di New YorkMichael Bloomberg non ha infatti escluso di spendere un miliardo di dollari della sua fortuna anche se non dovesse essere lui a spuntarla nelle primarie dem. E ha assicurato che mobiliterà la sua ben finanziata campagna per aiutare anche i senatori Bernie Sanders o Elizabeth Warren a battere Donald Trump, nonostante le forti differenza politiche che li separano. Il nemico comune, quindi, finirebbe per appianare i dissidi interni e anche una sconfitta personale non fermerebbe la battaglia elettorale di Bloomberg. Lo ha scritto il New York Times citando lo stesso imprenditore.
UNA FORTUNA DI OLTRE 50 MILIARDI
«Dipende se il candidato ha bisogno di aiuto: se sta facendo molto bene necessiterà di meno aiuto, altrimenti ne avrà più bisogno», ha detto Bloomberg durante una tappa della sua campagna in Texas. Chi conquisterà la nomination, quindi, potrà contare non solo sul suo appoggio finanziario ma anche sulla sua ramificata rete organizzativa. L’ex sindaco di New York, che conta su una fortuna di oltre 50 miliardi di dollari, ha già speso più di 200 milioni in spot pubblicitari, con un ritmo che entro marzo sarà uguale alla somma investita da Barack Obama nel corso dell’intera campagna del 2012. Un enorme investimento pur di sfrattare dalla Casa Bianca un inquilino scomodo e inviso a buona parte della popolazione.
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La scelta fatta dagli elettori laburisti rappresenta una voglia di continuità rispetto a Muscat, dimessosi per il caso Caruana.
Dopo la crisi di governo legata al caso Caruana e le dimissioni di Joseph Muscat, Malta ha un nuovo premier. Si tratta di Robert Abela, avvocato 42enne, eletto leader del Partito laburista maltese, diventando automaticamente anche primo ministro dopo le dimissioni di Muscat, accusato di interferenze nelle indagini sull’omicidio della giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia.
UNA SCELTA DI CONTINUITÀ
Figlio dell’ex presidente George e visto come outsider incarnazione della continuità col suo predecessore, Abela è stato scelto dalla maggioranza dei 17.500 elettori laburisti – che hanno votato per la prima volta direttamente il loro leader – per la sua promessa di continuare «con le ricette vincenti» di Muscat. È stato preferito al chirurgo 52enne Chris Fearne, vicepremier uscente.
IN PARLAMENTO DAL 2017
Abela, attivista di lunga data del Partito laburista, è diventato membro del parlamento maltese solo durante le ultime elezioni legislative del 2017, convocate in anticipo da Muscat e vinte a mani basse dal suo partito nonostante un’ondata di scandali che hanno scosso il suo entourage. Abela subentra per soli due anni e mezzo in carica, fino al settembre 2022.
FENECH INCRIMINATO
Il caso Caruana ha travolto il governo, portando all’arresto di Keith Schembri, capo di gabinetto di Muscat, scarcerato poi una volta completati gli interrogatori nei suoi confronti. Per l’omicidio della giornalista è stato invece ufficialmente incriminato Yorgen Fenech, l’imperatore dei casinò, accusato di legami con le mafie italiane e vicino ad ambienti di governo. L’uomo è accusato di essere il mandante dell’autobomba che tolse la vita a Daphne Caruana Galizia.
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Nel 2020 arriva un’ondata di puritanesimo ambientale: viaggiate meno, solo se necessario. Da Greta in giù, i Paesi scandinavi sono pronti a sensibilizzarci. E giudicarci. Così sentiremo molto parlare delle “impronte” che ognuno di noi lascia sulla Terra.
Anno nuovo, nuova vergogna. Credevate che quattro foto di modelle plus size avessero cancellato il body shaming, vergogna del 2019, e che per questo non ne sentiate più parlare? Macché, il bullismo contro l’estetica e il peso ponderale dei nostri simili è solo passato di moda; un argomento noioso, e se nella vostra taglia 50 non vi sentite a vostro agio sono affari vostri. Nel 2020 il comportamento scorrettissimo da non tenere, quello per il quale tutti verremo guardati male e compatiti, è il volo aereo. Il flight shaming.
SIETE DEGLI ORRENDI INQUINATORI
Siete fra quelli che 20 anni fa hanno benedetto l’avvento dei voli low cost e vi sottoponete al rito del solo-bagaglio-a-mano e ginocchia-in-bocca-causa-mancanza-di-spazio pur di trascorrere almeno due weekend al mese in una capitale europea a 40 euro? Siete degli orrendi inquinatori, esattamente come gli acquirenti compulsivi di moda low cost, il famoso fast fashion che non sa più come uscire dall’aura negativa che ormai lo circonda, schiacciato dallo stesso modello di business che l’ha lanciato. Comprate meno, comprate meglio; viaggiate meno, viaggiate solo se necessario.
RECUPERA CONSENSO IL TRASPORTO SU ROTAIA
Verrete giustificati, parzialmente, solo se salirete su un aereo per lavoro e sarete in grado di dimostrarlo: in caso contrario, tenetevi pronti ad acquistare ricchi carnet ferroviari e a esibirli non solo al controllore. Se muoversi e viaggiare è necessario, il trasporto su rotaia, il meno inquinante ancorché in Val di Susa la pensino diversamente, sta infatti recuperando quota e consensi ovunque. Di sicuro, le istituzioni nazionali non hanno pensato a questo specifico punto quando hanno ipotizzato l’acquisizione di Alitalia da parte di Ferrovie, ma dovrebbero farlo: il capitale di immagine delle seconde è destinato ad aumentare vertiginosamente, mentre quello delle compagnie aeree a declinare, anno dopo anno.
DISAPPROVAZIONE ANCHE DA PARTE DEGLI AMICI
«Nei prossimi 10 anni viaggeremo di meno», ha dichiarato al Guardian la più famosa delle analiste predittive, Li Edelkoort, segnalando che nei Paesi scandinavi, molti fra i ricchissimi hanno venduto le proprie case Oltreoceano, nei Caraibi e nelle Bahamas, perché non riuscivano a sostenere la disapprovazione dei propri amici. Sul New Yorker, una delle eredi dell’impero Disney ha raccontato di aver smesso di volare sul Boeing 737 Max di famiglia (sic) perché, mentre si allacciava la cintura «attorno al letto queen size» per un volo Los Angeles–New York in cui viaggiava da sola, si era resa conto del footprint che stava lasciando e non è riuscita a chiudere occhio.
E VOI CHE IMPRONTA LASCIATE SULLA TERRA?
Il tema di cui sentirete parlare ad libitum quest’anno è proprio il footprint, cioè l’impronta che lasciamo sulla Terra con le nostre attività ma, in realtà, anche con la nostra stessa esistenza: per produrre emissioni nocive al Pianeta non abbiamo nemmeno bisogno di salire sull’auto, come sanno tante aziende di moda che hanno preso l’abitudine di piantare un albero per ogni invitato a un qualsiasi evento che abbia comportato spostamenti ed emissioni di gas. In realtà, ci basta respirare. Tutti siamo emettitori costanti di emissioni nocive, produciamo il nostro personale Co2 (tante mogli direbbero che i loro mariti producono un Co2 speciale, particolarmente tossico, ogni sera sotto le coperte, ma lasciamo stare).
NUOVA TENDENZA DI ORIGINE SCANDINAVA
Dunque, in questa nuova ondata di puritanesimo ambientale che, per ragioni soprattutto storiche e filosofiche è guidato dai Paesi scandinavi e di cui Greta Thunberg è l’esponente più famoso, ma non certo l’unico, la bicicletta, il trasporto pubblico (purché funzionante, Roma al momento può dirsi ancora esentata), il car sharing e il turismo modello “mogli-e-buoi-dei-paesi-tuoi” saranno la grande tendenza degli anni a venire. Quando penso che, un paio di anni fa, dissi allo studente finlandese che si lamentava dello smog e della confusione di Roma senza riuscire ad apprezzarne la straordinaria ricchezza artistica di tornarsene pure nelle foreste di abeti di cui tanto sentiva la mancanza, non avevo capito di avere di fronte il nuovo Savonarola.
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I segnali positivi non mancano. E il 2020 può portare a un riavvicinamento. Ma la pacificazione resta lontana. Dalla questione del gas allo scambio di prigionieri: perché non bisogna essere (troppo) ottimisti.
Il 2019 si è concluso tra Russia e Ucraina con alcuni segnali positivi, che pur non riavvicinando i due paesi – in rotta di collisione dopo il regime change a Kiev, l’annessione della Crimea e l’avvio della guerra nel Donbass – hanno evitato di allargare il fossato in un momento in cui si poteva aprire una voragine e inghiottire ogni speranza di riposizione di un duello che caratterizzerà non solo l’anno appena iniziato, ma l’intero decennio.
IL CONTRATTO SUL GAS NON RISOLVE TUTTI I PROBLEMI
In primo luogo la questione del gas: dal primo gennaio è in vigore il nuovo contratto tra Mosca e Kiev, firmato in zona Cesarini, che evita un’ennesima guerra energetica e le prevedibili conseguenze per mezza Europa. In sostanza però è stata messa solo una pezza temporanea, valida per i prossimi cinque anni, e al di là dei dettagli (ripianamento dei debiti di Gazprom, riduzione del transito e ridefinzione delle tariffe) è evidente che si tratta solamente di una tregua che non appiana certo le contraddizioni di fondo. In attesa di vedere come andrà a finire il caso Nordstream 2, il progetto russo-tedesco per aggirare Europa centrale e Ucraina, che a causa delle sanzioni americane è bloccato. La partenza sarà ritardata, ma da quando potrà funzionare a pieno regime è ancora un’incognita.
IL DONBASS E LE RESISTENZE DEI FALCHI
In secondo luogo la questione del Donbass: a fine anno si è svolto lo scambio di prigionieri, concordato il 9 dicembre nel vertice di Parigi, in cui si sono incontrati per la prima volta faccia a faccia il presidente ucraino Volodymir Zelensky e quello russo Vladimir Putin. Non è stato semplice, viste soprattutto le resistenze dei falchi ucraini – l’ala radicale nazionalista composta in parlamento dal partito dall’ex presidente Petro Poroshenko e fuori dal variegato spettro della destra radicale e paramilitare – nel rilasciare alcuni membri delle forze speciali Berkut in carcere con l’accusa di aver partecipato al massacro di Maidan nel febbraio del 2014. Se alla fine l’ha spuntata la diplomazia e la volontà di dare uno slancio al processo di pace da troppo tempo in stallo, in realtà c’è poco da sorridere. Già negli accordi di Minsk firmati nel 2015 era in programma lo scambio totale di prigionieri: è arrivato con quasi cinque anni di ritardo e non si sa nemmeno se sia stato davvero completo. Fonti ucraine hanno parlato ancora di decine se non centinaia di persone rinchiuse nelle carceri delle repubbliche ribelli di Donetsk e Lugansk.
Il nodo principale rimane quello del voto nel Donbass, con tempistica e modalità che non solo non sono state chiarite, ma che guardando le differenti posizioni di Russia e Ucraina, rimangono un’utopia
Nel summit di Parigi è stata inoltre accennata una road map per intensificare nei prossimi mesi il processo di pacificazione, dalla demilitarizzazione della linea di contatto fino alle elezioni locali nel Donbass. Anche in questo caso non si tratta altro che di indicazioni riprese dagli accordi di Mnsk che sino ad oggi nessuno, da Mosca a Kiev passando per i leader separatisti che sottostanno in parte agli ordini di Putin e in parte giocano la loro partita, ha voluto veramente rispettare. Ad aprile è previsto un nuovo incontro in formato normanno (Putin, Zelensky e i due arbitri Angela Merkel ed Emmanuel Macron), ma le speranze che qualcosa cambi davvero sono al minimo. Il nodo principale rimane quello del voto nel Donbass, con tempistica e modalità che non solo non sono state chiarite, ma che guardando le differenti posizioni di Russia e Ucraina, rimangono un’utopia. Se a questo si aggiunge il fatto che il cessate il fuoco è tutt’altro che duraturo e il conflitto continua sottotraccia, con il numero dei morti che ha già oltrepassato le 13 mila unità, non è difficile intuire che l’ottimismo è fuori luogo.
A DETTARE LE REGOLE RIMANE IL CREMLINO
È vero comunque che qualcosa si è mosso, soprattutto sul versante ucraino, dopo l’elezione alla Bankova di Zelensky. Il nuovo presidente, sebbene continui sostanzialmente il corso del suo predecessore Poroshenko, ha aperto un minimo dialogo con Putin che si è mostrato più disposto all’ascolto. Zelensky è stato eletto a furor di popolo con la promessa di mettere la parola fine alla guerra ed è disposto a più compromessi rispetto a Poroshenko. A dettare le regole rimane comunque il Cremlino: la soluzione definitiva per il Donbass rimane lontana e i rapporti tra le due ex repubbliche sovietiche non potranno certo più tornare quelli di prima. Kiev ha scelto di stare sotto l’ombrello occidentale, con gli Stati Uniti a fare da guardaspalla, e Mosca farà sempre fatica ad accettarlo, tentando in ogni modo di condizionare il vicino, con cui i rapporti rimangono, anche solo per ragioni geografiche. L’Ucraina resta spaccata, tra il centro e le regioni dell’Ovest che tendono verso l’Europa e quelle orientali verso la Russia. Se alla guerra non verrà davvero posta la parola fine, il rischio è che il paese si possa ancora lacerare.
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