È tutto sulle spalle del Pd. Zingaretti ora dica basta

Il segretario non deve confondere la tradizione di responsabilità del partito con la vocazione al sacrificio. Morire per Crimi o perdere la fiducia degli italiani a causa delle incursioni di Salvini non vale la pena. È il momento di dettare all’alleato M5s le condizioni per proseguire. Altrimenti un bel vaffa si vada al voto.

La cronaca politica quotidiana e soprattutto la sua lettura nel tempo ci dicono che c’è una minoranza politica, un partito di governo e il suo mondo elettorale e no, che portano sulle palle un intero Paese e fanno da sponda a quella parte di Italia che non vuole morire.

La cronaca politica quotidiana e soprattutto la sua lettura nel tempo ci dicono che c’è una minoranza politica, un partito di governo e il suo mondo elettorale e no, che portano sulle palle un intero Paese e fanno da sponda a quella parte di Italia che non vuole morire. Questa parte politica e questo suo elettorato non sono premiati dai sondaggi che, invece, indicano come vi sia una maggioranza favore di chi con la crisi sta giocando e mettendo a rischio la comunità nazionale.

Il partito è il Pd che deve fronteggiare quotidianamente un premier vanesio e scattante su qualsiasi nomina pubblica e un alleato di governo cialtronesco che si muove come una variabile impazzita su tutto lo scacchiere politico-sociale.

ANDREBBE APPLICATA LA “DIPLOMAZIA DEL VAFFA”

Non si capisce perché questo partito responsabile e il suo elettorato debbano farsi carico di una componente così irresponsabile. D’altro canto all’opposizione ci sono due forze di cui una torna a vivere le suggestioni di uno scontro frontale in una guerra senza limiti agli avversari politici, alle istituzioni, alla convivenza civile e un’altra attratta dalle proprie urla nel timore di perdere quel vantaggio che i sondaggi le stanno dando. La domanda è semplice. Fino a che punto è utile che il Pd e la sua gente si facciano carico di questa situazione? Non è arrivato il momento di applicare quella aurea “diplomazia del vaffa”, chiudere baracca e burattini, e fare al Paese un discorso di verità?

LA LEGA E IL DISASTRO LOMBARDO

Il discorso di verità non è lungo, anzi lo è ma è sintetizzabile con esempi lampanti. C’è un partito di opposizione che ha sottratto soldi allo Stato ma che pretende di fare il giustiziere di sprechi altri. Questo partito aveva una classe dirigente periferica fra buona e eccellente. Il giudizio non è cambiato solo se sottraiamo dal calcolo i governanti della principale regione d’Italia, la Lombardia. I dati del Covid-19 ci dicono che il caso italiano non sarebbe così clamoroso se la Lombardia fosse stata guidata da persone serie e non da due incapaci.

IL M5S BLOCCA OGNI INIZIATIVA PER SALVARE IL PAESE

C’è dall’altro canto un inutile partito di governo che ha un leader provvisorio che è più ridicolo di chi l’ha preceduto e che blocca ogni iniziativa tesa a salvare il Paese. La sanatoria per i migranti impegnati in agricoltura, prima di essere un atto di giustizia, è una necessità per l’impresa agricola. La discussione sul Mes è diventata infantile e cialtronesca. La corsa alla prima scena, da parte di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio all’arrivo di Silvia Aisha è stata indecente. Si può continuare e si vedrà che si inanellano episodi di malgoverno, di approssimazione, di cialtroneria dilagante che giustificano una scelta di rottura da parte del Pd o almeno un suo discorso solenne al Paese in cui si denunciano questi avversari e questi alleati e si indicano le condizioni tassative per proseguire. Altrimenti si vada verso il governo del presidente e poi verso il voto.

IL SENSO DI RESPONSABILITÀ NON È VOCAZIONE AL SACRIFICIO

L’esasperazione che corre veloce nelle vene del Paese rischia di essere canalizzata contro chi sta tenendo in piedi la baracca. Il livello morale e di responsabilità delle forze indicate sta tutto negli editoriali di Vittorio Feltri e dei suoi seguaci giornalisti, una versione italiana della setta del reverendo Moon con annesso istinto suicida collettivo. Rischia di arrivare un momento in cui la fragile barriera costituita da un partito debole ma di volenterosi come il Pd crollerà su se stessa. Nicola Zingaretti è stato bravo finora, al netto delle sue titubanze e malgrado la malattia che lo ha per un certo periodo fermato. Tuttavia il leader del Pd non può scambiare la tradizione di responsabilità che “viene da lontano” nella vocazione al sacrificio. Morire per Vito Crimi? Consegnarsi alle contumelie dell’ex compagno di Daniela Santanchè? Perdere la fiducia degli italiani per le incursioni di un ex giovane politicante con il vizio del moijto? Ma dai.

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Anche la storia della liberazione di Silvia si presenta con una discussione demenziale. La domanda vera è se questa liberazione poteva essere ottenuta quando vicepremier era il noto “cazzaro verde” risparmiando sofferenze alla ragazza e se non sono venuti dal leghista input a non darsi troppo da fare per portare la ragazza qui da noi. Troppi moralisti non dicono la verità agli italiani. Io non voglio salire in cattedra, collocazione che non mi appartiene. Vorrei semplicemente suggerire a Zingaretti and company di mettere l’orologio su un giorno e un’ora precisa e arrivato quel momento scatenare l’inferno.

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Zingaretti vuole sciogliere il Pd dopo le elezioni regionali

Il segretario in un colloquio con Repubblica: «Vinciamo in Emilia e poi cambia tutto. Apro a Sardine, società civile, ecologisti». Non un «nuovo partito», ma un «partito nuovo».

Sciogliere il Pd. Non per fondare «un nuovo partito», ma per creare «un partito nuovo». Aperto alle Sardine, agli ecologisti e alla società civile. In un lungo colloquio con il quotidiano la Repubblica, il segretario Nicola Zingaretti ha rotto gli indugi esplicitando la sua strategia, da mettere in atto subito dopo le elezioni regionali del 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria.

«Vinciamo in Emilia», dove «stiamo facendo la campagna elettorale per Stefano Bonaccini in splendida solitudine», ovvero senza l’appoggio di Italia viva e Movimento 5 stelle. E poi «cambio tutto», promette Zingaretti. Secondo il quale «in questi mesi la domanda di politica è cresciuta, non diminuita. E noi dobbiamo aprirci e cambiare per raccoglierla». Con una sottile distinzione: «Non penso a un nuovo partito, ma a un partito nuovo. Un partito che fa contare le persone ed è organizzato in ogni angolo del Paese».

Certo, bisogna sciogliere il nodo della legge elettorale. Il percorso è appena iniziato, ma il Germanicum va in direzione di un proporzionale puro con sbarramento al 5%. E per Zingaretti «ci indica una sfida». Occorre «costruire il soggetto politico dell’alternativa, convocando un congresso con una proposta politica e organizzativa di radicale innovazione e apertura. Dobbiamo rivolgerci però alle persone, non alla politica organizzata». Tradotto: «Dobbiamo aprirci alla società e ai movimenti che stanno riempiendo le piazze in queste settimane. Non voglio lanciare un’Opa sulle Sardine, rispetto la loro autonomia. Ma voglio offrire un approdo a chi non ce l’ha».

NO ALLA «CULTURA DELLE BANDIERINE» NEL GOVERNO

Parlando del governo, il segretario dem puntualizza: «È inutile che ci giriamo intorno, non possiamo fare melina fino al 26 gennaio, non possiamo fare ogni giorno l’elenco delle cose sulle quali non c’è accordo nella maggioranza. Purtroppo questo è il risultato della cultura delle bandierine, in cui ci si illude di esistere solo se si difende una cosa. Lo dico ogni giorno a Giuseppe Conte e a Luigi Di Maio: un’alleanza è come un’orchestra, il giudizio si dà sull’esecuzione dell’opera, non sulla fuga di un solista che casomai dà pure fastidio alle orecchie». La linea unitaria «sta pagando, come dimostrano i sondaggi. E casomai apre contraddizioni in chi non vuole scegliere. L’Italia sta gradualmente tornando a uno schema bipolare».

RESISTERE ALLE DESTRE

Per Zingaretti, quindi, «non è il tempo di distruggere, ma di costruire subito una visione e poi un’azione comune, su pochi capitoli chiari: come creare lavoro, cosa significa green new deal, come si rilancia la conoscenza, come si ricostruiscono politiche industriali credibili nell’era digitale». E «questo salto di qualità lo può fare solo il nostro partito», che «ha retto l’urto di due scissioni e oggi i sondaggi ci danno al 20%. Siamo l’unico partito nazionale dell’alleanza, l’unico che si presenta ovunque alle elezioni, l’unico sul quale si può cementare il pilastro della resistenza alle destre».

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Liberi, Uguali ma un po’ incazzati

Germanicum. Jobs Act. Articolo 18. Dossier Alitalia e Autostrade. Tutti i mal di pancia della sinistra, socia di minoranza del governo giallorosso.

All’improvviso, l’emergenza più impellente da risolvere in casa giallorossa nei primi giorni del 2020 è diventata trovare una nuova legge elettorale per pensionare il Rosatellum, la norma vigente che ha avuto la sua epifania alle Politiche del 2018 mentre ora viene disconosciuta da tutti, a iniziare dal Pd.

Al fotofinish il Partito democratico e il Movimento 5 stelle sono riusciti a presentare il testo alla Camera prima che la Corte Costituzionale si pronunci sull’ammissibilità del referendum leghista con l’obiettivo di disinnescare una potenzialmente insidiosa consultazione popolare finalizzata a ripristinare il maggioritario.

La bozza, però, non piace a tutti gli alleati: a puntare i piedi è Liberi e uguali, l’alleato finora più fedele e oscurato dalle continue rivendicazioni di Italia viva. Qualcosa, invece, si muove anche alla sinistra del Pd e la legge elettorale potrebbe non essere l’unico fronte che potrebbe aprirsi nel corso dell’anno.

I DUBBI SULLA LEGGE ELETTORALE

La deadline è appunto il 15 gennaio, termine entro cui è prevista la pronuncia della Consulta. Da qui la necessità di anteporre il tema su tutti gli altri che affollano l’agenda di una maggioranza ancora in cerca d’autore. L’anno è iniziato da sole 96 ore e già Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati a Palazzo Chigi proprio per discutere della riforma, già ribattezzata Germanicum. Un vertice di appena 45 minuti senza renziani e senza Leu, utile a comunicare che tra i due principali azionisti del Conte bis c’è la comune volontà di disegnare assieme le future regole del gioco. Regole che rischiano di escludere però Liberi e uguali, che da mesi ribadisce la propria predilezione per un impianto spagnolo (inviso però a Italia viva) e, soprattutto, teme le conseguenze dello sbarramento al 5%.

LEGGI ANCHE: Prescrizione e non solo, il gennaio a ostacoli di Conte

Un timore che lo ha portato ad addurre motivazioni peculiari. La senatrice di Leu Loredana De Petris qualche tempo fa aveva dichiarato: «L’ultima volta, con la soglia al 3%, siamo passati solo noi. Alzandola al 5, in quanti entrerebbero in parlamento? Cinque? Anche Forza Italia sarebbe a rischio…».

LAVORO: RIPRISTINO DELL’ART. 18 E SUPERAMENTO DEL JOBS ACT

Potrebbe essere stata proprio la decisione del Pd di sacrificare Leu sull’altare della speditezza dei lavori a spingere il ministro della Salute Roberto Speranza a riaprire l’annosa questione della regolamentazione del diritto del lavoro. «Al tavolo della verifica dovremo trovare il coraggio di correggere radicalmente gli errori commessi sul mercato del lavoro», ha dichiarato al Corsera.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro della Salute Roberto Speranza.

L’accondiscendenza dimostrata finora da Leu non paga e Speranza lo dice a chiare lettere: «Renzi chiede di rivedere reddito e Quota 100 e i 5 stelle non sono contenti. Io chiedo di rivedere il Jobs act. Non siamo un governo monocolore». E sono proprio i renziani, artefici della riforma, i più risentiti, come dimostra l’avvertimento arrivato, sempre dalle colonne del Corriere della Sera, dalla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova: «La priorità è far ripartire il lavoro e l’economia, non gingillarsi con il Jobs Act che il lavoro lo ha creato. Non servono slogan, servono soluzioni».

MES, L’OLTRANZISMO SOVRANISTA DI FASSINA

C’è poi un altro tema che potrebbe tornare a tenere banco nelle prossime settimane, quando si acuirà lo scontro in vista delle Regionali emiliano-romagnole e calabresi: la nostra eventuale adesione al Meccanismo europeo di stabilità (Mes).  A dicembre la maggioranza aveva solo rinviato all’anno nuovo la decisione se continuare a fare parte o uscire dal Fondo salva-Stati. Decisione che adesso dovrà essere presa: il 20 gennaio prossimo, infatti, dovrebbe tenersi l’Eurogruppo per procedere con la ratifica dei Paesi interessati e non sembrano esserci spazi né per un ulteriore rinvio né per eventuali correzioni. Il presidente dell’organismo, l’economista portoghese Mario Centeno, era stato chiaro: «La decisione era stata presa in giugno. Il testo non si tocca, non c’è motivo per farlo, c’è già l’accordo politico». La firma potrebbe esporre il governo alle facili bordate di Lega e Fratelli d’Italia. E se il M5s potrebbe ingoiare la pillola amara, non è del medesimo avviso Leu, almeno per voce di Stefano Fassina che, è noto, negli ultimi tempi ha lavorato sodo per dare una casa, Movimento patria e costituzione, ai sovranisti di sinistra (ammesso esistano).

Su Twitter l’ex viceministro all’Economia parla di «potenziali gravi conseguenze per i lavoratori» e sostiene che la riforma «renda il default e la ristrutturazione del debito non l’eccezione ma uno strumento ordinario», spronando il Pd a essere «meno subalterno all’Europa».

SU AUTOSTRADE E ALITALIA ASSE LEU E M5S

Ci sono poi altri due possibili punti di frizione tra i dem e Leu che rischiano di avvicinare gli esponenti di Liberi e uguali ai 5 stelle: il dibattito sulla possibile revoca delle concessioni ad Autostrade e quello sul futuro di Alitalia. Quanto al primo, benché lo stesso Giuseppe Conte sembri sposare la proposta del Pd e di Italia viva – una maximulta da fare pagare alla società del gruppo Atlantia controllata dalla famiglia Benetton -, Liberi e uguali non demorde. Sempre Fassina ha definito «immorali» le concessioni vigenti, in quanto «fatte scrivere a garanzia di enormi rendite». Quindi, via Twitter, ha definito la linea, mai così vicina a quella dei pentastellati più oltranzisti: «Avanti tutta con le revoche!».

Situazione simile su Alitalia dove, seppur in formula temporanea (ma in Italia, si sa, non c’è nulla di più permanente di ciò che nasce come provvisorio), Leu batte la strada della nazionalizzazione. Fassina, intervistato da Radio Radicale, ha chiesto di «chiudere l’amministrazione straordinaria e costituire una Newco in cui partecipi allo Stato per procedere entro 24 mesi alla scelta di un partner strategico», ritenendo il piano industriale del consorzio Ferrovie dello Stato, Atlantia e Delta «un “piano biennale di fallimento”, nonostante l’enorme numero di esuberi che prevedrebbe».

I TENTATIVI DI DIALOGO DEL PD

Insomma, le convergenze tra Leu e M5s potrebbero impensierire il Pd che, da parte sua, non ha mancato di fare arrivare segnali di disgelo che non si vedevano dai tempi della fuoriuscita di Bersani & Co dalla Ditta. Come per esempio la recente partecipazione di alcuni dem di spicco (su tutti Graziano Delrio e Andrea Orlando) a un seminario su Stato e mercato organizzato da Alfredo D’Attorre. L’intenzione sembra quella di evitare che Leu si avvicini troppo ai 5 stelle, ricordando all’alleato le origini comuni. E, soprattutto, ricordandogli che ormai Matteo Renzi è uscito dal Partito democratico.

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Bonaccini, solitario y final ma non triste

Ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità. Un esempio di leader che risolvei problemi, privo di rabbie personali e concreto, concretissimo. La sinistra lo prenda a modello.

Chissà che pensieri ha al mattino, appena sveglio, Stefano Bonaccini, candidato del Pd (ma non si può dire) per la guida dell’Emilia-Romagna.

Sulle sue spalle, che sembrano molto attrezzate, c’è il destino politico di un Paese, di un governo e di un paio di personaggi della politica che sono arrivati all’ultimo miglio.

Se Bonaccini perde, viene giù tutto. Cade il governo anche se non subito, i cinque stelle vanno per prati, il Pd o si rifonda o si rifonda. Se Bonaccini, invece, vince, Giuseppe Conte può pensare di avere vita più lunga, Luigi Di Maio respira, Nicola Zingaretti apparirà come il salvatore del Pd dopo gli anni di Matteo Renzi, ma soprattutto Matteo Salvini, assediato dalla coriacea Giorgia Meloni, si chiuderà in una birreria e da lì non uscirà più senza che alcuno vada a cercarlo.

LA BATTAGLIA DI BONACCINI CONTRO LA STRANA COPPIA

La battaglia di Bonaccini è stata seria. Non ha voluto compagnia, ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità di lavoro e soprattutto ha a che fare con un signore che parla all’Emilia-Romagna come se fosse una trincea di guerra e non una regione pacifica (forse non più pacificata, ma pacifica) e con una signora che visibilmente sa appena dire il proprio nome e cognome.

Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire

Se questa strana coppia vincerà bisognerà riflettere bene su quanti disastri anche emotivi ha combinato la sinistra in questi decenni. Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire. E allora muoia. Tuttavia non accadrà.

UN MODELLO DI LEADERSHIP DA IMITARE

Il prode Bonaccini al mattino si sveglia, secondo me, “senza pnzier”, tranne quello di quali cittadini incontrare e di cosa dire. Quello sbevazza e fa casino, quell’altra fa la bella donna in tivù, lui fa l’operaio della politica che monta i pezzi che si sono rotti, fa funzionare la casa, ti fa stare tranquillo. Può perdere? In fondo, lo dico prima di sapere come andrà a finire, il modello di leadership di Bonaccini, ma penso anche a Beppe Sala e a tanti altri – non a Michele Emiliano – dovrebbe essere il modello di sinistra vincente. Cioè leader, uomini o donne, che risolvono i problemi, che sono pieni di umanità, privi di rabbie personali, riconciliati con il mondo e concreti, concretissimi.

Da sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, assieme al sindaco di Milano Giuseppe Sala.

Caro Bonaccini, io tifo per Lei (un tempo ti avrei detto tifo per te, ma oggi vale il titolo della canzone di Richy Gianco: «Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo» e quindi ti do del Lei), mi faccia questa cortesia di non mollare in queste settimane, non legga i giornali, lasci stare Rete 4 diventata una specie di astanteria di esagitati, tranne Barbara Balombelli, e vada avanti. Quel voto in più che la farà restare alla guida della sua Regione è lì, veda di prenderlo.

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Bonaccini, solitario y final ma non triste

Ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità. Un esempio di leader che risolvei problemi, privo di rabbie personali e concreto, concretissimo. La sinistra lo prenda a modello.

Chissà che pensieri ha al mattino, appena sveglio, Stefano Bonaccini, candidato del Pd (ma non si può dire) per la guida dell’Emilia-Romagna.

Sulle sue spalle, che sembrano molto attrezzate, c’è il destino politico di un Paese, di un governo e di un paio di personaggi della politica che sono arrivati all’ultimo miglio.

Se Bonaccini perde, viene giù tutto. Cade il governo anche se non subito, i cinque stelle vanno per prati, il Pd o si rifonda o si rifonda. Se Bonaccini, invece, vince, Giuseppe Conte può pensare di avere vita più lunga, Luigi Di Maio respira, Nicola Zingaretti apparirà come il salvatore del Pd dopo gli anni di Matteo Renzi, ma soprattutto Matteo Salvini, assediato dalla coriacea Giorgia Meloni, si chiuderà in una birreria e da lì non uscirà più senza che alcuno vada a cercarlo.

LA BATTAGLIA DI BONACCINI CONTRO LA STRANA COPPIA

La battaglia di Bonaccini è stata seria. Non ha voluto compagnia, ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità di lavoro e soprattutto ha a che fare con un signore che parla all’Emilia-Romagna come se fosse una trincea di guerra e non una regione pacifica (forse non più pacificata, ma pacifica) e con una signora che visibilmente sa appena dire il proprio nome e cognome.

Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire

Se questa strana coppia vincerà bisognerà riflettere bene su quanti disastri anche emotivi ha combinato la sinistra in questi decenni. Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire. E allora muoia. Tuttavia non accadrà.

UN MODELLO DI LEADERSHIP DA IMITARE

Il prode Bonaccini al mattino si sveglia, secondo me, “senza pnzier”, tranne quello di quali cittadini incontrare e di cosa dire. Quello sbevazza e fa casino, quell’altra fa la bella donna in tivù, lui fa l’operaio della politica che monta i pezzi che si sono rotti, fa funzionare la casa, ti fa stare tranquillo. Può perdere? In fondo, lo dico prima di sapere come andrà a finire, il modello di leadership di Bonaccini, ma penso anche a Beppe Sala e a tanti altri – non a Michele Emiliano – dovrebbe essere il modello di sinistra vincente. Cioè leader, uomini o donne, che risolvono i problemi, che sono pieni di umanità, privi di rabbie personali, riconciliati con il mondo e concreti, concretissimi.

Da sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, assieme al sindaco di Milano Giuseppe Sala.

Caro Bonaccini, io tifo per Lei (un tempo ti avrei detto tifo per te, ma oggi vale il titolo della canzone di Richy Gianco: «Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo» e quindi ti do del Lei), mi faccia questa cortesia di non mollare in queste settimane, non legga i giornali, lasci stare Rete 4 diventata una specie di astanteria di esagitati, tranne Barbara Balombelli, e vada avanti. Quel voto in più che la farà restare alla guida della sua Regione è lì, veda di prenderlo.

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Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza

Il nodo prescrizione. Il voto sulla Gregoretti. Le Regionali. Ma anche la questione banche, i decreti Sicurezza (che una parte del Pd vuole cancellare) e il Reddito di cittadinanza, nel mirino di Renzi. I dossier che metteranno a dura prova la tenuta della maggioranza.

C’è Giuseppe Conte che guarda a «una maratona» fino al 2023 e c’è Nicola Zingaretti che con più cautela parla di agenda per il 2020, invocando «crescita e giustizia fiscale». In mezzo ci sono Luigi Di Maio e Matteo Renzi che giurano lealtà, ma devono districarsi tra reciproche diffidenze e problemi di varia natura. Ed è proprio il rapporto tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva ad aumentare i pericoli di una crisi, con Palazzo Chigi spettatore interessato delle scintille tra gli alleati-nemici. Il nuovo anno del governo non si annuncia affatto tranquillo. E più che un progetto annuale, se non addirittura triennale come vaticinato dal presidente del Consiglio, la realtà racconta di una navigazione sempre più a vista. 

Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato

Fonti di maggioranza

L’ottimismo professato da Conte non trova grandi riscontri nei fatti. «Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato», ammette un parlamentare della maggioranza. Fin dai prossimi primi giorni ci saranno degli ostacoli da saltare, aggirare. O, come è avvenuto nelle ultime settimane, da spostare qualche mese più in avanti, cercando di rinviare e temporeggiare. Dal voto su Matteo Salvini per il caso Gregoretti alle elezioni regionali, l’inizio del 2020 sarà ricco di insidie, con le varie forze di maggioranza che devono accorciare distanze siderali. Ma il principale problema resta la tenuta del Movimento 5 Stelle: non trascorre giorno senza le voci di possibili transfughi, in qualsiasi direzione. E principalmente verso la Lega.

I MALUMORI DI ITALIA VIVA SULLA PRESCRIZIONE

A parole nessuno vuole creare l’incidente sulla Giustizia, in particolare sulla cancellazione della prescrizione prevista dalla riforma del ministro Bonafede. Ma la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, così il Partito democratico ha piantato un paletto: senza un accordo di maggioranza, sarà portata in Aula una proposta di legge alternativa che non elimina la prescrizione, ma la regolamenta con una sospensione massima di tre anni e sei mesi. Come se non bastasse Italia Viva ha ribadito che è pronta anche a votare il testo di Forza Italia, presentato dal deputato Enrico Costa. Questa proposta punta a neutralizzare la norma voluta dal Guardasigilli. Una mossa che spalanca le porte a un’eventuale, ulteriore, spaccatura tra i cinque stelle. Una retromarcia sulla prescrizione, infatti, potrebbe essere la scusa buona per i malpancisti del Senato a lasciare il Movimento. Senza dimenticare il dossier sulla revoca della concessione ad Autostrade, che potrebbe provocare la stessa dinamica tra i dissidenti M5s. 

IL REFERENDUM CHE PUÒ AVVICINARE LE ELEZIONI

Pochi giorni e gli italiani sapranno se ci sarà un referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il 12 gennaio scade il termine per le firme sulla richiesta del referendum: al Senato il quorum è stato raggiunto, ma qualcuno potrebbe decidere di ritirare la firma, facendo saltare la consultazione (che si terrebbe in primavera). Il passaggio è molto delicato: intorno a questa decisione c’è un interesse di Palazzo, ossia la possibilità di far terminare anticipatamente la legislatura per tornare subito al voto ed eleggere, per l’ultima volta, 945 parlamentari invece di 600 come previsto dalla riforma approvata. A questo si aggiunge un’altra atavica questione: la legge elettorale, su cui la maggioranza fatica a trovare un’intesa. Ma c’è una certezza: nelle prossime settimane la Corte costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega; l’obiettivo è quello di introdurre un maggioritario puro, cancellando la quota proporzionale prevista dal Rosatellum.

IL VOTO SU SALVINI ALIMENTA LE TENSIONI

Il 20 gennaio ci sarà il voto su Salvini e la vicenda giudiziaria relativa alla nave Gregoretti: i magistrati chiedono di poter processare il leader della Lega. La vicenda accresce gli imbarazzi dei cinque stelle, che sul caso della Diciotti avevano respinto la richiesta della magistratura. Ma quella era l’epoca del Salvini alleato di Di Maio, ora la fase politica è diversa. E anche l’orientamento sembra cambiato. I leghisti scrutano perciò le intenzioni di Italia Viva, che non si è sbilanciata sulla decisione. L’aria che tira nei corridoi parlamentari è che il dialogo tra i “due Mattei”, Renzi e Salvini, potrebbe manifestarsi proprio il 20 gennaio. Facendo esplodere ulteriori tensioni. 

LE REGIONALI COME PUNTO DI SVOLTA

Le Regionali in Emilia-Romagna e Calabria, in calendario il 26 gennaio, hanno una valenza nazionale. Al di là delle smentite di rito, l’eventuale sconfitta di Stefano Bonaccini provocherebbe uno smottamento nel Pd, rischiando seriamente di trascinare con sé l’intero governo. Facile prevedere pure le accuse rivolte al Movimento che ha voluto presentare un proprio candidato. Nelle ultime settimane, il barometro segnala un moderato ottimismo: il centrosinistra è dato in vantaggio nei sondaggi sull’alleanza di centrodestra, guidata dalla leghista Lucia Borgonzoni. Ma c’è un altro tornante fondamentale nel voto per l’Emilia-Romagna. Un risultato molto deludente di Simone Benini, candidato del M5s, aprirebbe l’ennesimo fronte polemico interno nei confronti di Di Maio. Con la messa in discussione della sua leadership e l’aumento del malcontento tra i parlamentari pentastellati. Sull’esito del voto in Calabria, invece, l’attenzione è al momento minore.

EX ILVA, MA NON SOLO: LE VERTENZE CHE SCOTTANO

La «maratona» di tre anni annunciata da Conte parte quindi con un primo chilometro durissimo. Tutto in salita. Oltre al rapporto tra i partiti, sul tavolo ci sono questioni che tirano in ballo il destino di decine di migliaia di lavoratori. In questo caso spetterà al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, dirimere le problematiche più delicate. Il futuro dell’ex Ilva e di Alitalia è incerto: lo stabilimento di Taranto è al centro di una complicata trattativa con ArcelorMittal, mentre la compagnia aerea ha ricevuto l’ennesimo prestito-ponte. Ma all’orizzonte non si delinea una soluzione definitiva. Tra le vertenze ci sono anche quelle della Whirpool, dell’ex Embraco e della Bosch di Bari. Sempre nel capoluogo pugliese c’è un’altra criticità: la Popolare di Bari. Il salvataggio in extremis dell’istituto non ha risolto la questione. Anzi.

DALLE BANCHE A QUOTA 100: GLI ALTRI FRONTI DELICATI

La questione banche è pronta ad acuire le divisioni. I lavori della commissione di inchiesta dovranno comunque partire nel 2020: non è immaginabile un ulteriore slittamento. E le scintille tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva sono facilmente prevedibili. Un altro terreno di scontro è rappresentato dai decreti Sicurezza: una parte del Pd chiede la totale cancellazione dei provvedimenti voluti da Salvini nel corso della precedente esperienza di governo. Conte ha detto di voler conservare l’impianto normativo, prevedendo solo ritocchi. Zingaretti sarà costretto a battere i pugni sul tavolo e comunque dovrà accettare una mediazione, rischiando di alimentare le polemiche interne. Sempre tra i dem c’è la volontà di rilanciare la battaglia sullo Ius Culturae, sfidando il niet di Di Maio. Tra i tanti dossier aperti e quelli da aprire, si inserisce l’attivismo di Renzi, che ha bisogno di ritagliarsi uno spazio per aumentare i consensi della sua creatura politica. Italia Viva al momento non sfonda nei sondaggi. Così l’ex presidente del Consiglio, attraverso i suoi fedelissimi, ha già annunciato una campagna contro Reddito di cittadinanza e Quota 100, cavalli di battaglia del M5s. Una provocazione che non è passata inosservata. Insomma, all’ordine del giorno delle criticità del Conte 2 c’è un ricco capitolo di “varie ed eventuali”.

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Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza

Il nodo prescrizione. Il voto sulla Gregoretti. Le Regionali. Ma anche la questione banche, i decreti Sicurezza (che una parte del Pd vuole cancellare) e il Reddito di cittadinanza, nel mirino di Renzi. I dossier che metteranno a dura prova la tenuta della maggioranza.

C’è Giuseppe Conte che guarda a «una maratona» fino al 2023 e c’è Nicola Zingaretti che con più cautela parla di agenda per il 2020, invocando «crescita e giustizia fiscale». In mezzo ci sono Luigi Di Maio e Matteo Renzi che giurano lealtà, ma devono districarsi tra reciproche diffidenze e problemi di varia natura. Ed è proprio il rapporto tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva ad aumentare i pericoli di una crisi, con Palazzo Chigi spettatore interessato delle scintille tra gli alleati-nemici. Il nuovo anno del governo non si annuncia affatto tranquillo. E più che un progetto annuale, se non addirittura triennale come vaticinato dal presidente del Consiglio, la realtà racconta di una navigazione sempre più a vista. 

Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato

Fonti di maggioranza

L’ottimismo professato da Conte non trova grandi riscontri nei fatti. «Pensare a una scadenza a lungo tempo è complicato», ammette un parlamentare della maggioranza. Fin dai prossimi primi giorni ci saranno degli ostacoli da saltare, aggirare. O, come è avvenuto nelle ultime settimane, da spostare qualche mese più in avanti, cercando di rinviare e temporeggiare. Dal voto su Matteo Salvini per il caso Gregoretti alle elezioni regionali, l’inizio del 2020 sarà ricco di insidie, con le varie forze di maggioranza che devono accorciare distanze siderali. Ma il principale problema resta la tenuta del Movimento 5 Stelle: non trascorre giorno senza le voci di possibili transfughi, in qualsiasi direzione. E principalmente verso la Lega.

I MALUMORI DI ITALIA VIVA SULLA PRESCRIZIONE

A parole nessuno vuole creare l’incidente sulla Giustizia, in particolare sulla cancellazione della prescrizione prevista dalla riforma del ministro Bonafede. Ma la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, così il Partito democratico ha piantato un paletto: senza un accordo di maggioranza, sarà portata in Aula una proposta di legge alternativa che non elimina la prescrizione, ma la regolamenta con una sospensione massima di tre anni e sei mesi. Come se non bastasse Italia Viva ha ribadito che è pronta anche a votare il testo di Forza Italia, presentato dal deputato Enrico Costa. Questa proposta punta a neutralizzare la norma voluta dal Guardasigilli. Una mossa che spalanca le porte a un’eventuale, ulteriore, spaccatura tra i cinque stelle. Una retromarcia sulla prescrizione, infatti, potrebbe essere la scusa buona per i malpancisti del Senato a lasciare il Movimento. Senza dimenticare il dossier sulla revoca della concessione ad Autostrade, che potrebbe provocare la stessa dinamica tra i dissidenti M5s. 

IL REFERENDUM CHE PUÒ AVVICINARE LE ELEZIONI

Pochi giorni e gli italiani sapranno se ci sarà un referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il 12 gennaio scade il termine per le firme sulla richiesta del referendum: al Senato il quorum è stato raggiunto, ma qualcuno potrebbe decidere di ritirare la firma, facendo saltare la consultazione (che si terrebbe in primavera). Il passaggio è molto delicato: intorno a questa decisione c’è un interesse di Palazzo, ossia la possibilità di far terminare anticipatamente la legislatura per tornare subito al voto ed eleggere, per l’ultima volta, 945 parlamentari invece di 600 come previsto dalla riforma approvata. A questo si aggiunge un’altra atavica questione: la legge elettorale, su cui la maggioranza fatica a trovare un’intesa. Ma c’è una certezza: nelle prossime settimane la Corte costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega; l’obiettivo è quello di introdurre un maggioritario puro, cancellando la quota proporzionale prevista dal Rosatellum.

IL VOTO SU SALVINI ALIMENTA LE TENSIONI

Il 20 gennaio ci sarà il voto su Salvini e la vicenda giudiziaria relativa alla nave Gregoretti: i magistrati chiedono di poter processare il leader della Lega. La vicenda accresce gli imbarazzi dei cinque stelle, che sul caso della Diciotti avevano respinto la richiesta della magistratura. Ma quella era l’epoca del Salvini alleato di Di Maio, ora la fase politica è diversa. E anche l’orientamento sembra cambiato. I leghisti scrutano perciò le intenzioni di Italia Viva, che non si è sbilanciata sulla decisione. L’aria che tira nei corridoi parlamentari è che il dialogo tra i “due Mattei”, Renzi e Salvini, potrebbe manifestarsi proprio il 20 gennaio. Facendo esplodere ulteriori tensioni. 

LE REGIONALI COME PUNTO DI SVOLTA

Le Regionali in Emilia-Romagna e Calabria, in calendario il 26 gennaio, hanno una valenza nazionale. Al di là delle smentite di rito, l’eventuale sconfitta di Stefano Bonaccini provocherebbe uno smottamento nel Pd, rischiando seriamente di trascinare con sé l’intero governo. Facile prevedere pure le accuse rivolte al Movimento che ha voluto presentare un proprio candidato. Nelle ultime settimane, il barometro segnala un moderato ottimismo: il centrosinistra è dato in vantaggio nei sondaggi sull’alleanza di centrodestra, guidata dalla leghista Lucia Borgonzoni. Ma c’è un altro tornante fondamentale nel voto per l’Emilia-Romagna. Un risultato molto deludente di Simone Benini, candidato del M5s, aprirebbe l’ennesimo fronte polemico interno nei confronti di Di Maio. Con la messa in discussione della sua leadership e l’aumento del malcontento tra i parlamentari pentastellati. Sull’esito del voto in Calabria, invece, l’attenzione è al momento minore.

EX ILVA, MA NON SOLO: LE VERTENZE CHE SCOTTANO

La «maratona» di tre anni annunciata da Conte parte quindi con un primo chilometro durissimo. Tutto in salita. Oltre al rapporto tra i partiti, sul tavolo ci sono questioni che tirano in ballo il destino di decine di migliaia di lavoratori. In questo caso spetterà al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, dirimere le problematiche più delicate. Il futuro dell’ex Ilva e di Alitalia è incerto: lo stabilimento di Taranto è al centro di una complicata trattativa con ArcelorMittal, mentre la compagnia aerea ha ricevuto l’ennesimo prestito-ponte. Ma all’orizzonte non si delinea una soluzione definitiva. Tra le vertenze ci sono anche quelle della Whirpool, dell’ex Embraco e della Bosch di Bari. Sempre nel capoluogo pugliese c’è un’altra criticità: la Popolare di Bari. Il salvataggio in extremis dell’istituto non ha risolto la questione. Anzi.

DALLE BANCHE A QUOTA 100: GLI ALTRI FRONTI DELICATI

La questione banche è pronta ad acuire le divisioni. I lavori della commissione di inchiesta dovranno comunque partire nel 2020: non è immaginabile un ulteriore slittamento. E le scintille tra Movimento 5 Stelle e Italia Viva sono facilmente prevedibili. Un altro terreno di scontro è rappresentato dai decreti Sicurezza: una parte del Pd chiede la totale cancellazione dei provvedimenti voluti da Salvini nel corso della precedente esperienza di governo. Conte ha detto di voler conservare l’impianto normativo, prevedendo solo ritocchi. Zingaretti sarà costretto a battere i pugni sul tavolo e comunque dovrà accettare una mediazione, rischiando di alimentare le polemiche interne. Sempre tra i dem c’è la volontà di rilanciare la battaglia sullo Ius Culturae, sfidando il niet di Di Maio. Tra i tanti dossier aperti e quelli da aprire, si inserisce l’attivismo di Renzi, che ha bisogno di ritagliarsi uno spazio per aumentare i consensi della sua creatura politica. Italia Viva al momento non sfonda nei sondaggi. Così l’ex presidente del Consiglio, attraverso i suoi fedelissimi, ha già annunciato una campagna contro Reddito di cittadinanza e Quota 100, cavalli di battaglia del M5s. Una provocazione che non è passata inosservata. Insomma, all’ordine del giorno delle criticità del Conte 2 c’è un ricco capitolo di “varie ed eventuali”.

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Chi sono i candidati al governo della Calabria

È corsa a quattro per le elezioni del 26 gennaio 2020: Jole Santelli per il centrodestra, Pippo Callipo, per il centrosinistra, Francesco Aiello per il Movimento 5 Stelle e l’outsider Carlo Tansi.

È corsa a quattro in Calabria dove il 26 gennaio 2020 sono in programma le elezioni regionali. A puntare alla poltrona di Governatore ci sono, per il centrodestra, la deputata e coordinatrice regionale di Forza Italia Jole Santelli, sostenuta da sei liste (Fi, Fratelli d’Italia, Lega, Santelli presidente, Udc, Cdl); l’imprenditore Pippo Callipo, che ha dalla sua il Pd, una lista filiazione dell’associazione Io resto in Calabria, i Democratici e progressisti e 10 idee per la Calabria, formazione quest’ultima sulla quale però pende la scure di una possibile esclusione. Della partita anche il docente universitario Francesco Aiello, per il Movimento 5 Stelle e per la lista Calabria Civica, e l’ex capo della Protezione civile regionale Carlo Tansi, sostenuto dalle liste Tesoro Calabria, Calabria Pulita e Calabria Libera.

EX PD CON FRATELLI D’ITALIA

Ricompattato il fronte dopo le fibrillazioni legate al “niet” di Matteo Salvini ad Mario Occhiuto, il centrodestra ritrova l’unità intorno alla candidata presidente Jole Santelli e schiera tanti uscenti e alcune singolari new entry. Il consigliere regionale Giuseppe Neri, eletto nella passata legislatura con la lista Democratici e progressisti, emanazione diretta del Pd, è ad esempio candidato con Fratelli d’Italia. L’Udc, altro partito che è a fianco della fedelissima di Silvio Berlusconi, ospita nelle sue fila anche Antonio Scalzo, eletto nel Pd e che, sempre in quota dem, è stato per un periodo presidente del Consiglio regionale, transitato di recente nei Moderati, vicini a Raffaele Fitto.

GLI SCONTENTI A SINISTRA

Novità anche dalle parti del candidato Pippo Callipo, che é riuscito a imporre le sue condizioni sulla formazione delle liste. Scende in campo con l’industriale del tonno anche l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, in lista con il Pd, messa fuori gioco a suo tempo dallo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune che amministrava ma assolta, di recente, dall’accusa di avere agevolato la cosca di ‘ndrangheta degli Arena. Punta alla conferma anche il presidente uscente del Consiglio regionale, Nicola Irto. In lizza anche Maria Saladino, già in corsa per la segreteria nazionale del Partito democratico. Non mancano, da una parte e dall’altra, i mugugni degli esclusi: dall’ex Pd Enzo Ciconte, dato in approdo nel centrodestra, che ha optato per il ritorno alla professione medica (é primario cardiologo) a Francesco D’Agostino, che ha espresso tutto il suo disappunto per il veto posto da Callipo sul suo conto.

AIELLO E TANSI «LIBERI DALLA CASTA»

Acque decisamente più tranquille per il candidato pentastellato Aiello, che sottolinea la «pulizia» delle proprie liste, e per il civico Tansi. Che dichiara: «Noi restiamo liberi dalla casta».

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I sondaggi politici elettorali del 9 dicembre 2019

Lega saldamente al primo posto, ma in calo di quasi un punto percentuale. Cresce il Pd, stabile il M5s. Ancora in ascesa il partito di Calenda.

Sondaggi senza grossi scossoni quella pubblicati da Swg per il TgLa7 nella serata del 9 dicembre. Dopo la crescita dell’ultima rilevazione (+0,7%) la Lega di Matteo Salvini fa segnare una nuova battuta d’arresto, ma si conferma comunque al 33% dal 33,8% della settimana precedente. Guadagna ancora terreno, invece, il Partito democratico, che nelle intenzioni di voto degli italiani conquista 0,3 punti percentuali, fermandosi al 18%.

Invariate le preferenze per il Movimento 5 stelle che rimane stabile al 15,5%. Segno negativo invece sia per Fratelli d’Italia che per Italia viva. I partiti di Giorgia Meloni e Matteo Renzi perdono rispettivamente 0,2 e 0,3 punti. In leggera crescita Forza Italia, che recupera 0,2 punti percentuali, al 5,3% dal precedente 5,1%. Andamento positivo anche per il neonato partito Azione di Carlo Calenda, che sale al 3,5%.

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Il Pd insiste sull’alleanza M5s-sinistra per arginare Salvini

Franceschini: «Costruiamo un campo contro questa destra o ci ritroviamo la Lega a Palazzo Chigi». Ma l’agenzia di rating Fitch: «Le tensioni tra i giallorossi mettono a rischio il governo».

Non riescono a trovare un’intesa sulla riforma della prescrizione. Erano in disaccordo a proposito di legge elettorale, salvo poi trovare una convergenza sul proporzionale. Li divide lo ius soli. E anche in tema di nomine Rai si sono sfidati a colpi di veti incrociati. Nonostante tutto, Partito democratico e Movimento 5 stelle sembrano orientati a prolungare la loro esperienza insieme. Soprattutto da parte piddina. Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo nonché capodelegazione dem nel governo Conte II, ha detto a Porta a porta: «Al di là delle differenze, bisogna arrivare alla prospettiva di un’alleanza M5s-sinistra».

IN COMUNE C’È L’AVVERSARIO DA BATTERE

Un aspetto in comune pare ci sia: l’avversario da battere. «Per fermare questa destra bisogna arrivarci, la partita è troppo delicata per fermarsi. Va costruita questa prospettiva nel Paese, un campo che eviti Matteo Salvini a Palazzo Chigi e abbia alla base dei principi etici e politici», ha aggiunto Franceschini.

«GLI ITALIANI NON SONO DIVENTATI ESTREMISTI»

Poi bisogna sempre fare i conti col consenso elettorale, visto che stando ai sondaggi il centrodestra è a un passo dal 50%. Franceschini però non crede «che gli italiani siano diventati estremisti, intercettano un sentimento, lo cavalcano e i voti vanno in quella direzione. Bisogna costruire un campo competitivo contro quella destra estrema, e siamo competitivi solo stando insieme, lo dicono i numeri».

MA L’INCERTEZZA POLITICA CREA ALLARMI

Il guaio è che stando assieme spesso si finisce a litigare. E non a caso Fitch è preoccupata per il clima di incertezza politica che persiste in Italia e che rappresenta un fattore di rischio per un’economia che resta praticamente in stagnazione. È l’allarme che si legge nel capitolo nel Global Economic Outlook pubblicato dall’agenzia di rating: «I negoziati sulla legge di bilancio del 2020 hanno messo in evidenza le tensioni politiche tra il M5s e il Pd. Le complesse relazioni tra le due formazioni rappresentano un rischio per la durata dell’esecutivo per l’intera legislatura».

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Continua lo scontro sulla prescrizione tra M5s, Pd e Italia viva

I pentastellati premono sui dem: «Siano leali». Ma Marcucci si appella al premier Conte, mentre i renziani sono pronti a sostenere la proposta di Forza Italia.

Se per quanto riguarda la riforma del Mes le tensioni nella maggioranza sembrano destinate a calare, continua invece lo scontro che riguarda l’entrata in vigore – a partire dal primo gennaio 2020 – della nuova legge sulla prescrizione.

Il M5s fa pressione sul Pd: «Con le minacce non si va da nessuna parte. È opportuno, invece, dimostrare chiaramente di essere leali e andare avanti in maniera compatta. Con la riforma della prescrizione abbiamo la possibilità di mettere la parola fine all’era Berlusconi, che ha fatto solo del male al nostro Paese. Siamo certi che il Pd farà la scelta giusta pensando all’interesse dei cittadini».

Ma i dem, attraverso il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, si appellano al premier Giuseppe Conte: «La riforma della prescrizione è nelle mani del presidente Conte, non certo delle veline del M5s. Serve un intervento correttivo, decida Di Maio se vuole condividerlo con la maggioranza o lasciare che il parlamento si esprima liberamente».

ITALIA VIVA MANIFESTA CONTRO LA RIFORMA BONAFEDE

Italia viva, da parte sua, ha manifestato contro la riforma voluta dal ministro Alfonso Bonafede, prendendo parte alla protesta delle Camere penali davanti alla Corte di Cassazione. «Sulla prescrizione noi sosteniamo la proposta di Enrico Costa», ha spiegato la capogruppo dei renziani alla Camera, Maria Elena Boschi. Ovvero la proposta di legge avanzata da Forza Italia, che sta all’opposizione del governo giallorosso e che bloccherebbe gli effetti della riforma, rinviando l’entrata in vigore.

IL PESO DEI RENZIANI ALLA CAMERA

Alla Camera, i voti di Italia viva sono già stati decisivi quando si è votato sulla richiesta di procedura di urgenza per la proposta Costa, respinta dall’Aula. I renziani, dopo un incontro con il premier Conte, si sono astenuti. Ma avrebbero potuto far finire il voto in parità (244 sì e 244 no) o addirittura mandare sotto il governo, potendo contare su una truppa di 25 deputati.

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I sondaggi politici elettorali del 5 dicembre 2019

Il centrodestra sfiora il 50% mentre le forze di governo si fermano al 41%. Crescono Lega e Fratelli d’Italia. Male Pd e M5s. Le rilevazioni di Emg Acqua.

Secondo un sondaggio Emg Acqua presentato il 5 ad Agorà, se si votasse oggi la Lega sarebbe il primo partito con il 32,5%, seguito dal Pd al 19,5% e dal M5s al 16,3%. Poi Fratelli d’Italia al 10,1%, Forza Italia al 6,9%. Italia Viva è al 5,3%, La Sinistra 1,8%, Azione(Calenda) al 1,8%, +Europa al 1,6%, Europa Verde al 1,2% e Cambiamo! (Toti) al 0,9%. Complessivamente il centrodestra sfiora il 50% fermandosi al 49,5%, mentre l’area giallorossa (Pd+M5s-Iv) si ferma al 41,1%.

LE VARIAZIONI RISPETTO ALL’ULTIMA SETTIMANA

Rispetto alle rilevazioni del 28 novembre il Carroccio conquista un altro 0,1%, mentre i dem perdono lo 0,2%, stesso calo registrato anche dai grillini. Balzo di 0,2 punti per il partito di Giorgia Meloni mentre nel centrodestra perde quota Forza Italia, in sette giorni perso lo 0,4%. Stabile Italia viva mentre scende ancora +Europa dopo l’1,9% del 28.

COME È STATO CONDOTTO IL SONDAGGIO

Autore: EMG Acqua Committente/Acquirente: RAI PER AGORA’ Criteri seguiti per la formazione del campione: Campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne per sesso, età, regione, classe d’ampiezza demografica dei comuni Metodo di raccolta delle informazioni: Rilevazione telematica su panel Numero delle persone interpellate, universo di riferimento, intervallo fiduciario: Universo: popolazione italiana maggiorenne; campione: 1.623 casi; intervallo fiduciario delle stime: ±2,3%; totale contatti: 2.000 (tasso di risposta: 81%); rifiuti/sostituzioni: 377 (tasso di rifiuti: 19%). Periodo in cui è stato realizzato il sondaggio: 04 DICEMBRE 2019

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E ora serve un bel “vaffa” di Zingaretti a Di Maio

Farsi imbottigliare dalle stupidaggini del M5s, che continua a guardare verso destra, è un errore fatale. Meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri.

La cronaca politica propone due domande: ma che cosa vogliono Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? Ovvero vogliono qualcosa? L’unica cosa chiara è che i due baciati in fronte da Beppe Grillo hanno il terrore di finire male.

Per loro finire male significa uscire dall’orbita reale, per l’uno, potenziale per l’altro, del governo. E oggi l’orbita del governo ruota attorno a Salvini-Meloni.

L’altra paura è che hanno la matematica certezza che se non fanno ammuina il loro movimento arriva alle elezioni “sminchiato”, quindi con pochi voti e probabilmente senza quelli che potrebbero eleggere l’uno e l’altro o l’uno o l’altro.

DI MAIO E DI BATTISTA CONTINUANO A GUARDARE A DESTRA

Era sembrato, nelle scorse settimane, che Beppe Grillo riuscisse a portare i pentastellati fuori dall’attrazione pericolosa della destra. Grillo aveva addirittura immaginato di progettare cose in comune con il Pd. Di Maio e Di Battista, e forse Casaleggio, hanno detto di “sì”, ma si sono mossi lungo la strada opposta. Nessuno di noi sa se Matteo Salvini e soprattutto la sua temibile competitrice Giorgia Meloni vorranno aggregare questi due giovani cadaveri della politica nel governo che faranno dopo le elezioni, tuttavia Di Maio e Di Battista, fedeli figli di cotanti padri di destra, cercano da quelle parti la soluzione che li porti ad una più che dignitosa sopravvivenza economica.

Quando cadrà il governo Conte sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto

Il dramma dei cinque stelle, nati sulla base di una cultura che definimmo populista, di decrescita felice, di guerra alla democrazia rappresentativa, è che oggi sono il nulla assoluto. Da quelle parti ci sono solo “no”, sulle cose che capiscono, e ancora “no” su quelle che non capiscono. E tutto ciò accade mentre gran parte del loro elettorato è scappato e altro andrà via quando cadrà il governo Conte e sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto, una sistemazione, una cosa per campare. Sta arrivando il momento in cui la voracità della destra riuscirà a cancellare l’episodio grillino.

LA SINISTRA DEVE MOLLARE IL M5S PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Chi di noi analizzò il fenomeno dei cinque stelle non in base alla composizione sociale ma in relazione alla cultura che esprimevano e alla direzione di marcia che avevano preso, non sono sorpresi né dalla svolta a destra né dalla loro prossima fine. Questo non vorrà dire che il sistema politico si sistemerà. La pattuglia grillina nel prossimo parlamento, a meno che non vengano fatti fuori Di Maio e i suoi e che Di Battista vaghi a fare niente per il mondo, sarà il più massiccio episodio di ascarismo parlamentare. «Accattataville».

Manifestazione delle Sardine in Piazza Duomo a Milano.

Salvini dovrà far digerire ai suoi il ritorno dei traditori, per giunta statalisti. La Meloni non li ha mai sopportati. Resta la sinistra che tarda a comprendere che farsi imbottigliare dalle stupidaggini di Di Maio e Salvini su un fondo salva Stati che quei due conoscevano e che, lo vogliano o no, ci sarà, è un errore, meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri. Perché l’unica campagna elettorale che si può fare richiede di rubare alle sardine il tema della civiltà politica e alla destra “sovranista e antitaliana” la questione dell’onore della patria che la destra attuale vorrebbe nuovamente serva di una potenza straniera.

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I veti incrociati tra M5s e Pd bloccano le nomine Rai

Dietro il nuovo rinvio lo stallo sulle testate. No dei pentastellati a Orfeo al Tg3. I dem replicano mettendo in dubbio la permanenza di Carboni al Tg1.

Nuovo stop sulle nomine Rai. Dopo il rinvio dell’11 novembre, un altro nulla di fatto all’indomani di riunioni e trattative che non hanno portato a una fumata bianca. I curricula, che dovevano essere presentati la mattina del 27 novembre dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, non sono arrivati ai consiglieri, nonostante l’intesa sembrasse vicina. La seconda rete dal 29 novembre è priva della guida di Carlo Freccero, pronto a lasciare il suo incarico per aver raggiunto il limite del mandato. L’ipotesi più probabile è un interim, che potrebbe essere assunto dallo stesso Salini o da Marcello Ciannamea, in pole poi per la direzione della rete.

IL VETO DEI CINQUE STESSE SU ORFEO

Stando a fonti parlamentari riportate dall’Ansa, lo strappo è stato provocato dalle possibili nomine alle testate. I cinque stelle, in particolare Luigi Di Maio, avrebbero posto il veto su Mario Orfeo alla direzione del Tg3, provocando una reazione dei dem che avrebbero a quel punto messo in discussione la permanenza di Giuseppe Carboni al Tg1. Mentre per quel ruolo si fa avanti, con supporto di Italia Viva, Andrea Montanari, il Pd pare pronto a far saltare anche la candidatura di Franco Di Mare a Rai3, poltrona che sarebbe lasciata libera da Stefano Coletta che passerebbe alla guida della rete ammiraglia. Anche l’uscita di Giuseppina Paterniti dal Tg3 in direzione RaiNews non metterebbe tutti d’accordo, anche perché non resterebbe più alcuna donna al timone delle tre principali reti e testate Rai. I cinque stelle vogliono che mantenga un incarico di peso e spingono nel contempo la candidatura di Francesco Giorgino per una direzione.

IL NODO DEI TAGLI IN MANOVRA

Nel Consiglio di amministrazione del 28 novembre si parlerà del percorso di attuazione del piano industriale, di ordini e contratti, della situazione immobiliare. Il discorso nomine è rinviato al Cda di dicembre o a una riunione straordinaria. I tempi non saranno brevi. Anche perché a influire sullo stop sarebbero stati i possibili nuovi tagli ai trasferimenti alla tivù pubblica previsti in una serie di emendamenti alla manovra. L’ad in Commissione di Vigilanza ha lanciato l’allarme sull’impatto che la riduzione delle risorse avrebbe sulla realizzazione del piano industriale. In caso di un taglio del budget, rispetto a quello preventivato al momento della stesura del progetto, sarebbe necessario rivederne il perimetro. In particolare in relazione agli oneri specifici derivanti dal contratto di servizio, come la realizzazione del canale inglese e del canale istituzionale. Le nomine sono fanno parte di un percorso delineato che, a questo punto, rischia di essere modificato.

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I sondaggi politici elettorali del 27 novembre 2019

La Lega si conferma saldamente al comando, ma fa registrare una battuta d’arresto. Crescita continua per Fratelli d’Italia. Lieve flessione per il Pd, stabile il M5s. La rilevazione Ixè.

Si conferma la battuta d’arresto della Lega nei sondaggi. L’ultima rilevazione condotta dall’istituto Ixè per a trasmissione di RaiTre Cartabianca ha rivelato che il partito di Matteo Salvini è sceso al 31,5% dal 31,9% dei consensi della settimana precedente.

FRATELLI D’ITALIA SUPERA LA SOGLIA DEL 10%

Boom, invece, di Fratelli d’Italia, che ha superato il 10,6 dal 9,9% dell’ultima rilevazione. Per quanto riguarda i partiti di governo, scende il Partito democratico, al 20,4% dal 21,2% della scorsa settimana, mentre il Movimento 5 stelle è sostanzialmente stabile al 16,06% dal 16,3%.

ITALIA VIVA SI CONFERMA STABILE

Stabile anche Italia viva di Matteo Renzi, che si assesta al 4,5% dal precedente 4,6%: +Europa è al 3%, la Sinistra sale al 2,2%, mentre Europa verde scende all’1%. A crescere è poi il numero degli indecisi o degli astenuti, che rappresenta il 37,6% del campione intervistato.

IL CENTRODESTRA POCO SOTTO IL 50%

Roberto Weber, presidente dell’istituto Ixè, commentando i dati ha spiegato: «Nel sondaggio si registra lo sfondamento di Fratelli d’Italia. Per un voto che Fdi dà alla Lega di Salvini, tre voti dal Carroccio si spostano sul partito di Giorgia Meloni. Quindi abbiamo questa radicalizzazione sulla destra e il centrodestra arriva a quota 49,5%». 

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Non mi fido di Renzi ma neppure della magistratura

Un conto è la difesa del ruolo di giudici e pubblici ministeri, un altro è la fiducia cieca nel protagonismo mediatico di alcuni di loro. Ma il leader di Italia Viva faccia chiarezza sugli affari di Open e del Giglio magico.

Il Pd si astenga, come ha fatto finora, dal festeggiare per i guai giudiziari di Matteo Renzi. Eviti anche la frase retorica: «Abbiamo fiducia nella magistratura», perché ormai nessuno più crede alla sincerità e veridicità di questa affermazione.

Troppi errori giudiziari, troppe persone finite nel tritacarne che hanno persino pagato con la vita la malagiustizia, è il caso del caro Filippo Penati. E ancora, troppi scheletri sono emersi negli uffici di alcuni tribunali e procure per stare tranquilli.

Un conto è la difesa del ruolo della magistratura, un altro è la fiducia cieca nel protagonismo mediatico di molti, ripeto: molti, pubblici ministeri. Questo è un tema che va affrontato con serietà.

L’INSOSTENIBILE INVADENZA POLITICA DI CERTI MAGISTRATI

La democrazia italiana ha avuto molto da pochi magistrati, è il caso di Giovanni Falcone, ma ha anche subito l’invadenza e la voglia di potere di magistrati che hanno poi invaso la politica con ruoli apicali e con la stessa prosopopea di chi sa tutto e soprattutto è al di sopra di tutto. Abbiamo magistrati che fanno presidenti di Regioni, scrittori, che straparlano sull’universo mondo come se quella lontana laurea in Giurisprudenza li abbia resi specialisti di anatomia, di chimica, di scienze spaziali, di informatica.

Se fossi in Renzi, prima di lamentarmi del fatto che i pm che lo indagano hanno arrestato mamma e papà, mostrerei subito i conti

È l’unico gruppo corporativo che con una sola laurea pretende di sapere più chi ha studiato per una vita una materia. Se non fosse una cosa seria, si potrebbe dire che siamo di fronte a una straordinaria barzelletta italiana. Matteo Renzi, anche per questo, si trova in un bel guaio. Se fossi in lui, come non sono per fortuna, prima di lamentarmi del fatto che i pm che lo indagano hanno arrestato mamma e papà, mostrerei subito i conti. Deve essere una regola quella di rendere tracciabili tutti i finanziamenti e va affermato che tutti i finanziamenti, a meno che non nascano da uno scambio di favori, sono accettabili.

ZINGARETTI CONTRIBUISCA A FAR EMERGERE LA VERITÀ SU OPEN

L’inchiesta punta al sistema Open cogliendo il punto delicatissimo di una sorta di cassaforte che sarebbe servita al Giglio magico per ottenere e mantenere il potere attraverso dazioni di denaro e di altri benefit. È la singolare politica del consenso di questa stagione che, dal punto di vista morale, è peggiore di quella dei tempi della procura di Milano. Il Pd da parte sua ha avuto Renzi come segretario e leader indiscusso e può contribuire a rendere chiaro, per quel che risulta a Nicola Zingaretti e al suo amministratore, l’eventuale esistenza di magheggi finanziari. L’unica cosa da non fare è lasciare che i pm procedano con uno scoop al giorno rendendo irreversibile il giudizio popolare di colpevolezza senza dare all’accusato la possibilità di replica se non nel futuro processo, se mai ci sarà.

I PARTITI DI DESTRA E SINISTRA NON FESTEGGINO PER I GUAI DI RENZI

Renzi urla che siamo di fronte a un complotto per farlo fuori dalla politica. Non è escluso che sia vero. E se è vero, o semplicemente se c’è il sospetto che sia vero, la politica, di destra e di sinistra, deve far capire ai magistrati, nel rispetto dei ruoli, che non si sta qui a pettinare le bambole. Renzi però ha molto da dire sui suoi anni e su alcuni suoi amici per i quali stava costruendo carriere, per fortuna fallite sul nascere, uno è questo signor Marco Carrai che ritroviamo come un prezzemolino in tutte le inchieste in cui il renzismo è incappato.

Marco Carrai.

Non festeggi il Pd e la destra tenga tranquilli i suoi cani da guardia nelle redazioni dei quotidiani e dei talk show. Siamo appena all’inizio dello spettacolo e non sarà “l’ultimo spettacolo”. In fondo questi nuovi straordinari movimenti, le Sardine e le donne contro il femminicidio e la violenza dei maschi, dicono che la piazza sta per essere stabilmente occupata da gente perbene e che la fascisteria mandata in campo contro neri e immigrati non domina più l’immaginario collettivo.

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La commissione Von der Leyen alla prova del voto del parlamento europeo

Con la preferenza palese, la maggioranza Ppe, socalisti e liberali dovrebbe reggere. Il M5s ha comunque deciso di votare a favore, mentre i Verdi hanno parlato di un’astensione ragionata e qualche voto potrebbe arrivare dalle fila dei conservatori, in particolare del Pis, All’opposizione l’estrema destra, con Fdi e Lega, e la sinistra europea.

Il giorno è infine arrivato: dopo tre aspiranti commissari bocciati – della Francia, dell’Ungheria e della Romania – dopo sostituzioni in corsa, polemiche e franchi tiratori – la nuova squadra della Commissione europea – senza il commissario britannico per via della Brexit – è pronta per cercare la conferma del parlamento europeo.

La neopresidente della Commissione europea Urusula von der Leyen e il presidente uscente Jean Claude Juncker, Bruxelles, 4 luglio 2019. (Thierry Monasse/Getty Images)

M5s e PIS CON LA MAGGIORANZA PPE, SOCIALISTI E LIBERALI

La sua presidente Ursula von der Leyen ha ottenuto il mandato con appena nove voti sopra la maggioranza: fondamentali dunque erano stati i voti del Movimento Cinquestelle che hanno definitivamente diviso le strade di grillini e leghisti, a Bruxelles ma anche a Roma. Per il voto sulla commissione, palese, la maggioranza Ppe, socalisti e liberali dovrebbe reggere. Il M5s ha comunque deciso di votare a favore, mentre i Verdi hanno parlato di un’astensione ragionata e qualche voto potrebbe arrivare dalle fila dei conservatori, in particolare del Pis, il partito di governo polacco. All’opposizione l’estrema destra, con Fdi e Lega, e la sinistra europea.

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La commissione Von der Leyen alla prova del voto del parlamento europeo

Con la preferenza palese, la maggioranza Ppe, socalisti e liberali dovrebbe reggere. Il M5s ha comunque deciso di votare a favore, mentre i Verdi hanno parlato di un’astensione ragionata e qualche voto potrebbe arrivare dalle fila dei conservatori, in particolare del Pis, All’opposizione l’estrema destra, con Fdi e Lega, e la sinistra europea.

Il giorno è infine arrivato: dopo tre aspiranti commissari bocciati – della Francia, dell’Ungheria e della Romania – dopo sostituzioni in corsa, polemiche e franchi tiratori – la nuova squadra della Commissione europea – senza il commissario britannico per via della Brexit – è pronta per cercare la conferma del parlamento europeo.

La neopresidente della Commissione europea Urusula von der Leyen e il presidente uscente Jean Claude Juncker, Bruxelles, 4 luglio 2019. (Thierry Monasse/Getty Images)

M5s e PIS CON LA MAGGIORANZA PPE, SOCIALISTI E LIBERALI

La sua presidente Ursula von der Leyen ha ottenuto il mandato con appena nove voti sopra la maggioranza: fondamentali dunque erano stati i voti del Movimento Cinquestelle che hanno definitivamente diviso le strade di grillini e leghisti, a Bruxelles ma anche a Roma. Per il voto sulla commissione, palese, la maggioranza Ppe, socalisti e liberali dovrebbe reggere. Il M5s ha comunque deciso di votare a favore, mentre i Verdi hanno parlato di un’astensione ragionata e qualche voto potrebbe arrivare dalle fila dei conservatori, in particolare del Pis, il partito di governo polacco. All’opposizione l’estrema destra, con Fdi e Lega, e la sinistra europea.

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Il Pd fa muro contro la riforma della prescrizione

Secondo Orlando non sono state trovate soluzioni adeguate per velocizzare la durata dei processi. Marcucci attacca Di Maio: «Non detta lui l’agenda del governo».

Il M5s incalza, ma il Pd fa muro contro la riforma della prescrizione, già approvata con la legge che ha inasprito le pene per i reati di corruzione e destinata a entrare in vigore dal primo gennaio 2020.

La riforma prevede il blocco dei tempi di prescrizione dopo il primo grado di giudizio, ma dem e renziani chiedono prima che la riforma del processo penale velocizzi la durata dei procedimenti.

Il vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha scelto con cura le parole: «Sono assolutamente d’accordo con il premier Giuseppe Conte» quando dice che per la prescrizione «il problema è trovare un bilanciamento nell’ambito del processo. Al momento, però, le soluzioni prospettate non sono adeguate».

Decisamente più aggressivo il capogruppo dem al Senato, Andrea Marcucci: «Di Maio si tolga dalla testa l’idea che sia il M5s a dettare l’agenda dei provvedimenti del governo e che il Pd si limiti solo a votarli. Sulla prescrizione, per esempio, è fondamentale garantire tempi certi e brevi per la durata dei processi».

Toni differenti, ma concetti identici per Michele Bordo, vice capogruppo del Pd alla Camera: «Le garanzie proposte dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per assicurare processi rapidi e con tempi certi non sono soddisfacenti. Ribadiamo quindi l’invito a rinviare l’entrata in vigore della nuova prescrizione. Per noi la riforma dei processi e le norme sulla prescrizione non possono non essere affrontate assieme. È davvero senza senso l’idea di procedere con l’abolizione della prescrizione senza prima aver verificato gli effetti prodotti dalla riforma della giustizia sulla durata dei processi. È stato lo stesso ministro Bonafede, d’altronde, ad affermare che il nuovo processo scongiurerà l’utilizzo della prescrizione. Se è così per quale ragione allora teme il suo rinvio? Per noi, comunque, la priorità continua a essere la durata ragionevole dei processi, perché i cittadini hanno diritto ad avere dalla giustizia una risposta in tempi rapidi. Continueremo a lavorare su questo obiettivo nei prossimi giorni. Ma sarebbe il caso che il M5s non continui a tirare troppo la corda anche su questo tema».

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Di Maio prova a ripartire dalla riforma della giustizia

Il leader del M5s incalza il Pd sulla prescrizione: «Possiamo fare questo passo insieme». Ma la trattativa non è ancora finita. All’orizzonte ci sono le Regionali: in Calabria potrebbe tornare in campo Callipo, in Emilia-Romagna liste in alto mare.

Luigi Di Maio prova a riscrivere la sua agenda di capo politico del M5s dopo il faccia a faccia con Beppe Grillo. Il garante pentastellato ha chiesto un forte rilancio della maggioranza sull’azione del governo. E così Di Maio, in piena crisi di leadership, mentre da una parte fa partire il difficile confronto sul territorio per le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, dall’altra mette sul tavolo i desiderata del Movimento per l’esecutivo.

In cima alla lista c’è il cavallo di battaglia per eccellenza del M5s, la riforma della giustizia, a partire dalla prescrizione. Le modifiche su quest’ultimo punto sono già state approvate con la legge che ha inasprito le pene per i reati di corruzione, la cosiddetta spazzacorrotti. Previsto il blocco dei tempi dopo il primo grado di giudizio, con entrata in vigore dal primo gennaio 2020. Il Pd, tuttavia, finora si è opposto, chiedendo prima che la riforma del processo penale velocizzi la durata dei procedimenti. La trattativa tra dem, renziani e il ministro Alfonso Bonafede non è ancora finita.

«Questo governo può davvero cambiare le cose. Ma le parole non bastano, servono i fatti», ha scritto Di Maio su Facebook, lanciando un monito proprio al Pd. Ai partner di governo viene chiesto di «andare avanti, non indietro». E di non comportarsi come Matteo Salvini, visto che a battersi contro quella che viene definita una norma «di assoluto buon senso» in prima fila ci sono Lega e Forza Italia.

LEGGETE E CONDIVIDETE! SULLA PRESCRIZIONE E SU UN PAESE CHE DEVE ANDARE AVANTI (E NON INDIETRO)Vittime di disastri,…

Posted by Luigi Di Maio on Monday, November 25, 2019

LEGGI ANCHE: Luciano Violante sui veri problemi della giustizia italiana

Di Maio incassa la sponda del premier Giuseppe Conte, che ha sottolineato come la riforma della giustizia non solo figuri nei punti programmatici della maggioranza, ma sia anche «fortemente voluta dal presidente del Consiglio». Ovvero da lui stesso. Il Pd, per il momento, non ha replicato ufficialmente. Ma fonti dem vicine al dossier tendono a considerare l’uscita di Conte come un segnale della volontà del premier di farsi carico di una mediazione.

IL PD STORCE IL NASO

Il Pd, com’è noto, chiede l’introduzione di limiti alla durata dei processi, una sorta di prescrizione processuale. E interpreta il post di Di Maio come una provocazione demagogica, che semplifica eccessivamente la questione mentre le parti stanno cercando di raggiungere una sintesi. Di Maio ha rilanciato anche sulla revoca delle concessioni ad Autostrade per l’Italia («Bisogna muoversi») e sul carcere per i grandi evasori. Ma all’orizzonte ci sono le Regionali del 26 gennaio 2020.

IL REBUS DELLE REGIONALI IN EMILIA-ROMAGNA E CALABRIA

Mentre in Calabria si vocifera di un possibile ritorno in campo dell’imprenditore del tonno Pippo Callipo, in Emilia-Romagna la partita si fa sempre più complicata. Il capo politico del M5s ha incontrato a Bologna gli eletti e gli attivisti, per cercare di trovare una soluzione all’impasse che si è aperta dopo il voto su Rousseau che ha sconfessato Di Maio e ha detto sì alla presentazione delle liste. Ma sia in Calabria, sia in Emilia-Romagna i pentastellati sono divisi. Il deputato “ortodosso” Giuseppe Brescia ha chiesto, assieme all’ex deputata Roberta Lombardi, di rimettere ai voti dei soli iscritti emiliani e calabresi la scelta di come andare al voto: «Non escluderei di tornare su Rousseau per chiedere agli attivisti se preferiscono vederci correre da soli oppure alleati con il Pd», ha detto Brescia.

TEMPO FINO AL 4 DICEMBRE PER LE CANDIDATURE

La vicepresidente della Camera, Maria Elena Spadoni, non concorda: «Penso che sia ormai troppo tardi per aprire a qualsiasi tipo di alleanza, oltretutto non prevista dal nostro statuto», alludendo evidentemente anche alla possibilità di optare per il voto disgiunto, al M5s e al candidato governatore del Pd. Con una presa d’atto finale: «In Emilia i nostri attivisti e consiglieri comunali da anni fanno battaglie contro il Pd. Nessuno dal territorio ha mai aperto ad alleanze». Nell’attesa, il Movimento ha comunque avviato la ricerca dei candidati governatori attraverso le cosiddette “regionarie”: chi intende proporsi avrà tempo fino al 4 dicembre. Sapendo che, come previsto dallo statuto, «il capo politico, sentito il garante», avrà la facoltà di esprimere un eventuale parere vincolante negativo.

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