Europee, Meloni e il risiko delle alleanze

Dopo aver terminato l’incontro con il presidente tunisino Kais Saied l’11 giugno scorso, Ursula von der Leyen ha scelto di aprire la conferenza stampa, senza giornalisti e senza domande, con una frase che aveva il sapore di uno slogan elettorale: «Siamo qui come team Europa». Alla sua destra Giorgia Meloni e a sinistra il premier olandese Mark Rutte. I tre erano volati alla corte di Saied per provare a strappare un accordo sui migranti. Soldi, tanti, per convincere la Tunisia a trattenere chi prova a fuggire da un Paese al limite del collasso sociale ed economico. Una soluzione che il presidente tunisino, da più parti criticato per il suo autoritarismo, non ha voluto, per ora, accettare.

Europee, Meloni e il risiko delle alleanze
Meloni e von der Leyen al G7 di Hiroshima (Getty Images).

Von der Leyen tra Meloni e Rutte: a Tunisi la fotografia del ‘team Europa’

Al di là dei contenuti di una missione che non sembra aver raggiunto obiettivi significativi, resta la foto dei tre leader. Insieme, nel nome dell’Europa. «L’istantanea di Tunisi assume un significato soprattutto se si osserva il cambiamento politico di Giorgia Meloni», spiega a Tag43 Federico Ottavio Reho, coordinatore della ricerca del Martens Centre, think tank ufficiale dei Popolari Europei. «L’approccio euroscettico, che aveva caratterizzato le sue posizioni prima di diventare premier, sembra ormai accantonato. La trasformazione di Fratelli d’Italia in una forza di sistema appare completa». È dunque un fatto che Giorgia Meloni in pochi mesi abbia scelto di cambiare abito: da spauracchio ad architrave del “team Europa”, consapevole della grande occasione che le si presenterà con il voto alle prossime elezioni europee nel giugno del 2024. Sola non può vincere, alleata può essere determinante. In questa chiave, la foto di Tunisi sembra anticipare ciò che potrebbe succedere tra un anno esatto. La popolare von der Leyen, al centro, alleata a destra con la conservatrice Meloni e a sinistra con il liberale Rutte. «Non è sbagliato pensare», sottolinea Reho, «che alle prossime elezioni europee si formi un’alleanza tra Liberali, Popolari e Conservatori. E non sarebbe un inedito visto ciò che è successo, ad esempio, con l’elezione di Roberta Metsola a presidente del Parlamento europeo. Per il Ppe i cardini su cui costruire un’intesa sono sempre gli stessi: europeismo e atlantismo. A partire da questo poi si discuterà con chi allearsi e su quali programmi». Non a caso l’ultimo viaggio a Roma del presidente dei Popolari Europei Manfred Weber è servito a mettere sul tavolo le condizioni dei Popolari. Sia alla premier, a cui ha aperto le porte sbarrandole ai suoi alleati più scomodi (come il Pis polacco e Vox spagnolo), che a Matteo Salvini, il cui avvicinamento al Ppe è condizionato alla separazione da Marine Le Pen e dal gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà. Tuttavia, pare difficile immaginare che i due azionisti di maggioranza del governo italiano scelgano di scaricare i propri amici e alleati europei.

Europee, Meloni e il risiko delle alleanze
Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni a Tunisi (dal profilo Twitter di Ursula von der Leyen).

Meloni e la politica dei due forni, ma con i sondaggi alla mano

Certo è che più si avvicinano le decisioni da prendere a Bruxelles, più Meloni pare allontanarsi dalle proprie origini politiche. Basta pensare a cosa è successo lo scorso 8 giugno. Dopo una lunga trattativa, i governi Ue hanno approvato, a maggioranza, il Patto immigrazione e asilo, un accordo che rivede in parte le regole del trattato di Dublino sugli sbarchi e sull’accoglienza dei migranti. L’Italia ha votato a favore, si sono astenuti, neanche a dirlo, gli alleati polacchi e l’Ungheria dell’amico Orban. Il giorno dopo quello strappo, però, la premier ha scelto la masseria di Bruno Vespa per dare un segnale distensivo ai vecchi amici, difendendoli dalle accuse di autoritarismo: «Polonia e Ungheria sono sicuramente delle democrazie, più giovani delle nostre. C’è un lavoro che va fatto per rafforzarle, io farò la mia parte. L’Ue non è un club, non ci sono nazioni di serie A e B». Meloni per ora sembra affidarsi alla democristiana politica dei due forni, in attesa di scegliere da che parte stare. Accanto alle alleanze ci sono però i numeri. Per avere la maggioranza nel Parlamento europeo servono 353 seggi e, guardando sondaggi e proiezioni, a oggi l’accordo con Popolari e Liberali non basterebbe per raggiungere quel risultato. Il sito Europe Elects che monitora le rilevazioni demoscopiche europee, ha messo nero su bianco questo scenario: il Ppe avrebbe una forchetta tra 150 e 166 seggi, i Conservatori tra 75 e 86, i Liberali tra 79 e 95. Così sommata la migliore delle ipotesi farebbe 347. «Un’alleanza Popolari, Liberali e Conservatori», conclude Reho, «potrebbe non bastare per avere la maggioranza. A quel punto sarebbe necessario un accordo con i socialisti. Ed è evidente che la presenza o meno dei Conservatori in una coalizione più ampia farebbe la differenza e sarebbe decisiva nell’orientare le scelte politiche del prossimo Parlamento e della prossima Commissione europea». E dunque per essere protagonista della legislatura che verrà, Meloni potrebbe dover accettare anche il compromesso più duro: un’alleanza con i ‘nemici’. Anche questo è far parte del “team Europa”, onori e oneri.

Tre semplici domande sul Mes a un sovranista tipo

Cosa accadrebbe all’Italia se fosse l’unico Paese Ue a non accedere al Meccanismo Salva Stati? Ci sono vie alternative per trovare i 36 miliardi che ci spetterebbero? E, infine, gli aiuti non equivarrebbero a mezzo Piano Marshall? Sono quesiti a cui solo un “euroscettico” potrebbe rispondere. Se solo avesse qualcosa da dire.

Bloccare l’accesso dell’Italia ai fondi del Mes è diventata la linea del Piave degli anti-Ue italiani, che mai accetterebbero il titolo di anti-Ue preferendo di gran lunga quello di euroscettici, che fa così tanto pensoso.

Detestano in particolare le intrusioni di Bruxelles sulle questioni del bilancio e del debito, che vanno diritte al cuore delle autonomie nazionali. Sul Mes si prepara una battaglia in parlamento: sì o no?

LA STORIA DEL MECCANISMO EUROPEO DI STABILITÀ

Ci sono tre domande che si potrebbero porre agli euroscettici. Prima di farlo, ricordiamo che cos’è il Mes e che cosa oggi, per la pandemia, potrebbe fare, a che costi e a che rischi. L’acrononimo Mes sta per Meccanismo europeo di stabilità (Esm l’acronimo in inglese) ed è un fondo finanziario intergovernativo creato nel 2012 con sede a Lussemburgo sulla base di un fondo preesistente per dare sostegno ai Paesi dell’euro in caso di difficoltà dei conti pubblici, sostenibili ma in difficoltà, o quando comunque ne fanno richiesta. Le quote versate dai 19 Paesi membri, tutti quelli dell’euro, sono il capitale. Su questa base il Mes colloca obbligazioni sui mercati e ha oggi una potenza di fuoco di circa 500 miliardi. Le condizioni di un intervento, da definire in un memorandum caso per caso, sono diverse e più stringenti se si tratta di un prestito, meno se di una linea di credito. La Banca d’Italia ha preparato una semplice guida che si può utilmente leggere (Il Meccanismo europeo di stabilità e la sua riforma: domande frequenti e risposte), che parla anche dei progetti di riforma, approvati in principio a dicembre 2019 dai 19 ministri dell’Eurogruppo – l’organo decisionale del Mes – ma non ancora attuati. Il Mes non rientra nel sistema giuridico della Commissione, e opera parallelamente a essa. L’Italia a differenza di Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro (la Grecia fu il maggiore beneficiario con oltre 200 miliardi di euro, ma negoziati con il predecessore del Mes) non ha mai fatto finora ricorso al Mes.

L’ACCORDO SUL 2% DEL PIL

Con la pandemia, il Mes ha annunciato e il Consiglio Ue confermato l’8 maggio che ci saranno presto a disposizione di ogni Paese fondi pari al 2% del Pil, fino a circa 36 miliardi per l’Italia, per un prestito speciale e con un’unica condizione: che serva direttamente o indirettamente alla difesa dalla pandemia, quindi per la spesa sanitaria di ogni tipo, da mascherine e farmici a ristrutturazioni ospedaliere e nuovi ospedali o reparti e altro. Non più memorandum di intesa né interventi su bilancio e debito. Ovviamente quando l’Unione dichiarerà la fine dell’emergenza rientreranno in vigore i criteri di Maastricht del 1992 e il Patto di stabilità del 1997. E questo preoccupa gli euroscettici. Sostengono che la regola unica del Mes in versione pandemia non è affidabile perché, a fine emergenza, potrebbe restare sempre la minaccia delle vecchie regole, sospese ma non abolite, con forti intrusioni nella gestione del debito e perdita temporanea di sovranità. Così hanno parlato Giorgia Meloni e Matteo Salvini. I costi di un debito “pandemia” con il Mes sarebbero minimi, non oltre lo 0,1% annuo indica un’analisi italiana condotta da Luca Fava e Carlo Stagnaro per l’Istituto Bruno Leoni, a fronte di un costo per le ultime emissioni del Tesoro arrivato per titoli decennali attorno all’1,8% l’anno. Su 36 miliardi per 10 anni ci sarebbe quindi un risparmio di circa 5,7 miliardi di euro, pari – dato importante da ricordare come si vedrà fra poco – a 6,20 miliardi di dollari. È troppo sostenere che con un finanziamento Mes, alle condizioni “pandemia”, l’Italia riceverebbe l’equivalente di un aiuto a fondo perduto pari a 5,7 miliardi di euro? Se non vogliamo chiamarlo “prezzo di favore”, come lo chiamiamo? E ora passiamo alle domande, e a una ipotesi di risposta, ovviamente quest’ultima a puro titolo indicativo – e senza impegno – perché solo un vero sovranista sarebbe titolato a rispondere.

1. COSA SUCCEDE SE SIAMO L’UNICO PAESE UE A NON ACCEDERE AGLI AIUTI?

DOMANDA. Che cosa succede se vari altri Paesi tra cui forse anche la Francia, secondo quanto il ministro delle Finanze Bruno Le Maire ha anticipato, accedono al prestito Mes stile “pandemia” e l’Italia, l’unico Paese tra l’altro spaccato da un acceso dibattito sulla questione, non lo fa? In che posizione ci troveremmo?
RISPOSTA. «In quella», potrebbe essere la risposta, «di un Paese che sa fare i propri interessi e non accetta ricatti». Il che implicherebbe che gli altri non sanno fare i propri interessi. Oppure varie variazioni sul tema, ad esempio «gli altri non hanno valutato con sufficiente attenzione le vere clausole del Mes, noi siamo attenti e lo abbiamo fatto». Comunque, una risposta non facile.

2. DOVE TROVIAMO I 36 MILIARDI SE DICIAMO NO AL MES?

DOMANDA. Visto che non si tratta di cifre di cui possiamo fare a meno con un debito pubblico destinato a passare da circa 2.400 a circa 2.600 miliardi di euro causa pandemia, e con emissioni 2020 valutate per i titoli a medio e lungo (Bot esclusi quindi) a 202 miliardi per copertura di titoli in scadenza e a 45 miliardi di nuovo fabbisogno, dove troviamo i 36 che avrebbe potuto darci il Mes, e a che costi?
RISPOSTA. Qui è molto difficile ipotizzare una risposta, tutta affidata all’abilità dialettica del sovranista incaricato. Sulla base dell’analisi Fava-Stagnaro, e non cambierebbe molto con qualsiasi altra analisi, c’è tra i costi Mes e i costi di mercato una differenza superiore ai 5 miliardi di euro, in 10 anni. Direbbero forse qualcosa del genere: «L’onore nazionale non ha prezzo», in linea con una visione sovranista. Più probabilmente ricorderebbero che non sono soldi del Mes ma soldi nostri, visto che la quota versata dall’Italia è di 14 miliardi, il che è vero in senso contabile e non vero in senso politico, perché il Mes è una forma di assicurazione collettiva alla quale si contribuisce nella speranza di non averne mai bisogno. A questo si potrebbe rispondere che i 36 di prestito, e i 5,7 di “favore” sarebbero comunque una buona occasione per riavere indietro un po’ di quei 14 versati. Ma potrebbero uscire risposte impensate e impensabili, perché i sovranisti sul Mes si trovano con le spalle al muro e difendono la loro stessa ragion d’essere politica. Come del resto, in una posizione però più sostenibile perché inserita in un quadro europeo più ampio e coerente, fa il fronte opposto degli “europeisti”. Nazionalismo vuol dire, per definizione, essere soli. «Meglio soli che male accompagnati» è la classica risposta sovranista.

3. IL MES VALE PER NOI MEZZO PIANO MARSHALL?

DOMANDA. Terzo e ultimo quesito. Se il prestito Mes alle condizioni “pandemia” equivale a uno sconto di costi finanziari pari a circa 6,2 miliardi di dollari in 10 anni, e visto che all’Italia andarono nel 1948-52 circa 1,4 miliardi di dollari del Piano Marshall in gran parte a fondo perduto, pari a 14 miliardi di dollari oggi, e sia pure considerando il fatto che 1,4 miliardi di allora avevano sull’Italia di allora un peso più alto di 14 miliardi di oggi sull’Italia, non si può forse dire che il Mes da solo, e prima di altri interventi Ue, vale per l’Italia mezzo Piano Marshall?
RISPOSTA. Difficilissmo ipotizzare una risposta. Probabilmente si cercherebbe di ribadire che quello del Mes non è affatto un “dono” ma un cavallo di Troia.

QUELLO CHE NON SI DICE SUGLI EUROBOND

Conclusione. Aspettiamo il dibattito parlamentare. Si sentiranno alti toni patriottici e accuse agli avversari di svendita dell’onore nazionale. Il peggior armamentario del vecchio nazionalismo, che da sempre cerca di togliere al fronte opposto la dignità del libero pensiero. Naturalmente i sovranisti diranno che non sono contro l’Europa ma contro “questaEuropa. Il problema è che l’Europa giusta che va bene a loro non si trova mai. Messi alle strette, sostengono in genere che sarebbero per una vera Europa unita che corre in soccorso di ogni nazione così come negli Stati Uniti Washington fa con il Minnesota piuttosto che l’Arizona o il Tenneesee, ma non per “questa” Europa. Ancor più alle strette, invocano sempre gli eurobond, la cui assenza prova la perfidia europea da cui dobbiamo difenderci. Ma in genere non sanno che dire a chi ricordaloro che gli eurobond, come mutualizzazione di un debito nazionale che diventa comune, hanno per logica necessità e conseguenza la creazione di un superministro delle Finanze che, affiancato dal Parlamento europeo, controlla le spese degli Stati approvate dai rispettivi parlamenti. Gli eurobond implicano quindi una nuova consistente cessione di sovranità. A questo punto in genere i sovranisti cambiano discorso. Salvo continuare a imprecare, come ha scritto Mattia Feltri, contro «…quel popolo che noi chiamiamo gli egoisti del Nord, e dal quale pretendiamo i denari con le vene gonfie al collo». Ma non i denari del Mes. Quello, come tanti Nennillo nel Natale in casa Cupiello di Eduardo, «nun ce piace».

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Mes, Dombrovskis: «In Italia narrative ingannevoli»

Così il vicepresidente della Commissione Ue ha definito le preoccupazioni espresse da una parte della politica italiana.

«Narrative ingannevoli». Così il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis ha commentato le preoccupazioni espresse da alcuni politici italiani sul debito e sul Mes. «Vediamo invece cosa sta accadendo in realtà», ha detto Dombrovskis facendo riferimento alla sospensione del Patto di stabilità, alla maggiore flessibilità per i bilanci degli Stati membri Ue in termini di deficit e sul fatto che per il Mes, come deciso dall’Eurogruppo l’unica condizione è che le spese vadano per la sanità

Nel formulario con cui accedere alla nuova linea di credito, che dovrà essere siglato dal Paese interessato e dalla Commissione Ue e che sostituisce il vecchio Memorandum, vanno dettagliate le spese sanitarie fino al 2% del Pil. «Possono includere la parte della spesa pubblica destinata alla sanità direttamente o indirettamente legata all’impatto del Covid sul sistema, nel 2020 e nel 2021», specifica il modulo.

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Il nuovo premier di Malta è Robert Abela

La scelta fatta dagli elettori laburisti rappresenta una voglia di continuità rispetto a Muscat, dimessosi per il caso Caruana.

Dopo la crisi di governo legata al caso Caruana e le dimissioni di Joseph Muscat, Malta ha un nuovo premier. Si tratta di Robert Abela, avvocato 42enne, eletto leader del Partito laburista maltese, diventando automaticamente anche primo ministro dopo le dimissioni di Muscat, accusato di interferenze nelle indagini sull’omicidio della giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia.

UNA SCELTA DI CONTINUITÀ

Figlio dell’ex presidente George e visto come outsider incarnazione della continuità col suo predecessore, Abela è stato scelto dalla maggioranza dei 17.500 elettori laburisti – che hanno votato per la prima volta direttamente il loro leader – per la sua promessa di continuare «con le ricette vincenti» di Muscat. È stato preferito al chirurgo 52enne Chris Fearne, vicepremier uscente.

IN PARLAMENTO DAL 2017

Abela, attivista di lunga data del Partito laburista, è diventato membro del parlamento maltese solo durante le ultime elezioni legislative del 2017, convocate in anticipo da Muscat e vinte a mani basse dal suo partito nonostante un’ondata di scandali che hanno scosso il suo entourage. Abela subentra per soli due anni e mezzo in carica, fino al settembre 2022.

FENECH INCRIMINATO

Il caso Caruana ha travolto il governo, portando all’arresto di Keith Schembri, capo di gabinetto di Muscat, scarcerato poi una volta completati gli interrogatori nei suoi confronti. Per l’omicidio della giornalista è stato invece ufficialmente incriminato Yorgen Fenech, l’imperatore dei casinò, accusato di legami con le mafie italiane e vicino ad ambienti di governo. L’uomo è accusato di essere il mandante dell’autobomba che tolse la vita a Daphne Caruana Galizia.

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Green Deal: l’Ue apre ad aiuti per casi come l’Ilva

Una speranza per l’Ilva di Taranto potrebbe arrivare dall’Europa. Più precisamente dal Green Deal. Il nuovo Fondo europeo per la..

Una speranza per l’Ilva di Taranto potrebbe arrivare dall’Europa. Più precisamente dal Green Deal.

Il nuovo Fondo europeo per la transizione verso un’economia verde partirà con un stanziamento di base di 7,5 miliardi e dal 2021 permetterà di finanziare con risorse pubbliche «la modernizzazione» di grandi impianti industriali e «la bonifica di siti contaminati» – e quindi potenzialmente anche Taranto – senza violare le regole Ue sugli aiuti di Stato.

È quanto emerge dalla bozza delle proposte che la Commissione europea presenterà martedì prossimo di cui l’Ansa ha preso visione.

LEGGI ANCHE: Cosa è il Green Deal dell’Unione europea

PER L’UE IN 7 ANNI SI POTRANNO MOBILITARE FINO A 50 MLD

La Commissione Ue propone che il nuovo fondo (Fte) sia accessibile «a tutti gli Stati membri» e rientri all’interno delle politiche di coesione. Il fondo potrà contare su 7,5 miliardi di euro di risorse fresche per il 2021-2027. A questo stanziamento si aggiungeranno i cofinanziamenti nazionali e le risorse che gli Stati dovranno trasferire dai fondi per lo sviluppo regionale (Fesr) e sociale (Fse+). Il meccanismo alla base della proposta prevede che per ogni euro ricevuto dal Fte, i Paesi trasferiscano «da un minimo di 1,5 a un massimo di 3 euro» provenienti dagli altri fondi Ue. Secondo Bruxelles, grazie a questo meccanismo in sette anni potranno essere mobilitati fondi pubblici «fra i 30 e i 50 miliardi». Lo strumento rientrerà in un più ampio Meccanismo per la transizione verde che ambisce ad attirare investimenti pubblici e privati per 100 miliardi. La Commissione chiede che siano i Paesi a «identificare i territori» bisognosi del sostegno del Fte, che in Italia coincideranno con le Province (categorizzate tecnicamente come NUTS 3), e a redigere piani di transizione territoriale ad hoc. Il Fte potrà finanziare anche «investimenti produttivi in aziende diverse dalle Pmi», quando «sono necessari per l’attuazione dei piani di transizione territoriali».

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Con la Brexit Londra rimette in discussione l’Erasmus

Il parlamento del Regno Unito ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico del programma. Un nuovo accordo andrà rinegoziato.

Arrivederci Erasmus. Nelle ore in cui è arrivato il via libera definitivo alla Brexit, il parlamento britannico ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico dello storico programma di scambio tra studenti europei dopo l’uscita dall’Unione europea. Non è un addio, si è affrettato a precisare il governo di Londra bersagliato dalle critiche, ma quasi. Con il voto di ieri sera, oscurato dall’annuncio shock di Meghan e Harry, Erasmus+ (come si chiama da qualche anno) finirà nel calderone dei dossier da affrontare nei futuri negoziati con Bruxelles. In pratica, il girone infernale del periodo di transizione, quando ci saranno questioni ben più impellenti da risolvere. Il voto ai Comuni era atteso ed in linea con la promessa del premier Boris Johnson di mettere fine alla libertà di movimento dopo la Brexit.

LA PROTESTA DA ENTRAMBE LE SPONDE DELLA MANICA

E tuttavia ha suscitato reazioni di protesta da entrambi i lati della Manica. Scatenando l’indignazione soprattutto di chi l’Erasmus l’ha vissuto e lo ricorda a distanza di anni come l’esperienza più formativa della propria vita. «Ho trascorso un anno incredibile a Friburgo nel 1999. Sono così arrabbiata che questa possibilità sia stata strappata agli studenti britannici», scrive Laura su Twitter. «Grazie all’Erasmus sono riuscita a studiare a Parigi e trovare il mio primo lavoro da giornalista. Ha trasformato la timida ventenne che ero…», racconta Ros. «L’Erasmus mi ha resa quella che sono oggi. Ho il cuore spezzato», dice la professoressa Tanja Bueltmann.

LONDRA PROVA AD ABBASSARE I TONI

Il governo britannico, prima per bocca del sottosegretario all’Istruzione Chris Skidmore, poi con un comunicato ufficiale, ha provato a placare gli animi. «C’è l’impegno a mantenere i rapporti accademici con l’Ue anche attraverso l’Erasmus+. Vogliamo assicurarci che gli studenti britannici e quelli europei possano continuare a beneficiare dei rispettivi sistemi educativi», è scritto nella nota dove tuttavia si precisa «se sarà nei nostri interessi farlo». Al programma partecipano anche Paesi non membri dell’Unione europea come Norvegia, Serbia e Turchia, oltre a Paesi partner che prendono parte solo ad alcune attività come Albania, Egitto, Israele, Russia. Ma non potendo usufruire dei fondi comunitari, i Paesi che decidono di aderire devono stanziare finanziamenti di tasca propria. Sarà «nell’interesse» del Regno Unito farlo?

NO COMMENT DA BRUXELLES

Da Bruxelles nessun commento sulla decisione, a larghissima maggioranza, dei Comuni. Lo scorso marzo, in prossimità della prima scadenza della Brexit e per fronteggiare un eventuale no-deal, il Consiglio europeo aveva adottato un pacchetto di misure d’emergenza che garantivano agli studenti Erasmus di concludere il loro percorso. Ma solo fino alla fine del 2020. Nessuno sa cosa accadrà alla scadenza del periodo di transizione.

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In Austria è accordo tra i Popolari di Kurz e i Verdi

Al partito del cancelliere andrebbero i ministeri di maggior peso. Agli ecologisti Infrastrutture-Ambiente-Energia. Intesa in dirittura d’arrivo.

A tre mesi esatti dalle elezioni politiche che avevano rafforzato i Popolari di Sebastian Kurz dopo lo scandalo Ibizia-Gate, l’Austria ha finalmente una nuova alleanza di governo. Nella notte tra il 28 e il 29 dicembre è infatti stato raggiunto l’accordo di massima tra l’Övp del cancelliere e i Verdi di Werner Kogler. Un accordo che era stato ampiamente anticipato e che ora si è concretizzato.

MANCA LA RATIFICA DEI VERDI

Ora manca solo la ratifica da parte dei Verdi. Il partito ecologista ha infatti convocato per il 4 gennaio l’assemblea, il cui voto – secondo lo statuto di partito – è vincolante per un’entrata nell’esecutivo. Il giuramento – secondo la stampa austriaca – potrebbe avvenire il 7 gennaio. «Gli ostacoli più grandi sono stati superati», ha confermato Kurz che, dopo lo scandalo che aveva colpito il vice cancelliere e leader del Fpö Heinz Christian Strache, aveva di fatto perso il vecchio alleato di ultradestra, scivolato di oltre 8 punti percentuali alle elezioni di settembre e deciso a ripartire dall’opposizione.

ALCUNI DETTAGLI DA CHIARIRE

Per il leader dei Verdi Kogler, restano da chiarire solo alcuni dettagli. Secondo il quotidiano Salzbuger Nachrichten, i ministeri di peso (Esteri, Interni, Finanze, Economia, Istruzione e Agricoltura) sono destinati ad andare alla Övp, mentre i Verdi riceveranno, oltre al ‘superministero’ Infrastrutture-Ambiente-Energia, anche Giustizia, Salute e Affari sociali. Sotto la guida ambientalista tornerebbe anche il ministero alla Cultura, che durante gli scorsi esecutivi non è stato un ministero autonomo.

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Il governo britannico pubblica per errore gli indirizzi di alcuni vip

Online gli indirizzi di oltre mille destinatari dei New Year Honours: tra loro politici, star del calibro di Elton John.

Il governo britannico è in imbarazzo dopo la pubblicazione, per errore, degli indirizzi di oltre mille destinatari dei cosiddetti New Year Honours, le tradizionali onorificenze reali: tra loro politici, star del calibro di Elton John, ma anche decine di funzionari della difesa e dell’antiterrorismo, con evidenti implicazioni per la sicurezza. Una svista, ha ammesso l’ufficio del gabinetto che si è scusato per quanto accaduto, assicurando di aver rimediato in breve tempo.

ANCHE OLIVIA NETWON JOHN E BEN STROKES TRA LE VITTIME DELLA ‘SVISTA’

Tra i 1.097 destinatari delle onorificenze del 2020 ci sono anche il giocatore di cricket Ben Stokes, l’attrice Olivia Newton John, l’ex leader del Partito conservatore Iain Duncan Smith, la cuoca televisiva Nadiya Hussain e l’ex capo dell’Ofcom (l’authority per le comunicazioni) Sharon White. Tra gli altri, diversi funzionari di governo, accademici, leader religiosi, sopravvissuti all’Olocausto. Ma anche funzionari della Difesa e alte gerarchie della polizia, quindi personalità considerate sensibili dal punto di vista della sicurezza. C’è chi ha preso questa vicenda con filosofia, come Mete Coban, pioniere delle attività caritatevoli che ha ricevuto un’onorificenza per il suo lavoro con i giovani, che si è detto non troppo preoccupato per l’errore. Al contrario, Big Brother Watch, organizzazione britannica che si occupa di privacy e tutela delle libertà civili, ha definito «estremamente preoccupante che il governo non mantenga una solida stretta sulla protezione dei dati e che le persone che ricevono alcuni dei più alti onori siano messe a rischio per questo». Ed il ministro ombra per l’ufficio del gabinetto, Jon Trickett, ha evidentemente rincarato la dose: «Se il governo non è in grado di proteggere dati sensibili, come possiamo aspettarci che risolva le importanti questioni del nostro Paese?».

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Il governo britannico pubblica per errore gli indirizzi di alcuni vip

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Il governo britannico è in imbarazzo dopo la pubblicazione, per errore, degli indirizzi di oltre mille destinatari dei cosiddetti New Year Honours, le tradizionali onorificenze reali: tra loro politici, star del calibro di Elton John, ma anche decine di funzionari della difesa e dell’antiterrorismo, con evidenti implicazioni per la sicurezza. Una svista, ha ammesso l’ufficio del gabinetto che si è scusato per quanto accaduto, assicurando di aver rimediato in breve tempo.

ANCHE OLIVIA NETWON JOHN E BEN STROKES TRA LE VITTIME DELLA ‘SVISTA’

Tra i 1.097 destinatari delle onorificenze del 2020 ci sono anche il giocatore di cricket Ben Stokes, l’attrice Olivia Newton John, l’ex leader del Partito conservatore Iain Duncan Smith, la cuoca televisiva Nadiya Hussain e l’ex capo dell’Ofcom (l’authority per le comunicazioni) Sharon White. Tra gli altri, diversi funzionari di governo, accademici, leader religiosi, sopravvissuti all’Olocausto. Ma anche funzionari della Difesa e alte gerarchie della polizia, quindi personalità considerate sensibili dal punto di vista della sicurezza. C’è chi ha preso questa vicenda con filosofia, come Mete Coban, pioniere delle attività caritatevoli che ha ricevuto un’onorificenza per il suo lavoro con i giovani, che si è detto non troppo preoccupato per l’errore. Al contrario, Big Brother Watch, organizzazione britannica che si occupa di privacy e tutela delle libertà civili, ha definito «estremamente preoccupante che il governo non mantenga una solida stretta sulla protezione dei dati e che le persone che ricevono alcuni dei più alti onori siano messe a rischio per questo». Ed il ministro ombra per l’ufficio del gabinetto, Jon Trickett, ha evidentemente rincarato la dose: «Se il governo non è in grado di proteggere dati sensibili, come possiamo aspettarci che risolva le importanti questioni del nostro Paese?».

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Morto suicida lo scrittore norvegese Ari Behn

Era stato spostato con la principessa Martha Louise, figlia di Re Harald V. Nel 2017 aveva accusato Kevin Spacey di molestie.

Si è tolto la vita a 47 anni Ari Behn, scrittore ed ex genero del re di Norvegia. Lo ha reso noto il suo portavoce, citato dai media internazionali. Autore di numerosi romanzi e opere teatrali, Behn aveva sposato la principessa Martha Louise nel 2002 per poi divorziare nel 2016. La coppia ha avuto tre figlie. Behn è stato, sempre nel 2017, anche tra gli accusatori di Kevin Spacey, l’attore premio Oscar finito al centro dello scandalo #MeToo: disse che 10 anni prima l’attore lo avrebbe molestato toccandolo sotto a un tavolo in modo inappropriato dopo un concerto per il premio Nobel per la Pace, invitandolo a uscire con lui in terrazzo. «Magari più tardi», gli avrebbe risposto lui imbarazzato.

L’ESORDIO NEL 1999

Il primo romanzo di Behn fu pubblicato nel 1999, ma la fama arrivò tre anni più tardi, nel 2002, proprio grazie al matrimonio reale con la primogenita di re Harald V. Il suo ultimo libro, Inferno, è invece datato 2018 ed è un racconto della sua dura lotta contro la malattia mentale. «Ari è stato una parte importante della nostra famiglia per molti anni, e abbiamo ricordi belli di lui con noi», ha fatto sapere la casa reale norvegese in una nota.

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Nel M5s anche Castaldo contro Di Maio sul listino bloccato

Il vicepresidente del parlamento Ue Castaldo, capo delegazione del M5s in Europa, contro il leader i suoi “facilitatori”. E cioè la segreteria del M5s, di cui sei membri scelti direttamente dal ministro degli Esteri.

Dopo le fuoriuscite di Lucidi e Grassi, i due senatori che sono passati alla Lega, il M5s prova a cambiare pagina con il voto su Rousseau di quella che in altri partiti si sarebbe chiamata segreteria. Ma quel voto è un prendere o lasciare comprese le sei persone scelte direttamente dal capo politico Luigi Di Maio. Un metodo che non è piaciuto affatto a un nome che nel movimento sta acquisendo sempre più peso cioè quel Fabio Massimo Castaldo eletto vice presidente del parlamento europeo e che guida il gruppo grillino che a Bruxelles ha segnato il divorzio dalla Lega votando a favore della commissione di Ursula Von der Leyen.

Fabio Massimo Castaldo durante il convegno ”Open Democracy ? Democrazia in rete e nuove forme di partecipazione cittadina”, organizzato dal Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati presso la Sala Mappamondo, 18 aprile 2016 a Roma. ANSA/FABIO CAMPANA

«UNA SCELTA AMPIA DI INCOERENZA»

«Una scelta d’ampia incoerenza: #iodicono alle liste bloccate!». Così in un post il vicepresidente M5s del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo commenta il voto in blocco su Rousseau del listino dei cosiddetti facilitatori nazionali scelti dal capo politico del Movimento Luigi Di Maio. «La trovo una scelta ampiamente incoerente: abbiamo portato avanti per anni la battaglia a favore delle preferenze nella legge elettorale, abbiamo combattuto sempre contro i listini bloccati e imposti dall’alto, e ora poniamo i nostri attivisti davanti a un voto del genere?», ha chiesto. «Credo che non sia affatto corretto presentare un listino bloccato e dare la possibilità di votare solamente Si o No all’intera lista: si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Mi sembra non solo incoerente, ma anche limitante», ha scritto su Fb, Castaldo protestando sulla scelta di far semplicemente ratificare dalla rete i sei facilitatori M5S scelti dal capo politico.

Il capo politico del M5s Luigi Di Maio.

18 FACILITATORI, SEI SCELTI DAL CAPO

Il ragionamento del vicepresidente del parlamento europeo prosegue: «Si sceglie, infatti, una squadra di 18 persone che affiancherà il capo politico del Movimento nei processi decisionali e nelle scelte programmatiche. In questo percorso «sei facilitatori sono indicati direttamente dal capo politico, con funzioni estremamente rilevanti, e oggi si vota anche per confermare o declinare tale scelta». Nel listino, sottolinea l’eurodeputato, ci sono nomi «diversi di assoluto valore per competenze, capacità e impegno dimostrato in questi anni. Ma in tutta franchezza non posso tacere sul fatto che ci sia un problema non tanto di merito, sul quale non voglio esprimermi per non influenzare in alcun modo il vostro giudizio». «Si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Svolgeranno funzioni molto diverse gli uni dagli altri, pertanto il voto avrebbe dovuto essere sulla competenza dei singoli» sostiene. Il problema, invece, è «di metodo. E per questo vorrei porre una riflessione a tutti noi attivisti».

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La Bce di Lagarde in pressing sui Paesi che possono spendere

Stime di crescita al ribasso: +1,1% per il 2020. La presidente dell’Eurotower: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva». E poi precisa: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».

La prima riunione di politica monetaria della Banca Centrale Europea guidata da Christine Lagarde si è conclusa lasciando i tassi d’interesse invariati: il tasso principale resta fermo a zero, quello sui prestiti marginali allo 0,25% e quello sui depositi a -0,50%.

«NÉ FALCO NÉ COLOMBA, SARÒ GUFO»

La Bce ha «leggermente rivisto» al ribasso le stime di crescita per il 2020, a 1,1%. Le stime sono ora di una crescita dell’1,2% quest’anno, dell’1,1% il prossimo, e dell’1,4% nel 2021 e 2022. Nella conferenza stampa al termine del board Lagarde ha spiegato: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».

«CHI HA SPAZIO DI BILANCIO, AGISCA IN MANIERA TEMPESTIVA»

Poi Lagarde è tornata in pressing sulla Germania e gli altri Paesi che hanno surplus di bilancio: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva» per stimolare la crescita.

«L’EUROPA NON VA VERSO LA JAPANIFICATION»

Infine, riferendosi al rischio, evocato da alcuni economisti, di una spirale di deflazione e bassa crescita come quella del ‘decennio perduto’ giapponese, ha commentato: «Una ‘Japanification’? non credo affatto che siamo a questo punto, il credito alle imprese europee presenta un quadro completamente diverso da quello giapponese. Non credo affatto che una ‘Japanification’ sia fra le ipotesi sul tavolo»

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La Bce di Lagarde in pressing sui Paesi che possono spendere

Stime di crescita al ribasso: +1,1% per il 2020. La presidente dell’Eurotower: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva». E poi precisa: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».

La prima riunione di politica monetaria della Banca Centrale Europea guidata da Christine Lagarde si è conclusa lasciando i tassi d’interesse invariati: il tasso principale resta fermo a zero, quello sui prestiti marginali allo 0,25% e quello sui depositi a -0,50%.

«NÉ FALCO NÉ COLOMBA, SARÒ GUFO»

La Bce ha «leggermente rivisto» al ribasso le stime di crescita per il 2020, a 1,1%. Le stime sono ora di una crescita dell’1,2% quest’anno, dell’1,1% il prossimo, e dell’1,4% nel 2021 e 2022. Nella conferenza stampa al termine del board Lagarde ha spiegato: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».

«CHI HA SPAZIO DI BILANCIO, AGISCA IN MANIERA TEMPESTIVA»

Poi Lagarde è tornata in pressing sulla Germania e gli altri Paesi che hanno surplus di bilancio: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva» per stimolare la crescita.

«L’EUROPA NON VA VERSO LA JAPANIFICATION»

Infine, riferendosi al rischio, evocato da alcuni economisti, di una spirale di deflazione e bassa crescita come quella del ‘decennio perduto’ giapponese, ha commentato: «Una ‘Japanification’? non credo affatto che siamo a questo punto, il credito alle imprese europee presenta un quadro completamente diverso da quello giapponese. Non credo affatto che una ‘Japanification’ sia fra le ipotesi sul tavolo»

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Perché il Mes rischia di mandare l’Italia in Serie B

La riforma del fondo salva-Stati crea un’Eurozona a due velocità. E il nostro Paese, il secondo più indebitato dell’Ue dopo la Grecia, è fuori dai parametri di sostenibilità. Così i Btp finiscono nel mirino delle speculazioni. Anche per i vincoli dei tedeschi sull’unione bancaria. I no degli esperti.

Riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità per finanziare gli Stati dell’euro in gravi difficoltà in base alla sostenibilità dei loro debiti. Poi un’unione bancaria a patto che si valuti il tasso di rischio dei titoli sovrani (Btp) o con tetti alla loro detenzione. Su entrambe le manovre di politica monetaria dell’Unione europea l’Italia è esposta significativamente per il debito pubblico al 135% del Pil – molto oltre la soglia massima del 60% del Fiscal compact – e per i circa 400 miliardi di euro in Btp custoditi nelle banche del Paese, circa un quinto delle emissioni totali.

RISOLUZIONE APPROVATA DALLE CAMERE

Non a caso prima del Consiglio europeo del 12 e del 13 dicembre 2019, sulle modifiche al Fondo salva-Stati, il governo giallorosso ha messo all’approvazione di Camera e Senato una risoluzione per escludere in particolare «interventi di carattere restrittivo sulla dotazione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei titoli di Stato».

L’APPELLO PER IL NO SU MICROMEGA

La lente del Mes sull’indebitamento (l’Italia è il secondo Paese nell’Ue per debito pubblico dopo la Grecia), e di conseguenza sui suoi mattoni dei Btp, ha fatto sobbalzare anche economisti come il governatore di Bankitalia Ignazio Visco o come Carlo Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici. Allarmati dalla possibilità, scongiurata all’ultimo vertice dell’Eurogruppo, che per accedere al nuovo Fondo salva-Stati i Paesi con un debito insostenibile (in Italia per il 70% in mano agli italiani) dovessero necessariamente ristrutturarlo. La prospettiva getterebbe le banche del Paese in pasto alle speculazioni dei mercati ben prima dell’ipotesi di salvataggio di uno Stato, incentivandolo. Scrivono 32 economisti nel loro appello su Micromega “No al Mes se non cambia la logica europea”, di non voler pensare che la «strada individuata dai nostri partner europei per forzare una riduzione del debito pubblico italiano sia quella di provocare una crisi».

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Draghi
Il tedesco Klaus Regling, a capo del Mes, nel 2014 con l’allora capo della Bce, Mario Draghi. (Getty).

PIÙ VULNERABILI AI MERCATI

Il pericolo di una spirale per l’Italia era noto agli ultimi governi e al mondo finanziario ben prima che il dibattito sul Mes si infiammasse, visto che i capitoli sulla riforma sono all’esame dei Paesi membri dell’eurozona dal 2018. Ma che alla fine siano spariti i passaggi sulla ristrutturazione automatica del debito non ripara dal rischio di avvitamento. Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche, dice a Lettera43.it: «Basta che resti la divisione tra i Paesi con i requisiti per una fast line sui finanziamenti e quelli senza, perché la vulnerabilità sia da subito molto chiara ai mercati». Un rating targato Ue istituzionalizzerebbe un’Europa a due, tre velocità. E le banche, anche quelle francesi con in pancia il 16% dei Btp, inizierebbero a disfarsi dei titoli di Stato con minori garanzie. A maggior ragione se nell’Ue prendesse corpo la proposta sull’unione bancaria del ministro alle Finanze tedesco Olaf Scholz, con garanzie e limitazioni sui titoli dei debiti sovrani.

CRISI INTERNE MA CONTAGI LIMITATI

Gli economisti della lettera sul “No al Mes” ammoniscono: «Uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». Il paradosso della riforma è che se anche «i giudizi sul debito» facessero «precipitare tutto il sistema creditizio» della terza economia dell’eurozona, cioè dell’Italia, sempre grazie al Mes le altre economie dell’euro sarebbero più protette rispetto, per esempio, agli effetti della crisi del debito sovrano della Grecia nel 2010. Il Fondo Ue salva-Stati è stato istituito nel 2012 proprio per ridurre i danni del contagio, e allo stesso scopo viene perfezionato. Giovanni Dosi dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, tra i firmatari dell’appello, spiega a L43: «È un meccanismo per isolare i mercati finanziari del Nord. Con questa riforma le probabilità di crisi interne in alcuni Stati dell’Ue aumenteranno, mentre diminuirà ancora il rischio sistemico per l’Europa».

I CRITERI DEL FISCAL COMPACT NEL MES

Anche uno studio del Centro Europa ricerche mette in guardia sui «nuovi strumenti di sostegno finanziario dell’Eurozona» che «si baserebbero ab origine su una distinzione fra buoni e cattivi». Le economie al momento più sensibili al monitoraggio del Mes sono nell’ordine la Grecia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo. «Ed è evidente che il nostro Paese, al contrario di altri, non possa soddisfare a priori alcuni dei criteri inseriti per definire la sostenibilità», precisa Dosi, «oltre al tetto del debito sotto il 60% del Pil, a nostro svantaggio c’è il calcolo del saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. In questo modo non si esce dalla logica dell’austerity, tanto più che con la riforma si rafforza il peso sulla politica del Mes, un organo tecnico con ai vertici economisti e banchieri centrali tedeschi e francesi». La combinazione del nuovo Fondo salva-Stati e dell’unione bancaria alla tedesca, aggiunge, sarebbe poi «esplosiva» per la tenuta dei Btp italiani.

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Scholz lagarde
Christine Lagarde, nuova presidente della Bce, con il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz. (Getty).

CONVERGENZA SULL’UNIONE BANCARIA

Va detto che mentre sul Mes si accelera per chiudere all’inizio del nuovo anno, sull’unione bancaria l’intesa è più lontana e resta problematica. Proprio la Germania – alle prese con una serie crescente di problemi bancari (di istituti nazionali e locali) sia a causa del peso dei derivati sia per la frenata dell’economia reale nel 2019 – quest’autunno ha aperto il dibattito nell’Ue per creare un’assicurazione comune che sia di aiuto nelle crisi bancarie dell’eurozona. Proponendo però valutazioni di rischio per i titoli di Stato, piuttosto che per prodotti opachi come i derivati. Di nuovo, un concept ritagliato sulle esigenze finanziarie di Stati come la Germania, piuttosto che come l’Italia. «C’è una convergenza in una direzione. Con la riforma del Mes, la proposta di completamento dell’unione bancaria, e anche con le pressioni per lo stop al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli dalle banche da parte della Bce per stimolare la crescita, si accende un faro sul debito pubblico».

Sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes


Vladimiro Giacché, Centro Europa Ricerche

I COEFFICIENTI DI RISCHIO SUI BTP

Segnali chiari per i mercati e di impatto per i risparmiatori, come lo fu nel 2016 in Italia l’introduzione del bail-in: il «salvataggio interno» alle banche imposto dalla direttiva Ue che sgrava gli Stati dai salvataggi con fondi pubblici, scaricando i dissesti sugli azionisti e sugli investitori privati. Prima del bail-in obbligazionisti e correntisti non correvano rischi particolari, perché le banche non potevano fallire: il solo via libera alla nuova legge costò al sistema bancario italiano una perdita di capitalizzazione di 46 miliardi. Lo stesso scossone si avrebbe con i coefficienti di rischio sui titoli di Stato, premessa per la loro svalutazione. «Oltretutto, anche con una cornice ideale per le banche tedesche, i salvataggi resteranno complicati anche per i tedeschi a causa delle rigidità sulle norme del bail-in» conclude il presidente del Centro Europa ricerche, «sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes».

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La cantante dei Roxette Marie Frediksson è morta

Ammalata di tumore al cervello dal 2002, la voce del duo svedese è scomparsa lunedì 9 dicembre.

Marie Fredriksson, la metà femminile del duo pop svedese Roxette, è morta all’età di 61 anni. Frederiksson formò i Roxette con Per Gessle nel 1986. I due pubblicarono il loro primo album lo stesso anno per poi raggiungere il successo internazionale alla fine degli anni ’80 e nei ’90. L’artista è morta lunedì «per le conseguenze di una lunga malattia». «È con grande dispiacere che dobbiamo informarvi della scomparsa di una delle più grandi e amate artiste», ha dichiarato la sua agenzia di management. Marie Fredriksson si ammalò nel 2002 e le fu diagnosticato un tumore cerebrale.

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Ammalata di tumore al cervello dal 2002, la voce del duo svedese è scomparsa lunedì 9 dicembre.

Marie Fredriksson, la metà femminile del duo pop svedese Roxette, è morta all’età di 61 anni. Frederiksson formò i Roxette con Per Gessle nel 1986. I due pubblicarono il loro primo album lo stesso anno per poi raggiungere il successo internazionale alla fine degli anni ’80 e nei ’90. L’artista è morta lunedì «per le conseguenze di una lunga malattia». «È con grande dispiacere che dobbiamo informarvi della scomparsa di una delle più grandi e amate artiste», ha dichiarato la sua agenzia di management. Marie Fredriksson si ammalò nel 2002 e le fu diagnosticato un tumore cerebrale.

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Ue, Gentiloni: «Il patto di stabilità va rivisto»

In un’intervista alla Suddeutsche Zeitung, il commissario italiano annuncia che il patto di stabilità va modificato: «Le regole europee sono state pensate in un momento di crisi: ora vanno riviste». E poi rassicura i tedeschi: «Non userò due pesi e due misure».

Nel nome degli investimenti, il commissario europeo Paolo Gentiloni è pronto a proporre e sostenere una revisione del patto di stabilità europeo. Ed è andato a dirlo nella capitale della Baviera, la regione più competitiva della prima economia europea e dello Stato che dà sempre si è opposto alla modifica delle regole fiscali europee. «Il patto di stabilità è stato pensato in un momento di crisi, e ora va rivisto», ha dichiarato Gentiloni, in un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung.

Il Commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni durante una conferenza stampa al termine del Consiglio affari economici e finanziaria a Bruxelles ANSA/STEPHANIE LECOCQ

«NON USERÒ MAI DUE PESI E DUE MISURE»

«Dobbiamo mettere in chiaro che queste regole sono nate in un momento particolare, nel contesto di una crisi. Ora però da questa crisi siamo fuori», ha argomentato, «e abbiamo altre sfide davanti a noi: la lotta al cambiamento climatico e il pericolo di avere, per un lungo periodo, una crescita bassa e una bassa inflazione». «In questo contesto le regole europee devono essere gradualmente adeguate», ha spiegato Gentiloni.

«SUL MES NON ABBIAMO BISOGNO DI AUTOLESIONISMO»

Il commissario agli Affari economici ha rassicurato gli interlocutori tedeschi: «Non applicherò due pesi e due misure» rispetto all’Italia, in un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung, a proposito delle riserve sulla sua imparzialità sulla situazione italiana e sul bilancio. «La presidente von der Leyen ha più volte ripetuto quanto sia importante usare la flessibilità», ha poi aggiunto. Al Rome investment forum 2019, l’ex premier italiano ha dichiarato anche che sul Meccanismo europeo di stabilità, al centro delle polemiche italiane, «di tutto abbiamo bisogno tranne che di una fiammata di autolesionismo, di cui ogni tanto purtroppo il nostro paese è protagonista. paghiamo prezzi politici rilevanti. Abbiamo bisogno, piuttosto, di un rilancio di crescita e sostenibilità».

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La riforma del Mes e l’unione bancaria viste da Berlino

Scholz, vice di Merkel, ha un piano soft per assicurare i risparmi nell’Ue. Anche attraverso il fondo Salva-Stati. Ma restano le resistenze della Bundesbank. E, sullo sfondo, aleggia la crisi della Grande Coalizione. L’analisi.

L’Italia è il secondo Paese con il debito pubblico più alto dell‘Eurozona dopo la Grecia. Ma è anche la terza potenza dell’area dopo la Germania e la Francia.

Su questa contrapposizione si basa la dialettica tra il ministro delle Finanze italiano Roberto Gualtieri e l’omologo tedesco Olaf Scholz. Appendice della battaglia che sta portando avanti il nostro Paese per strappare più concessioni possibili sul Fondo salva-Stati Ue (il Meccanismo europeo di stabilità, Mes), come parte della riforma complessiva dell’Unione economica e monetaria per un’unione bancaria tra i gli Stati membri.

Il premier Giuseppe Conte c’è, la cancelliera Angela Merkel all’apparenza molto meno. Preferisce stare dietro le quinte, disposta molto più di anni fa a sostanziali compromessi. Ma solo se costretta e soprattutto senza darlo a vedere, per non scatenare un vespaio.

IL SILENZIO DI MERKEL

In un mese Merkel non si è espressa sulla proposta di unione bancaria del suo ministro e vice socialdemocratico Scholz, che in Italia ha fatto sollevare i vertici di Bankitalia e di Palazzo Chigi. Ma che in Germania non è mai diventata oggetto di dibattito tra i conservatori (Cdu-Csu) e i socialdemocratici (Spd) della Grande coalizione. Si attendeva, e non a torto, l’esito della consultazione tra gli iscritti del partito socialdemocratico per la nuova leadership. Al primo turno era prevalso proprio il vice-cancelliere che, anche per accendere i riflettori su di sé, con un editoriale sul Financial Times aveva presentato la proposta di unione bancaria come un modo «per sbloccare lo stallo che si ripercuote sul mercato interno e sulla fiducia dei cittadini europei». Scholz, ex ministro del Lavoro del Merkel II e sindaco di Amburgo fino alla seconda chiamata a Berlino nel 2018, tra i più borghesi e competenti della Spd, sperava di dare così prova di leadership. Aumentando sia il suo consenso interno e sia la visibilità nell’Ue.

Germania Scholz unione bancaria Mes
Angela Merkel (Cdu) con il vice cancelliere Olaf Scholz (Getty).

GLI IMPRONUNCIABILI EUROBOND

Il ricambio all’Europarlamento e a Bruxelles – determinato dal sì di Merkel al presidente francese Emmanuel Macron – permetteva a Scholz di distanziarsi dalla rigida austerity del predecessore Wolfgang Schäuble. Nell’Ue c’erano, e ci sono, i margini per compiere dei progressi. La Francia e la Commissione Ue guardano con favore all’iniziativa del ministro tedesco, sebbene il vice di Merkel non possa permettersi (né probabilmente neanche la vorrebbe) la parola eurobond – da sempre amata dall’Italia – per lo stesso motivo per il quale la cancelliera resta così cauta. Il silenzio della Germania è dovuto però a ragioni opposte rispetto a quelle che hanno scatenato il frastuono dell’Italia su Mes e unione bancaria all’Eurogruppo del 4 dicembre a cui seguirà il Consiglio europeo del 12. Il cuore finanziario protezionista della Bundesbank rema contro, come i Paesi nordici e il blocco sovranista dell’Est, anche alla proposta ponderata di Scholz, ben accolta invece a sorpresa da parte delle banche tedesche.

UN’ASSICURAZIONE DELL’UE CONTRO L’INSOLVENZA

La cancelliera deve fronteggiare il dissenso dei bavaresi (Csu) e di frange più a destra della Cdu. Ma a maggior ragione in queste settimane l’Italia può spingere l’acceleratore sulle sue pretese, di fronte a una Germania indebolita dalla frenata economica e da una Grande coalizione tornata molto fragile. La linea moderata di Scholz è sconfessata dalla maggioranza degli iscritti ai socialdemocratici, che gli ha preferito Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, il duo dell’ala più solidale e comunarda, probabilmente anche più favorevole agli eurobond per spalmare i debiti dell’Ue. Il vice-cancelliere, visibilmente deluso, partecipa all’Eurogruppo fresco di sconfitta mentre il quarto governo Merkel traballa: il progetto di rilancio della Spd a sua immagine è fallito. Ma se non altro l’intenzione di «riattivare un dibattito morto» nell’Ue ha avuto successo: la sua proposta di creare un sistema comunitario di assicurazione sui depositi, anche attraverso il paracadute del fondo Salva-Stati europeo, per integrare il settore finanziario dell’Eurozona a tutela dei risparmiatori degli istituti insolventi, ha un senso per tutti i 19 Stati nell’euro.

Germania Scholz unione bancaria Mes Conte
Il premier italiano Giuseppe Conte con il ministro delle Finanze Roberto Gualtieri (Getty).

UN’UNIONE A IMMAGINE DELLA GERMANIA?

Ma è da evitare che con l’unione bancaria si ripetano i soliti squilibri dell’euro a vantaggio della Germania, per i rapporti di forza che hanno prodotto anche i vincoli del Mes attuale, in vigore dal 2012 e figlio dell’austerity di Schäuble. Scholz non è così fiscale, vuole mitigare: «Accettare un meccanismo comune di assicurazione dei depositi non è un piccolo passo per un ministro delle Finanze tedesco», ha scritto pensando a un sistema di riassicurazione che aiuterebbe i fondi nazionali a coprire i risparmi bancari fino a 100 mila euro. Il contraltare dell’unione bancaria sarebbe valutare i titoli di Stato in base al loro fattore di rischio, impiccando l’Italia (con un debito pubblico pari al 138% del Pil) e gli altri Stati dell’Eurozona esposti sui Btp come la Spagna. Allora sì, costretti a interventi di salvataggio del Mes. Comprensibile che il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e Gualtieri siano inorriditi di fronte alla prospettiva di un possibile scaricabarile a Bruxelles sui bond statali, dati in pasto allo spread assieme alle banche italiane che ne sono piene. 

IL NODO DEUTSCHE BANK

Va poi capito quanto bisogno abbia ora anche la Germania di un’unione bancaria. Prima della crisi di Deutsche Bank e del calo interno di produzione a causa dei dazi degli Usa all’Ue e alla Cina, i fortini finanziari di Francoforte dietro i governi di Berlino respingevano piani europei che esponessero i contribuenti tedeschi ad alleggerire i crac in altri Paesi. Abbattere le barriere nazionali – con particolari garanzie – faciliterebbe però di questi tempi la fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank, fallita per il rischio che il secondo gigante tedesco affondasse sotto il peso del primo. Tra le precondizioni per l’unione bancaria, nella proposta di Scholz non si accenna alle masse di derivati presenti in gruppi come Deutsche Bank. Mentre si chiede per esempio di ridurre sotto il 5% dei crediti totali i crediti inesigibili che affliggono gli istituti italiani in sofferenza. Non c’è da stupirsi se le reazioni della finanza su Scholz riflettono gli interessi in gioco: per Deutsche Bank «carte molto benvenute», per Commerzbank un’unione che «rafforzerebbe l’Europa». Gruppi tedeschi più sani sono molto più prudenti.

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I socialisti della Commissione Ue cantano “Bella Ciao”

Tra loro anche Gentiloni, subito attaccato da Meloni e Salvini: «Teatrino scandaloso. La prossima volta intoneranno Bandiera Rossa».

I commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) cantano Bella Ciao al Parlamento europeo dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea. È il video circolato sui social network, che immortala il commissario Ue per gli Affari economici Paolo Gentiloni mentre intona insieme ad altri colleghi del gruppo S&D le parole del famoso canto partigiano.

Oltre a Gentiloni, anche i vicepresidenti della Commissione Ue Frans Timmermans e Maros Sefcovic

Oltre a Gentiloni, anche i vicepresidenti della Commissione Ue Frans Timmermans e Maros Sefcovic, il commissario al Lavoro Nicolas Schmit, la commissaria per i Partenariati internazionali Jutta Urpilainen, la commissaria alla coesione Elisa Ferreira, e la presidente del gruppo S&D Iratxe García Pérez.

DA MELONI A SALVINI PASSANDO PER FORZA ITALIA: CENTRODESTRA IN RIVOLTA

Il commento delle forze di centrodestra italiane non s’è fatto attendere. Per primo è arrivato quello della presidente di Fratelli d’Italia (FdI) Giorgia Meloni. In un tweet Meloni ha scritto: «Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?».

A ruota è arrivato il commento del leader leghista Matteo Salvini: «Ah beh, allora siamo a posto…! Complimenti a Pd e 5 Stelle per la scelta di Gentiloni come rappresentante dell’Italia in Europa, al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournée internazionale!».

Anche l’europarlamentare Fulvio Martusciello (Forza Italia), dal canto suo, ha scritto in una nota: «Ma pensassero a lavorare che sono pagati per questo. Bonino, Frattini o Tajani che pure sono stati commissari europei non lo avrebbero mai fatto. Non è un caso che i commissari che cantano sono tutti socialisti. Noi popolari siamo seri e una cretinaggine del genere non l’avremmo mai fatta».

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Mes, il presidente dell’Eurogruppo: «Non vedo ragioni per cambiare il testo»

Il portoghese Mario Centeno gela l’Italia. La firma del nuovo Trattato avverrà «all’inizio del prossimo anno».

«Non vediamo ragione per cambiare testo» del Mes: lo ha detto il presidente dell‘Eurogruppo, il portoghese Mario Centeno. «Il dibattito è in corso, oggi faremo un altro passo importante e poi aggiusteremo le necessità di dibattito che sono presenti» nei nostri Paesi, ha aggiunto.

LEGGI ANCHE: Il negoziato sul Mes in otto tappe e documenti

Centeno ha anche annunciato che la firma del nuovo Trattato avverrà «ad inizio del prossimo anno». Secondo quanto si apprende, infatti, dopo l’accordo in Eurogruppo e all’Eurosummit serve tempo ulteriore, circa un paio di mesi, per tradurre i testi nelle diverse lingue.

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