Perché in Spagna il governo Sanchez è nato già sotto scacco

Coalizione con otto partiti. Più o meno di sinistra. E due soli voti di margine in parlamento. L’esecutivo preannuncia turbolenze. Con la spina della questione catalana. E difficilmente avrà la forza di proporre riforme strutturali.

Con molta fatica e un margine risicatissimo, il parlamento spagnolo ha partorito un nuovo governo, il primo di coalizione nella storia del Paese. Ma la via crucis di Pedro Sánchez, diventato presidente dopo vari tentativi falliti, potrebbe essere solo all’inizio.

CATALOGNA SPINA NEL FIANCO

Una coalizione dalle molteplici posizioni (otto partiti in tutto, più o meno di sinistra) e la risposta all’interminabile questione catalana saranno spine nel fianco di una legislatura che si annuncia parecchio turbolenta. E il presidente dell’esecutivo deve fare attenzione a ogni sua mossa.

ACROBAZIE ALLA RICERCA DEI VOTI

Con i risultati delle elezioni del 10 novembre 2019 era chiaro che l’investitura di Sánchez non sarebbe stata una passeggiata, ma dopo l’accordo-lampo con Unidas Podemos (per fare il governo) e quello più complicato con gli indipendentisti di Esquerra Republicana de Catalunya (per assicurarsene l’astensione nel voto) la strada sembrava in discesa. Nel secondo dibattito di investitura, infatti, al numero uno dei socialisti non serviva più la maggioranza dei voti della Camera, ma soltanto un numero di “sì” superiore ai “no” fra i 350 seggi.

PRESENTE ANCHE UNA PARLAMENTARE COL CANCRO

L’aritmetica parlamentare della coalizione faticosamente cesellata in settimane di negoziati ha però rischiato seriamente di saltare per aria al momento della verità. La deputata di Coalición Canaria, Ana Oramas, aveva disatteso le indicazioni del suo partito e annunciato il voto contrario al governo, riducendo il margine di vantaggio a sole due lunghezze. Le sorti dell’investitura dipendevano quindi da ogni singola presenza, compresa quella di Aina Vidal, parlamentare catalana di Podemos malata di cancro che stoicamente si è presentata in Aula ricevendo l’applauso dell’emiciclo.

Sanchez con Aina Vidal, la parlamentare presente nonostante il cancro. (Ansa)

LO SPETTRO DEI FRANCHI TIRATORI

Nella Camera del Congresso, però, aleggiava comunque lo spettro del “tamayazo”, il termine usato in Spagna per connotare l’azione dei franchi tiratori, dal nome di Eduardo Tamayo, un socialista madrileno che nel 2003 regalò la presidenza regionale agli avversari. L’opposizione, sfaccettata tanto quanto la coalizione di governo, ha cercato fino all’ultimo di recuperare il singolo voto che avrebbe potuto bloccare l’investitura, che in Spagna avviene per voto palese a chiamata in ordine alfabetico. La leader di Ciudadanos, Inés Arrimadas, ha chiesto a viso aperto e con un discorso accorato l’intervento di franco-tiratori nel Psoe: «Non c’è nemmeno uno, un solo coraggioso in questa tribuna?».

DA DESTRA SI URLA AL «TRADIMENTO» DELLA SPAGNA

Da destra Pablo Casado e Santiago Abascal, a capo di Partido popular e Vox, hanno battuto sul ritornello del «tradimento alla Spagna» per l’intesa di Sánchez con i separatisti, nella speranza remota di convincere qualcuno a modificare il voto e in quella meglio riposta di aizzare l’elettorato. È finita 167 a 165, con 18 astensioni: tra citazioni di Manuel Azaña, Che Guevara e Groucho Marx, è risultata decisiva la fermezza di Tomás Guitarte, deputato del micro-partito provinciale Teruel Existe che ha ricevuto quasi 9 mila mail (alcune con contenuto intimidatorio) per cambiare lato della barricata e ha dovuto passare la notte prima del dibattito in un luogo segreto.

Santiago Abascal, leader del partito di estrema destra Vox. (Ansa)

DIFFICILE FARE RIFORME SULL’ECONOMIA

Per arrivare alla Moncloa, Sánchez ha dovuto negoziare l’astensione di due partiti regionali con largo seguito, Eh Bildu (formazione di estrema sinistra basca, con ex sostenitori di Eta fra le sue fila) ed Esquerra Republicana de Catalunya, la voce più forte dell’indipendentismo catalano. Come spiegato da Ignacio Molina, senior analyst del Real Instituto Elcano, in una situazione del genere è molto difficile intraprendere riforme strutturali in ambito economico, dove i due soci maggioritari di governo potrebbero non essere d’accordo, mentre sarà relativamente più semplice lavorare sul welfare o sulla politica estera e di sicurezza.

NESSUNA ALTERNATIVA POSSIBILE

Al contrario di quanto succede in Italia, secondo Molina in Spagna un governo eletto con un margine ristretto non è una condizione particolarmente grave perché non c’è nessuna alternativa possibile, vista anche l’attuale polarizzazione del parlamento. «Ci sono due casi in cui l’esecutivo potrebbe cadere: la rottura fra Psoe e Unidas Podemos, che porterebbe Sánchez alle dimissioni e il Paese alle elezioni, oppure il blocco di leggi importanti come quella di bilancio da parte di Erc e Eh Bildu».

Con la nostra gente in carcere non mi importa nulla della governabilità del Paese


Montserrat Bassa di Esquerra Republicana de Catalunya

In particolare è l’accordo fra Psoe ed Erc a destare preoccupazione, visto che i primi vorrebbero pacificare la Catalogna e i secondi ottenere l’indipendenza dalla Spagna. Montserrat Bassa di Erc, nel caso qualcuno nutrisse dubbi, durante il suo intervento ha detto: «Con la nostra gente in carcere non mi importa nulla della governabilità del Paese. Ma il dialogo è l’unica via per raggiungere una Repubblica catalana cordialmente con gli spagnoli».

CAOS NEL GOVERNO CATALANO

A questa naturale differenza di intenti si aggiunge il caos nel governo catalano, visto che l’attuale presidente della Generalitat, Quim Torra, separatista radicale, ha subìto dalla Junta electoral central un’inabilitazione come parlamentare per disobbedienza e se non vince il ricorso dovrà lasciare la presidenza: provvedimento che è subito (e alquanto paradossalmente, almeno dal punto di vista linguistico) stato definito «colpo di Stato» dagli indipendentisti. Nell’accordo scritto si conviene soltanto «il riconoscimento di un conflitto politico in Catalogna» e «la creazione di un tavolo di dialogo per risolverlo». Parole ricche di buoni propositi, ma di difficile traduzione in misure concrete.

SANCHEZ NON ACCETTERÀ UN REFERENDUM SULL’INDIPENDENZA

Ignacio Molina ha affermato: «Questi concetti hanno un forte impatto simbolico, ma vogliono dire molto poco dal punto di vista pratico. Il governo non farà nulla che alteri la Costituzione, e anche volendo non potrebbe perché gli mancano i numeri necessari. Sicuramente non accetterà un referendum sull’indipendenza catalana. Il tavolo di dialogo servirà per raffreddare il conflitto in atto e parlare di possibili riforme minori sull’autonomia, al massimo per risolvere la questione dei politici catalani in carcere».

I POPOLARI ASSUMONO POSIZIONI PIÙ RADICALI

Il dibattito di investitura ha anche mostrato un’accesa lotta per accreditarsi come leader dell’opposizione fra Casado e Abascal. Casado, che abitualmente viaggia in ambo i sensi di marcia tra il centro e la destra a seconda della convenienza, sembra avere assunto posizioni più radicali e puntare dritto a recuperare per il Pp i voti di Vox. Abascal, invece, non aveva certo bisogno di rinsaldare la sua immagine di uomo forte e intransigente difensore della nazione. Tuttavia non ha rinunciato a definire il nuovo governo come «un golpe istituzionale, matrimonio tra la bugia e il tradimento» e a concludere il suo intervento con un doppio «Viva España» e «Viva el rey» da capo ultrà, ricevendo per tutta risposta il coro dei suoi.

Inés Arrimadas di Ciudadanos.

CIUDADANOS LOTTA PER NON SPARIRE

Molto di questa sfida intestina alla destra dipende per Molina dalla sinistra, cioè da cosa farà il governo: «Se nella legislatura dominano temi economici e sociali ne trarrà vantaggio Casado. Ma più il dibattito si polarizza, peggio è per lui: il leader del Pp deve allo stesso tempo trattenere i suoi elettori più nazionalisti dalle lusinghe di Vox ed evitare le “guerre culturali” che il partito di Abascal potrebbe mettere in agenda». Lotterà invece per la sopravvivenza Inés Arrimadas, erede di Albert Rivera alla guida di Ciudadanos, che aveva proposto a Sánchez un patto di governo di costituzionalisti moderati. Nella Spagna profondamente divisa di oggi, una pura utopia.

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In Spagna via libera al nuovo governo di coalizione di Pedro Sanchez

Alla seconda votazione il premier ottiene il voto favorevole da parte del parlamento con una maggioranza risicatissima: 167 favorevoli e 165 contrari.

Per la prima volta dalla fine del franchismo anche la Spagna avrà il suo governo di coalizione. Il leader del Psoe e presidente uscente Pedro Sanchez è stato rieletto il 7 gennaio con una risicatissima maggioranza relativa, dopo che la prima votazione a maggioranza assoluta aveva segnato una sconfitta nel voto di fiducia al premier spagnolo. Sanchez ha ottenuto 167 voti a favore e 165 contrari: 18 gli astenuti.

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Via libera in Spagna al governo formato da socialisti e Podemos

I 13 deputati dell’Erc, la sinistra repubblicana catalana, hanno deciso che si asterranno nel voto di fiducia.

Via libera al governo in Spagna. I 13 deputati dell’Erc, la sinistra repubblicana catalana, il cui leader Oriol Junqueras è in carcere con una condanna a 13 anni per sedizione, hanno deciso che si asterranno nel voto di fiducia. Consentiranno così al premier socialista incaricato, Pedro Sanchez, di formare l’esecutivo con Podemos, il partito di sinistra guidato da Pablo Iglesias. La mossa dei catalani pone fine a una crisi politica che non si sbloccava da mesi, nonostante due elezioni anticipate. Il voto di fiducia è previsto nel fine settimana.

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Vox, la destra spagnola “contesa” da Salvini e Meloni

Il partito di Abascal per storia e valori è più vicino a Fratelli d’Italia che alla Lega. Ad allontanare gli iberici dal Carroccio pesano soprattutto le radici indipendentiste dei leghisti e il loro sostegno alla Catalogna.

Giorgia Meloni non ha nemmeno aspettato lo spoglio delle elezioni spagnole e, basandosi sugli exit poll, ha sottolineato la «grande affermazione di Vox» 14 minuti dopo la chiusura dei seggi.

I complimenti di Matteo Salvini sono arrivati un po’ più tardi, alle 21.36, corredati dalla foto con il leader del partito Santiago Abascal.

Dai temi cardine alla retorica, sia la Lega sia Fratelli d’Italia hanno molto in comune con Vox, la formazione di estrema destra che in meno di un anno è passata da 0 a 52 deputati in parlamento, diventando con il suo 15% la terza forza politica del Paese. E tutto l’interesse a trovare una sponda al di là dei Pirenei.

LA DESTRA IN SPAGNA SI È ALLINEATA AI SOVRANISTI SUI MIGRANTI

Come evidenzia il think tank Carr (Centre for Analysis of the Radical Right), la Spagna è stata per anni immune all’affermazione di partiti di destra radicale, secondo molti perché le istanze dell’elettorato più reazionario erano già incarnate dal Partido Popular (Pp). Dal 2014, però, un manipolo di dissidenti del Pp ha scelto di abbandonare la «derechita cobarde» (piccola destra codarda, ndr): secondo loro i popolari erano troppo moderati e succubi della sinistra, troppo timidi nel difendere i valori storici della destra spagnola.

In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste

La crescita repentina di Vox ricalca quella di tanti partiti di destra in Europa e nel mondo, compresi quelli italiani. Molto simile è il repertorio di temi e narrazioni, con qualche variazione. Si parte dalla questione migratoria, un tema che in Spagna come in Italia risulta parecchio divisivo, e vi si associa un attacco costante alle non meglio specificate «oligarchie di Bruxelles», suggerendo così una relazione fra le politiche dell’Unione europea e i fenomeni migratori e in contrapposizione agli interessi dei cittadini. Un’operazione pienamente riuscita nell’Ungheria di Viktor Orbán e che sta dando i suoi frutti in Francia, Italia e Germania.

Sulla sinistra, il leader di Vox Santiago Abascal saluta i suoi sostenitori durante la nottata elettorale.

L’insistenza ossessiva sulle «radici cristiane dell’Europa» non è certo una novità e nemmeno il lemma España lo primero, che ricorda da vicino sia l’America First di Trump che il nostrano Prima gli italiani. In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste e, per contrapposizione, a identificare il partito come autentico rappresentante della volontà popolare, soffocata dai media mainstream e dalle élite culturali del Paese. Quelli che per Salvini sono «i giornaloni e i professoroni», nella retorica di Abascal diventano la «dictadura progresista» che allunga le mani su stampa e televisione. Alle aspirazioni sovraniste si aggiungono temi culturali specifici della Spagna, come la difesa della caccia o della corrida, considerati patrimoni tradizionali messi in pericolo dalle ingerenze straniere.

FRATELLI D’ITALIA, IL PARTITO PIÙ VICINO ALLE POLITICHE DI VOX

Oltre alle convergenze generali, ci sono quelle particolari. I tre deputati di Vox eletti al Parlamento europeo appartengono al gruppo Conservatori e Riformisti (Erc), lo stesso di Fratelli d’Italia. Come il partito della Meloni, quello di Abascal fa della «difesa della famiglia tradizionale» un punto cardine del suo progetto politico. In Spagna, dove il movimento femminista ha molto più seguito rispetto all’Italia, questo si traduce non solo nei rifiuti di aborto, eutanasia e matrimoni omosessuali, ma anche con la contestazione della Legge sulla violenza di genere del 2004, che per Vox concede troppo spazio a denunce false e vittimizzazioni.

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica»

Il nazionalismo di Vox va di pari passo con un approccio molto discusso alla storia patria. Ferme restando le ovvie differenze fra Italia e Spagna e fra i rispettivi regimi autoritari del Novecento, appare chiaro il trait d’union con la destra del nostro Paese. Fratelli d’Italia non difende apertamente il lascito del fascismo, (come invece fanno movimenti quali CasaPound e Forza Nuova), ma ritiene il 25 aprile una «festa divisiva» e ha candidato alle ultime Europee un pronipote di Benito Mussolini. Per molti questi sono esempi di una strategia volta ad accattivarsi le simpatie dei nostalgici del Ventennio.

Il flirt con i «nietos de Franco», i nipoti di Franco, come sono chiamati in Spagna i sostenitori del dittatore spagnolo, risulta ancora più evidente nel caso di Vox: uno dei suoi cavalli di battaglia è l’abrogazione della Legge di memoria storica, una normativa volta a condannare il regime franchista e a riconoscere forme di compensazione alle vittime. L’opposizione alla riesumazione della salma di Francisco Franco, un tema caldo della campagna elettorale, è solo l’ultima delle prese di posizione in questo senso: normale allora che il discorso di Santiago Abascal dopo le elezioni venga accolto dagli Arriba España e che a qualche manifestazione di partito faccia capolino una bandiera franchista, proibita dalla costituzione spagnola.

Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica» del territorio nazionale. In Spagna questo messaggio si appropria dell’epica della Reconquista, il periodo storico culminato nel 1492 in cui gli Arabi vennero cacciati dalla penisola iberica. Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, come del resto fanno le formazioni politiche italiane, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità, in alcuni casi fornendo dati parziali o scorretti.

ABASCAL E SALVINI: UNA RELAZIONE COMPLICATA

Se l’asse con Fratelli d’Italia è lineare, quello con la Lega presenta invece un profilo più problematico. Fra Salvini e Abascal c’è piena sintonia rispetto al tema dell’immigrazione: rimpatri forzati, difesa delle frontiere e precedenza ai connazionali sono parole d’ordine per entrambi i partiti. Anche le boutade si assomigliano: quando il leader della Lega paventava il blocco navale per fermare le partenze dall’Africa, quello di Vox proponeva la realizzazione di un «muro impenentrabile» nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. Quasi speculare è pure la campagna per la sicurezza: Abascal, come Salvini, ritiene la difesa sempre legittima e afferma orgoglioso di portare una pistola con sé.

Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega

Al di là delle politiche condivise, ad accomunare Salvini e Abascal sono strategie comunicative e artifici retorici molto simili. Al pari del suo omologo, il leader di Vox non ha paura di sfidare il politicamente corretto e anzi ne fa un suo punto di forza, come quando sostiene la necessità di rimpatriare perfino i minori non accompagnati che sono entrati illegalmente nel territorio spagnolo. E come quella della Lega, la comunicazione di Vox punta in una duplice direzione: conquistare passo dopo passo l’elettorato moderato, senza alienarsi le simpatie di quello più oltranzista. Per farlo Abascal propone spesso frasi che si prestano a molteplici interpretazioni. Dire «non siamo né fascisti né antifascisti», lascia aperte molte porte, così come citare il comunismo per “neutralizzare” l’accusa di fascismo, un espediente molto caro pure al leader italiano. Entrambi vogliono trasmettere l’idea dell’uomo forte che guida la nazione, una concezione che as sume una sfumature “militare” grazie all’ostentato (e sempre ben divulgato) cameratismo con gli agenti delle forze dell’ordine.

Fra Vox e Lega esiste però un problema di fondo, che si ripresenta ciclicamente. Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici (soprattutto in riferimento a Catalogna e Paesi Baschi) e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega, nata come un partito secessionista e ancora federalista nello spirito. In Spagna non è passato inosservato il «pensiero al popolo catalano» che Salvini ha espresso nella recente manifestazione delle destre unite di Roma. La presunta simpatia dei leghisti per l’indipendentismo (in realtà retaggio molto vago e sconnesso dei tempi della Lega Nord) viene usata come arma dai detrattori di destra di Vox, come accaduto anche nel dibattito pre-elettorale. Su questo tema, vitale per Vox e fonte di parte del suo consenso, Abascal ha risposto a muso duro, chiedendo a Salvini di «non comportarsi come un burocrate e di non intromettersi nella sovranità spagnola». Un ringhio che nasconde un ghigno: Vox è entrato a pieno titolo nel club della destra europea e terrà fede al suo nome facendosi sentire ancora più forte.

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Vox, la destra spagnola “contesa” da Salvini e Meloni

Il partito di Abascal per storia e valori è più vicino a Fratelli d’Italia che alla Lega. Ad allontanare gli iberici dal Carroccio pesano soprattutto le radici indipendentiste dei leghisti e il loro sostegno alla Catalogna.

Giorgia Meloni non ha nemmeno aspettato lo spoglio delle elezioni spagnole e, basandosi sugli exit poll, ha sottolineato la «grande affermazione di Vox» 14 minuti dopo la chiusura dei seggi.

I complimenti di Matteo Salvini sono arrivati un po’ più tardi, alle 21.36, corredati dalla foto con il leader del partito Santiago Abascal.

Dai temi cardine alla retorica, sia la Lega sia Fratelli d’Italia hanno molto in comune con Vox, la formazione di estrema destra che in meno di un anno è passata da 0 a 52 deputati in parlamento, diventando con il suo 15% la terza forza politica del Paese. E tutto l’interesse a trovare una sponda al di là dei Pirenei.

LA DESTRA IN SPAGNA SI È ALLINEATA AI SOVRANISTI SUI MIGRANTI

Come evidenzia il think tank Carr (Centre for Analysis of the Radical Right), la Spagna è stata per anni immune all’affermazione di partiti di destra radicale, secondo molti perché le istanze dell’elettorato più reazionario erano già incarnate dal Partido Popular (Pp). Dal 2014, però, un manipolo di dissidenti del Pp ha scelto di abbandonare la «derechita cobarde» (piccola destra codarda, ndr): secondo loro i popolari erano troppo moderati e succubi della sinistra, troppo timidi nel difendere i valori storici della destra spagnola.

In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste

La crescita repentina di Vox ricalca quella di tanti partiti di destra in Europa e nel mondo, compresi quelli italiani. Molto simile è il repertorio di temi e narrazioni, con qualche variazione. Si parte dalla questione migratoria, un tema che in Spagna come in Italia risulta parecchio divisivo, e vi si associa un attacco costante alle non meglio specificate «oligarchie di Bruxelles», suggerendo così una relazione fra le politiche dell’Unione europea e i fenomeni migratori e in contrapposizione agli interessi dei cittadini. Un’operazione pienamente riuscita nell’Ungheria di Viktor Orbán e che sta dando i suoi frutti in Francia, Italia e Germania.

Sulla sinistra, il leader di Vox Santiago Abascal saluta i suoi sostenitori durante la nottata elettorale.

L’insistenza ossessiva sulle «radici cristiane dell’Europa» non è certo una novità e nemmeno il lemma España lo primero, che ricorda da vicino sia l’America First di Trump che il nostrano Prima gli italiani. In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste e, per contrapposizione, a identificare il partito come autentico rappresentante della volontà popolare, soffocata dai media mainstream e dalle élite culturali del Paese. Quelli che per Salvini sono «i giornaloni e i professoroni», nella retorica di Abascal diventano la «dictadura progresista» che allunga le mani su stampa e televisione. Alle aspirazioni sovraniste si aggiungono temi culturali specifici della Spagna, come la difesa della caccia o della corrida, considerati patrimoni tradizionali messi in pericolo dalle ingerenze straniere.

FRATELLI D’ITALIA, IL PARTITO PIÙ VICINO ALLE POLITICHE DI VOX

Oltre alle convergenze generali, ci sono quelle particolari. I tre deputati di Vox eletti al Parlamento europeo appartengono al gruppo Conservatori e Riformisti (Erc), lo stesso di Fratelli d’Italia. Come il partito della Meloni, quello di Abascal fa della «difesa della famiglia tradizionale» un punto cardine del suo progetto politico. In Spagna, dove il movimento femminista ha molto più seguito rispetto all’Italia, questo si traduce non solo nei rifiuti di aborto, eutanasia e matrimoni omosessuali, ma anche con la contestazione della Legge sulla violenza di genere del 2004, che per Vox concede troppo spazio a denunce false e vittimizzazioni.

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica»

Il nazionalismo di Vox va di pari passo con un approccio molto discusso alla storia patria. Ferme restando le ovvie differenze fra Italia e Spagna e fra i rispettivi regimi autoritari del Novecento, appare chiaro il trait d’union con la destra del nostro Paese. Fratelli d’Italia non difende apertamente il lascito del fascismo, (come invece fanno movimenti quali CasaPound e Forza Nuova), ma ritiene il 25 aprile una «festa divisiva» e ha candidato alle ultime Europee un pronipote di Benito Mussolini. Per molti questi sono esempi di una strategia volta ad accattivarsi le simpatie dei nostalgici del Ventennio.

Il flirt con i «nietos de Franco», i nipoti di Franco, come sono chiamati in Spagna i sostenitori del dittatore spagnolo, risulta ancora più evidente nel caso di Vox: uno dei suoi cavalli di battaglia è l’abrogazione della Legge di memoria storica, una normativa volta a condannare il regime franchista e a riconoscere forme di compensazione alle vittime. L’opposizione alla riesumazione della salma di Francisco Franco, un tema caldo della campagna elettorale, è solo l’ultima delle prese di posizione in questo senso: normale allora che il discorso di Santiago Abascal dopo le elezioni venga accolto dagli Arriba España e che a qualche manifestazione di partito faccia capolino una bandiera franchista, proibita dalla costituzione spagnola.

Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica» del territorio nazionale. In Spagna questo messaggio si appropria dell’epica della Reconquista, il periodo storico culminato nel 1492 in cui gli Arabi vennero cacciati dalla penisola iberica. Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, come del resto fanno le formazioni politiche italiane, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità, in alcuni casi fornendo dati parziali o scorretti.

ABASCAL E SALVINI: UNA RELAZIONE COMPLICATA

Se l’asse con Fratelli d’Italia è lineare, quello con la Lega presenta invece un profilo più problematico. Fra Salvini e Abascal c’è piena sintonia rispetto al tema dell’immigrazione: rimpatri forzati, difesa delle frontiere e precedenza ai connazionali sono parole d’ordine per entrambi i partiti. Anche le boutade si assomigliano: quando il leader della Lega paventava il blocco navale per fermare le partenze dall’Africa, quello di Vox proponeva la realizzazione di un «muro impenentrabile» nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. Quasi speculare è pure la campagna per la sicurezza: Abascal, come Salvini, ritiene la difesa sempre legittima e afferma orgoglioso di portare una pistola con sé.

Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega

Al di là delle politiche condivise, ad accomunare Salvini e Abascal sono strategie comunicative e artifici retorici molto simili. Al pari del suo omologo, il leader di Vox non ha paura di sfidare il politicamente corretto e anzi ne fa un suo punto di forza, come quando sostiene la necessità di rimpatriare perfino i minori non accompagnati che sono entrati illegalmente nel territorio spagnolo. E come quella della Lega, la comunicazione di Vox punta in una duplice direzione: conquistare passo dopo passo l’elettorato moderato, senza alienarsi le simpatie di quello più oltranzista. Per farlo Abascal propone spesso frasi che si prestano a molteplici interpretazioni. Dire «non siamo né fascisti né antifascisti», lascia aperte molte porte, così come citare il comunismo per “neutralizzare” l’accusa di fascismo, un espediente molto caro pure al leader italiano. Entrambi vogliono trasmettere l’idea dell’uomo forte che guida la nazione, una concezione che as sume una sfumature “militare” grazie all’ostentato (e sempre ben divulgato) cameratismo con gli agenti delle forze dell’ordine.

Fra Vox e Lega esiste però un problema di fondo, che si ripresenta ciclicamente. Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici (soprattutto in riferimento a Catalogna e Paesi Baschi) e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega, nata come un partito secessionista e ancora federalista nello spirito. In Spagna non è passato inosservato il «pensiero al popolo catalano» che Salvini ha espresso nella recente manifestazione delle destre unite di Roma. La presunta simpatia dei leghisti per l’indipendentismo (in realtà retaggio molto vago e sconnesso dei tempi della Lega Nord) viene usata come arma dai detrattori di destra di Vox, come accaduto anche nel dibattito pre-elettorale. Su questo tema, vitale per Vox e fonte di parte del suo consenso, Abascal ha risposto a muso duro, chiedendo a Salvini di «non comportarsi come un burocrate e di non intromettersi nella sovranità spagnola». Un ringhio che nasconde un ghigno: Vox è entrato a pieno titolo nel club della destra europea e terrà fede al suo nome facendosi sentire ancora più forte.

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Vox, la destra spagnola “contesa” da Salvini e Meloni

Il partito di Abascal per storia e valori è più vicino a Fratelli d’Italia che alla Lega. Ad allontanare gli iberici dal Carroccio pesano soprattutto le radici indipendentiste dei leghisti e il loro sostegno alla Catalogna.

Giorgia Meloni non ha nemmeno aspettato lo spoglio delle elezioni spagnole e, basandosi sugli exit poll, ha sottolineato la «grande affermazione di Vox» 14 minuti dopo la chiusura dei seggi.

I complimenti di Matteo Salvini sono arrivati un po’ più tardi, alle 21.36, corredati dalla foto con il leader del partito Santiago Abascal.

Dai temi cardine alla retorica, sia la Lega sia Fratelli d’Italia hanno molto in comune con Vox, la formazione di estrema destra che in meno di un anno è passata da 0 a 52 deputati in parlamento, diventando con il suo 15% la terza forza politica del Paese. E tutto l’interesse a trovare una sponda al di là dei Pirenei.

LA DESTRA IN SPAGNA SI È ALLINEATA AI SOVRANISTI SUI MIGRANTI

Come evidenzia il think tank Carr (Centre for Analysis of the Radical Right), la Spagna è stata per anni immune all’affermazione di partiti di destra radicale, secondo molti perché le istanze dell’elettorato più reazionario erano già incarnate dal Partido Popular (Pp). Dal 2014, però, un manipolo di dissidenti del Pp ha scelto di abbandonare la «derechita cobarde» (piccola destra codarda, ndr): secondo loro i popolari erano troppo moderati e succubi della sinistra, troppo timidi nel difendere i valori storici della destra spagnola.

In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste

La crescita repentina di Vox ricalca quella di tanti partiti di destra in Europa e nel mondo, compresi quelli italiani. Molto simile è il repertorio di temi e narrazioni, con qualche variazione. Si parte dalla questione migratoria, un tema che in Spagna come in Italia risulta parecchio divisivo, e vi si associa un attacco costante alle non meglio specificate «oligarchie di Bruxelles», suggerendo così una relazione fra le politiche dell’Unione europea e i fenomeni migratori e in contrapposizione agli interessi dei cittadini. Un’operazione pienamente riuscita nell’Ungheria di Viktor Orbán e che sta dando i suoi frutti in Francia, Italia e Germania.

Sulla sinistra, il leader di Vox Santiago Abascal saluta i suoi sostenitori durante la nottata elettorale.

L’insistenza ossessiva sulle «radici cristiane dell’Europa» non è certo una novità e nemmeno il lemma España lo primero, che ricorda da vicino sia l’America First di Trump che il nostrano Prima gli italiani. In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste e, per contrapposizione, a identificare il partito come autentico rappresentante della volontà popolare, soffocata dai media mainstream e dalle élite culturali del Paese. Quelli che per Salvini sono «i giornaloni e i professoroni», nella retorica di Abascal diventano la «dictadura progresista» che allunga le mani su stampa e televisione. Alle aspirazioni sovraniste si aggiungono temi culturali specifici della Spagna, come la difesa della caccia o della corrida, considerati patrimoni tradizionali messi in pericolo dalle ingerenze straniere.

FRATELLI D’ITALIA, IL PARTITO PIÙ VICINO ALLE POLITICHE DI VOX

Oltre alle convergenze generali, ci sono quelle particolari. I tre deputati di Vox eletti al Parlamento europeo appartengono al gruppo Conservatori e Riformisti (Erc), lo stesso di Fratelli d’Italia. Come il partito della Meloni, quello di Abascal fa della «difesa della famiglia tradizionale» un punto cardine del suo progetto politico. In Spagna, dove il movimento femminista ha molto più seguito rispetto all’Italia, questo si traduce non solo nei rifiuti di aborto, eutanasia e matrimoni omosessuali, ma anche con la contestazione della Legge sulla violenza di genere del 2004, che per Vox concede troppo spazio a denunce false e vittimizzazioni.

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica»

Il nazionalismo di Vox va di pari passo con un approccio molto discusso alla storia patria. Ferme restando le ovvie differenze fra Italia e Spagna e fra i rispettivi regimi autoritari del Novecento, appare chiaro il trait d’union con la destra del nostro Paese. Fratelli d’Italia non difende apertamente il lascito del fascismo, (come invece fanno movimenti quali CasaPound e Forza Nuova), ma ritiene il 25 aprile una «festa divisiva» e ha candidato alle ultime Europee un pronipote di Benito Mussolini. Per molti questi sono esempi di una strategia volta ad accattivarsi le simpatie dei nostalgici del Ventennio.

Il flirt con i «nietos de Franco», i nipoti di Franco, come sono chiamati in Spagna i sostenitori del dittatore spagnolo, risulta ancora più evidente nel caso di Vox: uno dei suoi cavalli di battaglia è l’abrogazione della Legge di memoria storica, una normativa volta a condannare il regime franchista e a riconoscere forme di compensazione alle vittime. L’opposizione alla riesumazione della salma di Francisco Franco, un tema caldo della campagna elettorale, è solo l’ultima delle prese di posizione in questo senso: normale allora che il discorso di Santiago Abascal dopo le elezioni venga accolto dagli Arriba España e che a qualche manifestazione di partito faccia capolino una bandiera franchista, proibita dalla costituzione spagnola.

Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica» del territorio nazionale. In Spagna questo messaggio si appropria dell’epica della Reconquista, il periodo storico culminato nel 1492 in cui gli Arabi vennero cacciati dalla penisola iberica. Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, come del resto fanno le formazioni politiche italiane, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità, in alcuni casi fornendo dati parziali o scorretti.

ABASCAL E SALVINI: UNA RELAZIONE COMPLICATA

Se l’asse con Fratelli d’Italia è lineare, quello con la Lega presenta invece un profilo più problematico. Fra Salvini e Abascal c’è piena sintonia rispetto al tema dell’immigrazione: rimpatri forzati, difesa delle frontiere e precedenza ai connazionali sono parole d’ordine per entrambi i partiti. Anche le boutade si assomigliano: quando il leader della Lega paventava il blocco navale per fermare le partenze dall’Africa, quello di Vox proponeva la realizzazione di un «muro impenentrabile» nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. Quasi speculare è pure la campagna per la sicurezza: Abascal, come Salvini, ritiene la difesa sempre legittima e afferma orgoglioso di portare una pistola con sé.

Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega

Al di là delle politiche condivise, ad accomunare Salvini e Abascal sono strategie comunicative e artifici retorici molto simili. Al pari del suo omologo, il leader di Vox non ha paura di sfidare il politicamente corretto e anzi ne fa un suo punto di forza, come quando sostiene la necessità di rimpatriare perfino i minori non accompagnati che sono entrati illegalmente nel territorio spagnolo. E come quella della Lega, la comunicazione di Vox punta in una duplice direzione: conquistare passo dopo passo l’elettorato moderato, senza alienarsi le simpatie di quello più oltranzista. Per farlo Abascal propone spesso frasi che si prestano a molteplici interpretazioni. Dire «non siamo né fascisti né antifascisti», lascia aperte molte porte, così come citare il comunismo per “neutralizzare” l’accusa di fascismo, un espediente molto caro pure al leader italiano. Entrambi vogliono trasmettere l’idea dell’uomo forte che guida la nazione, una concezione che as sume una sfumature “militare” grazie all’ostentato (e sempre ben divulgato) cameratismo con gli agenti delle forze dell’ordine.

Fra Vox e Lega esiste però un problema di fondo, che si ripresenta ciclicamente. Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici (soprattutto in riferimento a Catalogna e Paesi Baschi) e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega, nata come un partito secessionista e ancora federalista nello spirito. In Spagna non è passato inosservato il «pensiero al popolo catalano» che Salvini ha espresso nella recente manifestazione delle destre unite di Roma. La presunta simpatia dei leghisti per l’indipendentismo (in realtà retaggio molto vago e sconnesso dei tempi della Lega Nord) viene usata come arma dai detrattori di destra di Vox, come accaduto anche nel dibattito pre-elettorale. Su questo tema, vitale per Vox e fonte di parte del suo consenso, Abascal ha risposto a muso duro, chiedendo a Salvini di «non comportarsi come un burocrate e di non intromettersi nella sovranità spagnola». Un ringhio che nasconde un ghigno: Vox è entrato a pieno titolo nel club della destra europea e terrà fede al suo nome facendosi sentire ancora più forte.

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Vox, la destra spagnola “contesa” da Salvini e Meloni

Il partito di Abascal per storia e valori è più vicino a Fratelli d’Italia che alla Lega. Ad allontanare gli iberici dal Carroccio pesano soprattutto le radici indipendentiste dei leghisti e il loro sostegno alla Catalogna.

Giorgia Meloni non ha nemmeno aspettato lo spoglio delle elezioni spagnole e, basandosi sugli exit poll, ha sottolineato la «grande affermazione di Vox» 14 minuti dopo la chiusura dei seggi.

I complimenti di Matteo Salvini sono arrivati un po’ più tardi, alle 21.36, corredati dalla foto con il leader del partito Santiago Abascal.

Dai temi cardine alla retorica, sia la Lega sia Fratelli d’Italia hanno molto in comune con Vox, la formazione di estrema destra che in meno di un anno è passata da 0 a 52 deputati in parlamento, diventando con il suo 15% la terza forza politica del Paese. E tutto l’interesse a trovare una sponda al di là dei Pirenei.

LA DESTRA IN SPAGNA SI È ALLINEATA AI SOVRANISTI SUI MIGRANTI

Come evidenzia il think tank Carr (Centre for Analysis of the Radical Right), la Spagna è stata per anni immune all’affermazione di partiti di destra radicale, secondo molti perché le istanze dell’elettorato più reazionario erano già incarnate dal Partido Popular (Pp). Dal 2014, però, un manipolo di dissidenti del Pp ha scelto di abbandonare la «derechita cobarde» (piccola destra codarda, ndr): secondo loro i popolari erano troppo moderati e succubi della sinistra, troppo timidi nel difendere i valori storici della destra spagnola.

In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste

La crescita repentina di Vox ricalca quella di tanti partiti di destra in Europa e nel mondo, compresi quelli italiani. Molto simile è il repertorio di temi e narrazioni, con qualche variazione. Si parte dalla questione migratoria, un tema che in Spagna come in Italia risulta parecchio divisivo, e vi si associa un attacco costante alle non meglio specificate «oligarchie di Bruxelles», suggerendo così una relazione fra le politiche dell’Unione europea e i fenomeni migratori e in contrapposizione agli interessi dei cittadini. Un’operazione pienamente riuscita nell’Ungheria di Viktor Orbán e che sta dando i suoi frutti in Francia, Italia e Germania.

Sulla sinistra, il leader di Vox Santiago Abascal saluta i suoi sostenitori durante la nottata elettorale.

L’insistenza ossessiva sulle «radici cristiane dell’Europa» non è certo una novità e nemmeno il lemma España lo primero, che ricorda da vicino sia l’America First di Trump che il nostrano Prima gli italiani. In maniera simile a quella della Lega e di Fratelli d’Italia, la narrazione di Vox tende a dipingere come «anti-spagnolo» chi non persegue idee nazionaliste e, per contrapposizione, a identificare il partito come autentico rappresentante della volontà popolare, soffocata dai media mainstream e dalle élite culturali del Paese. Quelli che per Salvini sono «i giornaloni e i professoroni», nella retorica di Abascal diventano la «dictadura progresista» che allunga le mani su stampa e televisione. Alle aspirazioni sovraniste si aggiungono temi culturali specifici della Spagna, come la difesa della caccia o della corrida, considerati patrimoni tradizionali messi in pericolo dalle ingerenze straniere.

FRATELLI D’ITALIA, IL PARTITO PIÙ VICINO ALLE POLITICHE DI VOX

Oltre alle convergenze generali, ci sono quelle particolari. I tre deputati di Vox eletti al Parlamento europeo appartengono al gruppo Conservatori e Riformisti (Erc), lo stesso di Fratelli d’Italia. Come il partito della Meloni, quello di Abascal fa della «difesa della famiglia tradizionale» un punto cardine del suo progetto politico. In Spagna, dove il movimento femminista ha molto più seguito rispetto all’Italia, questo si traduce non solo nei rifiuti di aborto, eutanasia e matrimoni omosessuali, ma anche con la contestazione della Legge sulla violenza di genere del 2004, che per Vox concede troppo spazio a denunce false e vittimizzazioni.

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica»

Il nazionalismo di Vox va di pari passo con un approccio molto discusso alla storia patria. Ferme restando le ovvie differenze fra Italia e Spagna e fra i rispettivi regimi autoritari del Novecento, appare chiaro il trait d’union con la destra del nostro Paese. Fratelli d’Italia non difende apertamente il lascito del fascismo, (come invece fanno movimenti quali CasaPound e Forza Nuova), ma ritiene il 25 aprile una «festa divisiva» e ha candidato alle ultime Europee un pronipote di Benito Mussolini. Per molti questi sono esempi di una strategia volta ad accattivarsi le simpatie dei nostalgici del Ventennio.

Il flirt con i «nietos de Franco», i nipoti di Franco, come sono chiamati in Spagna i sostenitori del dittatore spagnolo, risulta ancora più evidente nel caso di Vox: uno dei suoi cavalli di battaglia è l’abrogazione della Legge di memoria storica, una normativa volta a condannare il regime franchista e a riconoscere forme di compensazione alle vittime. L’opposizione alla riesumazione della salma di Francisco Franco, un tema caldo della campagna elettorale, è solo l’ultima delle prese di posizione in questo senso: normale allora che il discorso di Santiago Abascal dopo le elezioni venga accolto dagli Arriba España e che a qualche manifestazione di partito faccia capolino una bandiera franchista, proibita dalla costituzione spagnola.

Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità

Con toni ancora più accesi dei nazionalisti italiani, Vox lancia spesso l’allarme per una presunta «invasione islamica» del territorio nazionale. In Spagna questo messaggio si appropria dell’epica della Reconquista, il periodo storico culminato nel 1492 in cui gli Arabi vennero cacciati dalla penisola iberica. Pur rifiutando l’etichetta di partito xenofobo, come del resto fanno le formazioni politiche italiane, Vox non manca di suggerire la classica associazione fra immigrazione e criminalità, in alcuni casi fornendo dati parziali o scorretti.

ABASCAL E SALVINI: UNA RELAZIONE COMPLICATA

Se l’asse con Fratelli d’Italia è lineare, quello con la Lega presenta invece un profilo più problematico. Fra Salvini e Abascal c’è piena sintonia rispetto al tema dell’immigrazione: rimpatri forzati, difesa delle frontiere e precedenza ai connazionali sono parole d’ordine per entrambi i partiti. Anche le boutade si assomigliano: quando il leader della Lega paventava il blocco navale per fermare le partenze dall’Africa, quello di Vox proponeva la realizzazione di un «muro impenentrabile» nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla. Quasi speculare è pure la campagna per la sicurezza: Abascal, come Salvini, ritiene la difesa sempre legittima e afferma orgoglioso di portare una pistola con sé.

Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega

Al di là delle politiche condivise, ad accomunare Salvini e Abascal sono strategie comunicative e artifici retorici molto simili. Al pari del suo omologo, il leader di Vox non ha paura di sfidare il politicamente corretto e anzi ne fa un suo punto di forza, come quando sostiene la necessità di rimpatriare perfino i minori non accompagnati che sono entrati illegalmente nel territorio spagnolo. E come quella della Lega, la comunicazione di Vox punta in una duplice direzione: conquistare passo dopo passo l’elettorato moderato, senza alienarsi le simpatie di quello più oltranzista. Per farlo Abascal propone spesso frasi che si prestano a molteplici interpretazioni. Dire «non siamo né fascisti né antifascisti», lascia aperte molte porte, così come citare il comunismo per “neutralizzare” l’accusa di fascismo, un espediente molto caro pure al leader italiano. Entrambi vogliono trasmettere l’idea dell’uomo forte che guida la nazione, una concezione che as sume una sfumature “militare” grazie all’ostentato (e sempre ben divulgato) cameratismo con gli agenti delle forze dell’ordine.

Fra Vox e Lega esiste però un problema di fondo, che si ripresenta ciclicamente. Il partito di Abascal è fortemente centralista, propone la soppressione degli statuti autonomici (soprattutto in riferimento a Catalogna e Paesi Baschi) e auspica il ritorno allo Stato di tutte le competenze. Una visione che stride con quella della Lega, nata come un partito secessionista e ancora federalista nello spirito. In Spagna non è passato inosservato il «pensiero al popolo catalano» che Salvini ha espresso nella recente manifestazione delle destre unite di Roma. La presunta simpatia dei leghisti per l’indipendentismo (in realtà retaggio molto vago e sconnesso dei tempi della Lega Nord) viene usata come arma dai detrattori di destra di Vox, come accaduto anche nel dibattito pre-elettorale. Su questo tema, vitale per Vox e fonte di parte del suo consenso, Abascal ha risposto a muso duro, chiedendo a Salvini di «non comportarsi come un burocrate e di non intromettersi nella sovranità spagnola». Un ringhio che nasconde un ghigno: Vox è entrato a pieno titolo nel club della destra europea e terrà fede al suo nome facendosi sentire ancora più forte.

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La parabola di Rivera, grande sconfitto delle elezioni in Spagna

Dall’etichetta di uomo nuovo all’addio alla politica. Giravolte e contraddizioni del leader di Ciudadanos.

Nel 2015 era l’uomo nuovo, etichettato da più parti come il «Matteo Renzi di Spagna». Quattro anni – e quattro elezioni – più tardi, Albert Rivera è il grande sconfitto dell’agone politico a Madrid. All’indomani del voto che ne ha sancito la debacle, il presidente di Ciuadanos ha lasciato la guida del partito e, con essa, la politica. «Voglio essere felice», ha detto l’11 novembre in conferenza stampa, «lo sono stato, però adesso lo sarò fuori dalla politica».

UN’EMORRAGIA DA 2,5 MILIONI DI VOTI

Negli ultimi sette mesi, la formazione nata nel 2005 in Catalogna e poi apertasi a tutto il Paese ha perso 47 seggi: dai 57 di aprile ai 10 di novembre. Un’emorragia da circa 2,5 milioni di voti. Il partito naranja è ora sesto per consenso a livello nazionale, superato dall’ultradestra di Vox, da Unidas Podemos e dai nemici giurati di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc); è addirittura ottavo a Barcellona, dove mosse i primi passi e raccolse i primi applausi. «Mi dimetto da presidente di Ciudadanos, affinchè un congresso nazionale elegga il futuro del progetto», ha annunciato davanti ai giornalisti Rivera. Che solo sei mesi fa si autoproclamava guida dell’opposizione al premier socialista Pedro Sanchez.

LA SPACCATURA IN SENO AL PARTITO

Avvocato di professione, 39 anni, da 13 punto di riferimento del partito liberale e anti-indipendentista, Rivera ha pagato una politica spesso ondivaga sulle alleanze, oltre a fratture insanabili in seno a Ciudadanos. Ad aprile, Rivera si presentò agli elettori dicendo un secco “no” a qualsiasi tipo di accordo con i socialisti di Sanchez, venendo premiato con 57 seggi e issando CS a terzo partito di Spagna, a sole nove lunghezze dal Partido popular. La linea dura a un’intesa che avrebbe portato Ciudadanos al governo (col Psoe sarebbe arrivato a 180 seggi, quattro sopra la maggioranza) ha spaccato i vertici del partito. Risultato: le dimissioni di quattro dei 50 membri della ejecutiva e l’addio di Francesc de Carreras, co-fondatore del partito.

A destra, l’ormai ex leader di Ciudadanos, Albert Rivera.

LE GIRAVOLTE SU SANCHEZ E RAJOY

A ridosso del voto di novembre, l’apertura al premier socialista che ha riportato alla mente giravolte passate. Come quando, tre anni fa, Rivera garantì che non avrebbe appoggiato per alcuna ragione un esecutivo Rajoy, salvo cambiare idea al momento del voto. Questa spiccata e reiterata propensione al riposizionamento, unita a un’intransigenza poco moderata sul dossier catalano, ha contribuito ad alienare l’elettorato centrista di Ciudadanos, che in buona parte è tornato a votare popular. Mentre quello più a destra è migrato verso Vox. Mettendo Rivera spalle al muro.

LA ROTTAMAZIONE IN SALSA SPAGNOLA

Sono lontani i tempi in cui il fu enfant prodige irrompeva sulla scena politica invocando, nel dicembre 2015, una «rigenerazione democratica» che tanto ricordava la renziana «rottamazione». Solo uno dei punti di contatto con l’allora premier italiano, da cui Rivera mutuava anche una certa passione per la spettacolarizzazione della politica. Emblematico, in questo senso, l’evento cardine della campagna di quattro anni fa, più simile a uno show televisivo che a un appuntamento elettorale.

Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico

Volto pulito, modi spigliati, Rivera intrigava un elettorato fiaccato da scandali e polemiche. Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista, riformista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico. In primis, unendo le forze – seppur solo a livello regionale in Andalusia – all’ultradestra euroscettica di Vox. Era il dicembre del 2018. Cinque mesi dopo Rivera si sarebbe presentato alle elezioni europee a braccetto con l’Alde ed Emmanuel Macron.

LA VIRATA A DESTRA (CON LO SGUARDO A SINISTRA)

La virata a destra, a dire il vero, era iniziata da qualche tempo. Nel 2017, per la precisione, quando la Asamblea de Ciudadanos approvò l’eliminazione di ogni riferimento alla socialdemocrazia dall’ideologia del partito, nonostante un’agenda in tema di diritti e proposte sociali – difesa della surrogazione di maternità, diritti Lgbti, riforma del sistema educativo – più compatibile coi socialisti che col centrodestra. Ma anche questo, soprattutto questo, è stato Rivera. Trasversale, oltre i confini del contraddittorio. Troppo per un elettorato alla disperata ricerca di certezze.

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La parabola di Rivera, grande sconfitto delle elezioni in Spagna

Dall’etichetta di uomo nuovo all’addio alla politica. Giravolte e contraddizioni del leader di Ciudadanos.

Nel 2015 era l’uomo nuovo, etichettato da più parti come il «Matteo Renzi di Spagna». Quattro anni – e quattro elezioni – più tardi, Albert Rivera è il grande sconfitto dell’agone politico a Madrid. All’indomani del voto che ne ha sancito la debacle, il presidente di Ciuadanos ha lasciato la guida del partito e, con essa, la politica. «Voglio essere felice», ha detto l’11 novembre in conferenza stampa, «lo sono stato, però adesso lo sarò fuori dalla politica».

UN’EMORRAGIA DA 2,5 MILIONI DI VOTI

Negli ultimi sette mesi, la formazione nata nel 2005 in Catalogna e poi apertasi a tutto il Paese ha perso 47 seggi: dai 57 di aprile ai 10 di novembre. Un’emorragia da circa 2,5 milioni di voti. Il partito naranja è ora sesto per consenso a livello nazionale, superato dall’ultradestra di Vox, da Unidas Podemos e dai nemici giurati di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc); è addirittura ottavo a Barcellona, dove mosse i primi passi e raccolse i primi applausi. «Mi dimetto da presidente di Ciudadanos, affinchè un congresso nazionale elegga il futuro del progetto», ha annunciato davanti ai giornalisti Rivera. Che solo sei mesi fa si autoproclamava guida dell’opposizione al premier socialista Pedro Sanchez.

LA SPACCATURA IN SENO AL PARTITO

Avvocato di professione, 39 anni, da 13 punto di riferimento del partito liberale e anti-indipendentista, Rivera ha pagato una politica spesso ondivaga sulle alleanze, oltre a fratture insanabili in seno a Ciudadanos. Ad aprile, Rivera si presentò agli elettori dicendo un secco “no” a qualsiasi tipo di accordo con i socialisti di Sanchez, venendo premiato con 57 seggi e issando CS a terzo partito di Spagna, a sole nove lunghezze dal Partido popular. La linea dura a un’intesa che avrebbe portato Ciudadanos al governo (col Psoe sarebbe arrivato a 180 seggi, quattro sopra la maggioranza) ha spaccato i vertici del partito. Risultato: le dimissioni di quattro dei 50 membri della ejecutiva e l’addio di Francesc de Carreras, co-fondatore del partito.

A destra, l’ormai ex leader di Ciudadanos, Albert Rivera.

LE GIRAVOLTE SU SANCHEZ E RAJOY

A ridosso del voto di novembre, l’apertura al premier socialista che ha riportato alla mente giravolte passate. Come quando, tre anni fa, Rivera garantì che non avrebbe appoggiato per alcuna ragione un esecutivo Rajoy, salvo cambiare idea al momento del voto. Questa spiccata e reiterata propensione al riposizionamento, unita a un’intransigenza poco moderata sul dossier catalano, ha contribuito ad alienare l’elettorato centrista di Ciudadanos, che in buona parte è tornato a votare popular. Mentre quello più a destra è migrato verso Vox. Mettendo Rivera spalle al muro.

LA ROTTAMAZIONE IN SALSA SPAGNOLA

Sono lontani i tempi in cui il fu enfant prodige irrompeva sulla scena politica invocando, nel dicembre 2015, una «rigenerazione democratica» che tanto ricordava la renziana «rottamazione». Solo uno dei punti di contatto con l’allora premier italiano, da cui Rivera mutuava anche una certa passione per la spettacolarizzazione della politica. Emblematico, in questo senso, l’evento cardine della campagna di quattro anni fa, più simile a uno show televisivo che a un appuntamento elettorale.

Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico

Volto pulito, modi spigliati, Rivera intrigava un elettorato fiaccato da scandali e polemiche. Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista, riformista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico. In primis, unendo le forze – seppur solo a livello regionale in Andalusia – all’ultradestra euroscettica di Vox. Era il dicembre del 2018. Cinque mesi dopo Rivera si sarebbe presentato alle elezioni europee a braccetto con l’Alde ed Emmanuel Macron.

LA VIRATA A DESTRA (CON LO SGUARDO A SINISTRA)

La virata a destra, a dire il vero, era iniziata da qualche tempo. Nel 2017, per la precisione, quando la Asamblea de Ciudadanos approvò l’eliminazione di ogni riferimento alla socialdemocrazia dall’ideologia del partito, nonostante un’agenda in tema di diritti e proposte sociali – difesa della surrogazione di maternità, diritti Lgbti, riforma del sistema educativo – più compatibile coi socialisti che col centrodestra. Ma anche questo, soprattutto questo, è stato Rivera. Trasversale, oltre i confini del contraddittorio. Troppo per un elettorato alla disperata ricerca di certezze.

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La parabola di Rivera, grande sconfitto delle elezioni in Spagna

Dall’etichetta di uomo nuovo all’addio alla politica. Giravolte e contraddizioni del leader di Ciudadanos.

Nel 2015 era l’uomo nuovo, etichettato da più parti come il «Matteo Renzi di Spagna». Quattro anni – e quattro elezioni – più tardi, Albert Rivera è il grande sconfitto dell’agone politico a Madrid. All’indomani del voto che ne ha sancito la debacle, il presidente di Ciuadanos ha lasciato la guida del partito e, con essa, la politica. «Voglio essere felice», ha detto l’11 novembre in conferenza stampa, «lo sono stato, però adesso lo sarò fuori dalla politica».

UN’EMORRAGIA DA 2,5 MILIONI DI VOTI

Negli ultimi sette mesi, la formazione nata nel 2005 in Catalogna e poi apertasi a tutto il Paese ha perso 47 seggi: dai 57 di aprile ai 10 di novembre. Un’emorragia da circa 2,5 milioni di voti. Il partito naranja è ora sesto per consenso a livello nazionale, superato dall’ultradestra di Vox, da Unidas Podemos e dai nemici giurati di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc); è addirittura ottavo a Barcellona, dove mosse i primi passi e raccolse i primi applausi. «Mi dimetto da presidente di Ciudadanos, affinchè un congresso nazionale elegga il futuro del progetto», ha annunciato davanti ai giornalisti Rivera. Che solo sei mesi fa si autoproclamava guida dell’opposizione al premier socialista Pedro Sanchez.

LA SPACCATURA IN SENO AL PARTITO

Avvocato di professione, 39 anni, da 13 punto di riferimento del partito liberale e anti-indipendentista, Rivera ha pagato una politica spesso ondivaga sulle alleanze, oltre a fratture insanabili in seno a Ciudadanos. Ad aprile, Rivera si presentò agli elettori dicendo un secco “no” a qualsiasi tipo di accordo con i socialisti di Sanchez, venendo premiato con 57 seggi e issando CS a terzo partito di Spagna, a sole nove lunghezze dal Partido popular. La linea dura a un’intesa che avrebbe portato Ciudadanos al governo (col Psoe sarebbe arrivato a 180 seggi, quattro sopra la maggioranza) ha spaccato i vertici del partito. Risultato: le dimissioni di quattro dei 50 membri della ejecutiva e l’addio di Francesc de Carreras, co-fondatore del partito.

A destra, l’ormai ex leader di Ciudadanos, Albert Rivera.

LE GIRAVOLTE SU SANCHEZ E RAJOY

A ridosso del voto di novembre, l’apertura al premier socialista che ha riportato alla mente giravolte passate. Come quando, tre anni fa, Rivera garantì che non avrebbe appoggiato per alcuna ragione un esecutivo Rajoy, salvo cambiare idea al momento del voto. Questa spiccata e reiterata propensione al riposizionamento, unita a un’intransigenza poco moderata sul dossier catalano, ha contribuito ad alienare l’elettorato centrista di Ciudadanos, che in buona parte è tornato a votare popular. Mentre quello più a destra è migrato verso Vox. Mettendo Rivera spalle al muro.

LA ROTTAMAZIONE IN SALSA SPAGNOLA

Sono lontani i tempi in cui il fu enfant prodige irrompeva sulla scena politica invocando, nel dicembre 2015, una «rigenerazione democratica» che tanto ricordava la renziana «rottamazione». Solo uno dei punti di contatto con l’allora premier italiano, da cui Rivera mutuava anche una certa passione per la spettacolarizzazione della politica. Emblematico, in questo senso, l’evento cardine della campagna di quattro anni fa, più simile a uno show televisivo che a un appuntamento elettorale.

Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico

Volto pulito, modi spigliati, Rivera intrigava un elettorato fiaccato da scandali e polemiche. Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista, riformista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico. In primis, unendo le forze – seppur solo a livello regionale in Andalusia – all’ultradestra euroscettica di Vox. Era il dicembre del 2018. Cinque mesi dopo Rivera si sarebbe presentato alle elezioni europee a braccetto con l’Alde ed Emmanuel Macron.

LA VIRATA A DESTRA (CON LO SGUARDO A SINISTRA)

La virata a destra, a dire il vero, era iniziata da qualche tempo. Nel 2017, per la precisione, quando la Asamblea de Ciudadanos approvò l’eliminazione di ogni riferimento alla socialdemocrazia dall’ideologia del partito, nonostante un’agenda in tema di diritti e proposte sociali – difesa della surrogazione di maternità, diritti Lgbti, riforma del sistema educativo – più compatibile coi socialisti che col centrodestra. Ma anche questo, soprattutto questo, è stato Rivera. Trasversale, oltre i confini del contraddittorio. Troppo per un elettorato alla disperata ricerca di certezze.

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La parabola di Rivera, grande sconfitto delle elezioni in Spagna

Dall’etichetta di uomo nuovo all’addio alla politica. Giravolte e contraddizioni del leader di Ciudadanos.

Nel 2015 era l’uomo nuovo, etichettato da più parti come il «Matteo Renzi di Spagna». Quattro anni – e quattro elezioni – più tardi, Albert Rivera è il grande sconfitto dell’agone politico a Madrid. All’indomani del voto che ne ha sancito la debacle, il presidente di Ciuadanos ha lasciato la guida del partito e, con essa, la politica. «Voglio essere felice», ha detto l’11 novembre in conferenza stampa, «lo sono stato, però adesso lo sarò fuori dalla politica».

UN’EMORRAGIA DA 2,5 MILIONI DI VOTI

Negli ultimi sette mesi, la formazione nata nel 2005 in Catalogna e poi apertasi a tutto il Paese ha perso 47 seggi: dai 57 di aprile ai 10 di novembre. Un’emorragia da circa 2,5 milioni di voti. Il partito naranja è ora sesto per consenso a livello nazionale, superato dall’ultradestra di Vox, da Unidas Podemos e dai nemici giurati di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc); è addirittura ottavo a Barcellona, dove mosse i primi passi e raccolse i primi applausi. «Mi dimetto da presidente di Ciudadanos, affinchè un congresso nazionale elegga il futuro del progetto», ha annunciato davanti ai giornalisti Rivera. Che solo sei mesi fa si autoproclamava guida dell’opposizione al premier socialista Pedro Sanchez.

LA SPACCATURA IN SENO AL PARTITO

Avvocato di professione, 39 anni, da 13 punto di riferimento del partito liberale e anti-indipendentista, Rivera ha pagato una politica spesso ondivaga sulle alleanze, oltre a fratture insanabili in seno a Ciudadanos. Ad aprile, Rivera si presentò agli elettori dicendo un secco “no” a qualsiasi tipo di accordo con i socialisti di Sanchez, venendo premiato con 57 seggi e issando CS a terzo partito di Spagna, a sole nove lunghezze dal Partido popular. La linea dura a un’intesa che avrebbe portato Ciudadanos al governo (col Psoe sarebbe arrivato a 180 seggi, quattro sopra la maggioranza) ha spaccato i vertici del partito. Risultato: le dimissioni di quattro dei 50 membri della ejecutiva e l’addio di Francesc de Carreras, co-fondatore del partito.

A destra, l’ormai ex leader di Ciudadanos, Albert Rivera.

LE GIRAVOLTE SU SANCHEZ E RAJOY

A ridosso del voto di novembre, l’apertura al premier socialista che ha riportato alla mente giravolte passate. Come quando, tre anni fa, Rivera garantì che non avrebbe appoggiato per alcuna ragione un esecutivo Rajoy, salvo cambiare idea al momento del voto. Questa spiccata e reiterata propensione al riposizionamento, unita a un’intransigenza poco moderata sul dossier catalano, ha contribuito ad alienare l’elettorato centrista di Ciudadanos, che in buona parte è tornato a votare popular. Mentre quello più a destra è migrato verso Vox. Mettendo Rivera spalle al muro.

LA ROTTAMAZIONE IN SALSA SPAGNOLA

Sono lontani i tempi in cui il fu enfant prodige irrompeva sulla scena politica invocando, nel dicembre 2015, una «rigenerazione democratica» che tanto ricordava la renziana «rottamazione». Solo uno dei punti di contatto con l’allora premier italiano, da cui Rivera mutuava anche una certa passione per la spettacolarizzazione della politica. Emblematico, in questo senso, l’evento cardine della campagna di quattro anni fa, più simile a uno show televisivo che a un appuntamento elettorale.

Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico

Volto pulito, modi spigliati, Rivera intrigava un elettorato fiaccato da scandali e polemiche. Blairista, lo definì l’Economist. Liberale, progressista, riformista ed europeista si definiva il diretto interessato. Che, però, col passare degli anni ha aggiunto sfumature – e contraddizioni – al proprio profilo politico. In primis, unendo le forze – seppur solo a livello regionale in Andalusia – all’ultradestra euroscettica di Vox. Era il dicembre del 2018. Cinque mesi dopo Rivera si sarebbe presentato alle elezioni europee a braccetto con l’Alde ed Emmanuel Macron.

LA VIRATA A DESTRA (CON LO SGUARDO A SINISTRA)

La virata a destra, a dire il vero, era iniziata da qualche tempo. Nel 2017, per la precisione, quando la Asamblea de Ciudadanos approvò l’eliminazione di ogni riferimento alla socialdemocrazia dall’ideologia del partito, nonostante un’agenda in tema di diritti e proposte sociali – difesa della surrogazione di maternità, diritti Lgbti, riforma del sistema educativo – più compatibile coi socialisti che col centrodestra. Ma anche questo, soprattutto questo, è stato Rivera. Trasversale, oltre i confini del contraddittorio. Troppo per un elettorato alla disperata ricerca di certezze.

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Elezioni in Spagna: Sanchez e l’eterna rincorsa del governo

Il partito socialista del “guapo” resta la prima forza politica ma passa da 123 a 120 seggi. E la maggioranza resta un rebus.

Un percorso politico da montagne russe: da giovane deputato poco noto alla guida del partito socialista spagnolo, fino alla Moncloa, dove però non riesce a insediarsi stabilmente. Pedro Sanchez ha confermato la sua tenacia anche in uno dei momenti di maggiore incertezza nella politica spagnola e ha puntato dritto all’obiettivo di restare a capo di un governo monocolore, preferendo il rischio al compromesso al ribasso. Ma il risultato delle urne non lo ha premiato: rimane il primo partito ma passa da 123 a 120 seggi. Quarantasette anni, economista, madrileno, Sanchez è soprannominato ‘el guapo’ (il bello), ma secondo alcuni non è un campione in fatto di carisma. Eppure, con la sua pacatezza e il perfetto inglese notato da molti sembra essersi cucito addosso il ruolo del resistente (del resto la sua autobiografia si intitola Manuale di Resistenza) dopo una carriera politica quantomeno travagliata.

L’ASCESA NEL PARTITO SOCIALISTA

Professore universitario ed ex giocatore di basket, sposato e con due figlie, Pedro entra a far parte del Psoe a 21 anni, nel 1993. È consigliere comunale nella sua Madrid e poi deputato, prima di tentare la scalata del partito candidandosi alle primarie, nel 2014. Finanzia la sua campagna con il crowdfunding, viaggia con la sua auto per migliaia di chilometri per raccogliere voti e dorme nelle case dei militanti. Gli iscritti lo premiano, eleggendolo segretario generale: un volto nuovo per salvare un Psoe quasi sempre al governo nella Spagna post-franchista ma punito per la gestione della crisi economica nelle elezioni del 2011, vinte dai Popolari. Sembra incarnare la speranza, ma le cose non vanno per il verso giusto e con Sanchez candidato premier nel 2015 il Psoe ottiene i peggiori risultati di sempre. Stesso scenario nel voto anticipato dell’anno successivo, per cui è costretto a farsi da parte.

IL RAPPORTO TRAVAGLIATO CON GLI INDIPENDENTISTI

La sua carriera politica sembra arrivata già al capolinea ma lui non ci sta e si ripresenta alla primarie. Riesce a convincere nuovamente la base con lo slogan ‘no è no’ ad un dialogo con i popolari di Mariano Rajoy e prevale. Quando il Pp viene travolto da uno scandalo di corruzione, nel maggio 2018, Sanchez presenta una mozione di sfiducia e il 2 giugno giura davanti al re. Ma alla Moncloa resiste soltanto otto mesi: i partiti indipendentisti gli ritirano la fiducia per la sua contrarietà a discutere la convocazione di un referendum sull’autodeterminazione della regione. A quel punto gioca d’anticipo e convoca nuove elezioni, le terze in meno di quattro anni, sperando in un mandato popolare che lo confermi alla Moncloa.

LA DECISIONE DI TORNARE ALLE URNE

Davanti però si trova l’avanzata dell’ultradestra di Vox e una Spagna provata dall’instabilità: il 28 aprile 2019 il Psoe viene incoronato primo partito ma non ha la maggioranza necessaria per governare da solo. Sanchez ancora una volta sceglie di tirare dritto verso l’obiettivo: con Podemos non c’è dialogo, con Ciudadanos bruciano ancora le ferite di una tesissima campagna elettorale. La quadra non si trova, il governo con l’appoggio esterno non si fa e dopo mesi di tentativi il premier è costretto a indire nuove elezioni: un’altra prova di resistenza.

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Le elezioni in Spagna incoronano l’ultradestra di Vox

Gli estremisti raddoppiano i seggi in parlamento e diventano il terzo partito. Il leader Abascal ha scommesso sul nazionalismo in piena crisi catalana e ha portato a casa il risultato.

«Questo è solo l’inizio. Vox è qui per rimanere!», esultava Santiago Abascal nella notte del 28 aprile scorso. Aveva vinto la scommessa di portare l’estrema destra nel parlamento spagnolo per la prima volta nella sua storia democratica, ma la sfida non era finita. Sei mesi dopo, i 24 deputati in Congresso sono più che raddoppiati, e il suo partito è diventato la terza forza dopo socialisti e popolari, grazie anche alle crepe lasciate nella politica dal recente acuirsi della crisi catalana. Abascal ha chiuso la campagna elettorale fra migliaia di sostenitori avvolti nella bandiera spagnola, ha promesso di battersi per mantenere la Spagna unita e ha chiesto il voto «di tutti», proponendosi come «l’alternativa patriottica». In molti, moltissimi gli hanno dato ascolto. Così se sei mesi fa, nelle elezioni dell’exploit, Abascal aveva attirato a sé anche la protesta e l’onda dell’antipolitica, questa volta l’establishment lo corteggia, lo stesso del resto in cui il leader di Vox è cresciuto. Nato nel 1976 a Bilbao, diventa membro del Partido Popular a 18 anni. Ed è anche una storia di famiglia per Abascal, figlio e nipote di politici locali, il padre con i popolari e il nonno sindaco durante il periodo franchista. È la traccia che ripercorre anche Santiago, eletto due volte nel parlamento basco per il Pp. Con cui però rompe nel 2013. Le differenze sono ormai troppe con la leadership di Mariano Rajoy e su troppi temi, dagli scandali per corruzione fino alle posizioni sull’indipendentismo. Si unisce quindi a Vox agli albori della formazione nel 2014 e mentre questa compie i primi passi nei governi locali. Nel settembre di quell’anno Abascal diventa presidente del partito con il 91% di preferenze fra i suoi militanti. A fargli da sponda l’emergere anche altrove nel mondo di figure politiche e formazioni di cui condivide priorità e parole d’ordine: si dichiara infatti fan di Donald Trump e, da questa parte dell’Oceano, di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Poi il clamoroso risultato dell’ultradestra in Andalusia nel 2018 – con conseguente coalizione di destra – crea il caso e Abascal vede a quel punto la strada spianata verso Madrid. Fino ad oggi, con Vox che in pochi mesi sembra ormai essere percepito come una sorta di nuova normalità. «Cresce come la schiuma», dicono alcuni osservatori descrivendo la cavalcata nella breve ma intensa campagna elettorale dominata dalla crisi catalana. E Abascal si trovava già al posto giusto, nel momento giusto.

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I risultati delle elezioni in Spagna del 10 novembre 2019

Il Psoe si conferma primo partito, ma il centrodestra supera i socialisti come coalizione. Boom dei nazionalisti di Vox, che raddoppiano i seggi rispetto alla tornata di aprile.

Secondo un sondaggio realizzato dalla televisione spagnola Rtve, nel voto del 10 novembre 2019 i socialisti sono in testa ma senza maggioranza. Il Psoe del premier Pedro Sanchez è confermato primo partito, ma senza i numeri necessari per formare un governo stabile. Guadagnano tutti i partiti di destra, a partire da Vox. I socialisti spagnoli del Psoe conquisterebbero fra i 114 e i 119 seggi al Congresso (rispetto ai 123 uscenti). Secondo il Partido Popular, al quale il sondaggio attribuisce fra gli 85 e i 90 deputati, mentre Vox ne otterrebbe fra i 56 e i 59. Nessuno ha la maggioranza necessaria per governare.

EXPLOIT DI VOX

Se i numeri venissero confermati, Vox avrebbe ottenuto più del doppio dei 24 seggi che aveva avuto alle elezioni dello scorso aprile, diventando la terza forza della politica spagnola dopo socialisti e popolari.

La formazione del parlamento spagnolo secondo la prima rilevazione (sondaggio: Gad3. Elaborazione: ElPais).

Questi i seggi ottenuti dai partiti secondo la rilevazione: PSOE: 114-119 / PP: 85-90 / Vox: 56-59 / Podemos: 30-34 / Cs: 14-15 / ERC: 13-14 / Junts: 6-7 / PNV: 6-7 / CUP: 3-4 / Bildu: 3-4 / Más País: 3 / Navarra Suma: 2 / Coalición Canaria: 1-2 / Otros: 1-3

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L’affluenza alle urne delle elezioni in Spagna di novembre 2019

Alle 14 ha votato il 37,9%: dato in calo di 3,6 punti rispetto alla precedente tornata di aprile.

Urne aperte in Spagna per la quarta volta in quattro anni. L’affluenza sarà la chiave di volta: una mancata mobilitazione della sinistra, scoraggiata per il fallito accordo tra i socialisti al governo e Podemos, potrebbe contribuire alla crescita del Partito popolare e di Vox. Si vota dalle 8 alle 19.

ALLE 14 AFFLUENZA AL 37,9%

Alle ore 14 l’affluenza è del 37,9%, 3,6 punti in meno rispetto all’ultima tornata delle Politiche di aprile 2019 (41,49%).

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Le elezioni in Spagna del 10 novembre 2019 in diretta

Il Paese iberico al voto per la quarta volta in quattro anni. Psoe avanti ma senza maggioranza. Mentre si alza lo spettro di Vox.

Il 10 novembre la Spagna torna alle urne per la quarta volta in quattro anni e a una manciata di settimane dalle ultime elezioni politiche dello scorso 28 aprile. Poco più di sei mesi dopo quell’appuntamento però a Madrid – alla Moncloa e alle Corte -, poco sembra essere cambiato, con le previsioni che ancora una volta stimano il Partito socialista (Psoe) in testa ma senza i numeri necessari per una maggioranza solida.

OCCHI PUNTATI SULL’ULTRADESTRA DI VOX

L’incognita vera è però sul fronte opposto, con la possibilità che l’ultradestra di Vox, dopo l’exploit di aprile con l’ingresso in parlamento, guadagni ancora, anche sull’onda della polarizzazione sul tema dell’indipendentismo, con i recenti sviluppi giudiziari e la mobilitazione di piazza delle ultime settimane in Catalogna.

PSOE AVANTI NEI SONDAGGI, CROLLA CIUDADANOS

Secondo un sondaggio divulgato dal quotidiano El País, i socialisti otterrebbero il 27,2% dei voti e 116 seggi, sette in meno rispetto ad aprile. Alle loro spalle, il Partito popolare, col 21,1% e 94 seggi (+28 seggi). Quindi Vox, con il 12,8% dei voti e 42 seggi (+18). A seguire, Unidas Podemos con il 12,7% delle preferenze e 36 seggi (-6), e Ciudadanos con il 9% e 19 seggi (-38).

L’APPELLO DEL PREMIER SANCHEZ

L’8 novembre il premier socialista Pedro Sanchez s’è rivolto così agli elettori: «Siamo tutti convocati alle urne il 10 novembre non per rispondere agli orientamenti della politica, giacchè gli spagnoli lo hanno già fatto lo scorso 28 aprile e il 26 maggio dando la maggioranza al Psoe. Gli spagnoli vogliono una risposta progressista ai loro problemi. Ciò che è in questione è se abbiamo un governo o no».

IL LIVEBLOGGING DELLA GIORNATA ELETTORALE

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