La rottura di Barbara D’Amico col Corriere e le difficoltà dei giornalisti freelance
L’addio dopo l’ultimo taglio dei compensi: «Il sistema deve creare condizioni di sostenibilità». Scarse tutele dei collaboratori, frettolosità per gareggiare coi social, informazione sempre più scadente: intervista sui mali di un settore in crisi.
Rinunciare a una collaborazione importante e prestigiosa per una questione di principio. Barbara D’Amico ha detto basta. Quando il Corriere della sera le ha tagliato il compenso per articolo per la seconda volta nel giro di poco tempo, ha deciso di dire addio, motivando la sua scelta con un lunghissimo thread sul suo profilo Twitter.
Non una questione meramente economica, tutt’altro. Perché sì, prendere 15 euro lordi a pezzo quando prima erano 40 è «lavorare quasi gratis», ma ciò che le ha fatto perdere la pazienza è stata l’assenza di comunicazione. Non le hanno detto nulla, l’ha scoperto ancora una volta a cose fatte, ad articoli scritti e pubblicati, all’atto di emettere la fattura.
«LA MIA È UNA STORIA DI LIBERA SCELTA»
Una storia fin troppo comune, ma nei suoi tweet non troverete mai la parola “sfruttamento”. «Sono una vera partita Iva, non una falsa, non ho il giornale che mi ha sfruttato per anni. La mia è una storia di libera scelta. Io ho detto “se non vi potete più permettere di finanziare il progetto non è un problema, basta che me lo diciate”».
DOMANDA. La vita del freelance è dura.
RISPOSTA. Sì, ma chiariamolo, il lavoro autonomo non è una cosa brutta, cattiva, che non va scelta. Anzi, io sono orgogliosa di essere freelance e voglio continuare a esserlo. Bisogna però capirsi sulla sostenibilità.
In che senso?
La mattina mi sveglio e devo fare io le proposte. Oppure vengo chiamata per fare il mio lavoro. Va bene, bisogna però intendersi sui tempi e le modalità. Se si è chiari fin dall’inizio va benissimo, poi può certamente capitare l’elemento esterno che cambia le carte in tavola, ma non deve mai mancare il rapporto di rispetto reciproco. Anche comunicare come sono messe le cose è una forma di rispetto del lavoro altrui.
Invece a volte questo rispetto viene meno.
Sì, e io ho deciso di fare la mia parte con un gesto di responsabilità e simbolico: quello di interrompere la collaborazione.
Perché l’ha fatto?
Perché questo è un settore che si deve rendere conto che se ha bisogno di certe figure deve creare delle condizioni di sostenibilità.
E come è andata?
Bene. Ho
avuto una grande risposta, messaggi di colleghi freelance che mi
ringraziano perché sono nella stessa situazione ma non hanno il
coraggio di dirlo e tanti colleghi anche delle redazioni internet che
riconoscono lo stato delle cose. So che non è che da domani
alzeranno i compensi o cambieranno le cose, ma ho cercato di avviare
una riflessione.
Di chi è la colpa della situazione
attuale?
Su Twitter i sovranisti dicono che è colpa
dell’euro, della svalutazione dei salari, tutte cose che non
c’entrano niente.
E allora dov’è il problema?
È un problema di cultura del lavoro. Noi abbiamo un impianto normativo molto completo in Italia che già dovrebbe tutelare il lavoro, ma nella pratica non viene applicato e per farlo applicare bisogna andare in causa. E non credo che sia sempre lo strumento migliore, sebbene a volte sia indispensabile. Serve concertazione di tutti, corpi intermedi, aziende, editori, sedersi su un tavolo e capire cosa si vuole fare da grandi. Perché se l’informazione cala di qualità ci vanno a perdere tutti.
La colpa è solo degli editori?
No,
tutta la filiera è colpita. Il punto vero è che se nessuno inizia a
prendere delle responsabilità interne e continua a dare colpe
esterne all’euro o a internet, non si va da nessuna parte. Bisogna
capire quali sono le disfunzionalità e agire.
I giornalisti freelance che responsabilità hanno?
Quella di dire sì incondizionatamente a chiunque. Non c’è niente di male nel collaborare a pezzo, ma attenzione a prestarsi sempre e comunque. Ogni tanto se uno dice no, non succede niente e magari arrivano altre proposte.
A lei è successo?
Sì. Ho ricevuto più proposte di lavoro negli ultimi due giorni che in sei mesi. Ci può essere una via d’uscita.
I sindacati tutelano più i giornalisti dipendenti che i freelance?
Occupandomi di lavoro ho potuto vedere come lavorano i sindacati. La verità è che per tutelare chi è dentro ci sono gli strumenti, per chi è fuori sono molto più scarsi. Il lavoro autonomo non è regolato perché poggia su dei presupposti che sono in parte diversi, anche se le tutele dovrebbero essere uguali per tutti i lavoratori.
E così ancora non è.
È quello che si sta cercando di fare con lo Statuto del lavoro autonomo, che non sarà forte come lo Statuto dei lavoratori del 1970 ma è un primo passo. Sarebbe bello avere uno strumento che non mi costringa a scegliere tra il lavoro e la mia salute quando mi ammalo, e si sta andando in quella direzione. A oggi l’unica forma di tutela è una forma di rispetto reciproco, anche se mi rendo conto che sia utopico.
E come si può migliorare la situazione?
Faccio un esempio. Per i rider, in Belgio, c’è una cooperativa che si chiama Smart che è andata dai grandi player del food delivery e ha detto che avrebbe contrattualizzato lei i rider. Le aziende avrebbero mantenuto il pagamento a consegna lasciando una piccola percentuale alla cooperativa per la previdenza e tutele. Questo modello è una strada. Ci sono anche oggettivi mutamenti di mercato che riguardano l’editoria, coi social e internet che stanno cambiando il contesto, bisogna saper affrontare dotandosi di strumenti.
Si parla tanto di equo compenso, si era anche raggiunto un accordo tempo fa.
Dirò una cosa un po’ forte, ma secondo me l’equo compenso è già uno strumento un po’ superato, andava fatto tempo fa. Oggi il mondo si muove velocemente e non è più un problema di equo compenso. Non è inutile del tutto, sia chiaro, ci sono colleghi che prendono 2 o 3 euro al pezzo, ma il rischio è che nel momento in cui lo fai urti il sistema di formazione del prezzo e rischia di diventare un tetto salariale, non un minimo.
E cosa si dovrebbe fare?
Coinvolgere
esperti di settore nella discussione per valutare pro ed effetti
collaterali, come si sta facendo col salario minimo, che potrebbe
fare da modello. Che poi il problema è alla base, è proprio stupido
pagare a pezzo. Noi non scriviamo e basta, quello è l’ultimo step di
un processo più lungo. Noi ricerchiamo e verifichiamo. Il compenso
deve essere fatto sul servizio, non a pezzo.
Si dice che manchino i lettori e che il settore sia in crisi per questo. Che ne pensa?
Per me il lettore non ha colpe ed è imbarazzante dargliene. Anzi, la domanda di informazione è cresciuta, aziende come Facebook e Twitter ci campano sopra.
E allora cosa è successo?
Che il settore giornalistico si è azzoppato da solo perché in molti casi ha abdicato al metodo giornalistico. Il lavoro del giornalista non è pubblicare cose, ma verificarle. Andare a rompere le scatole alla fonte, prendere informazioni, incrociarle, ricostruire i fatti.
Una
cosa che si fa sempre meno.
Perché
il giornalismo ha avuto paura di Twitter e dei social e, all’inizio
comprensibilmente, ha cominciato a scimmiottare la comunicazione
social per l’ansia di arrivare prima di uno strumento che non si può
battere in velocità. Si è prodotta un’informazione di scarsa
qualità, frettolosa. Ma se è lo stesso tipo di informazione che si
trova gratis online, perché il lettore dovrebbe pagarla?
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