Nella giornata di ieri, mercoledì 21 giugno, una tremenda esplosione avvenuta in un ristorante di Yinchuan, città nel Nord della Cina, ha causato una strage: sono infatti almeno 31 le vittime confermate dalle autorità locali dopo la deflagrazione. Ecco gli ultimi aggiornamenti in merito al disastro.
Cina, esplosione in un ristorante: è strage
Le ragioni dietro all’esplosione del locale sono state raccontate dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, che ha spiegato in queste ore la dinamica dell’incidente con queste parole: «Una fuga di gas di petrolio liquefatto (gpl) ha provocato un’esplosione durante il servizio di un ristorante barbecue». Il botto, tremendo, avrebbe inoltre provocato il ferimento di almeno altre 7 persone, attualmente ricoverate in ospedale per ricevere quelle che sono state definite come «cure intensive».
In particolare, una delle persone ferite si troverebbe attualmente in condizioni molto critiche. Altre due persone avrebbero riportato gravi ustioni, ma non sarebbero in pericolo di vita; gli altri feriti sarebbero semplicemente stati colpiti da schegge di vetro e sarebbero dunque stati interessati dalla deflagrazione ma in modo lieve. Tutto è accaduto a pochissime ore di distanza dall’inizio delle celebrazioni della Festa delle barche drago, tre giorni di festa in occasione dei quali molte famiglie cinesi si riuniscono.
Le immagini dei soccorsi al lavoro
Nel frattempo il canale statale CCTV ha informato i cittadini riguardo alle attività dei soccorritori impegnate sul posto trasmettendo i video dei vigili del fuoco al lavoro per mettere in sicurezza l’area e per assicurarsi che fra le macerie del locale (esploso intorno alle ore 20:40 locali) non ci siano altri corpi. Nelle immagini diffuse si vedono in particolare dieci vigili del fuoco farsi strada all’interno di una densa nube di fumo nera che fuoriesce da un buco creato dall’esplosione.
Dopo settimane senza contagi torna ad alzarsi l’allerta nella città focolaio della pandemia.
In Cina dopo giorni senza contagi è tornato l’incubo coronavirus. Domenica si sono registrati 17 nuovi casi, toccando i massimi delle ultime due settimane, di cui 7 importati relativi nella Mongolia interna e 10 domestici, suddivisi tra le province di Hubei (5), Jilin (3), Liaoning (1) e Heilongjiang (1).
I casi dell’Hubei fanno capo al capoluogo Wuhan, il primo focolaio della pandemia: sono asintomatici, ha detto la Commissione sanitaria provinciale, che si aggiungono all’infezione registrata sabato nel distretto di Dongxihu, la prima dal 4 aprile, dove il livello sanitario d’allerta è stato rialzato a basso a medio.
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I discorsi dei due presidenti riflettono la differenza di prospettiva che divide Italia e Cina. In cui solo la seconda è realmente proiettata verso il futuro.
Facciamo un quiz: più o meno tutti noi italiani abbiamo seguito quello che ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, a reti unificate; ma qualcuno si ricorda cosa ha detto il Presidente Donald Trump per il nuovo anno? Invece in molti hanno seguito con interesse la traduzione italiana del video del discorso alla Nazione del presidente-a-vita cinese Xi Jinping. Segni dei tempi. Che cambiano. E se volessimo stilare un risultato, come faremmo in una partita di calcio, non ci sarebbe storia: il responso sarebbe a favore del presidente cinese. Uno a zero e palla al centro. Anzi, la palla era e resta più che mai nel campo di Pechino.
Certo, il nostro Mattarella ha fatto un discorso ottimo, “alto”, diremmo, pieno di richiami e di riferimenti ai principi “nobili” della nostra nazione e della nostra società civile. Con più di un pensiero rivolto ai giovani, al clima e al senso del dovere. Nel tentativo di infonderci un po’ di fiducia in noi stessi. Il Capo dello Stato ha anche provato a ricordarci i passi avanti compiuti nel 2019 (quali? Non si è capito, in realtà, ma beato chi li ha notati) ben sapendo che tra infrastrutture che cadono a pezzi, crisi dei principali assets industriali della Nazione – dall’Alitalia all’Ilva – crescita ormai bloccata da tempo su numeri che qualunque matematico definirebbe “ininfluenti”, c’è ben poco da stare allegri. Così ha ripiegato su un più saggio richiamo alla coesione nazionale, invitando tutti a frenare – in nome dell’interesse comune – lo scontro tra le parti politiche, a tutti i livelli. Come dire: “qua si mette sempre peggio, se non la smettete di litigare, finiamo tutti quanti come i capponi di Renzo nei Promessi Sposi…. Tutti insieme, litigando, nel baratro”.
Al “povero“ Mattarella, per non rischiare di deprimerci ancor di più con i nostri guai, non è rimasto che invitarci tutti a «guardare l’Italia dallo Spazio»
Così, al “povero“ Mattarella, per non rischiare di deprimerci ancor di più con i nostri guai, non è rimasto che invitarci tutti a «guardare l’Italia dallo Spazio» – come la vede il nostro Parmitano dalla Stazione spaziale, lui sì, – almeno – una delle poche “glorie nazionali” che ci rimangono. Insomma, se la guardiamo da lontano, sembra dirci il nostro amato Presidente, (ma molto-molto da lontano), i guasti e le brutture di questa nostra disastrata Italia diventano così piccoli, che possiamo illuderci per un attimo che non ci siano.
UN ANNO DA PROTAGONISTA PER LA CINA
Cambio di latitudine, continente e – soprattutto – prospettiva, ascoltando il discorso di fine anno del presidente cinese dalla sua scrivania – tutto sommato modesta – di Pechino. Basti dire che anche lui ha accennato allo Spazio, ma non per invitare i suoi quasi 1500 milioni di connazionali a consolarsi guardando la Cina da lontano, ma rivendicandone addirittura la conquista: ad opera della sonda lunare cinese Chang-e 4 che «per la prima volta nella storia dell’umanità, è atterrata sulla faccia nascosta della Luna», così ha detto, orgogliosamente. E poi, da lì, un elenco – tanto lungo da risultare quasi noioso – di successi, conquiste, primati e progressi cinesi che hanno costellato il 2019. Praticamente in ogni campo dell’umana esistenza. Dall’inaugurazione del più grande aeroporto del mondo, a Pechino, al lancio del missile March 5; dal piano del governo per combattere la povertà (8 milioni in meno di poveri in Cina solo nel 2019), fino al varo della prima portaerei interamente costruita in Cina. Successo dopo successo, conquista dopo conquista, nel suo discorso XI ha ripercorso un anno di eventi che hanno visto la Cina protagonista indiscussa sullo scenario mondiale, malgrado le proteste di Hong Kong (che ha richiamato solo di sfuggita, come fossero un minuscolo e fastidioso insetto da schiacciare entro breve) e lo scontro commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti, neppure menzionati.
DUE DESTINI AGLI ANTIPODI
«Lo spirito patriottico costituisce la colonna vertebrale della nazione cinese e forma una corrente impetuosa in continuo avanzamento che sostiene la Cina nella nuova era», ha detto con percepibile soddisfazione, riassumendo in una frase gli elementi di forza della nuova Cina, ormai avviata verso la conquista di una indiscussa nuova governance globale. «Spirito patriottico», ha detto Xi, proprio quello che pare decisamente mancare a noi italiani, più che ad altri, ma che per la Cina significa anche molto di più: supremazia dello spirito di comunità sull’individualismo e del bene della Nazione su quello del singolo.
L’INIZIO DEL SECOLO ASIATICO
Così, mentre Mattarella ce l’ha messa tutta per cercare in qualche modo di tirarci su il morale con riferimenti anche un po’ nostalgici al “genio italico” e ad una identità nazionale che deve rifarsi inevitabilmente al passato «sinonimo di sapienza, genio, armonia, umanità» per trovare qualcosa di cui andare fieri, il cinese Xi Jinping invece è tutto proiettato verso il futuro, un luminoso futuro. Verso quella “nuova era cinese” da lui richiamata con orgoglio, senza nessun falso pudore e persino con una punta di minaccia verso il resto del Pianeta. Destini che più diversi non si potrebbero immaginare, quelli che separano l’Italia dalla Cina, insomma. E mi sa che aveva ragione Padre Alex Zanotelli quando questa estate, intervenendo al Festival di Riace, ha parlato della fine del «dominio della Tribù bianca». Questo 2020, insomma, segna l’inizio non solo di un nuovo decennio, ma di un intero secolo che i posteri ricorderanno come “Il secolo asiatico”. Tanto vale rassegnarci. E cominciare a
studiare il cinese.
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L’allarme del sinologo Scarpari ha fatto discutere tra gli accademici del nostro Paese. Ma è fondato. Cosa sono e come operano gli Istituti Confucio.
Da qualche giorno nel mondo universitario italiano – per essere precisi in quella nicchia di specialisti che si occupano di Cina, i sinologi, – “volano stracci”, come si direbbe in modo forse poco accademico ma efficace. Probabilmente in pochi se ne sono accorti, ma la maretta che si è scatenata nell’ambiente sta montando e rischia di diventare un autentico tsunami. In Italia i poli universitari specializzati nell’ambito degli Studi Orientali sono storicamente due: Venezia, con l’università Ca’ Foscari, e Napoli, con l’università L’Orientale. A questi, che vantano una tradizione più che centenaria nel settore, nel tempo si sono aggiunti Torino, Roma e, in piccola parte anche Milano, che all’Università Bicocca ha inaugurato da qualche anno un corso di laurea in cinese.
L’ENTRATA A GAMBA TESA DI SCARPARI
A far scoppiare il bubbone è stato un veterano tra i sinologi italiani, Maurizio Scarpari, con un suo intervento pubblicato da La Lettura sul sito del Corriere della Sera, dal titolo (insolitamente diretto per un mondo di studiosi abituato a discettare e confrontarsi utilizzando sempre toni “alti” e usualmente poco comprensibili ai comuni mortali) “Fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane”. Il professor Scarpari è un’autorità riconosciuta nel settore: ha insegnato Lingua cinese classica dal 1977 al 2011 proprio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha firmato innumerevoli pubblicazioni sulla Cina, tra le quali spicca Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, pubblicato da Il Mulino nel 2015. Ma cosa ha potuto scrivere un austero professore universitario di così provocatorio, da scatenare repliche e contro repliche, dibattiti, critiche e anche pindariche difese d’ufficio della Cina odierna, da parte dei suoi – solitamente misuratissimi – colleghi?
UNO SQUARCIO IN UN VELO DI IPOCRISIA
Per riassumerla in poche parole, Scarpari ha squarciato il velo dell’ipocrisia e della doppia morale praticata – secondo lui – da molti suoi colleghi quando sulla Cina si affrontano (anzi, si evitano accuratamente, a sentir lui) argomenti considerati “sensibili” dal regime di Pechino. Accusando senza mezzi termini i suoi colleghi cattedratici di essere «evidentemente restii a prendere posizione, considerando inopportuno affrontare argomenti che possano risultare sgraditi alle autorità cinesi e mescolare cultura e politica, come se i due ambiti non fossero legati».
Il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”
Ma non basta, perché l’illustre sinologo si è anche spinto più in là, tirando in mezzo al dibattito, senza tanti giri di parole, il ruolo preoccupante che la rete di Istituti di cultura cinese all’estero – diretta emanazione del governo di Pechino, i Confucius Institute, diffusi in tutto il mondo e ben presenti anche nel nostro Paese – giocherebbero nell’influenzare pesantemente l’insegnamento universitario sulla Cina in Italia, attraverso interventi finanziari ed esplicite pressioni e ricatti nei confronti degli accademici del nostro Paese, affinché si facciano diligenti divulgatori della propaganda ufficiale del regime sui temi appunto “sensibili”, e non solo. Come per esempio la repressione della minoranza musulmana nello Xinjiang, le vicende di Hong Kong, la questione di Taiwan e più in generale lo spinoso problema del (non) rispetto dei diritti umani in Cina. A questo punto, come si può ben immaginare, apriti cielo. In molti tra i suoi colleghi hanno preso carta e penna e hanno spedito repliche al Corriere, per contestare le affermazione del professor Scarpari.
In realtà il tema è importante e molto delicato, e chi scrive se ne è occupato in più occasioni anche da queste colonne. Innanzitutto va detto che il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”, per gli addetti ai lavori, delle quali si evita accuratamente di parlare. Scarpari ha avuto l’oggettivo merito di far emergere il problema e di porre la all’attenzione dell’opinione pubblica un tema che, fino a oggi, era rimasto confinato all’ambito accademico, ma che finisce per intrecciarsi in modo preoccupante con le scelte strategiche dell’attuale governo e di quelli precedenti in politica estera e quindi con la politica tutta.
UN FIORE ALL’OCCHIELLO DEL SOFT POWER CINESE
Come ignorare, infatti, un tema tanto delicato tenendo conto, come correttamente nota Scarpari, che gli Istituti Confucio sono un «fiore all’occhiello del soft power cinese, creati nel 2004 dallo Hanban, il potente ente statale, emanazione dell’Ufficio Propaganda del Partito comunista, cui è affidato il compito di diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero»? «Una struttura imponente», continua il professore, «che dispone di grandi mezzi finanziari e che si sta espandendo in tutto il mondo». Con il nemmeno troppo celato obiettivo – continua lo studioso veneziano – «di creare un’immagine positiva e attrattiva della Cina, in un momento in cui il Paese ha avviato un ambizioso progetto di espansione egemonica in tutto l’Occidente».
Gli Istituti Confucio sono inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone
La gravità della situazione richiamata da Scarpari emerge con chiarezza quando si considera che, a differenza di altri istituti culturali, gli Istituti Confucio sono ormai stabilmente inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone variabile e la concessione di benefit e finanziamenti a docenti, ricercatori, studenti. Una commistione pericolosa e un “abbraccio mortale” che ha fatto sì che, ormai da anni, all’estero, la loro collocazione nelle università sia stata motivo di un acceso dibattito. Per questo molti atenei hanno scelto di non avere IC e, tra quelli che li avevano, non pochi li hanno chiusi. A tutto questo si aggiunga il dato di fatto che diversi Istituti Confucio nel mondo si sono rivelati essere anche centrali di spionaggio cinese all’estero, come nel caso del Canada e recentemente quello del Belgio, dove la Vrije Universiteit Brussel (VUB), uno dei principali istituti di istruzione superiore del Paese, ha deciso di chiuderne la sede dopo che il servizio di intelligence belga aveva accusato formalmente il suo direttore di essere una spia per conto di Pechino.
UNA POLEMICA CHE RISCHIA DI CONTAGIARE LA POLITICA
Insomma, un sasso – quello lanciato dall’intervento di Scarpari – che rotola tra le nascoste e silenziose dinamiche che sovrintendono al funzionamento di diversi atenei italiani, e che potrebbe trasformarsi facilmente in una valanga che rischia di travolgere non solo una fetta del mondo accademico italiano, ma anche buona parte di quello politico. Un allarme fondato, senza ombra di dubbio, visto che un altro illustre sinologo universitario italiano, Fiorenzo Lafirenza, intervenendo a sua volta su questo tema su La Lettura, ha ammesso: «I miei studenti per le tesi evitano argomenti sensibili. Dicono: e poi, come ci andiamo a lavorare in Cina?».
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L’allarme del sinologo Scarpari ha fatto discutere tra gli accademici del nostro Paese. Ma è fondato. Cosa sono e come operano gli Istituti Confucio.
Da qualche giorno nel mondo universitario italiano – per essere precisi in quella nicchia di specialisti che si occupano di Cina, i sinologi, – “volano stracci”, come si direbbe in modo forse poco accademico ma efficace. Probabilmente in pochi se ne sono accorti, ma la maretta che si è scatenata nell’ambiente sta montando e rischia di diventare un autentico tsunami. In Italia i poli universitari specializzati nell’ambito degli Studi Orientali sono storicamente due: Venezia, con l’università Ca’ Foscari, e Napoli, con l’università L’Orientale. A questi, che vantano una tradizione più che centenaria nel settore, nel tempo si sono aggiunti Torino, Roma e, in piccola parte anche Milano, che all’Università Bicocca ha inaugurato da qualche anno un corso di laurea in cinese.
L’ENTRATA A GAMBA TESA DI SCARPARI
A far scoppiare il bubbone è stato un veterano tra i sinologi italiani, Maurizio Scarpari, con un suo intervento pubblicato da La Lettura sul sito del Corriere della Sera, dal titolo (insolitamente diretto per un mondo di studiosi abituato a discettare e confrontarsi utilizzando sempre toni “alti” e usualmente poco comprensibili ai comuni mortali) “Fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane”. Il professor Scarpari è un’autorità riconosciuta nel settore: ha insegnato Lingua cinese classica dal 1977 al 2011 proprio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha firmato innumerevoli pubblicazioni sulla Cina, tra le quali spicca Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, pubblicato da Il Mulino nel 2015. Ma cosa ha potuto scrivere un austero professore universitario di così provocatorio, da scatenare repliche e contro repliche, dibattiti, critiche e anche pindariche difese d’ufficio della Cina odierna, da parte dei suoi – solitamente misuratissimi – colleghi?
UNO SQUARCIO IN UN VELO DI IPOCRISIA
Per riassumerla in poche parole, Scarpari ha squarciato il velo dell’ipocrisia e della doppia morale praticata – secondo lui – da molti suoi colleghi quando sulla Cina si affrontano (anzi, si evitano accuratamente, a sentir lui) argomenti considerati “sensibili” dal regime di Pechino. Accusando senza mezzi termini i suoi colleghi cattedratici di essere «evidentemente restii a prendere posizione, considerando inopportuno affrontare argomenti che possano risultare sgraditi alle autorità cinesi e mescolare cultura e politica, come se i due ambiti non fossero legati».
Il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”
Ma non basta, perché l’illustre sinologo si è anche spinto più in là, tirando in mezzo al dibattito, senza tanti giri di parole, il ruolo preoccupante che la rete di Istituti di cultura cinese all’estero – diretta emanazione del governo di Pechino, i Confucius Institute, diffusi in tutto il mondo e ben presenti anche nel nostro Paese – giocherebbero nell’influenzare pesantemente l’insegnamento universitario sulla Cina in Italia, attraverso interventi finanziari ed esplicite pressioni e ricatti nei confronti degli accademici del nostro Paese, affinché si facciano diligenti divulgatori della propaganda ufficiale del regime sui temi appunto “sensibili”, e non solo. Come per esempio la repressione della minoranza musulmana nello Xinjiang, le vicende di Hong Kong, la questione di Taiwan e più in generale lo spinoso problema del (non) rispetto dei diritti umani in Cina. A questo punto, come si può ben immaginare, apriti cielo. In molti tra i suoi colleghi hanno preso carta e penna e hanno spedito repliche al Corriere, per contestare le affermazione del professor Scarpari.
In realtà il tema è importante e molto delicato, e chi scrive se ne è occupato in più occasioni anche da queste colonne. Innanzitutto va detto che il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”, per gli addetti ai lavori, delle quali si evita accuratamente di parlare. Scarpari ha avuto l’oggettivo merito di far emergere il problema e di porre la all’attenzione dell’opinione pubblica un tema che, fino a oggi, era rimasto confinato all’ambito accademico, ma che finisce per intrecciarsi in modo preoccupante con le scelte strategiche dell’attuale governo e di quelli precedenti in politica estera e quindi con la politica tutta.
UN FIORE ALL’OCCHIELLO DEL SOFT POWER CINESE
Come ignorare, infatti, un tema tanto delicato tenendo conto, come correttamente nota Scarpari, che gli Istituti Confucio sono un «fiore all’occhiello del soft power cinese, creati nel 2004 dallo Hanban, il potente ente statale, emanazione dell’Ufficio Propaganda del Partito comunista, cui è affidato il compito di diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero»? «Una struttura imponente», continua il professore, «che dispone di grandi mezzi finanziari e che si sta espandendo in tutto il mondo». Con il nemmeno troppo celato obiettivo – continua lo studioso veneziano – «di creare un’immagine positiva e attrattiva della Cina, in un momento in cui il Paese ha avviato un ambizioso progetto di espansione egemonica in tutto l’Occidente».
Gli Istituti Confucio sono inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone
La gravità della situazione richiamata da Scarpari emerge con chiarezza quando si considera che, a differenza di altri istituti culturali, gli Istituti Confucio sono ormai stabilmente inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone variabile e la concessione di benefit e finanziamenti a docenti, ricercatori, studenti. Una commistione pericolosa e un “abbraccio mortale” che ha fatto sì che, ormai da anni, all’estero, la loro collocazione nelle università sia stata motivo di un acceso dibattito. Per questo molti atenei hanno scelto di non avere IC e, tra quelli che li avevano, non pochi li hanno chiusi. A tutto questo si aggiunga il dato di fatto che diversi Istituti Confucio nel mondo si sono rivelati essere anche centrali di spionaggio cinese all’estero, come nel caso del Canada e recentemente quello del Belgio, dove la Vrije Universiteit Brussel (VUB), uno dei principali istituti di istruzione superiore del Paese, ha deciso di chiuderne la sede dopo che il servizio di intelligence belga aveva accusato formalmente il suo direttore di essere una spia per conto di Pechino.
UNA POLEMICA CHE RISCHIA DI CONTAGIARE LA POLITICA
Insomma, un sasso – quello lanciato dall’intervento di Scarpari – che rotola tra le nascoste e silenziose dinamiche che sovrintendono al funzionamento di diversi atenei italiani, e che potrebbe trasformarsi facilmente in una valanga che rischia di travolgere non solo una fetta del mondo accademico italiano, ma anche buona parte di quello politico. Un allarme fondato, senza ombra di dubbio, visto che un altro illustre sinologo universitario italiano, Fiorenzo Lafirenza, intervenendo a sua volta su questo tema su La Lettura, ha ammesso: «I miei studenti per le tesi evitano argomenti sensibili. Dicono: e poi, come ci andiamo a lavorare in Cina?».
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Il 20 dicembre 1999 il Portogallo restituiva alla Cina Macao. Agli antipodi della ribelle Hong Kong per identità e rapporti con Pechino. Il ricordo di un momento storico.
A Macaol’orologio della storia si è resettato esattamente 20 anni fa, la notte del 20 dicembre 1999. Due anni dopo Hong Kong, anche quell’ultimo avamposto d’Occidente in Asia, dopo più di quattro secoli di dominio portoghese, tornava «nell’abbraccio della Madrepatria cinese», come dicevano e tuttora dicono pomposamente a Pechino. Secondo gli accordi firmati tra Cina e Portogallo circa 10 anni prima di quella data, nel 1987, questo piccolissimo territorio, prima colonia e poi, ufficialmente, “Territorio cinese sotto amministrazione portoghese”, passava alla Cina seguendo gli stessi criteri della ex colonia britannica, comprese (in teoria) tutte le libertà fondamentali esistenti sotto il Portogallo.
UN RIFUGIO CONTRO LA NOSTALGIA
Nei tanti anni vissuti a Hong Kong il mio rifugio contro la nostalgia si chiamava proprio Macao. Quando l’Occidente cristiano nel quale comunque sono nato mi riafferrava, e la nostalgia mi prendeva alle spalle, saltavo sul primo aliscafo da Central e mi mettevo in viaggio per quella che allora era ancora una enclave portoghese in Cina. Per un giorno, o anche solo un pomeriggio, staccavo da tutto e da tutti e mi sottoponevo alla mia personale terapia contro la nostalgia. Mi sorprendevo a girare per le vie del centro, a sfiorare con le mani le antiche pietre degli edifici coloniali, a intenerirmi leggendo le targhe con i nomi delle strade in portoghese (e sotto in cinese, ovviamente, ma era meglio di niente). Uno dei miei angoli preferiti era il vecchio cimitero degli stranieri, con le sue tombe consumate dal tempo, sprofondate nel terreno, con sopra incise le storie di mercanti portoghesi, marinai olandesi e capitani inglesi morti per il colera o la febbre gialla, all’epoca dei bastimenti a vela o a vapore. La nostalgia si poteva toccare con mano a Macao. E poi, i portoghesi di saudade se ne intendono forse più di chiunque altro.
Fu una libera scelta del Portogallo, una piccola nazione, a quei tempi una delle più povere in Europa
A Macao ci andavo quasi sempre da solo. Erano momenti tutti miei quelli, di cui avevo bisogno come di una personale e intima ricarica dal caos, dalla volgarità e dall’orgia perenne di cemento e acciaio di Hong Kong. Ma in quel fine anno del 1999 il tempo stava per scadere anche per questo fazzoletto di terra portoghese in Cina. Dopo più di 400 anni, Lisbona l’avrebbe restituita a Pechino. Non si trattava questa volta, come quasi tre anni prima per Hong Kong, della scadenza di un contratto. Fu una libera scelta del Portogallo, una piccola nazione, a quei tempi una delle più povere in Europa e che non aveva ancora visto la ripresa odierna, ben lontana da quella potenza economica globale che possedeva un impero coloniale in grado di rivaleggiare con quelli di Spagna o Inghilterra.
I portoghesi avevano già abbastanza preoccupazioni a sbarcare il lunario ogni giorno a casa loro per potersi permettere di mantenere un presidio coloniale dall’altra parte della terra, che gli costava uno sproposito. Per questo quando Pechino gli chiese se volessero ridargliela, si decise per un ritorno “soft” di Macao, firmando qualche anno prima un accordo articolato con i cinesi. Quel giorno di 20 anni fa, salendo sull’aliscafo, cercai di prepararmi a dire addio alla Macao portoghese che avevo conosciuto, e profondamente amato: dovevo scrivere un articolo di cronaca sul giorno del ritorno alla Cina. Ne venne fuori una vera e propria dichiarazione d’amore. Quasi postuma, oramai.
UNA ENCLAVE NATA E SVILUPPATASI SUL COMMERCIO
Nata e sviluppatasi sul commercio, Macao, a 70 chilometri di mare dalla modernissima Hong Kong, ebbe origine per un reciproco tornaconto. I portoghesi, all’apice del loro potere e della loro espansione sui mari del mondo, volevano un punto d’appoggio sulla costa cinese per le navi che da Goa, in India, facevano rotta verso il Giappone. I cinesi cercavano qualcuno che li liberasse dalle bande di feroci pirati che imperversavano su quelle coste. Era l’anno 1557: Lisbona, con i suoi cannoni, distrusse i pirati, e Pechino le concesse il permesso di installarsi a Macao. Da allora la storia dei rapporti sino-portoghesi fu una storia pressoché unica nel suo genere, di serene e idilliache cortesie reciproche. E prosegue così ancora oggi, perché Pechino resta molto orgogliosa di questa sua “figlia prediletta e fedele”, contrapponendola con forza alla “ribelle Hong Kong”. Ma in una sorta di provocazione tardiva, proprio in quel giorno fatidico di 20 anni fa, a Macao si erano dati appuntamento tutti i principali protagonisti del dissenso anti-cinese del tempo.
GLI INTELLETTUALI ESILIATI DALLA CINA
Incontrandoli mi sembrò di trovarmi di colpo catapultato sul set di un film sulla Cina di inizio secolo, quando gli intellettuali, esiliati dal Dragone come lo sono ancora oggi, cospiravano per rovesciare l’impero in stanzette buie immerse nel fumo. A Macao quel giorno erano in 60: 60 tra i maggiori dissidenti che da anni stavano cercando di far sentire all’estero una voce ormai da tempo messa a tacere in patria. C’era Yan Jiaqi, il sociologo consigliere dell’ex segretario generale del Partito Zhao Ziyang. E c’era Wang Xizhe, l’autore dell’unico manifesto democratico dell’era di Mao Zedong di cui si sia avuta notizia. Non c’era invece Wei Jingsheng, il più famoso di tutti. Invitato, mi dissero gli organizzatori, «si è rifiutato perché non vuole associarsi. Ci sono diversità tra noi, ma non dovremmo accentuarle», mi spiegò Yan Jiaqi. «Abbiamo scelto Macao, perché e il posto più vicino alla nostra terra, dove tutti vogliamo tornare. L’anno prossimo, dopo che anche Macao sarà tornata alla Cina, non sapremo più dove andare», concluse sconsolato Yan, a cui pochi giorni prima era stato proibito anche l’ingresso a Hong Kong.
I porto-macaensi si riuniscono ancora oggi ogni sera nell’antico e solenne palazzo rosa del Club militar in Avenida da Praja Grande, dove li incontrai
Ma chi non poteva e soprattutto non voleva scappare, invece, erano quel manipolo di “mezzosangue”, i porto-macaensi che si riuniscono ancora oggi ogni sera nell’antico e solenne palazzo rosa del Club militar in Avenida da Praja Grande, dove li incontrai. Per loro non esiste altra patria che Macao. «Possiamo sopravvivere soltanto qui, sulle acque basse e torbide di questa baia», mi disse melanconico l’avvocato Manuel Oporto Fernandez. «Siamo nati tutti da una vecchia storia d’amore tra Oriente e Occidente. Quando l’Europa se ne sarà andata cosa ne sarà di noi?». L’avvocato Oporto si ritrovava, ogni mese, in una vecchia villa dell’isola di Coloane, con molti di quegli “esuli della storia”, per ricordare il passato e la magia di questo posto straordinario «dove gli uomini potevano discutere in pace, e i poeti sognare».
TESTIMONI DI UNA STORIA CHE STAVA PER COMPIERSI
Poi venne la sera di quel giorno fatidico, e io andai con una moltitudine di gente, di colleghi della stampa internazionale, di fotografi e cineoperatori, fino al vicino confine con la Cina dove, esattamente allo scoccare della mezzanotte del 20 dicembre 1999, vedemmo il Pla, l’Esercito Popolare di Liberazione cinese, entrare a Macao. La gente li osservava sfilare in silenzio. Nessuno applaudì. La storia si era compiuta, e noi ne eravamo stati testimoni. Dopo più di quattro secoli, il vecchio Portogallo, e con lui, così ci sembrò, l’intero Occidente, si ritirava in buon ordine e quella che – già allora lo intuivamo – sarebbe stata la nuova Cina protagonista del nuovo millennio che stava per cominciare si faceva largo. Prepotentemente.
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Trump annuncia l’accordo con la Cina su Twitter. Bloccate le tariffe che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre. Il vice ministro del Commercio Wang: rimozione per «fasi graduali». Wall street prima brinda, poi ci ripensa.
Il dazio, infine, è tratto. Donald Trump ha annunciato come di consueto via twitter il raggiungimento di un accordo tra Usa e Cina sulle tariffe commerciali. «Abbiamo raggiunto un’intesa sulla fase uno dell’accordo con la Cina», che ha dato il suo via libera «a molti cambi strutturali e ad acquisti massicci di prodotti agricoli, energetici e manifatturieri», ha sottolineato Trump, evidenziando che non scatteranno i dazi che dovevano entrare in vigore il 15 dicembre.
«Rimarranno come sono i dazi del 25%», ha aggiunto il presidente Usa. Più tardi, il vice ministro del Commercio cinese,Wang Shouwen ha spiegato: l’accordo prevede la rimozione dei dazi per «fasi graduali».
RAFFORZATO IL COPYRIGHT E MERCATO CINESE PIÙ APERTO
Wang, uno dei negoziatori di punta del team cinese per il ruolo di vice rappresentante per il Commercio internazionale, ha spiegato che l’accordo include il rafforzamento della tutela dei diritti sulla proprietà intellettuale, l’espansione dell’accesso al mercato domestico e la salvaguardia dei diritti delle compagnie estere in Cina, tra le questioni più contestate dalla parte americana a Pechino.
NOVE PUNTI PER L’INTESA
Il comunicato diffuso dalla Cina menziona nove punti sul raggiungimento dell’accordo: preambolo, proprietà intellettuale, trasferimento di tecnologia, prodotti alimentari e agricoli, servizi finanziari, tassi di cambio, l’espansione del commercio, risoluzione delle controversie e clausole finali. I media Usa hanno menzionato impegni di spesa cinesi per 50 miliardi di beni agricoli Usa, ma nel corso della conferenza i numerosi sono stati accuratamente evitati. Wang ha parlato di «molto lavoro da fare», tra la revisione legale e la traduzione del testo nelle due lingue «da completare il prima possibile». Le parti dovranno «negoziare gli specifici accordi per la firma formale» in modo da dare attuazione alla ‘fase uno’.
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Pechino ha ordinato la rimozione di tutta la tecnologia estera dall’amministrazione pubblica in risposta alle misure Usa contro Huawei.
La Cina ordina la rimozione «dei computer e dei software esteri entro il 2022»: lo riporta il Financial Times che dà conto dell’«editto del governo cinese per spingere gli enti pubblici ad adottare kit nazionali», dando un «colpo ad Hp, Dell e Microsoft» in risposta al sabotaggio dell’ amministrazione di Trump all’uso di tecnologia cinese negli Usa, tra cui quella di Huawei.
IL PROTEZIONISMO DELLE AZIENDE DOMESTICHE
Pechino, nella ricostruzione del quotidiano della City, ha disposto che tutte le istituzioni pubbliche e gli uffici che fanno capo al governo eliminino computer e software stranieri per sostenere lo sviluppo delle tecnologie domestiche con un piano graduale, ma serrato, che prevede un primo taglio del 30% entro il 2020, del 50% nel 2021 e del residuo 20% nel 2022.
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Sempre più donne non accettano più matrimoni infelici, frustranti e umilianti. E decidono di dire basta nonostante i tabù e la vergogna. Una rivoluzione silenziosa che nemmeno gli sforzi del governo riusciranno ad arginare.
Dopo la scelta coraggiosa di Yuya Mika che ha denunciato pubblicamente le violenze subite dal suo ex compagno, dalla Cina arriva un’altra buona notizia sul fronte delle conquiste femminili: i divorzi sono in aumento.
Qualcuno dirà: «Ma che buona notizia è questa? Più matrimoni che falliscono ti sembrano una buona notizia?» Ebbene sì, nel caso della Cina si tratta di una buona, anzi di un’ottima notizia. Perché significa che le donne cinesi non vogliono più accettare matrimoni infelici. Per questo bisogna festeggiare.
La mentalità delle generazioni meno giovani, infatti, si basa ancora oggi in massima parte – e non solo tra i maschi ma anche tra le donne – sul vecchio proverbio cinese che, tradotto, fa più o meno così: «Se sposi un cane, vivi con un cane; se sposi un gallo, vivi con un gallo». Il matrimonio visto come destino immutabile che non si può cambiare, ma solo accettare.
UNA RIVOLUZIONE SILENZIOSA
Le donne in Cina ottennero il diritto al divorzio solo nel 1950, quando il vittorioso Partito comunista cinese introdusse la nuova legge sul matrimonio. Durante l’era di Mao però, solo una piccola percentuale di donne ha esercitato questo diritto, e di solito per ragioni politiche: per esempio per lasciare un marito “controrivoluzionario”. Ma la buona notizia è che le cose stanno cambiando.
Si è davanti a una rivoluzione silenziosa. All’inizio di novembre, Zhou Qiang, presidente della Corte suprema del popolo, ha rivelato in un discorso che ormai in Cina circa il 74% dei divorzi è richiesto da donne. Zhou ha anche aggiunto che la cosiddetta crisi del settimo anno si è ormai spostata al terzo. Esaminando le statistiche cinesi, si scopre che il tasso di divorzi è schizzato alle stelle nell’era della riforma. Il dato generale, che misura il numero di separazioni per ogni 1.000 persone, era solo dello 0,018% nel 1978, anno in cui la Cina ha aperto alle politiche sociali che hanno trasformato la nazione, e da allora è salito fino a 0,320% nel 2018: un record. L’accelerazione più significativa si è avuta dopo il 2003, quando la Cina ha reso il divorzio più semplice e veloce, in primis abolendo la necessità dell’approvazione dei datori di lavoro. Nel 2016, 4,2 milioni di coppie, per lo più abitanti delle città, si sono separate.
SEMPRE PIÙ DONNE NON ACCETTANO RELAZIONI FRUSTRANTI
Man mano che la Cina è diventata più ricca e moderna, sempre più donne hanno iniziato a preoccuparsi della qualità dei loro matrimoni. Una maggiore indipendenza finanziaria significa infatti, anche in Cina, maggiore possibilità di autonomia e di scelte consapevoli. Se il marito è infedele o anche soltanto se si sente insoddisfatta della sua vita sessuale, non esita a chiedere il divorzio, rifiutandosi di continuare a rimanere rinchiusa in una relazione frustrante e spesso umiliante.
Ma sebbene gradualmente la mentalità stia cambiando, le vecchie generazioni ancora vedono il divorzio come una vergogna da nascondere agli occhi degli altri. «Mia madre non ha mai parlato ai vicini del mio divorzio, avvenuto quasi 14 anni fa», ha scritto di recente una 40enne sul social network Weibo. «Perché dovrei stendere la biancheria sporca?», mi ripeteva. «Per lei il divorzio è sempre stato una vergogna, per la donna e per la sua famiglia».
SE IL DIVORZIO È UNA VERGOGNA
Ma sebbene gradualmente la mentalità stia cambiando, le vecchie generazioni ancora vedono il divorzio come una vergogna da nascondere agli occhi degli altri. «Mia madre non ha mai parlato ai vicini del mio divorzio, avvenuto quasi 14 anni fa», ha scritto di recente una 40enne sul social network Weibo. «Perché dovrei stendere la biancheria sporca?», mi ripeteva. «Per lei il divorzio è sempre stato una vergogna, per la donna e per la sua famiglia».
GLI SFORZI DEL GOVERNO PER FRENARE LA TENDENZA
Fortunatamente questo modo di vedere il divorzio come un tabù sta diventando sempre meno comune e la fine del matrimonio una realtà sempre più accettata, soprattutto nelle città. Il crescente numero di divorzi, in verità, ha apparentemente turbato le autorità, prese alla sprovvista dal fenomeno. Ossessionato dal mantenimento della stabilità sociale, il governo vede nel grande aumento dei divorzi una fattore destabilizzante e per questo ha intensificato gli sforzi per frenare la tendenza. Nel 2016, la Corte suprema del Popolo ha incaricato i giudici di bilanciare il rispetto dei desideri delle persone con la difesa della stabilità della famiglia che, a loro avviso, è la base per una società armoniosa. L’anno scorso, i tribunali locali hanno introdotto metodi come un periodo di riflessione, la mediazione gratuita e persino un quiz per dissuadere le coppie dal divorziare. Non sorprende che oltre la metà dei casi di divorzio presentati siano stati respinti dai tribunali.
AUMENTA LA CONSAPEVOLEZZA DELLE DONNE
I nascenti movimenti femministi però sono convinti che il governo non debba interferire nella sfera privata delle persone. Anche se, anche in Cina, è chiaro a tutti che un divorzio non sia mai da prendere alla leggera, specialmente quando sono coinvolti bambini. Ma la consapevolezza che impedire alle donne di uscire da un cattivo matrimonio riduce drasticamente la loro libertà e il libero arbitrio si sta facendo strada nell’opinione pubblica. Così come la convinzione che la libertà di divorziare sia un caposaldo del diritto civile che deve essere rispettato.
L’aumento di richieste di divorzio da parte delle donne è un dato in linea con la traiettoria di un Paese in grande sviluppo e sulla via di una rapida modernizzazione. Un Paese che sta cercando, almeno in questo campo, di omologarsi al nazioni dove i diritti civili sono più rispettati, come gli Stati Uniti e i Paesi europei. Per questo la notizia che in Cina i divorzi sono in forte aumento è ottima. Una notizia da celebrare.
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La nota make-up artist sui social ha raccontato e documentato gli abusi subiti dall’ex compagno. Diventando un esempio e un simbolo in tutto il Paese.
In Cina la conoscono tutti come Yuya Mika, in Occidente come Mona Lisa. In realtà il suo nome è He Yuhong, ha 28 anni ed è una vera celebrità del counturing, una specie di arte del make-up. Sì, perché lei, con pochi selezionati cosmetici e una spugnetta per il trucco, si trasforma nella riproduzione fedelissima di celebri opere d’arte e vip: dalle leonardesche Monna Lisa, appunto, alla Dama con l’Ermellino, fino all’enigmatica Ragazza con l’orecchino di perla o Ava Gardner, Jean Harlow, Johnny Depp e Marlene Dietrich.
YUYA È DIVENTATA UN SIMBOLO CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Da qualche giorno però, nel suo Paese, la Cina, l’artista è diventata un simbolo, un esempio per tutte le donne maltrattate che subiscono violenza dai loro compagni, fidanzati o mariti. Seguita su TikTok da oltre 2 milioni di utenti, ha scelto il Facebook cinese Weibo per denunciare coraggiosamente e pubblicamente gli abusi subiti dell’ex-compagno, Chen Hong, un illustratore 40enne di Chongqing, anch’egli molto conosciuto in Cina. E per farlo non ha scelto un giorno qualsiasi, ma proprio la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
LA DENUNCIA VIA SOCIAL DELL’EX COMPAGNO
Sulla sua pagina social He ha postato le prove che incastrano senz’appello l’ex compagno: schermate, video registrati da telecamere di sorveglianza e addirittura le testimonianze delle due ex-mogli, che confermerebbero le violenze subite da Chen Hong. Dopo la denuncia coraggiosa di He – in un Paese come la Cina dove ancora oggi gli abusi e le violenze domestiche sulle donne vengono considerati una vergogna e non sono quasi mai denunciati – la polizia del distretto di Jiangbei, dove vivono sia lei che l’ex compagno, ha avviato un’indagine e la locale federazione femminile ha subito annunciato in un post su Weibo di essere pronta a fornirle assistenza legale gratuita. In realtà c’è preoccupazione per la sicurezza dell’artista e si temono ritorsioni, anche perché le telefonate al suo cellulare fatte da alcuni conoscenti martedì sono rimaste senza risposta. Ma Zhao Mengjiao, la sua migliore amica, ha rassicurato tutti dicendo che He si trova attualmente in un luogo sicuro e che il caso verrà gestito da un avvocato.
LE IMMAGINI DELLE AGGRESSIONI
Nei suoi post, He ha raccontato che le violenze e gli abusi sono iniziati in aprile quando Chen l’ha schiaffeggiata una dozzina di volte dopo un litigio. L’ex-compagno si è poi scusato ma la violenza è aumentata ulteriormente. In un altro caso la donna è stata trascinata fuori da un ascensore e tirata violentemente per i piedi, come documentano le riprese di sorveglianza. Chen in seguito l’ha presa per il collo e le ha sbattuto la testa contro il muro. Otto giorni dopo è stata picchiata di nuovo, con l’ex compagno che la spingeva a terra, sferrandole calci e calpestandola.
ABUSI CONFERMATE DALLE DUE EX MOGLI DELL’UOMO
Dopo la denuncia pubblica di He, anche le due ex mogli di Chen hanno deciso di uscire allo scoperto, confermando di essere state vittime di violenze. Jin Qiu, che ha divorziato dal disegnatore nel 2012, ha dichiarato in un drammatico video che l’ex marito l’ha maltrattata più volte durante il loro breve matrimonio, sbattendole violentemente la testa contro un muro. La prima ex moglie di Chen, che si è identificata solo come Abu, ha detto che gli abusi e le violenze di He rispecchiano quelli da lei subiti un decennio prima. «Ringrazio He», ha detto, «che con il suo coraggio mi ha dato la forza di denunciare. Se noi donne non lo facciamo, la stessa cosa potrebbe ripetersi molte volte. E ci saranno sempre più donne che saranno costrette a subire violenza in silenzio», ha concluso in lacrime.
IN CINA LA VIOLENZA DI GENERE È ANCORA UN TABÙ
La violenza di genere da parte di partner, mariti o compagni resta un tabù per le donne cinesi, che scontano ancora oggi una cultura fortemente improntata al maschilismo, che cerca ancora di relegarle nello spazio domestico, retaggio della visione confuciana, all’interno del quale la donna doveva restare, sottomessa e inerme ai voleri e all’arbitrio dell’uomo. La Cina si è dotata di una legislazione contro le violenze domestiche soltanto nel 2015, entrata ufficialmente in vigore nel marzo 2016, ma con caratteristiche che la rendono del tutto inadeguata e insufficiente a contrastare efficacemente quella che si profila ormai come una emergenza nazionale. La legge infatti stabilisce che l’atto di violenza domestica costituisce un’infrazione civile, non un reato. Mentre si calcola che almeno una donna su quattro sposata in Cina abbia subito violenze dal proprio partner.
UNA VITTIMA DI VIOLENZA DOMESTICA AL GIORNO
Secondo un rapporto del 2015 della Corte suprema del popolo, quasi il 10% dei casi di omicidio intenzionale riguardano episodi di violenza domestica. Ma per molto tempo i dipendenti del governo, sia avvocati sia giudici, hanno manifestato scarsa attenzione e ancor meno comprensione per la violenza contro le donne. Nel 2018, due anni dopo l’entrata in vigore della nuova legge, Equality, un’organizzazione per i diritti delle donne con sede a Pechino, ha fornito in un rapporto gli ultimi dati disponibili sui femminicidi in Cina. Si documentano 533 casi di omicidio per violenza domestica nei circa 600 giorni monitorati dallo studio, compresi tra il primo marzo 2016 e il 31 ottobre 2017, che hanno causato la morte di almeno 635 tra adulti e bambini, compresi vicini e passanti. Nel periodo in esame la media delle vittime è stata dunque di una al giorno e la grande maggioranza di esse sono donne.
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Il risultato del voto contro Pechino ha una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica per l’ex colonia. Non era mai successo prima che i rappresentanti filo-cinesi venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.
Più che una vittoria elettorale è stato un plebiscito. Il 24 novembre il popolo di Hong Kong si è messo in fila, pazientemente, per strada, di fronte alle scuole, agli uffici governativi, ovunque ci fosse un seggio elettorale.
Si è alzato molto presto al mattino, il popolo di Hong Kong, malgrado fosse domenica, per arrivare prima, per cercare di creare il minor disturbo possibile, visto che già si poteva immaginare che l’affluenza sarebbe stata alta, anzi altissima, straordinaria: quasi il 72% degli aventi diritto al voto.
E senza aggressività, senza clamore – dopo settimane, mesi, di proteste, violenze e disordini – ha messo in pratica quello che di buono l’Occidente – gli inglesi in questo caso – in 150 anni di dominio coloniale gli hanno insegnato. La loro «migliore eredità»: la democrazia.
PER LA PRIMA VOLTA I PARITI FILO-CINESI SONO ESIGUA MINORANZA
E la democrazia ha vinto, a Hong Kong. I candidati anti-Pechino e pro-democrazia hanno conquistato il 90 % dei seggi, stravincendo in 17 dei 18 distretti in cui si divide l’ex colonia britannica. Si dirà che queste elezioni hanno carattere locale, che non cambieranno radicalmente gli equilibri politici all’interno del LegCo, il Legislative Council o “mini parlamento” di Hong Kong, che resterà comunque ancora dominato dai rappresentanti imposti da Pechino. Ma l’importanza del risultato elettorale riveste comunque una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica. Non era mai successo prima che, praticamente nell’intera struttura distrettuale di Hong Kong, i rappresentanti Pro-Pechino venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.
IL PARTITO COMUNISTA CINESE HA ACCUSATO IL COLPO
Ora, probabilmente, è troppo presto per cantare vittoria. Certo, all’indomani della disfatta del fronte pro-Pechino, anche l’inetta governatrice-fantoccio di Hong Kong, la contestatissima Carrie Lam, ha dovuto prendere atto del risultato. E della storica dèbacle. Persino a Pechino, i burocrati del Partito comunista cinese che continuano a governare questo immenso Paese con il pugno sempre più di ferro, strangolando ogni minimo sussulto democratico, hanno accusato il colpo. La prima ha dichiarato a caldo di volere «con umiltà ascoltare le opinioni dei cittadini», ma Geng Shuang, portavoce del ministro degli Esteri cinese, si è subito affrettato a dichiarare minacciosamente che «Hong Kong resta parte della Cina, a prescindere da qualsiasi risultato elettorale». Ma oggi queste parole aggressive e autoritarie, alle quali il gigante illiberale cinese ci ha abituato, suonano vuote, sembrano dette in affanno, per parare un colpo.
LA RESISTENZA DI HONG KONG PUÒ INCEPPARE LA PROPAGANDA CINESE
Forse anche l’onnipotente presidente-a-vita Xi Jinping ha già capito che la piccola Hong Kong potrebbe essere il sassolino che rischia di far saltare l’immenso e fino a oggi imbattibile ingranaggio repressivo cinese? Forse. Ma certo non accadrà domani. La ferrea censura cinese riesce ancora a mantenere nell’ignoranza e a manipolare quel miliardo e rotti di cittadini che ascoltano solo la versione dei fatti artefatta dall’efficiente macchina della propaganda di Pechino. La voglia, anzi la pretesa di democrazia, che si è affermata a Hong Kong senza se e senza ma, potrà piano piano “sgocciolare” dentro questa macchina propagandistica e distruggerla? Ce lo auguriamo, e chiunque abbia a cuore i valori non negoziabili della democrazia e dei diritti umani dovrebbe augurarselo. Ma è ancora troppo presto per dire se e quando ciò accadrà.
UN VOTO CHE DÀ ANCORA PIÙ VALORE ALLE PROTESTE
Intanto i cittadini di Hong Kong – lasciati soli, totalmente e colpevolmente soli nella loro lotta, dall’intero Occidente, che ha preferito girare la testa dall’altra parte e continuare ad allungare la mano per arraffare i soldi cinesi – hanno dato a tutti una straordinaria lezione di perseveranza, orgoglio, rappresentanza e democrazia. Grazie al loro voto, tutto il mondo ha potuto vedere che i manifestanti che combattevano da mesi, mettendo a ferro a fuoco le eleganti vie della ex colonia, non erano – come qualcuno, anche da noi, sosteneva in aperta cattiva fede – una «sparuta minoranza di violenti», avversati dalla maggioranza della popolazione di Hong Kong che in realtà sarebbe stata tutta a favore di Pechino. Al contrario, il risultato elettorale ha dimostrato che essi erano l’avanguardia di un fronte immenso, condiviso, maggioritario, che unisce nell’amore per la propria città e nella richiesta di democrazia, giovanissimi studenti, impiegati pubblici, professionisti, uomini d’affari, commercianti e casalinghe. Il popolo di Hong Kong, insomma. Quello che «una mattina, si è svegliato».
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Il risultato del voto contro Pechino ha una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica per l’ex colonia. Non era mai successo prima che i rappresentanti filo-cinesi venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.
Più che una vittoria elettorale è stato un plebiscito. Il 24 novembre il popolo di Hong Kong si è messo in fila, pazientemente, per strada, di fronte alle scuole, agli uffici governativi, ovunque ci fosse un seggio elettorale.
Si è alzato molto presto al mattino, il popolo di Hong Kong, malgrado fosse domenica, per arrivare prima, per cercare di creare il minor disturbo possibile, visto che già si poteva immaginare che l’affluenza sarebbe stata alta, anzi altissima, straordinaria: quasi il 72% degli aventi diritto al voto.
E senza aggressività, senza clamore – dopo settimane, mesi, di proteste, violenze e disordini – ha messo in pratica quello che di buono l’Occidente – gli inglesi in questo caso – in 150 anni di dominio coloniale gli hanno insegnato. La loro «migliore eredità»: la democrazia.
PER LA PRIMA VOLTA I PARITI FILO-CINESI SONO ESIGUA MINORANZA
E la democrazia ha vinto, a Hong Kong. I candidati anti-Pechino e pro-democrazia hanno conquistato il 90 % dei seggi, stravincendo in 17 dei 18 distretti in cui si divide l’ex colonia britannica. Si dirà che queste elezioni hanno carattere locale, che non cambieranno radicalmente gli equilibri politici all’interno del LegCo, il Legislative Council o “mini parlamento” di Hong Kong, che resterà comunque ancora dominato dai rappresentanti imposti da Pechino. Ma l’importanza del risultato elettorale riveste comunque una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica. Non era mai successo prima che, praticamente nell’intera struttura distrettuale di Hong Kong, i rappresentanti Pro-Pechino venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.
IL PARTITO COMUNISTA CINESE HA ACCUSATO IL COLPO
Ora, probabilmente, è troppo presto per cantare vittoria. Certo, all’indomani della disfatta del fronte pro-Pechino, anche l’inetta governatrice-fantoccio di Hong Kong, la contestatissima Carrie Lam, ha dovuto prendere atto del risultato. E della storica dèbacle. Persino a Pechino, i burocrati del Partito comunista cinese che continuano a governare questo immenso Paese con il pugno sempre più di ferro, strangolando ogni minimo sussulto democratico, hanno accusato il colpo. La prima ha dichiarato a caldo di volere «con umiltà ascoltare le opinioni dei cittadini», ma Geng Shuang, portavoce del ministro degli Esteri cinese, si è subito affrettato a dichiarare minacciosamente che «Hong Kong resta parte della Cina, a prescindere da qualsiasi risultato elettorale». Ma oggi queste parole aggressive e autoritarie, alle quali il gigante illiberale cinese ci ha abituato, suonano vuote, sembrano dette in affanno, per parare un colpo.
LA RESISTENZA DI HONG KONG PUÒ INCEPPARE LA PROPAGANDA CINESE
Forse anche l’onnipotente presidente-a-vita Xi Jinping ha già capito che la piccola Hong Kong potrebbe essere il sassolino che rischia di far saltare l’immenso e fino a oggi imbattibile ingranaggio repressivo cinese? Forse. Ma certo non accadrà domani. La ferrea censura cinese riesce ancora a mantenere nell’ignoranza e a manipolare quel miliardo e rotti di cittadini che ascoltano solo la versione dei fatti artefatta dall’efficiente macchina della propaganda di Pechino. La voglia, anzi la pretesa di democrazia, che si è affermata a Hong Kong senza se e senza ma, potrà piano piano “sgocciolare” dentro questa macchina propagandistica e distruggerla? Ce lo auguriamo, e chiunque abbia a cuore i valori non negoziabili della democrazia e dei diritti umani dovrebbe augurarselo. Ma è ancora troppo presto per dire se e quando ciò accadrà.
UN VOTO CHE DÀ ANCORA PIÙ VALORE ALLE PROTESTE
Intanto i cittadini di Hong Kong – lasciati soli, totalmente e colpevolmente soli nella loro lotta, dall’intero Occidente, che ha preferito girare la testa dall’altra parte e continuare ad allungare la mano per arraffare i soldi cinesi – hanno dato a tutti una straordinaria lezione di perseveranza, orgoglio, rappresentanza e democrazia. Grazie al loro voto, tutto il mondo ha potuto vedere che i manifestanti che combattevano da mesi, mettendo a ferro a fuoco le eleganti vie della ex colonia, non erano – come qualcuno, anche da noi, sosteneva in aperta cattiva fede – una «sparuta minoranza di violenti», avversati dalla maggioranza della popolazione di Hong Kong che in realtà sarebbe stata tutta a favore di Pechino. Al contrario, il risultato elettorale ha dimostrato che essi erano l’avanguardia di un fronte immenso, condiviso, maggioritario, che unisce nell’amore per la propria città e nella richiesta di democrazia, giovanissimi studenti, impiegati pubblici, professionisti, uomini d’affari, commercianti e casalinghe. Il popolo di Hong Kong, insomma. Quello che «una mattina, si è svegliato».
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Affluenza al 71,2%. La governatrice Lam ha assicurato di ascoltare «con umiltà le opinioni dei cittadini». Ma da Pechino ricordano che l’ex colonia è parte della Cina «a prescindere dal risultato elettorale».
I candidati democratici in corsa alle elezioni distrettuali di Hong Kong hanno conquistato quasi il 90% dei seggi. L’affluenza è stata del 71,2%. Ascolteremo «certamente con umiltà le opinioni dei cittadini» ha assicurato la governatrice Lam. «Hong Kong è parte integrante della Cina, a prescindere dal risultato elettorale», si appresta a commentare Pechino tramite il ministro degli Esteri cinese Wang Yi.
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Finte calli, finti canali e professionisti importati dalla Laguna. Gli studios di Los Angeles in cartapesta. Ma anche la riproduzione della Tour Eiffel e, a breve, la Londra di Beckham che qui aprirà un nuovo resort casinò. Benvenuti a Cotai strip.
Il piccolo bus n. 15 della Sociedade de Transportes Urbanos saltella tra i dossi e le curve della tortuosa strada costiera lungo l’isola di Coloane che, insieme all’isolotto di Taipa e alla penisola di Macao, forma il territorio di questa antica colonia portoghese che tra un mese, il 20 dicembre, “festeggerà” il ventennale del ritorno alla Cina, dopo quasi 500 anni di dominio lusitano.
La meta è la Cotai strip una striscia di terra tra Taipa e Coloane. In realtà l’ennesimo, e mastodontico, sbancamento o reclamation (per dirla all’inglese) che ha sottratto al mare un’area incredibilmente vasta, unendo quelle che erano state per secoli due distinte isolette in un unico mostruoso territorio artificiale.
E su questa vasta area è sorto, a partire dal 2007, uno dei più incredibili e allucinanti megaprogetti della nuova Macao cinese.
PARISIAN E VENETIAN MACAU: IL TRIONFO DEL KITSCH
Una volta scesi dall’autobus, lo choc lascia letteralmente senza fiato. Non è un sogno né un’allucinazione: ci si trova di fronte a un’incredibile e pacchianissima Tour Eiffel. Siamo a Parisian Macau che con Venetian Macau e la City of Dreams forma il più grande complesso al mondo di casinò, centri commerciali, hotel di extralusso e boutique.
LA PICCOLA LONDRA DI DAVID BECKHAM
E proprio di fronte a questa Tour Eiffel sorgerà il nuovo mega resort voluto da David Beckham: questa volta sarà una finta Londra a vedere la luce. E a completamento del quadro surreale di questa metropoli del gioco d’azzardo e della finzione, la nuova creatura alberghiera dell’ex stella del calcio britannico esibirà una facciata simil Westminster e persino una grande replica del Big Ben. Gli ospiti verranno letteralmente “avvolti” da una profusione di decorazioni in oro e marmo; Beckham progetterà in prima persona delle concept suite e due piani saranno interamente dedicati alla sartoria su misura. «Avremo di tutto», ha dichiarato il calciatore, «dai nostri taxi neri all’esterno fino alla replica fedele di alcune delle strade più famose di Londra all’interno, come Bond Street e Saville Row».
LA RIPRODUZIONE DEGLI STUDIOS
Attualmente le tre strutture esistenti riproducono le vie e i monumenti di Parigi, ma anche le calli e i ponti di Venezia, con i canali pieni di acqua vera e solcati da autentiche gondole, costruite nella città lagunare e spedite a Macao insieme a gondolieri doc. Nella City of Dreams, poi, si può gironzolare in una perfetta riproduzione dei favolosi Studios di Los Angeles, un’area che occupa altre migliaia e migliaia di metri quadri. Un vero e proprio trionfo di “cartapesta” e di cattivo gusto, pieno di finti Ponti di Rialto, finte stradine veneziane, finti bistrot parigini. E poi decine di casinò, dove un esercito di ludopatici giocano ai tavoli verdi e fanno girare le roulette H24, tra una miriade di negozi di ogni genere, lusso e varietà da far sembrare, al paragone, una botteguccia di periferia il più grande dei nostri centri commerciali.
I NUMERI DA RECORD DI UN SOGNO CHE SEMBRA UN INCUBO
I numeri, del resto, parlano da soli. E mettono paura. Tutto è di proprietà della Las Vegas Sands con la quale anche Beckham è entrato in società per realizzare il suo progetto. L’azionista di maggioranza è il miliardario americano Sheldon Adelson, titolare di un patrimonio personale che la rivista Forbes ha stimato in quasi 34 miliardi di dollari nel 2018. La sola Venetian Macau (senza contare le finte Parigi e Hollywood) occupa un immobile alto 39 piani sulla striscia Cotai. Esteso su un’area di 980 mila metri quadrati, il complesso rappresenta attualmente il più grande casinò al mondo, il più grande hotel a edificio unico in Asia e anche il settimo più grande edificio del Pianeta per superficie.
La torre principale del complesso è stata terminata nel luglio 2007 e il resort è stato ufficialmente inaugurato il 28 agosto dello stesso anno. Attualmente dispone di 3 mila suite, 110 mila metri quadri di spazio per le convention, 150 mila metri quadri di negozi, 51 mila metri quadri di spazio casinò (con 3.400 slot machine e 800 tavoli da gioco aperti 24 ore su 24) e persino un’arena-stadio coperta da 15 mila posti, per ospitare eventi musicali e sportivi. Tutt’attorno a questo mostruoso complesso si estendono a perdita d’occhio – su quella che fino a meno di 15 anni fa era un’area marina che separava le isolette di Taipa e Coloane – altri giganteschi hotel, case da gioco, centri commerciali, in un continuum che lascia senza parole e senza fiato.
UN PRODIGIO, MA SOLO DELLA TECNICA
Se si riesce a mettere da parte per un attimo l’orrore causato dalla sovrabbondanza di qualsiasi cosa e dal kitsch bisogna ammettere che il complesso, specie la finta Venezia, è incredibile, dal punto di vista della pura realizzazione tecnica e tecnologica.
Tutto è perfettamente climatizzato e un finto cielo svetta sopra le facciate dei palazzi veneziani in cartongesso, illuminato con un sistema di proiettori dotato di finte nuvole, effetti luminosi e sonori gestiti da un sofisticato software, che simulano in modo incredibilmente realistico il susseguirsi delle ore della giornata e il variare della luce dall’alba al tramonto, fino alla notte. Piogge e temporali compresi.
Ci si può facilmente perdere tra le calli di questa finta Venezia. E saltando da un negozio all’altro, capita di mettersi a chiacchierare con i gondolieri, venetissimi e abbigliati in perfetto stile veneziano che rispondono volentieri a qualche domanda.
«Còssa vole che el disi, dotór», sussurra un ragazzone alto e pieno di muscoli. «I sghei, se i sghei!», i soldi. «Quando al nostro sindacato a Venezia ci han detto che c’erano i cinesi pronti a pagare un sacco di soldi di stipendio, compreso viaggio, alloggio di lusso e benefit per tutta la famiglia, per venire qui a fare sta pagliacciata…Bè, con la crisi che c’è in Italia, còssa gaveria fà ti al me post? Lei che avrebbe fatto al mio posto?».
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Finte calli, finti canali e professionisti importati dalla Laguna. Gli studios di Los Angeles in cartapesta. Ma anche la riproduzione della Tour Eiffel e, a breve, la Londra di Beckham che qui aprirà un nuovo resort casinò. Benvenuti a Cotai strip.
Il piccolo bus n. 15 della Sociedade de Transportes Urbanos saltella tra i dossi e le curve della tortuosa strada costiera lungo l’isola di Coloane che, insieme all’isolotto di Taipa e alla penisola di Macao, forma il territorio di questa antica colonia portoghese che tra un mese, il 20 dicembre, “festeggerà” il ventennale del ritorno alla Cina, dopo quasi 500 anni di dominio lusitano.
La meta è la Cotai strip una striscia di terra tra Taipa e Coloane. In realtà l’ennesimo, e mastodontico, sbancamento o reclamation (per dirla all’inglese) che ha sottratto al mare un’area incredibilmente vasta, unendo quelle che erano state per secoli due distinte isolette in un unico mostruoso territorio artificiale.
E su questa vasta area è sorto, a partire dal 2007, uno dei più incredibili e allucinanti megaprogetti della nuova Macao cinese.
PARISIAN E VENETIAN MACAU: IL TRIONFO DEL KITSCH
Una volta scesi dall’autobus, lo choc lascia letteralmente senza fiato. Non è un sogno né un’allucinazione: ci si trova di fronte a un’incredibile e pacchianissima Tour Eiffel. Siamo a Parisian Macau che con Venetian Macau e la City of Dreams forma il più grande complesso al mondo di casinò, centri commerciali, hotel di extralusso e boutique.
LA PICCOLA LONDRA DI DAVID BECKHAM
E proprio di fronte a questa Tour Eiffel sorgerà il nuovo mega resort voluto da David Beckham: questa volta sarà una finta Londra a vedere la luce. E a completamento del quadro surreale di questa metropoli del gioco d’azzardo e della finzione, la nuova creatura alberghiera dell’ex stella del calcio britannico esibirà una facciata simil Westminster e persino una grande replica del Big Ben. Gli ospiti verranno letteralmente “avvolti” da una profusione di decorazioni in oro e marmo; Beckham progetterà in prima persona delle concept suite e due piani saranno interamente dedicati alla sartoria su misura. «Avremo di tutto», ha dichiarato il calciatore, «dai nostri taxi neri all’esterno fino alla replica fedele di alcune delle strade più famose di Londra all’interno, come Bond Street e Saville Row».
LA RIPRODUZIONE DEGLI STUDIOS
Attualmente le tre strutture esistenti riproducono le vie e i monumenti di Parigi, ma anche le calli e i ponti di Venezia, con i canali pieni di acqua vera e solcati da autentiche gondole, costruite nella città lagunare e spedite a Macao insieme a gondolieri doc. Nella City of Dreams, poi, si può gironzolare in una perfetta riproduzione dei favolosi Studios di Los Angeles, un’area che occupa altre migliaia e migliaia di metri quadri. Un vero e proprio trionfo di “cartapesta” e di cattivo gusto, pieno di finti Ponti di Rialto, finte stradine veneziane, finti bistrot parigini. E poi decine di casinò, dove un esercito di ludopatici giocano ai tavoli verdi e fanno girare le roulette H24, tra una miriade di negozi di ogni genere, lusso e varietà da far sembrare, al paragone, una botteguccia di periferia il più grande dei nostri centri commerciali.
I NUMERI DA RECORD DI UN SOGNO CHE SEMBRA UN INCUBO
I numeri, del resto, parlano da soli. E mettono paura. Tutto è di proprietà della Las Vegas Sands con la quale anche Beckham è entrato in società per realizzare il suo progetto. L’azionista di maggioranza è il miliardario americano Sheldon Adelson, titolare di un patrimonio personale che la rivista Forbes ha stimato in quasi 34 miliardi di dollari nel 2018. La sola Venetian Macau (senza contare le finte Parigi e Hollywood) occupa un immobile alto 39 piani sulla striscia Cotai. Esteso su un’area di 980 mila metri quadrati, il complesso rappresenta attualmente il più grande casinò al mondo, il più grande hotel a edificio unico in Asia e anche il settimo più grande edificio del Pianeta per superficie.
La torre principale del complesso è stata terminata nel luglio 2007 e il resort è stato ufficialmente inaugurato il 28 agosto dello stesso anno. Attualmente dispone di 3 mila suite, 110 mila metri quadri di spazio per le convention, 150 mila metri quadri di negozi, 51 mila metri quadri di spazio casinò (con 3.400 slot machine e 800 tavoli da gioco aperti 24 ore su 24) e persino un’arena-stadio coperta da 15 mila posti, per ospitare eventi musicali e sportivi. Tutt’attorno a questo mostruoso complesso si estendono a perdita d’occhio – su quella che fino a meno di 15 anni fa era un’area marina che separava le isolette di Taipa e Coloane – altri giganteschi hotel, case da gioco, centri commerciali, in un continuum che lascia senza parole e senza fiato.
UN PRODIGIO, MA SOLO DELLA TECNICA
Se si riesce a mettere da parte per un attimo l’orrore causato dalla sovrabbondanza di qualsiasi cosa e dal kitsch bisogna ammettere che il complesso, specie la finta Venezia, è incredibile, dal punto di vista della pura realizzazione tecnica e tecnologica.
Tutto è perfettamente climatizzato e un finto cielo svetta sopra le facciate dei palazzi veneziani in cartongesso, illuminato con un sistema di proiettori dotato di finte nuvole, effetti luminosi e sonori gestiti da un sofisticato software, che simulano in modo incredibilmente realistico il susseguirsi delle ore della giornata e il variare della luce dall’alba al tramonto, fino alla notte. Piogge e temporali compresi.
Ci si può facilmente perdere tra le calli di questa finta Venezia. E saltando da un negozio all’altro, capita di mettersi a chiacchierare con i gondolieri, venetissimi e abbigliati in perfetto stile veneziano che rispondono volentieri a qualche domanda.
«Còssa vole che el disi, dotór», sussurra un ragazzone alto e pieno di muscoli. «I sghei, se i sghei!», i soldi. «Quando al nostro sindacato a Venezia ci han detto che c’erano i cinesi pronti a pagare un sacco di soldi di stipendio, compreso viaggio, alloggio di lusso e benefit per tutta la famiglia, per venire qui a fare sta pagliacciata…Bè, con la crisi che c’è in Italia, còssa gaveria fà ti al me post? Lei che avrebbe fatto al mio posto?».
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Il caso del dipendente consolare Cheng è solo l’ultimo in ordine di tempo. Le testimonianze passate hanno permesso di mettere in fila circa 100 tecniche. Dai morsi di serpente alla famigerata “Panchina della tigre”.
Dominic Raab, segretario di Stato per gli Affari esteri del Regno Unito, non ha usato mezze parole: «Il trattamento della Cina nei confronti del signor Cheng equivale a tortura». Così il caso di Simon Cheng, ex dipendente del consolato britannico di Hong Kong, arrestato lo scorso agosto e riapparso dopo essere rimasto nelle mani della Polizia cinese per 15 giorni, rischia di creare un incidente diplomatico tra Pechino e Londra. In un’intervista esclusiva al Wall Street Journal, Cheng ha dichiarato che la polizia segreta cinese lo ha picchiato, privato del sonno e incatenato a bocca aperta mentre cercava di estorcergli informazioni sugli attivisti che guidano le proteste democratiche a Hong Kong. Ma il suo non è certo il primo caso che testimonia dell’uso abituale della tortura da parte del regime cinese, un sistema largamente praticato per estorcere informazioni e false confessioni.
Arrestato a Pechino all’inizio di gennaio 2016 e tenuto in cattività per 23 giorni, anche l’attivista svedese Peter Dahlin ha subito un simile calvario in Cina, quasi tre anni prima che i canadesi Michael Kovrig e Michael Spavor venissero arrestati (sono attualmente ancora detenuti dalle autorità cinesi ormai da quasi un anno). Dahlin, co-fondatore di China Action, una Ong che supporta molti avvocati per i diritti umani in Cina, sostiene che Kovrig – il quale, come lui, è stato catturato a Pechino – sia attualmente detenuto nella stessa struttura in cui avevano rinchiuso lui: una prigione segreta, con quattro piani e due ali indipendenti, nella parte meridionale della capitale cinese. Spavor invece, che viveva e operava nella Cina nordorientale, sarebbe tenuto prigioniero in una struttura diversa.
LA TESTIMONIANZA DELL’ATTIVISTA SVEDESE DAHLIN
Secondo la testimonianza di Dahlin, ai prigionieri vengono applicate diverse forme di tortura. Due poliziotti, alternandosi nel ruolo consolidato di “poliziotto buono e poliziotto cattivo”, lo hanno interrogato in continuazione per giorni. Nella rare pause, due guardie nella sua cella osservavano ogni sua minima mossa, come girarsi nel letto. «Pesanti tende impediscono totalmente alla luce del giorno di penetrare nella cella, mentre le luci restano sempre accese, giorno e notte, privando il detenuto nella nozione del tempo e della possibilità di dormire», ha raccontato. Secondo quando dichiarato da Farida Deif, direttore dell’ufficio canadese di Human Rights Watch (Hrw) “tenere le luci accese con la conseguente privazione del sonno è una delle forme più pesanti di tortura fisica e mentale”.
ALCUNI DETENUTI MUOIONO PER LE TORTURE
Sempre secondo le testimonianze raccolte da Human Rights Watch, il regime cinese usa ogni mezzo a sua disposizione «per mettere a tacere chiunque non sia un cieco sostenitore del Partito comunista al potere». Ai detenuti in Cina vengono somministrate con la forza anche droghe psicotrope. Alcuni vengono stuprati, legati in posizioni dolorose per giorni, affamati, denudati ed esposti al freddo gelido per ore e anche colpiti da forti scariche con bastoni elettrici, per citare solo alcuni deli metodi utilizzati dagli aguzzini cinesi. Applicando una scarica elettrica che può raggiungere i 300 mila volt, i bastoni vengono impiegati per ottenere il massimo effetto su parti sensibili del corpo come la bocca, i genitali, il collo e la pianta dei piedi. In alcuni casi i prigionieri perdono coscienza e muoiono per le conseguenze.
Amnesty ha raccolto dirette testimonianze di quasi 100 diversi metodi di tortura
Secondo le organizzazioni per i diritti umani, l’uso della tortura e degli abusi in Cina contro i gruppi perseguitati rimane dilagante. Alcuni dei metodi di tortura possono essere fatti risalire al Medioevo, mentre altre forme di abuso, come il prelievo forzato di organi, non hanno precedenti nella storia. Il rapporto di Amnesty International intitolato No End in Sight: Torture and Forced Confessions in China ha raccolto dirette testimonianze di quasi 100 diversi metodi di tortura. Questi includono anche alimentazione forzata con urina o feci, ustioni da sigaretta, infezioni di scabbia, isolamento totale, perforatura delle unghie con bastoncini di bambù affilati e morsi di cani o serpenti.
I NOMI IN CODICE DELLE TORTURE
Molti dei metodi di tortura hanno persino dei nomi specifici, come “Piccola gabbia” (la persona viene ammanettata all’interno di una piccola gabbia in modo tale che non possa stare in piedi o sedersi); “Hell Confinement” (un dispositivo costituito da legacci e manette applicato in modo tale che le vittime non possano camminare, sedersi, usare il bagno o nutrirsi); “Covering a Shed” (soffocamento) e “Tortura del trascinamento” (le vittime vengono trascinate ripetutamente su terreni accidentati). C’è poi il metodo considerato il più terribile di tutti, la famigerata “Panchina della tigre“, dove la vittima si siede con le gambe distese e legate strette alla panchina con delle cinghie. Mattoni, o altri oggetti, vengono posti sotto i talloni della vittima, con più strati aggiunti fino a quando le cinghie si rompono, causando un dolore insopportabile.
ANCHE I CRISTIANI “NON ALLINEATI” NEL MIRINO
Il target preferito dai torturatori cinesi è rappresentato, tra gli altri, dai cristiani “non allineati” (quelli che si rifiutano di sottomettersi alla Chiesa di Stato gestita dal Partito Comunista), i buddisti tibetani, i musulmani uiguri, i seguaci del Falun Dafa e gli attivisti democratici o chiunque sospettato di «attività anti-governativa», come i due canadesi ancora detenuti in Cina. L’artista e scultore canadese di origine cinese Kunlun Zhang, che è riuscito a sopravvivere alle torture e a ritornare in Canada, ha raccontato che le guardie gli ripetevano: «Possiamo fare di te qualsiasi cosa senza essere ritenuti responsabili. Se muori, ti seppelliremo e diremo a tutti che ti sei suicidato perché avevi paura di un’accusa criminale».
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La loro pelle viene utilizzata in Cina per la realizzazione di un antico farmaco, l’ejiao: vengono richiesti 4,8 milioni di capi all’anno. L’allarme di Donkey Sanctuary: la popolazione mondiale di questi animali potrebbe essere dimezzata in 5 anni.
La metà della popolazione mondiale di asini potrebbe essere spazzata via nell’arco dei prossimi cinque anni: è questo l’allarme lanciato da Donkey Sanctuary, un’organizzazione di beneficenza britannica che si occupa del benessere di questi animali dal 1969. Il motivo risiede nella costante richiesta da parte del mercato cinese della loro pelle, impiegata per la produzione di una medicina tradizionale chiamata ejiao.
LA POPOLAZIONE MONDIALE DI ASINI DIMEZZATA IN CINQUE ANNI
Secondo un rapporto pubblicato dall’organizzazione, ogni anno sono necessari 4,8 milioni di pelli d’asino per soddisfare la domanda delle aziende che producono ejiao. E ammontando la popolazione globale di questi animali ad appena 44 milioni di unità, nell’arco di cinque anni essi corrono il rischio di essere più che dimezzati.
LA CINA SI RIVOLGE ALL’ESTERO PER OTTENERE LE PELLI D’ASINO
Non a caso, in Cina, il principale consumatore di pelli d’asino al mondo, a partire dal 1992 la popolazione totale di questi animali è calata del 76%. Nella Repubblica popolare, il pellame dei somari viene immerso in acqua calda e bollito fino a ricavarne una specie di gelatina. Questa è poi impiegata nella produzione dell’ejiao, una “medicina” prescritta per combattere diversi tipi di malattie, tra cui l’anemia, le vertigini e l’insonnia.
18 PAESI HANNO PRESO PROVVEDIMENTI
Visto che né le lesioni né le malattie incidono sulla qualità del pellame, questi animali ricevono trattamenti inumani nei Paesi esportatori: vengono, ad esempio, trasportati per lunghe tratte senza ricevere cibo o acqua, oppure trascinati, pur di farli camminare, per le orecchie e per la coda. «Le violazioni sono assolutamente terribili in alcuni dei luoghi in cui i somari vengono macellati per questo commercio», ha infatti confermato Faith Burden, direttore della ricerca e supporto operativo presso il Donkey Sanctuary, «l’entità del problema è molto più seria di quanto pensassimo». Fino a oggi, i Paesi che hanno preso provvedimenti per contrastare l’industria della pelle d’asino sono soltanto 18.
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Tradizionalmente assente nella cucina tradizionale, l’ingrediente è sempre più presente nei piatti del Celeste impero.
Pur non essendo un ingrediente di base della cucina cinese, le patate si stanno tuttavia diffondendo grazie anche ai ricercatori che hanno trovato il modo di utilizzarle in oltre 300 ricette tradizionali come nel pane al vapore e i noodles. La Cinaha la più ampia superficie al mondo dedicata alla coltivazione e alla produzione di patate. Queste però non si adattano alle abitudinialimentari e ai gusti dei cinesi come ingrediente di base, dal momento che non contengono le proteine del glutine e hanno una scarsa duttilità.
LA RICERCA PER INSERIRE LE PATATE NEI PIATTI TRADIZIONALI
Ma i ricercatori dell’Institute of Food Science and Technology of the Chinese Academy of Agricultural Sciences (Caas) ritengono che siano ricche di componenti nutritivi e funzionali e che utilizzarle nei piatti di base potrebbe aiutare a migliorare la salute, oltre ad ottimizzare la struttura agricola cinese, contribuendo ad alleviare le pressioni sulle risorse e sull’ambiente, a garantire la sicurezza alimentare e a realizzare lo sviluppo sostenibile.
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Tradizionalmente assente nella cucina tradizionale, l’ingrediente è sempre più presente nei piatti del Celeste impero.
Pur non essendo un ingrediente di base della cucina cinese, le patate si stanno tuttavia diffondendo grazie anche ai ricercatori che hanno trovato il modo di utilizzarle in oltre 300 ricette tradizionali come nel pane al vapore e i noodles. La Cinaha la più ampia superficie al mondo dedicata alla coltivazione e alla produzione di patate. Queste però non si adattano alle abitudinialimentari e ai gusti dei cinesi come ingrediente di base, dal momento che non contengono le proteine del glutine e hanno una scarsa duttilità.
LA RICERCA PER INSERIRE LE PATATE NEI PIATTI TRADIZIONALI
Ma i ricercatori dell’Institute of Food Science and Technology of the Chinese Academy of Agricultural Sciences (Caas) ritengono che siano ricche di componenti nutritivi e funzionali e che utilizzarle nei piatti di base potrebbe aiutare a migliorare la salute, oltre ad ottimizzare la struttura agricola cinese, contribuendo ad alleviare le pressioni sulle risorse e sull’ambiente, a garantire la sicurezza alimentare e a realizzare lo sviluppo sostenibile.
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Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell’ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell’ex colonia denuncia di essere stato torturato.
Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».
IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE
Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.
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