Dalla rovente Italia un altro allarme sul riscaldamento globale

Il 2019 è stato il quarto anno più cocente dal 1800. Dopo 2014, 2015 e 2018. Il decennio che si è chiuso risulta dunque il peggiore di sempre per il nostro Paese. Gli effetti dei cambiamenti climatici nei dati del Cnr.

E ora i negazionisti del riscaldamento globale saranno ancora un filo più imbarazzati. Perché dall’Italia è arrivata un’ulteriore conferma dei cambiamenti climatici che stanno interessando il Pianeta. Con il secondo dicembre più caldo dal 1800 a oggi, infatti, il 2019 ha chiuso con un’anomalia di +0,96 gradi sopra la media, risultando il quarto anno più caldo per il nostro Paese dopo il 2014, 2015 e 2018.

DATI DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE

È finito così il decennio più rovente di sempre in Italia, secondo quanto ha rilevato Michele Brunetti, responsabile della Banca dati di climatologia storica dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Bologna. Con buona pace dei giornali di destra che provano a smontare l’attivismo di Greta Thunberg, ogni volta che la temperatura cala, a suon di “Ma se fa freddo”.

TEMPERATURA IN CONTINUA CRESCITA

Analogamente a quanto è accaduto su scala globale, ha spiegato l’esperto del Cnr in una nota, anche nel nostro Paese ciascuno degli ultimi quattro decenni è risultato più caldo del precedente: dal 1980 a oggi la temperatura è cresciuta in media di 0,45 gradi ogni 10 anni. I dati relativi al 2019 non fanno che confermare questo trend in continua crescita.

NEL 2019 OTTO MESI SU 12 DA RECORD

Con dicembre (+1,9°C di anomalia rispetto alla media del periodo di riferimento 1981-2010), sono otto i mesi dell’anno rientrati nella top 10 delle rispettive classifiche mensili: marzo (nono più caldo, +1,48°C), giugno (secondo più caldo, +2,57), luglio (settimo più caldo, +1,29°C), agosto (sesto più caldo, +1,42°C), settembre (decimo più caldo, +1,27°C), ottobre (quarto più caldo, +1,56°C), novembre (decimo più caldo, +1,33°C).

NEL 2014 E 2015 ANOMALIA DI OLTRE UN GRADO

Peggio del 2019 sono risultati solo il 2014 e il 2015 (+1°C sopra media) e il 2018 (l’anno più caldo con un’anomalia di +1,17°C rispetto alla media del periodo di riferimento 1981-2010). Nonostante tutti, il mondo non riesce a mettersi d’accordo per cercare di arginare il fenomeno, come dimostra il fallimento della Cop25 di Madrid, la conferenza dell’Onu sul clima. Non ci resta che l’ironia del presidente degli Stati Uniti Donald Trump – ora impegnato su un altro fronte altrettanto “caldo”, con l’Iran – : «Il riscaldamento globale? Usiamolo contro il freddo».

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A Venezia è sempre acqua alta

Prevista una marea di 150 centimetri sul medio mare. In città è già a un metro e 15.

A Venezia l’acqua alta continua a salire. I rilevamenti alla Punta della Dogana davanti a San Marco registrati dal Centro maree del Comune hanno segnato alle 8.30 del 23 dicembre 135 centimetri. Lo stesso Centro conferma, al momento, la previsione di 150 centimetri di acqua alta sul medio mare per le ore 9.40. A favorire il fenomeno l’assenza del vento di bora e lo scirocco, invece, che persiste in centro Adriatico favorendo la cosiddetta onda di sessa, cioè il movimento oscillatorio del mare. Nelle stazioni di rilevamento in mare la marea tocca già in questi momenti i 147 cm in città sta salendo, ed è intorno ai 115 cm.

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Greta Thunberg e i giovani attivisti scuotono il Cop25 di Madrid

Intervento della militante svedese durante il vertice spagnolo sul clima. «Gli effetti si vedono già ora». E in conferenza stampa intervengono anche altri giovani da tutto il mondo.

«Le emergenze climatiche non sono qualcosa che avranno un impatto sul futuro, che avranno effetto sui bambini nati oggi una volta diventati adulti, hanno già effetto sulle persone che vivono oggi». Non si stanca di ripeterlo, Greta Thunberg, e lo ha fatto ancora alla Cop25 a Madrid. Ormai seguita come una vera star, assediata dal circo mediatico, la sedicenne attivista svedese diventata icona mondiale della lotta al global warming, ha lanciato il primo messaggio in avvio della seconda settimana di negoziati alla Conferenza sul clima dell’Onu. La sua pressione e quella di tanti giovani, anche dopo la marcia di 500mila persone, venerdì 6 a dicembre a Madrid, è alta e si fa sentire.

LAVORI IN VISTA DEL COP26 DI GLASGOW

Intanto stanno cominciando ad arrivare capi di Stato, ministri e ambasciatori dei 196 Paesi partecipanti e tra il 10 e l’11 scenderanno nel centro conferenze. Nelle loro mani è lo sblocco dei negoziati che devono spianare la strada alla Cop26 nel 2020 a Glasgow dove si deve mettere il sigillo agli impegni climatici di ciascuno al 2030 e al 2050 per contenere le emissioni di Co2 che provocano il riscaldamento globale e quindi eventi climatici estremi.

BREVE APPARIZIONE IN CONFERENZA STAMPA

Devono dimostrare di ascoltare il «grido» dei giovani e della gente che ha «scioperato per il clima» scendendo in strada in tutto il mondo. In una conferenza stampa superaffollata, organizzata da Fridays for Future – il movimento globale nato sulla scia dei venerdì di sciopero dalla scuola avviati nel 2018 da Greta davanti al Parlamento svedese – la giovane attivista non ha voluto ancora una volta monopolizzare la scena. E dopo una breve dichiarazione ha lasciato la parola a «coloro che già stanno soffrendo le conseguenze della crisi climatica», ricordando anche gli indigeni assassinati in Brasile per proteggere la foresta amazzonica dalla deforestazione.

IL PASSAGGIO DI TESTIMONE AD ALTRI ATTIVISTI

Per la grande quantità di persone in coda per seguire l’evento, la sala è stata chiusa e poi riaperta solo ai giornalisti. «Abbiamo il dovere di usare l’attenzione dei media per far sentire la nostra voce» ha aggiunto Greta, prima di dare la parola all’attivista tedesca e moderatrice Luisa Neubauer e ad altri ragazzi provenienti da varie parti del mondo, dall’Uganda al Cile. «Io e Luisa non parleremo oggi, siamo privilegiate», ha aggiunto, «perchè le nostre storie sono state già dette. Devono essere ascoltate le storie degli altri, soprattutto del sud del mondo e delle comunità indigene».

LE VOCI DALLE ISOLE MARSHALL AL CILE

Il primo a prendere la parola dopo Greta è stato un ragazzo proveniente dalle isole Marshall, alle prese con l’innalzamento del mare. «Ci hanno detto che per resistere dobbiamo adattarci, andare più in alto», ha affermato, «o che una soluzione che abbiamo è emigrare». Poi altri interventi hanno visto alternarsi ragazzi dalle Filippine agli Usa al Cile. Un attivista russo ha ricordato come nel proprio paese sono state arrestate delle persone per aver partecipato alle proteste sul clima.

IL MESSAGGIO DI POPOLI INDIGENI E AFRICANI

Tra gli speaker anche una ragazza nativa americana, che ha ricordato le lotte in corso contro lo sfruttamento dei territori contro il volere degli indigeni. Il messaggio di tutti ai politici è stato la richiesta di avere più visibilità. «Chiediamo di essere ascoltati, perché nessuno più di noi sperimenta sulla propria pelle i danni dai cambiamenti climatici», ha ricordato ad esempio un’attivista dall’Uganda, Hilda Flavia Nakabuye, che ha parlato della questione ambientale come «una nuova forma di razzismo». L’Africa, ha osservato, «quasi non emette nulla» di gas serra «ma siamo quelli che soffrono di più».

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Emergenza climatica: Italia sesta nel mondo per numero di vittime dal 1999

I dati del Climate Risk Index hanno fotografato l’impatto degli eventi meteorologici estremi. Il nostro Paese è anche 18esimo al mondo per perdite economiche pro capite.

Negli ultimi due decenni, dal 1999 al 2018, l’Italia è al sesto posto nel mondo per numero di vittime causate dagli eventi meteorologici estremi, e diciottesima per numero di perdite economiche pro capite. I dati emergono dal Climate Risk Index di Germanwatch. Nel complesso, nel ventennio l’Italia risulta il ventiseiesimo Paese più colpito dagli eventi estremi. Guardando al 2018, invece, si piazza al 21/o posto.

I PAESI PIÙ COLPITI DAL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Il rapporto di Germanwatch, diffuso a Madrid in occasione della Cop25, ha posto l’accento sul fatto che le condizioni meteorologiche estreme, legate ai cambiamenti climatici, stanno colpendo non solo i Paesi più poveri come Myanmar e Haiti, ma anche alcuni dei Paesi più ricchi del mondo. Nel 2018 il Paese più colpito dagli eventi estremi è infatti il Giappone, che l’anno scorso ha dovuto fare i conti con piogge eccezionali, ondate di calore e tifoni. Seguono Filippine, Germania, Madagascar, India, Sri Lanka, Kenya, Ruanda, Canada e Fiji. In termini assoluti, è l’India a essere prima sia per numero di vittime (2.081, davanti alle 1.282 giapponesi e alle 1.246 tedesche), sia per perdite economiche: (37,8 miliardi), cui seguono i 35,8 miliardi del Giappone. L’Italia, nella classifica annuale, è invece ottava per perdite economiche pro-capite, e ventottesima per morti. Tornando agli ultimi due decenni (1999-2018), la classifica generale degli Stati più colpiti dagli eventi estremi non vede alcun Paese ricco tra i primi dieci, che sono Portorico, Myanmar, Haiti, Filippine, Pakistan, Vietnam, Bangladesh, Thailandia, Nepal e Dominica.

PER L’AGENZIA UE SULL’AMBIENTE A RISCHIO GLI OBIETTIVI PER IL 2020

Le cattive notizie però non si fermano. Secondo il sesto rapporto sullo Stato dell’ambiente pubblicato dall’Agenzia europea competente l’Ue fallirà gran parte degli obiettivi sul mantenimento della biodiversità al 2020, e senza una svolta su ambiente e clima rischia di non poter raggiungere quasi tutti i target al 2030. Le reazioni delle organizzazioni ambientaliste guardano tutte alla Comunicazione sul “Green deal“, l’agenda verde della Commissione von der Leyen attesa per l’11 dicembre.

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La Cop25 sul clima di Madrid mette l’umanità davanti a un bivio

Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres: «Agire nella speranza di un mondo migliore oppure capitolare».

«Agire nella speranza di un mondo migliore oppure capitolare». Si è aperta così, con il discorso del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, la Cop25 di Madrid, la conferenza sul clima cui partecipano le delegazioni dei Paesi firmatari degli Accordi di Parigi del 2015.

L’umanità si trova davanti a un bivio e Guterres ha chiesto ai rappresentanti dei vari governi se vogliono davvero essere ricordati come «la generazione che ha messo la testa sotto la sabbia, che si gingillava mentre il pianeta bruciava».

Il segretario generale delle Nazioni unite ha continuato affermando che i nuovi dati mostrano che i gas serra hanno raggiunto livelli record e che non c’è altro tempo da perdere, aggiungendo che se non si agisce subito contro il carbone «tutti i nostri sforzi per combattere i cambiamenti climatici sono destinati al fallimento».

Guterres ha quindi esortato in particolare i grandi Paesi inquinatori a intensificare i loro sforzi. Altrimenti «l’impatto su tutte le forme di vita del pianeta, compresa la nostra, sarà catastrofico».

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Il parlamento Ue ha dichiarato l’emergenza climatica

Via libera ad una risoluzione non legislativa. Uno degli obiettivi è ridurre le emissioni del 55% entro il 2030.

Il Parlamento europeo ha dichiarato l’emergenza climatica e ambientale in Europa e nel mondo, dando il via libera ad una risoluzione non legislativa. L’Eurocamera rilancia così la sfida alla futura Commissione europea a guida Ursula von der Leyen che da parte sua ha annunciato che entro i primi 100 giorni metterà sul tavolo una nuova agenda verde. Il testo è passato con 429 voti a favore, 225 contrari e 19 astensioni.

L’OBIETTIVO DI TAGLIARE LE EMISSIONI DEL 55% ENTRO IL 2030

La Plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo chiede maggiori tagli alle emissioni di Co2 con l’aumento dal 40% al 55% degli obiettivi già al 2030. Il testo della risoluzione sulla conferenza delle parti sul clima (Cop25) in programma a Madrid da lunedì prossimo è passato con 430 voti a favore, 190 contrari e 34 astensioni.

SERVE UNA STRATEGIA PER LA NEUTRALITÀ CLIMATICA

Il Parlamento esorta la Commissione Ue a presentare alla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici una strategia per raggiungere la neutralità climatica al più tardi entro il 2050. I deputati chiedono inoltre alla nuova presidente della Commissione europea von der Leyen di includere nel Green Deal europeo un obiettivo di riduzione del 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030.

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Il parlamento Ue ha dichiarato l’emergenza climatica

Via libera ad una risoluzione non legislativa. Uno degli obiettivi è ridurre le emissioni del 55% entro il 2030.

Il Parlamento europeo ha dichiarato l’emergenza climatica e ambientale in Europa e nel mondo, dando il via libera ad una risoluzione non legislativa. L’Eurocamera rilancia così la sfida alla futura Commissione europea a guida Ursula von der Leyen che da parte sua ha annunciato che entro i primi 100 giorni metterà sul tavolo una nuova agenda verde. Il testo è passato con 429 voti a favore, 225 contrari e 19 astensioni.

L’OBIETTIVO DI TAGLIARE LE EMISSIONI DEL 55% ENTRO IL 2030

La Plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo chiede maggiori tagli alle emissioni di Co2 con l’aumento dal 40% al 55% degli obiettivi già al 2030. Il testo della risoluzione sulla conferenza delle parti sul clima (Cop25) in programma a Madrid da lunedì prossimo è passato con 430 voti a favore, 190 contrari e 34 astensioni.

SERVE UNA STRATEGIA PER LA NEUTRALITÀ CLIMATICA

Il Parlamento esorta la Commissione Ue a presentare alla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici una strategia per raggiungere la neutralità climatica al più tardi entro il 2050. I deputati chiedono inoltre alla nuova presidente della Commissione europea von der Leyen di includere nel Green Deal europeo un obiettivo di riduzione del 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030.

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L’Italia sempre più colpita da eventi meteorologici estremi

Nel 2018 sono stati 148, con un bilancio di vittime e danni di gran lunga superiore rispetto agli ultimi cinque anni. Cosa dice il rapporto “Il clima è già cambiato” di Legambiente.

Il clima è già cambiato e sta mettendo in difficoltà le città italiane da Nord a Sud. Soltanto nel 2018 il nostro Paese è stato colpito da 148 eventi meteorologici estremi, che hanno causato 32 vittime e oltre 4.500 sfollati. Un bilancio di gran lunga superiore alla media degli ultimi cinque anni.

I numeri più aggiornati sono contenuti nel rapporto 2019 dell’Osservatorio CittàClima di Legambiente, intitolato per l’appunto Il clima è già cambiato e realizzato in collaborazione con Unipol. L’impatto del cambiamento climatico mostra chiaramente l’urgenza di quella che l’associazione definisce una «nuova politica di adattamento», e di interventi per fermare il dissesto idrogeologico.

Dal 2010 in poi i Comuni italiani che hanno subito danni rilevanti a causa del maltempo sono stati 350, con 563 eventi meteorologici estremi che hanno causato, tra le altre cose, 73 giorni di stop a metro e treni e 72 giorni di blackout. Le città colpite dal maggior numero di eventi estremi sono state Roma (33), Milano (25), Genova (14), Napoli (12), Palermo (12), Catania (9), Bari (8), Reggio Calabria (8) e Torino (7).

Gli eventi meteorologici estremi che hanno colpito l’Italia tra il 2010 e il 2018 (fonte: Legambiente).

TEMPERATURE IN CONTINUA CRESCITA

Il rapporto CittàClima 2019 evidenzia poi come la temperatura nelle nostre città sia in continua crescita, e a ritmi maggiori rispetto al resto del Paese: la media nazionale delle aree urbane è di +0,8 gradi centigradi nel periodo 2001-2018 rispetto alla media del periodo 1971-2000. Con picchi particolarmente elevati a Milano (+1,5 gradi), Bari (+1) e Bologna (+0,9).

ALLAGAMENTI, TROMBE D’ARIA E FRANE

Nei 350 Comuni Italiani colpiti da eventi estremi si sono verificati 211 allagamenti da piogge, 193 danni alle infrastrutture, 123 trombe d’aria, 75 esondazioni fluviali, 20 frane e 14 danni al patrimonio da piogge intense. Il maggior numero di danni alle infrastrutture si è verificato a Roma con 11 eventi, seguita da Napoli con 8 e da Genova, Palermo e Reggio Calabria con 6. A Milano, invece, è record di esondazioni fluviali: 18 negli ultimi 10 anni.

IL NODO DELL’ACCESSO ALL’ACQUA

L’accesso all’acqua è un altro problema rilevante. In una prospettiva di lunghi periodi di siccità, rischia di diventare sempre più difficile da garantire. La situazione è complicata anche oggi. Basti pensare che nel 2017 nei quattro principali bacini idrografici italiani (Po, Adige, Arno e Tevere) le portate medie annue hanno registrato una riduzione media complessiva del 39,6% rispetto alla media del trentennio 1981-2010.

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Sarà Giacarta la prima città vittima dei cambiamenti climatici

La capitale dell’Indonesia affonda di 25 cm l’anno. Il governo indonesiano ha già stanziato 40 miliardi di dollari. Ma non può salvarla: è costretto a spostarla di migliaia di chilometri.

Affonda al ritmo di 25 centimetri all’anno. E ormai quasi metà della città di trova sotto il livello del mare. Periodicamente una larga parte dell’abitato finisce sott’acqua, paralizzando ogni cosa e provocando danni incalcolabili.

Le autorità hanno messo in campo ormai da tempo un piano ambizioso, il cui costo stimato sfiora già oggi i 40 miliardi di dollari, per correre ai ripari, ben consci che i cambiamenti climatici non aspettano e non daranno tregua alla loro città. Purtroppo non stiamo parlando di Venezia, la città che non appartiene solo all’Italia ma all’intera umanità, invasa e ferita – forse in modo irreparabile – da una marea fuori controllo.

Siamo a oltre 10 mila chilometri di distanza, in un altro Stato – la nazione musulmana più popolosa del mondo – in un altro continente e di fronte a un problema che colpisce quasi 10 milioni di persone (32 considerando i sobborghi): siamo a Giacarta, capitale dell’Indonesia, che ormai da anni affonda lentamente ma inesorabilmente e rischia di diventare la prima “vittima eccellente” del disastro climatico alle porte.

TANTE CITTÀ DEL SUD EST ASIATICO A RISCHIO

La soluzione studiata dalle autorità indonesiane, però, non ha nulla a che fare con il discusso ed eternamente incompiuto Mose. Laggiù stanno già preparando tutto per fare qualcosa che – sicuramente – a Venezia non si potrà mai fare: trasferire totalmente la capitale qualche migliaio di chilometri più a Est, nell’immensa e ancora in buona parte selvaggia provincia del Kalimantan. Per gli scienziati non ci sono soluzioni. Così ministeri e ambasciate si sposteranno nell’isola del Borneo.

Giacarta, Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione

E la capitale dell’Indonesia non è nemmeno l’unica grande metropoli ad essere ad alto rischio “annegamento”: insieme ad essa anche Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione, ad ogni marea, rese sempre più imponenti e minacciose dagli sconvolgimenti causati dal riscaldamento globale, finisco a mollo ogni volta di più, ogni vota più disastrosamente.

Tangerang, area vicina a Giacarta, dopo l’alluvione del 2009 (foto BERRY/AFP via Getty Images).

La situazione di Giacarta, però, appare davvero apocalittica: il 40% della città è già sotto il livello dell’oceano che circonda l’isola di Giava. La zona rivierasca settentrionale è affondata di 2,5 metri nell’ultimo decennio. Come sempre accade, l’intervento umano ha peggiorato la situazione: le “fondamenta” geologiche su cui poggia la città, infatti, sono state indebolite anche dal pompaggio indiscriminato delle falde acquifere. Il governo stima in 7 miliardi di dollari all’anno il danno economico causato da questa situazione.

IN INDONESIA SONO TUTTI D’ACCORDO: AGIRE SUBITO SUL RISCALDAMENTO CLIMATICO

Il presidente Joko “Jokowi” Widodo, in un discorso televisivo, ha spiegato di recente che il governo presenterà al parlamento un disegno di legge per il trasferimento della capitale, iniziando con il trasferimento di uffici e sedi istituzionali, entro il 2024. Il nome della nuova capitale non è stato ancora rivelato, ma il progetto è estremamente ambizioso e il suo costo enorme verrà finanziato per il 19% dallo Stato e il resto attraverso la creazione di partnership miste pubblico-privato o direttamente da privati. A trasferimento avvenuto, non prima di cinque anni, nella nuova capitale abiteranno e lavoreranno circa un milione e mezzo di funzionari pubblici.

In Indonesia sono tutti d’accordo: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo

Secondo Heri Andreas, scienziato del Bandung Institute of Technology indonesiano, «l’innalzamento costante del livello del mare causato dal riscaldamento globale ha già fatto sì che alcune zone della città vengano periodicamente invase da più di 4 metri d’acqua. Non c’è più tempo, dobbiamo intervenire subito per evitare una catastrofe planetaria. Tutti i governi del mondo dovrebbero essere pronti a mettere da parte i loro interessi locali per unirsi nella lotta contro quella che rischia di essere un’autentica apocalisse prossima ventura».

Le strade di Giacarta dopo gli allagamenti avvenuti nell’aprile del 2019.

In Indonesia, un enorme Paese dal passato e dal presente politico spesso turbolento anche più di quello italiano, sono tutti d’accordo sul punto: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo. A Venezia anche l’aula consiliare dove si tenevano i lavori si è allagata qualche giorno fa, e tutti i consiglieri sono dovuto scappare in gran fretta per mettersi in salvo dall’acqua alta eccezionale. Giusto due minuti dopo che la maggioranza, formata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia aveva bocciato gli emendamenti per contrastare i cambiamenti climatici, presentati dall’opposizione.

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L’acqua alta a Venezia e chi nega il riscaldamento globale

Mentre la città finisce sommersa, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno bocciato gli emendamenti in Regione per contrastare i cambiamenti climatici. Poco prima che anche l’aula consiliare si allagasse. Greenpeace e ambientalisti lanciano l’allarme. Ma qualcuno parla di «terrorismo» e «catastrofismo».

È il surriscalmento globale che ci presenta il conto? L’acqua alta che ha stravolto Venezia ha proiettato l’Italia sulle prime pagine di tutti i media internazionali. Che non hanno esitato a dare la colpa al «cambiamento climatico» per la «marea più alta degli ultimi 50 anni», come per esempio ha titolato in apertura il sito della Bbc, citando le parole del sindaco Luigi Brugnaro che ha parlato di un evento destinato a lasciare «segni indelebili» sulla città.

LA MAGGIORANZA “NEGAZIONISTA” FINISCE COI PIEDI A MOLLO

Eppure, forse anche per la simpatia che una parte politica proprio non riesce a sviluppare nei confronti dell’attivista Greta Thunberg e delle sue lotte ecologiste, nella Regione Veneto la maggioranza composta da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia ha appena bocciato gli emendamenti per contrastare i cambiamenti climatici. E da lì a poco, ironia della sorte, l’aula consiliare si è allagata, come ha testimoniato Andrea Zanoni del Partito democratico.

Una parte del post su Facebook di Zanoni.

Anche qualcun altro è scettico. Tipo Arrigo Cipriani, 87enne volto storico di Venezia e da anni alla guida dell’Harry’s bar, locale simbolo della Laguna: «Si fa solo del terrorismo climatico senza senso. Nella storia c’è stato il secolo del Rinascimento, questo è il secolo del rimbecillimento», ha detto, parlando di «catastrofismi» che non fanno bene alla città.

MA PER GREENPEACE «NON È SOLO MALTEMPO»

Eppure secondo il responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia, Luca Iacoboni, «l’ondata di eventi climatici estremi che ha interessato da Nord a Sud vaste zone dell’Italia non è maltempo, ma la conseguenza della crisi climatica. E quanto accaduto a Venezia non è, purtroppo, altro che un drammatico esempio dell’emergenza che già viviamo ogni giorno sulla nostra pelle».

Il governo per i decenni a venire prevede un massiccio utilizzo del gas, che è parte del problema e non la soluzione


Greenpeace Italia

Greenpeace ha chiesto quindi al governo italiano di «fornire immediatamente supporto alle persone colpite da questi eventi estremi e di lavorare efficacemente sulle cause dei cambiamenti climatici, partendo da un rapido cambiamento dei piani energetici nazionali. In particolare, il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) che il governo sta portando avanti, e che verrà approvato entro la fine del 2019, prevede un massiccio utilizzo del gas per i decenni a venire. Così facendo si aggraverebbe la crisi climatica, perché il gas è parte del problema e non della soluzione, come cercano di far credere governo e grandi aziende del settore».

GLI AMBIENTALISTI: «DECISIONI UMANE SCELLERATE»

Marco Gasparinetti ha parlato invece a nome del Gruppo 24 Aprile, la piattaforma civica impegnata nella difesa ambientale di Venezia. Dicendo che «restare coi piedi per terra è un lusso che a noi è negato, dal cambiamento climatico in corso e da decisioni umane scellerate, dettate da avidità e corruzione. Venezia ha bisogno di scelte coraggiose, di passione contrapposta al cinismo affaristico, di persone integerrime e competenti». E che magari non negano il global warming.

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Con la crisi climatica Venezia e altri 20 porti italiani rischiano di finire sott’acqua

L’Enea stima un innalzamento del mare di un metro al 2100 che può arrivare a 2 metri con onde e vento. Dopo la città lagunare, le più colpite sono Napoli e Cagliari.

In 80 anni il livello del mare che tocca i porti italiani è destinato a crescere di circa un metro: significa che con la crisi climatica Venezia e altri venti porti del nostro Paese finiranno sommersi dall’acqua. Si stima un metro di innalzamento dell’acqua al 2100, con picchi superiori proprio a Venezia (più 1,064 metri), a Napoli (più 1,040 metri), a Cagliari (più 1,033 metri), a Palermo e a Brindisi.

CON VENTO E ONDE SI ARRIVA A UN AUMENTO ANCHE DI DUE METRI

La previsione è il frutto delle proiezioni dell’Enea presentate di recente in un focus dedicato al Mediterraneo. L’innalzamento stimato dall’Enea riguarda 21 porti italiani e prende in considerazione anche l’effetto dello ‘storm surge’, cioè la coesistenza di bassa pressione, onde e vento che in particolari condizioni determina un aumento del livello del mare rispetto al litorale di circa 1 metro. L’innalzamento al 2100 viene stimato ad Ancona di un metro, fino a due con l’effetto ‘storm surge’; ad Augusta 1,028 (fino a 2,028), a Bari 1,025 (fino a 2,025), a Brindisi 1,0282,028, a Cagliari 1,033 (2,033), a Catania 0,952 (1,952), a Civitavecchia 1,015 (2,015), a Genova 0,922 (1,922), a Gioia Tauro 0,956 (1,956), a La Spezia 0,994 (1,994), a Livorno 1,008 (2,008), a Massa 0,999 (1,999), a Messina 0,956 (1,956), a Napoli 1,040 (2,040), a Olbia 1,025 (2,025), a Palermo 1,028 (2,028), a Salerno 1,020 (2,020), a Savona 0,922 (1,922), a Taranto 1,024 (2,024), a Trieste 0,980 (1,980), a Venezia 1,064 (2,064).

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Anche la finanza può venire travolta dal climate change

Uno studio dimostra che i cambiamenti climatici influiscono negativamente sui bilanci delle istituzioni finanziarie, a partire dalle banche. Che spesso non calcolano correttamente i rischi correlati agli investimenti che fanno.

Avete mai chiesto, e ne avreste diritto, alla vostra banca: «Ma a chi presti i miei risparmi? Dove vanno a finire i soldi che io deposito presso di te?».

Provate a farla perché se il vostro istituto di credito finanzia aziende che svolgono attività inquinanti potrebbero essere a rischio i vostri risparmi.

Lo tsunami che si sta abbattendo sul mondo della finanza è molto meno metaforico di quel che si pensa.

L’ALLARME DI NATURE CLIMATE CHANGE

Secondo uno studio pubblicato su Nature climate change da quattro ricercatori italiani che lavorano presso il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), l’Rff-Cmcc european institute on economics, la Scuola superiore sant’Anna, l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano, il rischio climatico influisce negativamente sui bilanci delle istituzioni finanziarie e, pertanto, può essere rilevante per la stabilità finanziaria, in particolare se il mondo della finanza non calcola correttamente i rischi correlati.

I danni alle infrastrutture causati da eventi catastrofici come frane e alluvioni e il calo di produttività delle imprese potrebbero far impennare i fallimenti delle banche

In altri termini i cambiamenti climatici rischiano di minare la stabilità del sistema finanziario su scala globale. Vi starete chiedendo: ma in che modo i rischi fisici di catastrofi ambientali da economici, sociali e poi geopolitici possono diventare finanziari? Partiamo dalla base: le imprese devono ripensare il loro modo di fare business e orientare le loro azioni verso un’economia a basse emissioni di gas (in particolare il carbonio) che sono estremamente dannosi per l’intero ecosistema.

Ma ciò risulta una sfida tutt’altro che semplice perché richiede investimenti che il sistema finanziario, per la crisi strutturale che attraversa e per la cecità del proprio management, non è in grado di sostenere. Di conseguenza i danni alle infrastrutture causati da eventi catastrofici come frane e alluvioni e il calo di produttività delle imprese potrebbero far impennare i fallimenti delle banche (da +26% fino a +248%), mentre il salvataggio di quelle insolventi costerebbe ai governi circa il 5-15% del Pil all’anno, con un’esplosione del debito pubblico che potrebbe arrivare a raddoppiare nel 2100.

TRA LE BANCHE ITALIANE QUASI NESSUNO VALUTA IL RISCHIO AMBIENTALE

Ma cosa stanno facendo le banche, soprattutto del nostro Paese, per salvaguardarsi da un rischio di perdite che tra qualche decennio possono diventare non assicurabili? Quali strategie (!!!) stanno producendo per ridurre l’esposizione nei confronti delle imprese ad alta intensità di carbonio? Nulla o quasi. In base alla mia esperienza diretta sul mercato italiano, al momento nel nostro Paese una sola banca, tralaltro di piccole dimensioni (Banca popolare etica), sta investendo in tal senso concretamente e non con protocolli ed elaborazioni di mission che servono solo a garantire una reputazione di facciata.

Le visioni strategiche delle banche solo concentrate sul breve periodo, all’insegna del “vediamo di tirare avanti ancora un po’”

In questa banca, per esempio, la valutazione del rischio creditizio nei confronti delle imprese e dei privati è effettuata anche da «valutatori sociali», che verificano tralaltro l’impatto ambientale del processo produttivo o commerciale dell’impresa nonché il rischio collegato all’erogazione di un mutuo per l’acquisto di un immobile in aree vulnerabili a inondazioni, incendi o uragani. Per il resto, visioni strategiche solo concentrate sul breve periodo, all’insegna del “vediamo di tirare avanti ancora un po’” .

E i regolatori finanziari, oltre alle necessarie analisi e studi effettuati al riguardo, che ruolo stanno avendo per sollecitare, se non imporre, strategie di mitigazione di tali rischi e adattamento veloce ad un contesto davvero preoccupante? Perché non obbligare (non suggerire) le banche ad adottare sistemi di credit rating che tengano conto di una valutazione ambientale di chi richiede un finanziamento? Forse solo perché, in tal modo, la loro fine sarebbe solo anticipata.

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