Il parlamento del Regno Unito ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico del programma. Un nuovo accordo andrà rinegoziato.
Arrivederci Erasmus. Nelle ore in cui è arrivato il via libera definitivo alla Brexit, il parlamento britannico ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico dello storico programma di scambio tra studenti europei dopo l’uscita dall’Unione europea. Non è un addio, si è affrettato a precisare il governo di Londra bersagliato dalle critiche, ma quasi. Con il voto di ieri sera, oscurato dall’annuncio shock di Meghan e Harry, Erasmus+ (come si chiama da qualche anno) finirà nel calderone dei dossier da affrontare nei futuri negoziati con Bruxelles. In pratica, il girone infernale del periodo di transizione, quando ci saranno questioni ben più impellenti da risolvere. Il voto ai Comuni era atteso ed in linea con la promessa del premier Boris Johnson di mettere fine alla libertà di movimento dopo la Brexit.
LA PROTESTA DA ENTRAMBE LE SPONDE DELLA MANICA
E tuttavia ha suscitato reazioni di protesta da entrambi i lati della Manica. Scatenando l’indignazione soprattutto di chi l’Erasmus l’ha vissuto e lo ricorda a distanza di anni come l’esperienza più formativa della propria vita. «Ho trascorso un anno incredibile a Friburgo nel 1999. Sono così arrabbiata che questa possibilità sia stata strappata agli studenti britannici», scrive Laura su Twitter. «Grazie all’Erasmus sono riuscita a studiare a Parigi e trovare il mio primo lavoro da giornalista. Ha trasformato la timida ventenne che ero…», racconta Ros. «L’Erasmus mi ha resa quella che sono oggi. Ho il cuore spezzato», dice la professoressa Tanja Bueltmann.
LONDRA PROVA AD ABBASSARE I TONI
Il governo britannico, prima per bocca del sottosegretario all’Istruzione Chris Skidmore, poi con un comunicato ufficiale, ha provato a placare gli animi. «C’è l’impegno a mantenere i rapporti accademici con l’Ue anche attraverso l’Erasmus+. Vogliamo assicurarci che gli studenti britannici e quelli europei possano continuare a beneficiare dei rispettivi sistemi educativi», è scritto nella nota dove tuttavia si precisa «se sarà nei nostri interessi farlo». Al programma partecipano anche Paesi non membri dell’Unione europea come Norvegia, Serbia e Turchia, oltre a Paesi partner che prendono parte solo ad alcune attività come Albania, Egitto, Israele, Russia. Ma non potendo usufruire dei fondi comunitari, i Paesi che decidono di aderire devono stanziare finanziamenti di tasca propria. Sarà «nell’interesse» del Regno Unito farlo?
NO COMMENT DA BRUXELLES
Da Bruxelles nessun commento sulla decisione, a larghissima maggioranza, dei Comuni. Lo scorso marzo, in prossimità della prima scadenza della Brexit e per fronteggiare un eventuale no-deal, il Consiglio europeo aveva adottato un pacchetto di misure d’emergenza che garantivano agli studenti Erasmus di concludere il loro percorso. Ma solo fino alla fine del 2020. Nessuno sa cosa accadrà alla scadenza del periodo di transizione.
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Se il Regno pensa di vedersi offrire su un piatto d’argento il libero accesso al mercato statunitense, si sbaglia di grosso. Il nazionalismo costerà caro agli inglesi. Come preconizzato da George Orwell.
Prima di archiviare la lunga saga Brexit e in attesa di vedere fra un paio d’anni le vere conseguenze, è bene assicurarsi che venga archiviata nello scaffale giusto. Che è quello dei sogni. A volte si realizzano. A volte no. Non c’è dubbio che si tratta dell’ultimo grande exploit del nazionalismo inglese. Convinto, come diceva nel 1999 Margaret Thatcher cacciata nove anni prima dalla guida del governo dagli uomini del suo stesso partito anche per la sua durezza anti Ue, che «noi siamo certamente il miglior Paese in Europa» e che «nel corso della mia vita tutti i problemi sono venuti dal continente, e tutte le soluzioni sono venute dai Paesi di lingua inglese disseminati in giro per il mondo». L’ex premier “lady di ferro” morirà nel 2013. Anche il grande Mercato Unico di cui la premier Thatcher fu negli Anni 80 uno dei più convinti creatori è stato un problema venuto dal continente?
Thatcher guidava il partito che aveva portato il Regno Unito nel Mec e diventò decisamente anti Ue solo dopo il profilarsi della riunificazione tedesca. Milioni di inglesi vogliono ora sbattere la porta, l’hanno sbattuta, con molti che si scrollano si direbbe anche la polvere dai calzari, ispirati idealmente da una Thatcher che Boris Johnson ha usato come una novella Giovanna d’Arco alla riconquista dell’indipendenza. Persino Winston Churchill che invece fu, perso l’Impero, un convinto europeista, è stato gabellato come brexiteer. Intanto, tutti parlano per sentito dire. Quello della Brexit è un argomento da tempo noioso perché rimasto a bagnomaria per oltre tre anni ma, archiviandolo, occorre sapere che la storia non finisce qui. Non si tratta infatti solo dell’uscita legale, che ci sarà il 31 gennaio prossimo, dell’ultimo ammainabandiera a Bruxelles e Strasburgo e della scomparsa della già rara bandiera azzurrostellata dell’Unione dagli edifici pubblici britannici.
LA SAGA DELLA BREXIT NON È FINITA
Ridisegnare i rapporti tra Londra e il continente è infatti un’operazione gigantesca e inedita. Si tratta dell’uscita reale dalla enorme rete cha a partire dal 1973 ha integrato l’economia del Regno Unito con quella continentale, e non solo l’economia, e del disegno complesso dei futuri rapporti commerciali. Johnson ha ribadito martedì 17 dicembre che si uscirà del tutto comunque a fine 2020. Quindi una hard Brexit, probabilmente; i mercati hanno subito reagito male. D’altra parte una soft Brexit vorrebbe dire restare agganciati al sistema Ue, come regole, e questo Johnson lo definiva già un anno fa un “vassallaggio”. Johnson ha vinto grazie agli errori clamorosi del corbynismo (si veda Corbyn consegnerà il Regno Unito alla brexit di Farage del 19 maggio scorso) e dei liberaldemocratici e sulla base di due promesse, ma mantenere la prima promessa rende difficilmente realizzabile la seconda.
Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni
La prima promessa ora ribadita dice “usciremo definitivamente a fine dicembre 2020”, cioè fra un anno. Ciò significa che per un anno cambia poco nei rapporti economici fra Londra e Bruxelles, e dopo cambia tutto. La seconda promessa assicura un’economia in rapida crescita spinta anche dalla spesa pubblica, investimenti notevoli nelle aree delle Midlands e dell’Inghilterra settentrionale, aree ex minerarie e operaie, da un secolo o poco meno tenacemente laburiste, che in nome della Brexit si sono in parte notevole, determinando le dimensioni della vittoria, schierate con i Tory, passaggio prima impensabile. Ma sarà possibile un’economia in crescita se i duri del partito conservatore e Nigel Farage che già ha lanciato anatemi impongono comunque un’uscita definitiva dai meccanismi economici e doganali fra un anno? Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni.
L’INTEGRAZIONE CON GLI USA NON SARÀ MAI PARI A QUELLA CON L’UE
Se Londra esce fra un anno sarà inevitabile adottare le regole del Wto, il che significa dazi, tariffe, dogane e controlli. Farage non va sottovalutato. Non ha conquistato nemmeno un seggio il 12 dicembre con il suo Brexit party, ma si è presentato in meno di metà dei collegi per disturbare il minimo possibile Johnson. E Farage, con la sua retorica iper nazionalista e sopra le righe a dir poco, resta l’uomo politico più influente del Paese, vero pontefice della Brexit. È lui che ha imposto il dibattito nazionale a partire dal voto del 2013 e dalle europee del 2014, spingendo i Tory a cercare di essere più anti Ue di lui. È la logica degli estremismi di cui il nazionalismo, a differenza del patriottismo, fa parte. Johnson parla della «grande avventura» in cui il Paese si è lanciato «riconquistando» la propria indipendenza e tratteggia i contorni di un Regno Unito nuovamente «imperiale».
Un impero soft fatto di eccellenza economica, di finanza, di centralità globale della piazza londinese, di ricerca e alta tecnologia, di supremazia intellettuale insomma, quella stessa che i burocrati bruxellesi e, diciamolo pure, le stranezze e la mediocrità di un continente che un certo tipo di inglesi ha sempre guardato dall’alto in basso, impedivano. È un esercizio nel quale il suo lungo mestiere da giornalista lo aiuta, e appartiene per ora al mondo dei sogni. Sogni? La risposta è sempre stata: avremo un magnifico trattato commerciale con gli Stati Uniti. Donald Trump in effetti lo ha promesso, con l’obiettivo di usare il Regno Unito come grimaldello per sfasciare la Ue, che è troppo grossa commercialmente e infastidisce un’America di un certo tipo di cui Trump è il portabandiera, l’America iper nazionalista e, che lo ammetta o no, neo isolazionista e che non sa che farsene ormai del “mondo occidentale”. Ma qui occorre un semplice ragionamento.
È difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche
Fino a oggi, e fino al 31 dicembre 2020, l’economia britannica, 66 milioni di abitanti , è integrata in un mercato di 512 milioni di persone, senza dazi e senza vincoli. Uscendo rinuncia quindi al libero accesso a un mercato di 450 milioni e il più ricco, come capacità totale di spesa della popolazione, del mondo. Gli Stati Uniti non si integreranno mai in analoga misura, per molto tempo almeno, con il mercato britannico, ma Trump ha promesso e Johnson continua a citare un «accordo fantastico». Difficilmente ci sarà nel corso del 2020, anno dominato dall’impeachment e ancor più dalla campagna elettorale che lascerà probabilmente agli elettori il giudizio finale sul presidente. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Qualsiasi trattativa sarà bilaterale, non multilaterale come quella che ha creato il Mercato Unico europeo più di 30 anni fa. Ed è difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche, visto che i due mercati sono ben lontani dall’esserlo.
GLI ISTINTI PROTEZIONISTI MADE IN USA
È chiaro infatti che il libero accesso al mercato Usa vale potenzialmente per i prodotti britannici assai di più, cinque volte tanto, del libero accesso al mercato Uk per i prodotti Usa. Inoltre va considerato anche, come l’ex Cancelliere dello scacchiere conservatore Kenneth Clark (fra i moderati giubilati da Johnson) ricordava ai Comuni alcuni mesi fa, che gli Stati Uniti sono fortemente condizionati nelle trattative commerciali da un Congresso dove gli istinti protezionisti, sollecitati di continuo dalle molte lobby, e la perfetta coscienza delle asimmetrie fra i due mercati peseranno certamente. Non c’è che da aspettare e vedere. Ma la vittoria del nuovo partito conservatore nazional-brexista-populista (in omaggio al nuovo elettorato delle Midlands) non è che l’ennesima incarnazione del vecchio nazionalismo inglese, condiviso dalle classi superiori e inferiori, e anzi in queste ultime spesso ancora più tenace. Di nuovo, a rafforzarlo, c’è solo l’immigrazione. Il resto è un déja-vu.
L’insularità degli inglesi, il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro
George Orwell
Senza perdersi dietro le cronache delle ultime settimane con interviste “alla gente”, basta ricordare quanto diceva Alexis de Tocqueville quando confrontava il francese ansioso che guarda in alto nel timore che qualcuno possa essergli superiore, e l’inglese che unicamente «abbassa il suo sguardo per contemplare con soddisfazione». Oppure, uscendo dall’800, l’epitaffio sulla Brexit può essere quello di George Orwell, quando diceva in The Lion and the Unicorn (1941), splendido e affettuoso ritratto del suo Paese e dei suoi connazionali, che l’errore degli inglesi è non avere mai preso sul serio i continentali, ritenendosi troppo superiori. La classe operaia, diceva, detesta gli stranieri (vedi ancora le Midlands). «L’insularità degli inglesi», aggiungeva Orwell, «il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro».
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Con 358 sì e 234 no Westminster ha approvato in seconda lettura il testo modificato dal governo Johnson in vista dell’addio a Bruxelles.
Primo sì del Parlamento britannico alla legge sulla ratifica della Brexit entro il 31 gennaio. Il testo, modificato dal governo di Boris Johnson dopo la vittoria elettorale del 12 dicembre, ha ottenuto il via libera della Camera dei Comuni nella cosiddetta seconda lettura con 358 sì e 234 no, come largamente previsto data la larga maggioranza assoluta conquistata dai Tory nelle urne. Ora l’iter proseguirà dopo la pausa natalizia dei lavori di Westminster, per essere completato nelle attese prima di metà di gennaio.
SUPERATA LA MAGGIORANZA DI 44 VOTI
La maggioranza è stata di 124 voti, 44 in più di quella che il gruppo Tory può garantire sulla carta – in caso di assemblea al completo – al governo Johnson. Uno scarto ulteriore significativo a favore del premier, legato secondo le informazioni dei media ad alcune astensioni di singoli deputati laburisti – malgrado la linea ufficiale del partito fosse per il no – e a un certo riallineamento degli unionisti nordirlandesi del Dup: che pur essendo pro Brexit avevano criticato il deal raggiunto da Johnson con Bruxelles sul divorzio, temendo fra le possibili conseguenze dei meccanismi concordati per eliminare la clausola del cosiddetto backstop l’introduzione di un confine doganale di fatto fra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. A seguire l’aula ha approvato anche una mozione governativa sul calendario della ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa natalizia, che scatta stasera. A partire dal completamento dell’iter ai Comuni della legge sull’uscita dall’Ue (EU Withdrawal Agreement Bill) fra il 7 e il 9 gennaio.
BRUXELLES: «PRONTI A CHIUDERE L’ACCORDO ANCHE IN UE»
Un portavoce della Commissione Ue ha commentato la notizia dicendo che i vertici Ue hanno preso nota del voto alla Camera dei Comuni e seguiranno il processo di ratifica nel Regno Unito da vicino. «Siamo pronti a fare i passi formali per chiudere l’accordo anche in Ue», ha concluso.
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Superato il voto e la scelta del divorzio, l’Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C’è un anno per un’intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.
Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.
METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE
Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.
LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE
Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyenha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.
Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile
Ursula von der Leyen
DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE
Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno ditransizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire.
IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO
In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italianodella componentistica.
Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta
Kiel Institute for the World Economy
TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO
A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».
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Superato il voto e la scelta del divorzio, l’Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C’è un anno per un’intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.
Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.
METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE
Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.
LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE
Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyenha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.
Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile
Ursula von der Leyen
DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE
Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno ditransizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire.
IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO
In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italianodella componentistica.
Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta
Kiel Institute for the World Economy
TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO
A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».
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Savona impegnato a preparare un tavolo di crisi in vista dell’uscita del Regno Unito dall’Ue? Forse perché il colosso dei dati Refinitiv è stato acquisito dal London Stock Exchange di cui dal 2007 fa parte anche Borsa Italiana…
I dipendenti della Consob sono ancora in attesa dell’invito del presidente per il tradizionale brindisi natalizio con tanto di panettone. Forse Paolo Savona è troppo impegnato a preparare un comitato di crisi in vista della Brexitche si preannuncia più hard che soft. Lo scossone avverrà in una fase chiave dell’acquisizione del colosso dei dati Refinitiv da parte del London Stock Exchange di cui dal 2007 fa parte anche Borsa Italiana. Il capogruppo della Lega in Commissione Finanze, Giulio Centemero, lancia l’allarme: «So che Consob ci sta lavorando con un tavolo ad hoc ma so anche che la partita è politica e che il governo non può lasciare i tecnici soli. L’acquisizione di Refinitiv, colosso dei dati e spin-off di Reuters, pone un ulteriore interrogativo rispetto al destino della nostra piazza finanziaria perché è evidente che il core business del Lse potrebbe spostarsi da quello della gestione dei mercati borsistici a quello della gestione dati». Nel frattempo, a fine novembre la capitalizzazione complessiva di Borsa ha raggiunto i 642 miliardi di euro, con una variazione rispetto a fine anno del 18%.
LA DIGISTART (AND STOP) DI RENZI
«Ho aperto una piccola realtà per lavorare all’estero, nel momento in cui nessuno immaginava che avrei dovuto tornare a occuparmi di politica. Appena c’è stata la crisi del mojito ho detto al commercialista di chiudere la società, avendo fatturato zero. Visto che c’è chi ha scritto che io l’ho fatta per non pagare le tasse, ho fatto una bella denuncia per recuperare le spese Io ho fatto un accordo con M5s e sono buono, fessacchiotto no». Matteo Renzi aveva usato queste parole, il 2 ottobre a Otto e mezzo, su La7 a proposito della società Digistart. Una piccola srl creata appunto l’11 maggio (quindi quando c’era ancora il governo Conte 1) versando un capitale di 10 mila euro con due assegni emessi da Cariparma e Bnl. Oggetto sociale: “analisi dei processi comunicativi che collegano cittadini e imprese, anche mediante l’organizzazione e/o partecipazione a convegni, seminari, incontri sia in Italia che all’estero” e di “consulenza aziendale e di marketing strategico”. Ma come Renzi aveva detto a Lilli Gruber a ottobre, la Digistart è stata chiusa. Per la precisione, si legge nell’atto depositato nella banca dati della Camera di Commercio, è stata sciolta anticipatamente e messa in liquidazione il 23 novembre 2019. Come liquidatore è stato nominato lo stesso Renzi , unico socio dell’srl, che a settembre si era fatto sostituire temporaneamente nel ruolo di amministratore unico dall’amico Marco Carrai, per poi riprendersi l’incarico dopo aver lanciato Italia viva. «La società è stata aperta e poi chiusa per le polemiche mediatiche, Carrai avrebbe dovuto gestire la società ma alla luce delle polemiche e dell’annuncio della chiusura ha subito lasciato la carica», aveva spiegato Renzi sottolineando che la Digistart non ha fatturato niente.
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BoJo promette il divorzio da Bruxelles il prima possibile. Voto a Westminster forse già prima di Natale. Dal primo febbraio via al periodo di transizione, con l’obiettivo di raggiungere un’intesa commerciale entro giugno. A quel punto l’uscita diventerebbe effettiva da gennaio 2021.
Con la schiacciante e difficilmente prevedibile, almeno nelle proporzioni, vittoria del partito conservatore alla elezioni nel Regno Unito, il processo verso la Brexit è destinato a subire un’inevitabile accelerazione. Boris Johnson intende presentare al voto di Westminster l’accordo sul divorzio da Bruxelles il prima possibile, forse già entro Natale, vale a dire sabato 21 dicembre. Il via libera definitivo, in ogni caso, arriverebbe solo a gennaio. «Dalle urne è emerso un mandato per la Brexit, che noi onoreremo entro il 31 gennaio» ha detto Johnson di fronte a Downing Street nel discorso della vittoria, ringraziando gli elettori e impegnandosi a «lavorare senza risparmio» anche per una programma di politica interna su temi come sanità, sicurezza e «fine dell’austerità».
IL PERIODO DI TRANSIZIONE A PARTIRE DAL PRIMO FEBBRAIO
Dato per scontato che, avendo i Tory la maggioranza assoluta, l’intesa questa volta passerà, proprio il 31 gennaio, come promesso ripetutamente dal premier in campagna elettorale, sarà il Brexit day. Dal giorno dopo, infatti, inizierà il periodo di transizione che si protrarrà, con tutta probabilità, fino alla fine del 2020.
LA NUOVA INTESA COMMERCIALE GIÀ ENTRO LA FINE DI GIUGNO?
In questo lasso di tempo la situazione resterà identica all’attuale, rimarranno in vigore leggi e accordi tra l’Ue e il Regno Unito fino a quando non ne saranno negoziati altri. In particolare quelli commerciali. Secondo la Bbc, la nuova intesa commerciale tra Bruxelles e Londra dovrebbe essere pronta entro il 30 giugno 2020 e portata in parlamento entro dicembre dello stesso anno.
L’IPOTESI DI UN’ESTENSIONE DEL PERIODO DI TRANSIZIONE
Se sarà ratificata, dal primo gennaio 2021 la Brexit sarà davvero effettiva e tra Unione europea e Regno Unito sarà in vigore un nuovo accordo commerciale (e non solo). Se dovesse essere bocciata, il Regno Unito dovrà chiedere un’estensione del periodo di transizione oppure a gennaio 2021 lascerà del tutto l’Unione senza alcuna intesa. Con un largo sostegno alle spalle, in ogn caso, per Boris sarebbe più semplice perseguire una “hard Brexit” basata su un vago accordo di libero scambio, sull’esempio del modello canadese: una soluzione che allontanerebbe decisamente Londra dall’Europa e la spingerebbe verso l’anglosfera dominata dagli Stati Uniti.
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No euro da sempre, ex assistente di Gove, è l’uomo che ha inventato gli slogan Take Control e Get Brexit Done e che ha trasformato la campagna tory in perfetti meme.
Stratega e esperto social, inventore di slogan, ma anche di traiettorie politiche, creatore di video tormentoni e di nuovi consensi. Se c’è un uomo dietro altrionfo di Boris Johnson alle elezioni britanniche è lui: lo sconosciuto Dominic Cummings. Con cinque parole, Take control’ e ‘Get Brexit done‘, ha consacrato nel 2016 Johnson come leader della campagna pro-Leave e oggi ne ha fatto il vincitore assoluto della politica del Regno Unito. Cummings, è la mente dei nuovi Tory, inviso ai politici conservatori paludati che ha saputo parlare alla pancia della Gran Bretagna con messaggi semplici ma evidentemente efficaci.
PRIMO OBIETTIVO: ELIMINARE FARAGE
Ex consulente dei Tory, classe 1972, l’uomo con lo zainetto che stamani alle sette è stato ripreso dalla telecamere di mezzo mondo mentre bussava al numero 10 di Downing street come un cittadino qualsiasi ha puntato la sua strategia comunicativa, oggi come tre anni fa, su un uso massiccio dei social e un linguaggio aggressivo e non convenzionale. Aver sostituito ‘Get change‘ con ‘Take control’ nello slogan per il referendum sulla Brexit impresse una virata netta alla campagna anti-Ue, mettendo in ombra persino il re dei brexiteer Nigel Farage che, non è un caso, è uscito da questa tornata elettorale senza neanche un seggio. Gli addetti ai lavori raccontano che uno degli obiettivi di Cummings era proprio silurare Farage e il suo Brexit Party. «Se vogliamo marginalizzare quel partito dobbiamo fare campagna elettorale sul concetto niente più ritardi, realizziamo la Brexit», scrisse Cummings ai suoi in un sms ad ottobre, svelando per la prima volta l’ormai storico ‘Get Brexit done‘.
DA SEMPRE ANTI EURO, IN COPPIA PERFETTA CON BOJO
Che fosse un tipo tosto a Westminster lo avevano capito già nel 2003, quando cominciò la sua crociata contro l‘euro. I suo avversari lo deridevano chiamandolo «adolescente brufoloso», nonostante avesse 31 anni. Lui tirava dritto e sentenziava: «Avere l’euro significherebbe perdere il controllo della nostra economia». Brexit ante-litteram. Nel 2010 diventò assistente di Michael Gove al ministero dell’Istruzione e la sua carriera nel partito conservatore iniziò a decollare fino a diventare il guru elettorale di Johnson. A «match made in heaven», una coppia perfetta che, almeno per quanto riguarda la comunicazione politica, ha dato il meglio di sé nelle ultime settimane prima del voto.
LA STRATEGIA CHE GENERA MEME HA FUNZIONATO
La parodia del popolarissimo film di Natale ‘Love Actually’ (‘Brexit Actually‘), che gli avversari hanno deriso e bollato come un becero tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai temi veri, è stato un colpo da maestro. Ed effettivamente ha distolto l’attenzione dall’ultimo scivolone di Johnson, pescato ad ignorare la foto di un bambino malato di polmonite che dormiva sul pavimento di un ospedale. Una strategia che per i Tory più snob e tradizionalisti è roba da meme (‘meme-generating behaviour‘, l’ha definita il Guardian) ma che forse proprio per questo ha regalato il Regno a Boris Johnson con numeri che per i conservatori non si vedevano dai tempi di Margaret Thatcher.
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Ci ritroviamo una nazione corsara ai confini dell’Ue. Decisa a strappare business al Continente. Ma ora il Regno Unito potrebbe disgregarsi sotto la spinta indipendentista della Scozia. Le (brutte) notizie per l’Europa dal voto britannico.
Partita chiusa. Boris Johnson ha vinto la sua scommessa. Jeremy Corbyn non solo ha subìto la peggiore sconfitta laburista dal 1935 perdendo una sessantina di seggi, ma ha confermato in pieno il pessimo giudizio di chi dalle file stesse del Labour lo accusava di avere una strategia sbagliata e confusa. E i liberal democratici che si illudevano con Jo Swinson di decuplicare i deputati da 12 (o 21, contando i transfughi raccolti dalle file dei conservatori soprattutto) a 120, dovranno accontentarsi di 11, e risultano travolti dal ridicolo.
A BORIS INTERESSA SOPRATTUTTO LA SUA STATURA
Ci sarà la Brexit anche se difficilmente sarà così rapida e radicale come Johnson ha promesso infinite volte perché ora l’obiettivo è dimostrare che il Regno Unito affronta il nuovo cammino senza scosse e i conservatori costruiscono così le premesse per un’altra vittoria quando si tornerà alle urne, fra cinque anni salvo sorprese. Chi conosce Johnson sa bene che assai più della Brexit gli importa entrare fra i primi ministri di lunga durata come Margaret Thatcher e Tony Blair e raggiungere una statura che non sfiguri accanto a quella del suo idolo Winston Churchill.
CLAMOROSI ERRORI DI CORBYN
Brillante nei risultati, con una quarantina di seggi in più rispetto a quelli ottenuti al voto anticipato del giugno 2017 da Theresa May e una maggioranza parlamentare tranquilla di circa 30 seggi, la vittoria di Johnson è dovuta però prima di tutto ai clamorosi errori di Corbyn che ha dimostrato di avere una lettura della realtà profondamente distorta dall’ideologia politica. E si è illuso di trasformare quello che il Paese sentiva come un secondo referendum sulla Brexit sotto le spoglie di voto per il rinnovo del parlamento di Westminster in una svolta politico-culturale e nell’avvio della sua Inghilterra verso il socialismo laburista, nazionalizzazioni comprese.
UNA SANGUINOSA SCONFITTA LABURISTA
«È colpa di Corbyn, colpa di Corbyn», diceva dopo i pessimi exit poll l’ex ministro laburista dell’Interno Alan Johnson, buttandola in grottesco. «I corbinisti tireranno fuori la tesi che la vittoria è un concetto borghese, e che il solo obiettivo dei veri socialisti è una gloriosa sanguinosa sconfitta». Resta il fatto che in molti comizi, l’ultimo due giorni prima del voto a Liverpool, Corbyn ha parlato del suo sogno di una nuova Gran Bretagna e citato la Brexit solo di sfuggita in un inciso. Proprio fuori strada.
HANNO LASCIATO GLI ANTI-BREXIT SENZA UN LEADER
L’errore fondamentale di Corbyn viene da lontano ed è quello di avere lasciato senza leadership un potenziale voto maggioritario – il Paese secondo tutti i sondaggi era ormai 55 a 45% piuttosto critico della Brexit nonostante il referendum del 2016 – che andava invece organizzato motivato e sostenuto. Ma Corbyn stesso è sempre stato pro Brexit, una sua brexit socialista, perché se per molti conservatori Bruxelles è da rifiutare perché troppo dirigista e non abbastanza liberista, per Corbyn era da rifiutare in quanto non abbastanza socialista.
UN GOVERNO DI COALIZIONE ERA POSSIBILE
Quindi ha deciso di fare un campagna elettorale tutta contro l’austerità imposta per 10 anni dai conservatori, per il rilancio del Nhs, il servizio sanitario nazionale, e per una visione da «socialismo in un solo Paese» in questa Europa troppo capitalista. La stessa promessa di tenere un secondo referendum in caso di vittoria alle Politiche del dicembre 2019 gli è stata alla fine imposta dal suo gruppo parlamentare, a netta maggioranza filo Ue. Una vera vittoria è sempre stata impossibile; era in teoria possibile però un governo di coalizione a guida Corbyn che sarebbe stato tenuto insieme solo per il tempo necessario a tenere un secondo referendum. Gli elettori hanno preferito un taglio netto.
DI FIANCO A JEREMY DUE VETERO SOCIALISTI
Per capire Corbyn basta un’occhiata ai suoi due uomini di fiducia al vertice del labour, Seumas Milne e Andrew Murray, perché sempre i collaboratori più stretti rivelano la vera natura del capo. Milne e Murray, entrambi di estrazione alto borghese, sono due vetero socialisti molto ideologizzati, con un giudizio decisamente favorevole per esempio di quella che fu l’Unione sovietica (secondo Milne il Muro di Berlino era un giusto baluardo della Guerra fredda e la Germania Est un Paese efficiente e ricco che faceva star bene il suo popolo, come l’Urss del resto), e con una visione che in altri tempi sarebbe passata terzomondista.
Il gioco politico assegnava a Corbyn il ruolo di anti Brexit e non avendo raccolto il guanto ha perso malamente il duello
L’unica attenuante alla confusione mentale di Corbyn e che c’è nel Labour, soprattutto nell’elettorato popolare delle Midlands e dell’Inghilterra del Nord, c’era e c’è un consistente filone pro Brexit che arriva a un quarto circa del potenziale elettorato laburista e che lui non ha voluto antagonizzare. Perché in fondo è come loro. Ma il gioco politico gli assegnava il ruolo di anti Brexit, visto che i conservatori sono diventati con Johnson e anche prima il Conservative Brexit Party, e non avendo raccolto il guanto ha perso malamente il duello. Harold Wilson aveva ugualmente nel 1975, anno del primo referendum britannico sull’Europa, un partito diviso e seguì ugualmente una politica ufficiale di non scelta, ma tutti sapevano che in privato era pro Bruxelles e fu decisamente più abile e molto meno ideologizzato.
JOHNSON, TROPPE PROMESSE DI SPESA PUBBLICA
Johnson ha avuto una strategia semplice e quindi chiara. «Facciamo la Brexit». Anche lui ha fatto molte promesse di spesa pubblica che in realtà si ridurranno assai. Ha condotto una campagna che ha puntato a fare breccia nei collegi storicamente laburisti del Nord dell’Inghilterra. E qui ha raccolto il nerbo dei nuovi seggi conservatori, portando al suo partito elettorati da generazioni laburisti, in nome della Brexit e solo di quella Brexit che Corbyn si è rifiutato di valutare bene. La corsa alla successione a Corbyn era già aperta, nel Labour, prima del voto.
E LA SCOZIA MINACCIA IL REGNO UNITO
C’è poco da aggiungere. Forse il buon successo dei nazionalisti scozzesi in Scozia, che rende ora la richiesta di un nuovo referendum locale per l’indipendenza più pressante. Fortememnte filo Ue, dicono di non poter accettare il distacco dall’Europa. Ma non sarà facile. Johnson resterà a lungo a Downing Street, ma chi in queste ore mastica amaro sostiene che potrebbe essere l’ultimo premier del Regno Unito, destinato a disunirsi proprio sulla questione europea. Non sarà semplice.
TRADITA L’EREDITÀ DI CHURCHILL
Per quanto scontato, per quanto abituati a Bruxelles a una Londra che spesso ha remato contro e quindi alla fine meglio fuori che dentro, il risultato è una brutta notizia per l’Europa. Se è un buon risultato per il Regno Unito, oltre che per l’attuale partito conservatore che portò nel 1973 il Paese nel Mec, solo il tempo potrà dirlo. Certamente non è un risultato che ha seguito l’eredità lasciata da Winston Churchill. Il premier della Seconda guerra mondiale ha lasciato una posizione molto chiara e filoeuropea e senza tentennamenti fin dal discorso alla Albert Hall del 1947. Nella sua visione il Regno Unito avrebbe appoggiato il disegno europeo dall’esterno se fosse riusciuto a mantenere l’Impero, ed entrando con decisa e piena partecipazione se l’Impero fosse sparito. Vedremo ora che cosa la “little England”, nazione corsara ai confini della Ue e decisa a diventare un porto franco per strappare business al Continente, riuscirà a fare.
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L’Enpam fa diversi investimenti all’estero. Come quando acquisì il 50% della sede di Amazon a Londra. Ma la vittoria del sì al referendum nel 2016 causò una grossa minusvalenza. Ora ci riprova in Germania, a Stoccarda. Proprio mentre la locomotiva d’Europa rallenta. Forse manca il fiuto per gli affari?
L’Enpam è la cassa di previdenza dei medici italiani, investe i soldi dei suoi contribuenti con la finalità di mantenere e sviluppare il patrimonio, circa 21 miliardi, che questi ultimi gli hanno affidato a fini pensionistici.
INVESTIMENTI IMMOBILIARI ALL’ESTERO
Gli investimenti che Enpam fa ogni anno sono di varia natura, dall’obbligazionario all’azionario, ma la parte da leone lo fa l’immobiliare che, pur variando di anno in anno, vale circa il 30% del totale (limite di legge). Enpam da alcuni anni ha deciso di rivolgere i suoi investimenti immobiliari anche all’estero.
COMPRATO IL 50% DELLA SEDE DI AMAZON A LONDRA
II primo investimento in assoluto è stato in Inghilterra. Infatti la Cassa di previdenza, a ridosso dell’avvio del processo per la Brexit, ha portato a termine I’acquisizione del 50% della sede di Amazon a Londra.
MA L’AFFARE, CON LA BREXIT, L’HA FATTO IL VENDITORE
Purtroppo l’inaspettato successo dei sì al referendum sulla Brexit del giugno 2016 ha determinato una rilevante minusvalenza in casa Enpam, sia per effetto dell’andamento del mercato immobiliare, sia dell’andamento del tasso di cambio, lasciando il sospetto che all’epoca sia stato più accorto il venditore, uno dei principali fondi di investimento canadese.
COME IL VATICANO COI SOLDI DELL’OBOLO DI SAN PIETRO
Più o meno, è quello che è accaduto al Vaticano quando recentemente, attraverso il fondo Centurion e con il denaro dell’Obolo di San Pietro, ha comprato un palazzo a Londra perdendo molti soldi in poco tempo.
Enpam pare scommettere su un rapido rilancio dell’economia tedesca, proprio in un momento in cui i dati confermano il rallentamento della locomotiva d’Europa
Ora l’Enpam ritenta con un secondo investimento. E ha comperato, questa volta in Germania, a Stoccarda, un immobile di oltre 50 mila metri quadri investendo 240 milioni di euro. Con l’operazione Enpam pare scommettere su un rapido rilancio dell’economia tedesca, proprio in un momento in cui i dati confermano il rallentamento della locomotiva d’Europa e gli investitori internazionali iniziano a prendere beneficio dei risultati finora raggiunti (il venditore è stato un fondo della compagnia assicurativa coreana Samsung Life).
QUALCHE PERPLESSITÀ SULLA CAPACITÀ DI ANALISI
Solo il futuro darà indicazioni sulla bontà della scommessa, non piccola, realizzata. La vicenda londinese lascia però qualche perplessità sulla capacità di prevedere l’andamento dei mercati internazionali in casa Enpam.
SPERANDO CHE ABBIANO STUDIATO MEGLIO IL MERCATO
La speranza è che Antirion, la Società di gestione del risparmio guidata come amministratore dall’intermediario israeliano Ofer Arbib attraverso cui Enpam realizza gli investimenti immobiliari, abbia questa volta studiato meglio il mercato; e con lui gli advisor dell’operazione, anche in questo caso Colliers Deutschland GmbH coinvolta nella faccenda inglese come advisor. Del resto se Arbib, già per tanti anni punto di riferimento di Colliers in Italia, vuole proseguire in queste campagne estere, è giunto il momento di dare prova del suo fiuto per gli affari.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
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Dopo il voto Bruxelles mostra di avere fretta sulla Brexit. Il presidente del Consiglio Ue Michel: «Londra ratifichi l’accordo quanto prima».
«Mi congratulo con Boris Johnson e mi aspetto che il Parlamento britannico ratifichi il prima possibile l’accordo» negoziato sulla Brexit. Sono le parole del presidente del Consiglio UeCharles Michel che è stato tra i primi a commentare i risultati delle elezioni nel Regno Unito. L’Ue «è pronta a discutere gli aspetti operativi» delle relazioni future, ha aggiunto, spiegando che i leader avranno una discussione sulla Brexit il 13 dicembre.
GENTILONI: «HA PERSO UNA SINISTRA NOSTALGICA»
Il commissario europeo Paolo Gentiloni ha scelto Twitter per commentare il voto, in particolare la debacle laburista: «Vince Johnson cavalcando l’onda di Brexit. Perde l’illusione di una sinistra nostalgica. Speranza e fiducia nell’Unione europea. Oggi più che mai».
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Il leader dei Tory: «Realizzerò la Brexit entro gennaio, senza se e senza ma». Lunedì rimpasto di governo, la prossima settimana la Regina approverà l’accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles. Poi un anno di tempo per negoziare tutti i dettagli.
Dopo lavittoria schiacciante alle elezioni anticipate in Gran Bretagna, Boris Johnson ha tenuto un discorso a Londra ai suoi sostenitori, invitando tutti a ripetere in coro lo slogan della campagna per il voto: «Get Brexit done!». E la promessa verrà mantenuta, non ci sono più dubbi: «È una decisione del popolo, inconfutabile e indiscutibile», ha scandito il leader dei conservatori, «basta con le miserabili minacce di un secondo referendum».
LE PROSSIME TAPPE PER L’USCITA DALL’UE
Lunedì 16 dicembre è previsto un rimpasto di governo, mentre la prossima settimana la Regina approverà l’accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles. L’Europa preme per ratificarlo presto, ma poi ci sarà tempo fino al 31 dicembre 2020 per negoziare nei dettagli i termini dei futuri rapporti tra le due entità. Una partita complessa in cui si è subito inserito il presidente americano Donald Trump, che ha evocato la possibilità di firmare un nuovo accordo commerciale tra americani e britannici «potenzialmente molto più vantaggioso».
MA LA SCOZIA PUÒ SPACCARE IL PAESE
«Con questo mandato finalmente realizzeremo la Brexit, metterò la parola fine a tutte le assurdità degli ultimi tre anni. Usciremo dall’Ue entro gennaio, senza se e senza ma», ha ribadito Johnson. Le urne hanno regalato ai Tory «la più grande vittoria dagli Anni 80, quando molti di voi non erano neanche nati». Ma adesso occorre «unire il Paese», ha sottolineato il premier, ben consapevole che anche gli indipendentisti scozzesi si sono rafforzati e puntano a chiedere una nuova consultazione popolare, due anni dopo quella del 2014, per staccarsi dal Regno Unito e restare nell’Ue. Il parlamento di Westminster potrà respingere la richiesta, ma le tensioni sono destinate a crescere. «Facciamo la Brexit, ora però facciamo colazione», ha concluso Johnson con una battuta. A lui il compito di «capire che tipo di terremoto abbiamo provocato» e affrontarne le conseguenze.
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Scalzata per 149 voti dall’indipendentista scozzese Amy Callaghan. Ma per il momento non si è dimessa.
Choc anche per i LibDem nelle elezioni britanniche: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, che ha ottenuto 11 seggi (10 in meno rispetto alla Camera uscente); ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson, per il momento, non ha tuttavia annunciato le proprie dimissioni da capo del partito.
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Il grande sconfitto del voto nel Regno Unito difficilmente avrà un’altra chance. Paga le ambiguità sulla Brexit e una leadership mai così incerta. Tra i Labour gia si pensa al suo erede.
Una sconfitta così, dalle parti del Labour, non si vedeva da quasi un secolo. Per la precisione dal 1935. E un fiasco di tali dimensioni, difficile anche solo da prevedere alla vigilia, non può che ricadere sulle spalle di Jeremy Corbyn, il cui futuro, all’indomani del voto del 12 dicembre, sembra già essere scritto.
DALLE RETROVIE AL CENTRO DELLA SCENA
Per decenni più noto alle piazze dei militanti che non nei palazzi, alla Camera dei Comuni, dove pure siede da quasi 37 anni, Corbyn è sempre stato l’eterno backbencher: uno di quelli seduti agli ultimi banchi, la retrovia dei battitori liberi, fra gli indisciplinati della sinistra laburista. A 70 anni suonati, il compagno Jeremy, sembrava essersi abituato al centro della scena, ma ora sarà gioco forza costretto a un passo indietro obbligatorio.
L’IDEALISMO CHE NON LO HA MAI ABBANDONATO
Alfiere del ‘no all’austerity’, pacifista e socialista mai pentito, Corbyn è arrivato all’ultima chance politica della vita con gli stessi sogni, gli stessi pregi e difetti, gli stessi abiti sdruciti della gioventù. Solo la barba si è fatta grigia, da rossa che era. E il sorriso si è come addolcito: da nonno ribelle, caro ai molti giovani millennials apparsi a frotte, nella sorpresa un po’ stizzita dei media di establishment, ad acclamarlo fin dalla campagna del 2017 al grido “Jez, we can!”. Nato a Chippenham, nel Wiltshire, figlio di un ingegnere e di una insegnante di matematica conosciutisi sulla trincea repubblicana durante la Guerra civile spagnola, Jeremy è cresciuto in un clima di attivismo politico destinato a segnarne tutte le scelte future.
LE MILLE BATTAGLIE COMBATTUTE IN PRIMA LINEA
Dopo essere stato funzionario sindacale, è diventati deputato nel collegio londinese di Islington a 34 anni. Le sue cause hanno spaziato dai diritti dei lavoratori alla pace in Irlanda del Nord e in Palestina. Per Nelson Mandela, allora in cella nelle galere di un regime razzista sudafricano trattato coi guanti dai governi di Margaret Thatcher, si è fatto pure arrestare. Paladino del disarmo nucleare, ostile all’interventismo militare (in Iraq, Afghanistan, Libia, ma anche nei Balcani), è altrettanto radicale nella vita privata. Vegetariano, astemio e ambientalista, si è sposato tre volte: dalla seconda moglie, Claudia Bracchitta, italiana, ha avuto tre figli e ha divorziato nel 1999, pare uno screzio sull’iscrizione di uno dei ragazzi a una scuola privata, da lui considerata off limits. La consorte attuale è cilena e gli ha portato in dote il micio El Gato.
LA SCALATA UN PO’ A SORPRESA ALLA LEADERSHIP LABURISTA
La svolta nel suo destino è arrivata nel 2015, quando è stato eletto a sorpresa leader dei laburisti, sull’onda del rifiuto dilagante nella base verso gli ex blairiani liberal in carriera. L’anno dopo ha stravinto una seconda sfida malgrado il fuoco amico di gran parte della nomenklatura interna. E la bandiera del Labour è rimasta così nelle sue mani, sia contro Theresa May sia contro Boris Johnson, in barba agli alti e bassi della Brexit, alle critiche alla sua leadership incerta, alle polemiche sull’atteggiamento che gli è stato imputato rispetto a certi rigurgiti di antisionismo (ma anche di antisemitismo di sinistra) nel partito.Ma il suo punto debole è probabilmente rimasto il rapporto con la platea più vasta degli elettori, la maggioranza silenziosa. Anche se pareva aver fatto breccia tra i disillusi e gli sconfitti della globalizzazione, come fra gli under 30. Il risveglio, tuttavia, è stato traumatico e adesso è difficile credere che la parabola di Jeremy non sia giunta al capolinea.
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Le voci dal Regno Unito nel giorno del trionfo di Johnson. Tra le incertezze dei piccoli imprenditori e le paure di chi di Londra ha fatto la propria seconda casa.
Con il voto britannico che ha spianato – una volta per tutte – la strada alla Brexit, le future norme sull’immigrazione restano la principale preoccupazione tra gli expat italiani nel Regno Unito. Ma anche fra la generazione dei ‘vecchi’ italo-inglesi, sullo sfondo di elezioni svoltesi Oltremanica in una giornata grigia e piovosa di dicembre. Qualcuno di loro ha votato. Qualcuno non lo ha fatto o non lo può fare, perché non è suddito di Sua Maestà e non ha chiesto il passaporto, anche se magari sull’isola ci vive da decenni.
UN’INCERTEZZA CHE SPAVENTA GLI INVESTITORI
Il voto del 12 dicembre è stato qualcosa di molto simile a un secondo referendum sul divorzio da Bruxelles, nota Alessandro Belluzzo, presidente della Camera di Commercio italo-britannica e londinese d’adozione, che parla di «elezioni legate alla Brexit, non c’è stato spazio per altro. La priorità per il Paese è superare quest’incertezza, radicale, persino violenta. Noi eravamo contrari, ma se il popolo ha deciso così, dobbiamo accettarlo». Un nodo cruciale è quello degli investimenti. «Gli imprenditori», insiste Belluzzo, «hanno bisogno di certezze, di una cornice economico-sociale chiara entro cui operare. Dal voto per la Brexit abbiamo registrato una diminuzione d’interesse per questo Paese. Prima c’era più voglia di provarci, ora chi viene per investire o lavorare ha molti più dubbi e domande».
Ho vissuto qui per 40 anni, ma nonostante abbia una moglie inglese e figli con passaporto inglese mi chiedo quale sarà il mio futuro
Salvatore Calabrese
Questi timori sono condivisi anche da chi del Regno ha fatto una seconda patria. «La Brexit fa paura, soprattutto a chi è arrivato qui nel secondo dopoguerra e sente il Regno Unito come fosse casa sua», spiega Gianna Vazzana, del patronato Acli, dalla sede di Clerkenwell Road, accanto alla chiesa cattolica italiana di San Pietro, nel cuore di quella che fu la mini Little Italy di Londra fin dall’arrivo dei primi rifugiati ai tempi di Giuseppe Mazzini e poi delle prime comunità di migranti. «Gente che magari non ha mai preso la doppia cittadinanza, e ora teme di doversene andare», aggiunge. Ipotesi estrema, improbabile. Eppure evocata anche da Salvatore Calabrese, celebre barman e oggi consulente del più antico albergo della capitale, il Brown’s Hotel. «Ho vissuto qui per 40 anni, ma nonostante abbia una moglie inglese e figli con passaporto inglese mi chiedo quale sarà il mio futuro».
UNA CAMPAGNA ELETTORALE DAI TONI «VIOLENTI»
Lui non ha votato, e comunque non avrebbe saputo chi scegliere. «Ho sempre detto che politica e religione non devono entrare nei miei bar, ma in questi giorni è stato impossibile. Non si è parlato che di politica. Sono state le elezioni più imprevedibili che io ricordi. Boris Johnson è un personaggio divisivo, piace ed è detestato alla stessa maniera». A fare da contraltare al trionfo del premier c’è la disfatta del leader laburista Jeremy Corbyn, che «rispetto a due anni fa non ha potuto contare sull’effetto sorpresa, e forse ha pagato anche qualche incertezza sulla Brexit», dice Dimitri Scarlato, direttore d’orchestra e membro di ‘The 3 million’, un movimento nato per tutelare per i diritti dei cittadini europei nel Regno.
Se potessi chiederei al premier di smettere di dire tutte le bugie che ho sentito
Alessandro Gallenzi
La Brexit ha «spaccato il Paese», ma ne ha pure evidenziato gravi lacune amministrative, accusa Alessandro Gallenzi, fondatore della casa editrice Alma. «Piccole aziende come la mia sono rimaste al buio, nonostante le nostre ripetute richieste di chiarimento e, se potessi, chiederei» alla politica «di smettere di dire tutte le bugie che ho sentito». O se non altro di moderare certi toni «aspri, di fortissima contrapposizione», fa eco Lazzaro Pietragnoli, consigliere del Labour nel municipio circoscrizionale di Camden. Lui, in campagna elettorale, è stato coinvolto direttamente, secondo la tradizione britannica del porta a porta. Ma ne parla come di «una campagna più negativa che positiva, in cui entrambi i leader si sono preoccupati soprattutto di spiegare perché non votare l’avversario».
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Al voto del 12 dicembre la vittoria dei Tory appare scontata. La promessa di BoJo è «uscita comunque con accordo o no a fine 2020». Ma non sarà così
Il voto britannico del prossimo 12 dicembre rappresenta comunque una svolta. Assai più importante di quando, con una lunga marcia di avvicinamento durata 12 anni e bloccata due volte dal veto francese, Londrà aderì alla Cee nel 1973.
Se giovedì 12 vince alle politiche il partito Tory, diventato ormai il Conservative Brexit Party (e le probabilità maggiori sono che vinca) è l’uscita (più lenta del previsto probabilmente, ma comunque un’uscita) da qualcosa di assai più integrato e anche politicamente significativo di quanto non fosse l’Europa comunitaria del 1973. Se, miracolosamente per i pro-Ue, i Tory non arrivano alla maggioranza restando tuttavia sicuramente il maggior partito, sarebbe comunque un fatto di grande importanza e la quasi certa fine della Brexit perché, privi di alleati, non riuscirebbero a formare il governo. E gli altri sono impegnati a tenere un nuovo referendum.
Alle 23 ora italiana di giovedì 12 dicembre gli exit poll daranno le prime indicazioni e due ore dopo ci saranno i primi risultati parziali di alcuni collegi ritenuti particolarmente significativi. Si tratta di una ventina di circoscrizioni, nella zona suburbana londinese e nel Sud Ovest dell’Inghilterra dove i conservatori potrebbero perdere alcuni seggi a favore del voto filo-Ue. Ugualmente molta attenzione ci sarà sui seggi tradizionalmente laburisti delle Midlands e dell’Inghilterra settentrionale dove il partito Tory potrebbe, anzi, dovrebbe in nome della Brexit strappare vari seggi tradizionalmente laburisti ma a maggioranza contrari “da sinistra” all’Unione europea. Vincere qui è per il premier Boris Johnson indispensabile per assicurarsi una sufficiente maggioranza nel rinnovato del parlamento di Westminster.
ESISTE IL FRONTE PRO BREXIT, NON ESISTE QUELLO ANTI BREXIT
La linea ufficiale laburista è stata di “equidistanza” fra pro Europa e anti Europa, puntando invece su altri nodi, tipo il servizio sanitario nazionale la casa e l’impoverimento diffuso; è una “equidistanza” comprensibile, per alcuni aspetti, visto che un quarto circa degli elettori laburisti non ama Bruxelles e nelle circoscrizioni indicate sfiora la maggioranza, ma certamente poco utile in una competizione dove il tema Brexit è stato dominante ed è stato difficile far finta che così non fosse.
Laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi non sono mai stato così disuniti come in questa campagna elettorale
La forza dei Tory e di Boris Johnson è che hanno monopolizzato con un partito unito e “normalizzato” tutto il fronte pro Brexit, fatto fuori praticamente l’inventore della formula Nigel Farage, che farà fatica secondo i sondaggi a prendere una manciata di deputati e forse nessuno, e lanciato un chiaro e pressoché unico messaggio, con un contorno di promesse fantasmagoriche di spesa pubblica. Il messaggio è «facciamo la Brexit, rispettiamo la democrazia», cioè il referendum del 2016.
Il fronte opposto, laburisti e liberaldemocratici essenzialmente, più i nazionalisti scozzesi, non è mai stato così disunito come nella campagna elettorale; non offre nessuna garanzia di aver saputo concentrate bene collegio per collegio i voti sul candidato remain più vicino alla vittoria; e tantomeno offrire una visione e parole d’ordine comuni. Insomma, c’è un fronte pro Brexit ma non uno anti Brexit.
CORBYN HA POCHISSIME CHANCE DI DIVENTARE PRIMO MINISTRO
Jeremy Corbyn ha fatto campagna molto più su programmi e slogan economico-sociali. L’unica cosa chiara sul tema centrale, la Brexit, la dice quando assicura che, se vincerà, negozierà in pochi mesi un nuovo trattato, per vari aspetti sulla falsariga, si pensa, di quello che da tempo regola i rapporti fra Oslo e Bruxelles e per altri più stretto, e lo sottoporrà subito a un nuovo referendum con un quesito semplice: o il nuovo trattato di collaborazione dall’esterno con la Ue o il remain, cioè cancellare tutto e avanti come membro a pieno titolo dell’Unione. Ma l’unica cosa certa è che Corbyn non vincerà.
Corbyn rimane ancorato a idee più da Quarta internazionale (Trotzky) che da moderno Paese industriale dell’Occidente
Corbyn è il meno popolare dei leader che il Labour abbia mai avuto. Ritenuto una brava persona, assai più affidabile a livello personale di Boris Johnson «autore di una carriera fatta di bugie», come scrive il più autorevole commentatore politico del Financial Times, ma ancorato a idee più da Quarta internazionale (Trotzky) che da moderno Paese industriale dell’Occidente. Al suo fianco ha poi portato al vertice del partito esponenti della sinistra radicale come Seumas Milne, che ex colleghi giornalisti del Guardian definiscono un public school leftist, cioè un radical chic (la public schoolin Gran Bretagna è la scuola privata di rango), o come Andrew Murray, anch’egli di alti natali ma senza public school, fortemente anti occidentale e anti Israele e con molta nostalgia del ruolo ahimé finito di un’Unione sovietica guardiana della pace.
Corbyn ha in teoria qualche chance di diventare primo ministro di un governo di coalizione con liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi cementato da poca amicizia e molta convenienza, che potrebbe rinegoziare la Brexit sottoporla a nuovo referendum e poi andare a nuove elezioni visto che solo su questo saranno d’accordo. Sarebbe una possibilità teorica se il responso di giovedì sarà un altro hung parliament, un parlamento impiccato, bloccato senza nessuno dei due partiti con almeno 326 seggi, e con una somma fra laburisti liberaldemocratici e scozzesi che arrivi almeno attorno a 330. Ma i sondaggi danno oggi a Johnson attorno a 350 deputati, per quanto sia molto aleatorio nel sistema uninominale secco britannico trasformare una intenzione di voto in seggi, e su queste cifre, se confermate, la partita è chiusa. Andrew Hawkins di ComRes, fra i più seguiti centri di sondaggio commerciale e politico, parla di 30 deputati in più rispetto al’insieme dell’opposizione.
TUTTI I SONDAGGI DANNO LA VITTORIA SICURA DEI TORY
I mercati finanziari scommettono già su una vittoria dei Tory, il mondo delle scommesse politiche, come noto in Gran Bretagna floridissimo e più che mai nel 2019, un po’ meno. La forbice è tra un 65% di scommesse a favore di Johnson e un 35% circa per Corbyn, ma attenzione, non conta solo il numero, contano molto le cifre impegnate, molto molto più alte sul lato Johnson. Quanto ai seggi a Westminster, gli scommettitori viaggiano su 338-344 per i conservatori mentre al massimo scommettono su 221+46+22 fra laburisti, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi, quindi 289 che, anche con l’aggiunta di una dozzina di indipendenti, non arriverebbero al minimo matematico di 326.
Le trattative per arrivare da quello che è ora solo un contratto di divorzio a un’intesa commerciale complicatissima richiederà anni, tutti i tre anni
Sembra quindi, secondo l’arte delle previsioni e anche in parte secondo l’aria che si respira, una partita chiusa, che sarà chiusa solo però nella notte del 12-13 dicembre. Una volta vinto, Johnson prenderà il suo tempo. La promessa di oggi, per scaldare i seguaci, è «uscita comunque con accordo o no a fine 2020», ma non sarà così. Le trattative per arrivare da quello che è ora solo un contratto di divorzio a un’intesa commerciale complicatissima richiederà anni, tutti i tre anni, fino al 2022, ipotizzati dal divorzio. E fino ad allora il Regno Unito sarà commercialmente parte della Ue. E poi si voterà nel 2024 e Johnson vuole restare a Downing Street almeno due mandati come Margaret Thatcher e Tony Blair e vorrà una Brexit che faccia meno danni possibili alla sua rielezione. L’uscita subito? Già prometteva di uscire il 31 ottobre vivo o morto e poi di non chiedere una proroga fino al 31 gennaio, vivo o morto, e ha fatto entrambe le cose, vivo o morto. La sua è appunto «una carriera fatta di bugie»
QUELLE FALSE CITAZIONI DI CHURCHILL FATTE DA JOHNSON
Nella campagna referendaria del 2016, dove Johnson era portabandiera del leave, fu molto utilizzata una citazione da Winston Churchill, estratta si diceva da un dibattito parlamentare dell’11 maggio 1953, con Churchill premier che parlava della Ced , la Comunità europea di difesa fra alcuni Paesi del continente che il parlamento francese avrebbe silurato nell’agosto 1954. Non ne faremo parte, diceva effettivamente Churchill, come da resoconti parlamentari, «perché siamo con l’Europa ma non dell’Europa». La citazione ampliava nel 2016, attribuendolo sempre a Churchill, questo concetto. E lo completava con un sonoro e churchilliano «se la Gran Bretagna deve scegliere fra l’Europa e i mari aperti, sceglierà sempre i mari aperti».
Si trattava di un falso. Le elaborate distinzioni su che cos’è il Regno Unito e che cos’è l’Europa e quale sia il giusto rapporto erano sì di Churchill, ma in un articolo scritto nel 1930 per l’americano Saturday Evenening Post. E la frase sugli oceani fu detta non nel ’53 in parlamento ma in uno scatto di rabbia nel maggio 1944 a un Charles De Gaulle chiamato da Algeri a Londra per illustrargli il piano Overlord (Normandia) e che poneva troppe condizioni. È arcinoto che Churchill a più riprese e con forza, dal 1947 al 1961, spinse per la piena e convinta adesione di Londra al progetto europeo. Ma Johnson, che ha scritto un libro su Churchill per crescere all’ombra del mito (ottobre 2015) ha avuto bisogno della sua versione. Falsa.
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Il leader laburista tenta di rimontare nei sondaggi negli ultimi giorni di campagna. Mentre il premier Tory si sforza di tenere le distanze da Trump, a Londra per il vertice Nato. Lo scenario.
Al summit della Nato che si è aperto a Londra il 3 dicembre, Boris Johnson non ha in programma bilaterali ufficiali con Donald Trump.
Foto e strette di mano saranno inevitabili nella due giorni. Anche qualche scambio di battute, e un incontro alla fine probabilmente si farà: Trump pressa, il premier britannico deve fare gli onori di casa per il compleanno dei 70 anni dell’Alleanza atlantica.
Ma nella settimana che precede il voto anticipato del 12 dicembre non vuole accostarsi troppo al presidente americano. Il rivale laburista Jeremy Corbyn è in rimonta, martella da mesi l’opinione pubblica con la storia del «Trump britannico» e Oltremanica non c’è nessuno di più inviso di lui. Dicono che anche la regina Elisabetta lo odi. Troppo sbracato, il tycoon, anche per una certa destra inglese che mal digerisce gli atteggiamenti esagitati così simili di BoJo.
LA FORTEZZA BRITANNICA CHE SOGNA JOHNSON
A questo proposito, il leader deiTories è sotto attacco anche per aver cavalcato maldestramente l’attentato sul London Bridge. Ha annunciato frontiereblindate e lo screening dei passaporti per tutti. Ma non potrebbe fare altrimenti: da tempo non si vedeva una campagna così mediatica nel Regno Unito, ognuno si gioca il tutto per tutto. Johnson, ancora davanti di 10 punti ai laburisti, fomenta l’elettorato euroscettico. L’ultima mossa è il programma di visti d’ingresso simili a quelli degli Usa, anche per cittadini dell’Ue che una volta compiuta la Brexit entro il 31 gennaio 2020 (e trascorso il periodo di transizione entro il 31 dicembre 2020) dovranno pagare per un weekend a Londra. Naturalmente, esibendo un passaporto biometrico, perché la carta d’identità facilmente falsificabile non basterà più. Schedati, nella fortezza britannica potranno restare al massimo tre mesi. «Tolleranza zero» per gli irregolari.
LA STRUMENTALIZZAZIONE DELLA TRAGEDIA DEL LONDON BRIDGE
A chi, nel Labour e tra i LibDem, gli rinfaccia che il terrorismo viene più dall’interno che da fuori confine, BoJo risponde contestando le misure troppo blande sui detenuti come nel caso dell’attentatore ucciso il 29 novembre. Un attacco allo Stato poco opportuno che, nella composta Londra capace di essere eroica oggi come ieri – contro i nazifascisti come contro l’Isis -, gli è costato l’accusa di strumentalizzare una tragedia nazionale a fini politici. Nella «totale mancanza di rispetto per le vittime e i loro famigliari», rimproverano i LibDem. Sui fatti di Londra anche lo scatenato Corbyn ha mantenuto i toni bassi, lasciando parlare il padre del 25enne Jack Merritt morto nell’attacco, e che era impegnato nella riabilitazione dei detenuti come attentatore Usman Khan. «Jack sarebbe livido nel vedere la sua morte, e la sua vita, usate per perpetuare l’agenda di odio che ha sempre combattuto», ha scritto in una lettera al Guardianche ha fatto molto scalpore. Boris Johnson
PAROLA D’ORDINE: TOLLERANZA ZERO
Per Johnson vale il detto di Oscar Wilde: «Bene o male, basta che se ne parli». In un’intervista alla Bbc aveva scaricato sul Labour la responsabilità del rilascio del 28enne Khan, condannato per terrorismo nel 2012 e in libertà vigilata dal 2018 con il braccialetto elettronico. Su detenuti pericolosi come lui, britannico di origini pakistane legato gruppi jihadisti, il premier si è impegnato ad abbandonare «il sistema di rilascio automatico a breve». «Bisogna essere realisti», ha tuonato. E quindi tolleranza zero anche sul suolo britannico per chi commette reati gravi, è il messaggio che BoJo vuol far passare nel rush elettorale per i cittadini affamati di sicurezza. Guai però a toccare il tasto della sanità pubblica, un pilastro del Regno Unito che porta o toglie milioni di voti. Proprio lì Corbyn semina il panico, sventolando ai comizi 451 pagine di dossier su presunte trattative dei premier May e Johnson per svendere il servizio sanitario agli Usa, dopo la Brexit.
IL TOTEM DELLA SANITÀ PUBBLICA
Nominato premier, per prima cosa quest’estate Johnson ha promesso quasi 2 miliardi per risanare una ventina di strutture sanitarie. E in autunno ha rincarato la dose annunciando 15 miliardi di euro di investimenti in 40 nuovi ospedali. Uno specchietto per le allodole anche per il think tank britannico Nuffield Trust specializzato in sanità, che se da un lato non rileva piani del governo per cedere degli asset alle corporation americane, dall’altro con la Brexit stima un mercato allargato per le case farmaceutiche di Oltreoceano. Per Johnson c’è un altro buon motivo per non farsi riprendere troppo accanto a Trump: anche sulla difesa del clima, diventato un trend di massa, i due leader hanno posizioni diverse. Il paradosso è che Trump, accanito fan della Brexit, non smette di cercare il premier britannico e di sbilanciarsi sul voto inglese. Un assist perfetto al Labour.
L’ULTIMA DI CORBYN? RINAZIONALIZZARE BRITISH TELECOM
Il rosso Corbyn nero sondaggi veleggia tra il 33 e il 34% mentre i Tory di Johnson sul 42-43%. Ma lo «stalinista», come lo addita BoJo, è un mago delle rimonte. In campagna Corbyn, Johnson e Trump sono più simili di quanto non si creda e l’elettorato è molto fluido: nulla è ancora detto, frenano gli analisti. Sono chiaramente fuochi d’artificio da campi opposti: l’ultimo di Corbyn è il piano per «rinazionalizzareBritish Telecom, assicurare la banda larga gratis a tutti, tassare giganti della Rete come Google, Amazon e Facebook». Uno choc per i mercati: all’annuncio le azioni di Bt, privatizzata da Margaret Thatcher, sono crollate al 3,7%, per mezzo miliardo di valore bruciato. Ma le telecomunicazioni sono il «core business del 21esimo secolo, guai a lasciarlo alle multinazionali», ammetterebbe anche BoJo.
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Introduzione di un visto elettronico e obbligo di munirsi di passaporto: il giro di vite del premier conservatore in caso di vittoria alle elezioni del 12 dicembre.
Boris Johnson prepara la stretta sul turismo. Con ricadute pesanti su tutti i viaggiatori stranieri, inclusi quelli provenienti dall’Unione europea. In caso di vittoria alle elezioni anticipate nel Regno Unito del 12 dicembre, il premier conservatore è pronto a complicare la vita ai cittadini Ue in viaggio per Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, equiparandoli agli extracomunitari.
SERVE IL VIA LIBERA TRE GIORNI PRIMA DEL VIAGGIO
L’intenzione è quella di introdurre – a partire dal primo gennaio 2021 – l’obbligo di compilare preventivamente un modulo elettronico simile allEsta statunitense per varcare il confine. Se il via libera all’ingresso nel Regno Unito non arriverà almeno tre giorni prima dell’arrivo in qualsiasi aeroporto o porto britannico, il cittadino Ue sarà rimandato a casa. Addio viaggi dell’ultimo minuto, dunque.
VADE RETRO PASSAPORTO ITALIANO
Non solo. La carta di identità non sarà più sufficiente, servirà il passaporto. In questo senso, la ministra dell’Interno Priti Patel, esponente euroscettica della destra più radicale in casa Tory, se l’è presa in particolare con le carte d’identità di Italia e Grecia, che ha definito facili da falsificare. Inoltre, sarà vietato l’ingresso nel Regno Unito ai condannati per una serie di reati – ancora non specificati -, e verrà applicato un sistema di conteggio volto a calcolare quanti cittadini Ue sono entrati e quanti sono usciti dal Paese in un certo periodo di tempo ed evitare soggiorni superiori ai tre mesi permessi dal visto turistico.
I SONDAGGI PREOCCUPANO JOHNSON
La condizione necessaria perché questa stretta sull’immigrazione europea annunciata da Johnson diventi realtà è che il premier conservatore vinca le elezioni del 12 dicembre, ottenendo la maggioranza assoluta in parlamento, e metta in atto la Brexit, ovvero l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Gli ultimi sondaggi, realizzati prima dell’attentato sul London Bridge, hanno innescato qualche accenno di preoccupazione in casa Tory sulla certezza di potersi aggiudicare la maggioranza assoluta dei seggi, vitale per la Brexit. Cala infatti il vantaggio (pur largo) attribuito ai conservatori sui laburisti: per Opinum, da 19 a 15 punti; per Bmg, addirittura fino al 6%. Con un massiccio recupero di voti del partito di Jeremy Corbyn ai danni delle terze forze, liberaldemocratici in testa.
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Introduzione di un visto elettronico e obbligo di munirsi di passaporto: il giro di vite del premier conservatore in caso di vittoria alle elezioni del 12 dicembre.
Boris Johnson prepara la stretta sul turismo. Con ricadute pesanti su tutti i viaggiatori stranieri, inclusi quelli provenienti dall’Unione europea. In caso di vittoria alle elezioni anticipate nel Regno Unito del 12 dicembre, il premier conservatore è pronto a complicare la vita ai cittadini Ue in viaggio per Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, equiparandoli agli extracomunitari.
SERVE IL VIA LIBERA TRE GIORNI PRIMA DEL VIAGGIO
L’intenzione è quella di introdurre – a partire dal primo gennaio 2021 – l’obbligo di compilare preventivamente un modulo elettronico simile allEsta statunitense per varcare il confine. Se il via libera all’ingresso nel Regno Unito non arriverà almeno tre giorni prima dell’arrivo in qualsiasi aeroporto o porto britannico, il cittadino Ue sarà rimandato a casa. Addio viaggi dell’ultimo minuto, dunque.
VADE RETRO PASSAPORTO ITALIANO
Non solo. La carta di identità non sarà più sufficiente, servirà il passaporto. In questo senso, la ministra dell’Interno Priti Patel, esponente euroscettica della destra più radicale in casa Tory, se l’è presa in particolare con le carte d’identità di Italia e Grecia, che ha definito facili da falsificare. Inoltre, sarà vietato l’ingresso nel Regno Unito ai condannati per una serie di reati – ancora non specificati -, e verrà applicato un sistema di conteggio volto a calcolare quanti cittadini Ue sono entrati e quanti sono usciti dal Paese in un certo periodo di tempo ed evitare soggiorni superiori ai tre mesi permessi dal visto turistico.
I SONDAGGI PREOCCUPANO JOHNSON
La condizione necessaria perché questa stretta sull’immigrazione europea annunciata da Johnson diventi realtà è che il premier conservatore vinca le elezioni del 12 dicembre, ottenendo la maggioranza assoluta in parlamento, e metta in atto la Brexit, ovvero l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Gli ultimi sondaggi, realizzati prima dell’attentato sul London Bridge, hanno innescato qualche accenno di preoccupazione in casa Tory sulla certezza di potersi aggiudicare la maggioranza assoluta dei seggi, vitale per la Brexit. Cala infatti il vantaggio (pur largo) attribuito ai conservatori sui laburisti: per Opinum, da 19 a 15 punti; per Bmg, addirittura fino al 6%. Con un massiccio recupero di voti del partito di Jeremy Corbyn ai danni delle terze forze, liberaldemocratici in testa.
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I 4,1 milioni di nuovi elettori sono un’ottima notizia per il leader laburista, popolarissimo tra i ventenni. Mentre l’Snp apre a un’alleanza progressista contro Johnson.
Oltre 4 milioni di nuovi elettori. A loro si aggrappa il partito laburista di Jeremy Corbyn per rovesciare il tavolo e sorprendere il premier conservatore Boris Johnson alle elezioni britanniche del 12 dicembre. Il dato rappresenta un record, nel 2017 furono 2,9 milioni. Su questo voto giovanile fa leva il Labour contro i conservatori favoriti dai sondaggi. Di quei 4,1 milioni di nuovi elettori i tre quarti sono under 34: una platea che 2 anni fa aveva quasi fatto saltare il banco portando i laburisti a un 40% non previsto da nessuno, con tassi di consenso pro-Corbyn fra i ventenni a livelli da plebiscito. Il dato va preso con le molle, anche perché le nuove iscrizioni vanno validate. Ma comunque rischia di minacciare i piani di BoJo, che per vincere le elezioni (e onorare la promessa di attuare la Brexit entro Natale) ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi nella nuova Camera dei Comuni. Al Labour e al resto delle opposizioni potrebbe invece anche bastare il risultato di un parlamento frammentato.
OCCHI PUNTATI SULLA SANITÀ
Per recuperare consensi Corbyn ha giocato la carta di una conferenza stampa sulla difesa della sanità pubblica (Nhs), uno dei suoi cavalli di battaglia più popolari. E ha svelato 451 pagine di documenti riservati sui negoziati preliminari fra i governi Tory e l’amministrazione di Donald Trump sui temi di un futuro accordo bilaterale di libero scambio post Brexit che sembrano almeno in parte accreditare lo scenario d’ipotetici cedimenti a infiltrazioni delle corporation Usa negli ospedali del Paese. La conferma che «la Nhs sarà messa in vendita», nelle denunce laburiste liquidate da Johnson come «assurdità e bugie». Corbyn poi ha incassato l’apertura degli indipendentisti scozzesi dell’Snp – potenzialmente cruciali nel parlamento del dopo 12 dicembre – all’idea di «un’alleanza progressista»: l’appoggio a un eventuale governo Corbyn di minoranza cementato dall’obiettivo comune di un secondo referendum sulla Brexit, pur con la condizione-capestro ripetuta dalla first minister di Edimburgo, Nicola Sturgeon, di un parallelo bis referendario sulla secessione della Scozia pure nel 2020.
TORNANO LE ACCUSE DI ANTISEMITISMO
Segnali di incoraggiamento che tuttavia non cancellano il coro ostile anti-Jeremy dei media mainstream, rilanciato dalle accuse di appeasement verso «il veleno» di certi rigurgiti «anti-ebraici» scagliate il 26 novembre contro il numero uno laburista dal gran rabbino del Regno Unito, Ephraim Mirvis. Accuse da cui Corbyn ha tentato di difendersi in un’affannata intervista alla Bbc di fronte alle incalzanti domande di Andrew Neil, ex firma del conservatore Spectator, condannando con forza l’antisemitismo. Ma ostinandosi a non rinnovare le scuse rivolte alla comunità ebraica un anno fa. Scuse che invece Boris s’è d’un tratto affrettato a fare, dopo essersi rifiutato per mesi, sui fenomeni d’islamofobia imputati ai Tory. Un modo per lasciare al solo Corbyn l’etichetta di “cattivo”.
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