L’ultimatum di Conte dietro l’incontro coi i vertici di ArcelorMittal

Lakshmi e Aditya Mittal al tavolo coi ministri Patuanelli e Gualtieri e il premier. Che avverte: «Rispettate gli impegni o sarà battaglia». Mentre l’inchiesta milanese svela il piano dell’azienda per fermare l’Ilva.

La sera del 22 novembre, a mercati chiusi, il premier Giuseppe Conte ha incontrato Lakshmi e Aditya Mittal, padre e figlio, i vertici del gruppo ArcelorMittal. Al suo fianco i ministri Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli. L’obiettivo: capire se si può trattare o no, per poi entrare nel vivo del negoziato. A riunione in corso, si è aggiunta anche l’ad di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli. Mittal s’è seduta al tavolo dopo aver inviato segnali di apertura. Il premier ha posto agli indiani un aut aut preciso: «O garantite la possibilità di rispettare gli impegni contrattuali o reagiremo adeguatamente alla battaglia giudiziaria che voi avete voluto». E ancora: «Non possiamo accettare un disimpegno dagli impegni contrattuali», ha detto Conte prima di mettersi al tavolo. Ciò vuol dire che il negoziato del governo si svilupperà se ci sarà da parte di ArcelorMittal la sospensione del procedimento per la revoca avviato in tribunale.

Il 27 novembre è in programma a Milano un’udienza per decidere del ricorso presentato dal governo contro quella revoca. Un documento delle parti potrebbe chiedere altro tempo e sospendere la via giudiziaria per lasciare spazio ai tavoli, anche con i sindacati. Ma il tavolo serale a Palazzo Chigi potrebbe essere solo il primo di una serie di incontri e contatti da portare avanti nel weekend, per dare il 25 novembre un segnale anche ai mercati. Appare poco chiaro fin dove si spinga la disponibilità di Mittal, tant’è che più fonti governative invitano alla prudenza. Il sospetto che la multinazionale voglia andar via non è ancora archiviato. Anzi. Se così sarà, l’esecutivo è pronto a mettere subito in campo il “piano B“, con la nomina di un commissario e una nazionalizzazione ponte mentre si cerca una nuova cordata, da affiancare alla “battaglia giudiziaria del secolo” per avere dall’azienda un risarcimento miliardario.

LE CONDIZIONI DEL GOVERNO SULL’ILVA

Se invece si tratterà, il punto di partenza per l’esecutivo è che Mittal ritiri la richiesta di 5 mila esuberi e assicuri la prosecuzione di una produzione a regime, con l’impegno ad andare avanti nelle bonifiche e nel risanamento ambientale. L’esecutivo è pronto a far fronte a una contrazione temporanea della produzione determinata dal mercato e a garantire ammortizzatori sociali per un massimo di 2.500 esuberi (ma secondo alcune fonti si potrebbe arrivare a 3 mila). In più ci sarebbe un decreto per lo scudo penale, uno sconto sugli affitti degli impianti e sulle bonifiche e, in prospettiva, un piano che punti alla decarbonizzazione. Il governo non può dare garanzie, come chiede l’azienda, sull’Altoforno 2, ma i commissari hanno già chiesto alla procura di Taranto più tempo per la messa in sicurezza. A fare da corollario ci sarebbe poi la possibilità di un intervento di Cdp (ma non nell’azionariato con Mittal), un più forte impegno di Intesa e risorse di aziende a partecipazione pubblica come Terna in progetti per Taranto.

LE TESTIMONIANZE DEI DIRIGENTI NELL’INCHIESTA MILANO

Un Consiglio dei ministri straordinario potrebbe essere convocato per il “cantiere Taranto”, il pacchetto di misure (alcune potrebbero entrare in manovra) del governo per la città e a sostegno dell’occupazione (si valuta un decreto ma potrebbe essere un disegno di legge). A indurre il governo a tenere fino all’ultimo la guardia alta con Mittal ci sono comunque le notizie che arrivano dal fronte giudiziario. Dalle testimonianze dei dirigenti nell’inchiesta milanese, emerge che è stato «cancellato l’approvvigionamento delle materie prime» e che «già a settembre Morselli dichiarava che la società aveva esaurito la finanza» per l’operazione.

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Al congresso Cdu rivince Akk con la linea di centro (per ora)

L’erede di Merkel confermata alla presidenza del primo partito di Germania. L’avversario interno Merz in ritirata in attesa della corsa per la cancelleria.

L’erede di Angela Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer, ha riconquistato la sua Cdu. A Lipsia, in Sassonia la leader dei cristiano-democratici si è spinta a mettere in discussione il mandato, chiedendo una posizione chiara al congresso.

MERZ IN RITIRATA IN ATTESA DELLE POLITICHE

«Vi ho illustrato la strada che propongo», ha detto dopo un’ora e 20 di intervento – se ritenete che questa, che vorrei percorrere con voi, non sia quella giusta, allora parliamone oggi. E chiudiamola qui, adesso». Altrimenti «rimbocchiamoci le maniche». Il risultato è stato un’ovazione di sette minuti. Angela Merkel le ha lasciato tutto lo spazio. E l’avversario, Friedrich Merz, vistosamente è arretrato: nella replica che tutti attendevano, molti in apnea, si è limitato a chiarire che la decisione sulla candidatura a cancelliere andrà presa fra un anno, assicurando “lealtà” alla presidente del partito, che lo ha battuto un anno fa ad Amburgo.

«Sono state fatte cose buone in questi 14 anni, di cui possiamo andare fieri», secondo Akk. Ovviamente sono stati commessi anche degli errori, ma demolire tutto ciò che è stato realizzato «non è una buona strategia elettorale». Poi un lungo elenco sulle incognite future: potrebbe accadere che la Germania non avrà più il ruolo di oggi, che dipenderà da altri, che i giovani lasceranno il paese, «se non faremo le scelte giuste», ha detto. Ma non è questo il Paese sognato da Akk, che coniuga il verbo del comando, passando dal «vorrei» al «voglio»”.

Nel discorso ci sono le «biografie spezzate» della Ddr, che spiegano le difficoltà di capire i Laender dell’Est di oggi, dove Afd spopola, come accade nella Sassonia scelta per questo incontro. Parla a lungo dei bambini, che hanno diritto al tempo dei loro genitori: più home-office per tutti, l’infanzia è più serena se i genitori lo sono. Cita gli anziani da assistere, in una vita il più dignitosa possibile. Dà una stoccata ai verdi: «all’industria serve l’energia e questa deve essere pagabile». Ma la sostenibilità, rivendica, è profondamente ancorata in quella ‘C’ che gli attivisti di Greenpeace hanno rubato ieri dal logo della sede del partito. «Non è un’invenzione degli ambientalisti», insomma. C’è un ritorno sulla proposta sulla Siria, che l’ha messa fuori gioco qualche settimana fa: «Non basta dire che sia tutto terribile» e poi non si fa nulla. La Germania deve essere solidale e fare la sua parte. Nettissima è stata infine la distanza da chi, nel partito, vorrebbe allearsi con l’ultradestra: «Con chi dice che il nazionalsocialismo sia stato una cacca di uccello non abbiamo nulla a che fare», dice ripetendo la trovata del leader di Afd, Alexander Gauland. E alla Werteunion, corrente di destra che suggerisce un’alleanza con loro, ribatte: «L’Unione è una sola, con i nostri valori di centro». Il messaggio funziona. «Rivolta disdetta», scrive la Faz. Uno a zero, ha vinto AKK, per la Bild on line. E dunque resta al comando, almeno per ora.

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Al congresso Cdu rivince Akk con la linea di centro (per ora)

L’erede di Merkel confermata alla presidenza del primo partito di Germania. L’avversario interno Merz in ritirata in attesa della corsa per la cancelleria.

L’erede di Angela Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer, ha riconquistato la sua Cdu. A Lipsia, in Sassonia la leader dei cristiano-democratici si è spinta a mettere in discussione il mandato, chiedendo una posizione chiara al congresso.

MERZ IN RITIRATA IN ATTESA DELLE POLITICHE

«Vi ho illustrato la strada che propongo», ha detto dopo un’ora e 20 di intervento – se ritenete che questa, che vorrei percorrere con voi, non sia quella giusta, allora parliamone oggi. E chiudiamola qui, adesso». Altrimenti «rimbocchiamoci le maniche». Il risultato è stato un’ovazione di sette minuti. Angela Merkel le ha lasciato tutto lo spazio. E l’avversario, Friedrich Merz, vistosamente è arretrato: nella replica che tutti attendevano, molti in apnea, si è limitato a chiarire che la decisione sulla candidatura a cancelliere andrà presa fra un anno, assicurando “lealtà” alla presidente del partito, che lo ha battuto un anno fa ad Amburgo.

«Sono state fatte cose buone in questi 14 anni, di cui possiamo andare fieri», secondo Akk. Ovviamente sono stati commessi anche degli errori, ma demolire tutto ciò che è stato realizzato «non è una buona strategia elettorale». Poi un lungo elenco sulle incognite future: potrebbe accadere che la Germania non avrà più il ruolo di oggi, che dipenderà da altri, che i giovani lasceranno il paese, «se non faremo le scelte giuste», ha detto. Ma non è questo il Paese sognato da Akk, che coniuga il verbo del comando, passando dal «vorrei» al «voglio»”.

Nel discorso ci sono le «biografie spezzate» della Ddr, che spiegano le difficoltà di capire i Laender dell’Est di oggi, dove Afd spopola, come accade nella Sassonia scelta per questo incontro. Parla a lungo dei bambini, che hanno diritto al tempo dei loro genitori: più home-office per tutti, l’infanzia è più serena se i genitori lo sono. Cita gli anziani da assistere, in una vita il più dignitosa possibile. Dà una stoccata ai verdi: «all’industria serve l’energia e questa deve essere pagabile». Ma la sostenibilità, rivendica, è profondamente ancorata in quella ‘C’ che gli attivisti di Greenpeace hanno rubato ieri dal logo della sede del partito. «Non è un’invenzione degli ambientalisti», insomma. C’è un ritorno sulla proposta sulla Siria, che l’ha messa fuori gioco qualche settimana fa: «Non basta dire che sia tutto terribile» e poi non si fa nulla. La Germania deve essere solidale e fare la sua parte. Nettissima è stata infine la distanza da chi, nel partito, vorrebbe allearsi con l’ultradestra: «Con chi dice che il nazionalsocialismo sia stato una cacca di uccello non abbiamo nulla a che fare», dice ripetendo la trovata del leader di Afd, Alexander Gauland. E alla Werteunion, corrente di destra che suggerisce un’alleanza con loro, ribatte: «L’Unione è una sola, con i nostri valori di centro». Il messaggio funziona. «Rivolta disdetta», scrive la Faz. Uno a zero, ha vinto AKK, per la Bild on line. E dunque resta al comando, almeno per ora.

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Il vertice di governo non scioglie il rebus sul fondo salva-Stati

Il M5s prende le distanze: «Non vogliamo una riforma che stritoli il Paese». E il premier Conte si scontra con la Lega. L’Italia dovrà prendere ufficialmente posizione al prossimo Eurogruppo.

Due ore attorno al tavolo per certificare, di fatto, come sul fondo salva-Stati il governo sia ancora diviso. Il vertice che si è svolto a Palazzo Chigi il 22 novembre non ha risolto il nodo del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), che si aggroviglia ulteriormente a pochi giorni dall’Eurogruppo del 4 dicembre, quando l’Italia sarà chiamata a chiarire la sua posizione.

È un nodo che rischia di ingigantirsi e di complicare i rapporti non solo tra Pd e M5s, ma anche tra Roma e Bruxelles. E, non a caso, il premier Giuseppe Conte è costretto a rimettere i panni del mediatore, dispensando assicurazioni: «L’Italia non rischia mai l’isolamento, c’è stato un confronto positivo».

L’atmosfera del vertice, secondo fonti della maggioranza, è stata costruttiva. Ma il M5s, con la sponda di Liberi e uguali, ha voluto mettersi di traverso. Mentre il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si è fatto portavoce dell’ala favorevole all riforma del Meccanismo. La logica del pacchetto, invocata già a giugno da Conte – ovvero accompagnare alla revisione del Mes la creazione di uno strumento di Bilancio per la competitività e la convergenza nell’Eurozona (Bicc) e l’approfondimento dell’Unione bancaria con la garanzia dei depositi (Edis) – per il titolare del Tesoro sarebbe sostanzialmente rispettata, visto che è stata messa in campo una roadmap. Ma il percorso su questi fronti, rispetto alla riforma del Mes, è in evidente ritardo.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

IL M5S SI OPPONE ALLA RIFORMA

Ad ascoltare Gualtieri c’erano anche i rappresentanti di M5s, Liberi e uguali e Italia viva, oltre che del Pd. E Di Maio non ha nascosto la sua linea divergente, spiegando la necessità di ulteriori approfondimenti: «Non vogliamo una riforma che stritoli il Paese», ha detto il leader pentastellato, negando qualsiasi battibecco con il ministro dell’Economia. La linea Di Maio, di fatto, è quella della gran parte dei gruppi pentastellati. All’assemblea congiunta degli eletti, in programma mercoledì 27 novembre, si parlerà anche di questo.

MOSCOVICI INCORAGGIA IL GOVERNO

Il Mes è stato anche al centro degli incontri che il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, ha avuto a Roma con Conte e con Gualtieri. «Nessuno vuole mettere l’Italia sotto tutela», ha detto il francese, «il governo italiano sa ciò che va fatto».

LA LEGA ATTACCA CONTE

Opposto il punto di vista del leader della Lega, Matteo Salvini: «Non vorrei che Conte avesse venduto la nostra sovranità per tenersi la poltrona. Se fosse andata così, allora saremmo di fronte ad alto tradimento». Parole che hanno irritato non poco Palazzo Chigi: «L’isolamento lo si rischia quando si sparano slogan contro il mondo e non ci si siede ai tavoli». La Lega, però, non molla. E con Claudio Borghi rilancia: «Lo sa Conte che il M5s è per la liquidazione del trattato?».

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Il vertice di governo non scioglie il rebus sul fondo salva-Stati

Il M5s prende le distanze: «Non vogliamo una riforma che stritoli il Paese». E il premier Conte si scontra con la Lega. L’Italia dovrà prendere ufficialmente posizione al prossimo Eurogruppo.

Due ore attorno al tavolo per certificare, di fatto, come sul fondo salva-Stati il governo sia ancora diviso. Il vertice che si è svolto a Palazzo Chigi il 22 novembre non ha risolto il nodo del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), che si aggroviglia ulteriormente a pochi giorni dall’Eurogruppo del 4 dicembre, quando l’Italia sarà chiamata a chiarire la sua posizione.

È un nodo che rischia di ingigantirsi e di complicare i rapporti non solo tra Pd e M5s, ma anche tra Roma e Bruxelles. E, non a caso, il premier Giuseppe Conte è costretto a rimettere i panni del mediatore, dispensando assicurazioni: «L’Italia non rischia mai l’isolamento, c’è stato un confronto positivo».

L’atmosfera del vertice, secondo fonti della maggioranza, è stata costruttiva. Ma il M5s, con la sponda di Liberi e uguali, ha voluto mettersi di traverso. Mentre il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si è fatto portavoce dell’ala favorevole all riforma del Meccanismo. La logica del pacchetto, invocata già a giugno da Conte – ovvero accompagnare alla revisione del Mes la creazione di uno strumento di Bilancio per la competitività e la convergenza nell’Eurozona (Bicc) e l’approfondimento dell’Unione bancaria con la garanzia dei depositi (Edis) – per il titolare del Tesoro sarebbe sostanzialmente rispettata, visto che è stata messa in campo una roadmap. Ma il percorso su questi fronti, rispetto alla riforma del Mes, è in evidente ritardo.

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IL M5S SI OPPONE ALLA RIFORMA

Ad ascoltare Gualtieri c’erano anche i rappresentanti di M5s, Liberi e uguali e Italia viva, oltre che del Pd. E Di Maio non ha nascosto la sua linea divergente, spiegando la necessità di ulteriori approfondimenti: «Non vogliamo una riforma che stritoli il Paese», ha detto il leader pentastellato, negando qualsiasi battibecco con il ministro dell’Economia. La linea Di Maio, di fatto, è quella della gran parte dei gruppi pentastellati. All’assemblea congiunta degli eletti, in programma mercoledì 27 novembre, si parlerà anche di questo.

MOSCOVICI INCORAGGIA IL GOVERNO

Il Mes è stato anche al centro degli incontri che il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, ha avuto a Roma con Conte e con Gualtieri. «Nessuno vuole mettere l’Italia sotto tutela», ha detto il francese, «il governo italiano sa ciò che va fatto».

LA LEGA ATTACCA CONTE

Opposto il punto di vista del leader della Lega, Matteo Salvini: «Non vorrei che Conte avesse venduto la nostra sovranità per tenersi la poltrona. Se fosse andata così, allora saremmo di fronte ad alto tradimento». Parole che hanno irritato non poco Palazzo Chigi: «L’isolamento lo si rischia quando si sparano slogan contro il mondo e non ci si siede ai tavoli». La Lega, però, non molla. E con Claudio Borghi rilancia: «Lo sa Conte che il M5s è per la liquidazione del trattato?».

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Le Sardine invadono Palermo: migliaia di persone in piazza

In 4 mila al grido di «Populisti, la festa è finita». Tra i manifestanti anche il sindaco Orlando.

Una piazza piena, non solo di giovani, e un messaggio ripetuto: «Populisti, la festa è finita». Lo grida, davanti al teatro Massimo a oltre 4 mila persone, Chiara Puccio, una delle sardine sbarcate a Palermo. Questo è l’esordio del movimento in Sicilia che dice basta alla comunicazione politica aggressiva. «Avete rovesciato odio e bugie, mescolando verità e menzogne», incalza Chiara. «Ma ora la corda, troppo tesa, si è spezzata. Non c’è bisogno che venite a liberarci. Siamo noi a doverci liberare della vostra presenza ossessiva». La piazza applaude. Una ragazza alza un cartello che sul filo dell’ironia proclama: «Sarda si nasce e io siculamente lo nacqui». Il movimento non caccia indietro la politica ma con Leandro Spilla attacca quella che in tivù espone il suo volto peggiore della rissa e dello scontro. «Noi reclamiamo la politica del confronto vero e dei valori. E siamo qui per dire che consideriamo la diversità una ricchezza. Finora c’è stata una narrazione aggressiva. Invece abbiamo bisogno di una politica che sappia prima di tutto ascoltare le ragioni degli altri».

IN PIAZZA SULLE NOTE DI BELLA CIAO

Davanti alla scalinata del teatro si stringono giovani, signore, professionisti, studenti. Gli organizzatori parlano di quasi 10 mila manifestanti. Di certo la piazza davanti al Teatro Massimo è gremita di persone. Confusi tra la folla anche il sindaco Leoluca Orlando e il suo vice Fabio Giambrone; la mattina del 22 novembre l’amministrazione comunale aveva annunciato la propria adesione. Ma i promotori, anche a Palermo, hanno voluto tenere fuori simboli di partito. Si vede solo qualche piccola bandiera arcobaleno, molte sardine disegnate. Uno alza la voce: «Siamo tanti, siamo più forti di loro». Dopo l’attacco ai populisti, dal megafono gracchiante Chiara Puccio mette sotto accusa i social, strumento della «comunicazione vuota» e pieni di insulti. «Avete distrutto la vita delle persone, ci avete intimidito, ma ora ci siamo svegliati». Da qui l’invito che scalda le sardine: «Usciamo dai social, ritroviamoci nelle piazze». E alla fine tutti a cantare Bella ciao. Senza coordinamento musicale ma con tanto ardore.

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Le Sardine invadono Palermo: migliaia di persone in piazza

In 4 mila al grido di «Populisti, la festa è finita». Tra i manifestanti anche il sindaco Orlando.

Una piazza piena, non solo di giovani, e un messaggio ripetuto: «Populisti, la festa è finita». Lo grida, davanti al teatro Massimo a oltre 4 mila persone, Chiara Puccio, una delle sardine sbarcate a Palermo. Questo è l’esordio del movimento in Sicilia che dice basta alla comunicazione politica aggressiva. «Avete rovesciato odio e bugie, mescolando verità e menzogne», incalza Chiara. «Ma ora la corda, troppo tesa, si è spezzata. Non c’è bisogno che venite a liberarci. Siamo noi a doverci liberare della vostra presenza ossessiva». La piazza applaude. Una ragazza alza un cartello che sul filo dell’ironia proclama: «Sarda si nasce e io siculamente lo nacqui». Il movimento non caccia indietro la politica ma con Leandro Spilla attacca quella che in tivù espone il suo volto peggiore della rissa e dello scontro. «Noi reclamiamo la politica del confronto vero e dei valori. E siamo qui per dire che consideriamo la diversità una ricchezza. Finora c’è stata una narrazione aggressiva. Invece abbiamo bisogno di una politica che sappia prima di tutto ascoltare le ragioni degli altri».

IN PIAZZA SULLE NOTE DI BELLA CIAO

Davanti alla scalinata del teatro si stringono giovani, signore, professionisti, studenti. Gli organizzatori parlano di quasi 10 mila manifestanti. Di certo la piazza davanti al Teatro Massimo è gremita di persone. Confusi tra la folla anche il sindaco Leoluca Orlando e il suo vice Fabio Giambrone; la mattina del 22 novembre l’amministrazione comunale aveva annunciato la propria adesione. Ma i promotori, anche a Palermo, hanno voluto tenere fuori simboli di partito. Si vede solo qualche piccola bandiera arcobaleno, molte sardine disegnate. Uno alza la voce: «Siamo tanti, siamo più forti di loro». Dopo l’attacco ai populisti, dal megafono gracchiante Chiara Puccio mette sotto accusa i social, strumento della «comunicazione vuota» e pieni di insulti. «Avete distrutto la vita delle persone, ci avete intimidito, ma ora ci siamo svegliati». Da qui l’invito che scalda le sardine: «Usciamo dai social, ritroviamoci nelle piazze». E alla fine tutti a cantare Bella ciao. Senza coordinamento musicale ma con tanto ardore.

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Sette anni e mezzo ai due italiani condannati per stupro a Londra

Ferdinando Orlando e Lorenzo Costanzo erano già stati ritenuti colpevoli della violenza commessa in una discoteca di Soho.

I due giovani italiani Ferdinando Orlando e Lorenzo Costanzo, già riconosciuti colpevoli a Londra dello stupro di una ragazza avvenuto il 26 febbraio 2017 in una discoteca di Soho, dovranno fare sette anni e mezzo di carcere ciascuno. Nel verdetto emesso il 15 ottobre scorso il giudice della Isleworth Crown Court di Londra si era riservato di rendere nota in seguito la durata del periodo di detenzione, come avviene nel Common Law anglosassone.

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Sette anni e mezzo ai due italiani condannati per stupro a Londra

Ferdinando Orlando e Lorenzo Costanzo erano già stati ritenuti colpevoli della violenza commessa in una discoteca di Soho.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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La Consulta colma il vuoto legislativo sul suicidio assistito

Pubblicate le motivazioni della sentenza sul caso dj Fabo. Finché il parlamento non interverrà, saranno valide le stesse norme che regolano il testamento biologico. Per i medici nessun obbligo.

La Corte costituzionale ha chiarito che saranno le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale a verificare l’esistenza delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e le relative modalità di esecuzione.

Condizioni che ricorrono quando l’aiuto è prestato a una persona tenuta in vita da idratazione e alimentazione artificiali, affetta da una patologia irreversibile fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Un organo collegiale terzo, cioè il Comitato etico territorialmente competente, garantirà la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Ma in ogni caso nessun obbligo di prestare l’aiuto al suicidio ricadrà sui medici. Verrà infatti affidato «alla coscienza del singolo scegliere se esaudire la richiesta del malato».

LEGGI ANCHE: Che differenza c’è tra eutanasia e suicidio assistito

LA SENTENZA SUL CASO DJ FABO

Le disposizioni sono contenute nelle motivazioni della sentenza con cui il 25 settembre la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 580 del codice penale, proprio nella parte in cui non esclude l’incriminazione di chi presta aiuto al suicidio nei casi sopra richiamati. Una sentenza nata dalla vicenda di dj Fabo e da molti considerata storica, a partire dall’Associazione Luca Coscioni, ma che una parte della politica, del mondo cattolico e dei medici aveva contestato.

LA LATITANZA DEL PARLAMENTO

I giudici costituzionali, ancora una volta, si rivolgono al parlamento affinché intervenga con una «compiuta disciplina» sul fine vita, dopo la richiesta caduta nel vuoto nel 2017, quando la Corte decise di sospendere il giudizio proprio per dare il tempo alle Camere di legiferare. Ma «in assenza di ogni determinazione da parte del parlamento», l’esigenza di garantire la legalità costituzionale «deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore».

LA SOLUZIONE DEI GIUDICI

Per colmare il vuoto legislativo, la Consulta ha quindi deciso di fare riferimento alle Dat, le Dichiarazioni anticipate di trattamento che regolano il testamento biologico. D’ora in poi la volontà di morire con il suicidio assistito dovrà essere documentata in forma scritta o con la video registrazione; il medico dovrà prospettare le possibili alternative e prestare ogni sostegno al paziente, anche avvalendosi dei centri di assistenza psicologica; e ci dovrà essere come pre-condizione il coinvolgimento del paziente in un percorso di cure palliative.

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La Consulta colma il vuoto legislativo sul suicidio assistito

Pubblicate le motivazioni della sentenza sul caso dj Fabo. Finché il parlamento non interverrà, saranno valide le stesse norme che regolano il testamento biologico. Per i medici nessun obbligo.

La Corte costituzionale ha chiarito che saranno le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale a verificare l’esistenza delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e le relative modalità di esecuzione.

Condizioni che ricorrono quando l’aiuto è prestato a una persona tenuta in vita da idratazione e alimentazione artificiali, affetta da una patologia irreversibile fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Un organo collegiale terzo, cioè il Comitato etico territorialmente competente, garantirà la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Ma in ogni caso nessun obbligo di prestare l’aiuto al suicidio ricadrà sui medici. Verrà infatti affidato «alla coscienza del singolo scegliere se esaudire la richiesta del malato».

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LA SENTENZA SUL CASO DJ FABO

Le disposizioni sono contenute nelle motivazioni della sentenza con cui il 25 settembre la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 580 del codice penale, proprio nella parte in cui non esclude l’incriminazione di chi presta aiuto al suicidio nei casi sopra richiamati. Una sentenza nata dalla vicenda di dj Fabo e da molti considerata storica, a partire dall’Associazione Luca Coscioni, ma che una parte della politica, del mondo cattolico e dei medici aveva contestato.

LA LATITANZA DEL PARLAMENTO

I giudici costituzionali, ancora una volta, si rivolgono al parlamento affinché intervenga con una «compiuta disciplina» sul fine vita, dopo la richiesta caduta nel vuoto nel 2017, quando la Corte decise di sospendere il giudizio proprio per dare il tempo alle Camere di legiferare. Ma «in assenza di ogni determinazione da parte del parlamento», l’esigenza di garantire la legalità costituzionale «deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore».

LA SOLUZIONE DEI GIUDICI

Per colmare il vuoto legislativo, la Consulta ha quindi deciso di fare riferimento alle Dat, le Dichiarazioni anticipate di trattamento che regolano il testamento biologico. D’ora in poi la volontà di morire con il suicidio assistito dovrà essere documentata in forma scritta o con la video registrazione; il medico dovrà prospettare le possibili alternative e prestare ogni sostegno al paziente, anche avvalendosi dei centri di assistenza psicologica; e ci dovrà essere come pre-condizione il coinvolgimento del paziente in un percorso di cure palliative.

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Processo per 28 militanti di CasaPound: «Riorganizzavano il partito fascista»

La Procura di Bari ha disposto la citazione diretta in giudizia per gli attivisti di estrema destra con l’accusa di aver violato la legge Scelba e di usare la violenza squadrista come metodo di lotta politica.

Trentatre persone a giudizio, di cui 28 militanti di CasaPound, con l’accusa di aver provato a riorganizzare il partito fascista. La procura di Bari ipotizza che i militanti neofascisti abbiano infatti «attuato il metodo squadrista come strumento di partecipazione politica». E che, in violazione degli articoli 1 e 5 della legge Scelba (645/1952), «abbiano partecipato a pubbliche riunioni, compiendo manifestazioni usuali del disciolto partito fascista».

L’AGGRESSIONE AGLI ATTIVISTI ANTIFASCISTI

Il processo nasce dall’aggressione del 21 settembre 2018 nel quartiere Libertà di Bari a manifestanti antifascisti che avevano partecipato ad un corteo organizzato dopo la visita in città dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. La Procura di Bari ha disposto la citazione diretta a giudizio di tutti gli indagati, contestando a dieci di loro anche il reato di lesioni personali aggravate.

«VIOLENZA SQUADRISTA COME METODO POLITICO»

Il gruppo di estrema destra aveva, infatti, radunato davanti alla sede di CasaPound, il circolo Kraken di Bari a pochi passi dal luogo del corteo che da allora è sotto sequestro, «ben 30 militanti, 14 dei quali provenienti da altre province pugliesi». Al termine della manifestazione «di impronta dichiaratamente antifascista», alcuni militanti di CasaPound, «schierati a braccia conserte e posizionati di traverso in modo da occupare l’intera sede stradale», avrebbero «brutalmente aggredito» gli attivisti di sinistra di ritorno dal corteo. Il pestaggio sarebbe stato attuato, stando agli atti giudiziari, «con esplicite rivendicazioni del predominio territoriale e ideologico». L’uso della violenza «squadrista» come strategia di repressione di appartenenti «a gruppi sociali e politici portatori di una diversa ideologia» e quindi «come metodo di lotta politica», avrebbe poi trovato conferma nelle successive perquisizioni fatte dalla Digos all’interno della sede di CasaPound e in casa degli indagati.

ARMI IMPROPRIE, BUSTI DI MUSSOLINI E IL MEIN KAMPF

Lì gli agenti trovarono alcune delle armi improprie usate durante l’aggressione (sfollagente, manubri da palestra, manganello telescopico), un busto di Benito Mussolini, bandiere nere con fascio littorio, oltre a libri su nazismo e fascismo, come il ‘Mein Kampf‘ di Hitler. Nell’aggressione rimasero feriti quattro manifestanti antifascisti, tra i quali l’assistente parlamentare dell’ex eurodeputata Eleonora Forenza, presente al pestaggio. Dinanzi ai giudici baresi saranno processati anche cinque compagni delle vittime, accusati di violenza e minaccia a pubblico ufficiale, perché dopo l’aggressione, «nel tentativo di sfondare il cordone dei militari», avrebbero minacciato e colpito con calci, pugni e spintoni poliziotti e carabinieri.

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Processo per 28 militanti di CasaPound: «Riorganizzavano il partito fascista»

La Procura di Bari ha disposto la citazione diretta in giudizia per gli attivisti di estrema destra con l’accusa di aver violato la legge Scelba e di usare la violenza squadrista come metodo di lotta politica.

Trentatre persone a giudizio, di cui 28 militanti di CasaPound, con l’accusa di aver provato a riorganizzare il partito fascista. La procura di Bari ipotizza che i militanti neofascisti abbiano infatti «attuato il metodo squadrista come strumento di partecipazione politica». E che, in violazione degli articoli 1 e 5 della legge Scelba (645/1952), «abbiano partecipato a pubbliche riunioni, compiendo manifestazioni usuali del disciolto partito fascista».

L’AGGRESSIONE AGLI ATTIVISTI ANTIFASCISTI

Il processo nasce dall’aggressione del 21 settembre 2018 nel quartiere Libertà di Bari a manifestanti antifascisti che avevano partecipato ad un corteo organizzato dopo la visita in città dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. La Procura di Bari ha disposto la citazione diretta a giudizio di tutti gli indagati, contestando a dieci di loro anche il reato di lesioni personali aggravate.

«VIOLENZA SQUADRISTA COME METODO POLITICO»

Il gruppo di estrema destra aveva, infatti, radunato davanti alla sede di CasaPound, il circolo Kraken di Bari a pochi passi dal luogo del corteo che da allora è sotto sequestro, «ben 30 militanti, 14 dei quali provenienti da altre province pugliesi». Al termine della manifestazione «di impronta dichiaratamente antifascista», alcuni militanti di CasaPound, «schierati a braccia conserte e posizionati di traverso in modo da occupare l’intera sede stradale», avrebbero «brutalmente aggredito» gli attivisti di sinistra di ritorno dal corteo. Il pestaggio sarebbe stato attuato, stando agli atti giudiziari, «con esplicite rivendicazioni del predominio territoriale e ideologico». L’uso della violenza «squadrista» come strategia di repressione di appartenenti «a gruppi sociali e politici portatori di una diversa ideologia» e quindi «come metodo di lotta politica», avrebbe poi trovato conferma nelle successive perquisizioni fatte dalla Digos all’interno della sede di CasaPound e in casa degli indagati.

ARMI IMPROPRIE, BUSTI DI MUSSOLINI E IL MEIN KAMPF

Lì gli agenti trovarono alcune delle armi improprie usate durante l’aggressione (sfollagente, manubri da palestra, manganello telescopico), un busto di Benito Mussolini, bandiere nere con fascio littorio, oltre a libri su nazismo e fascismo, come il ‘Mein Kampf‘ di Hitler. Nell’aggressione rimasero feriti quattro manifestanti antifascisti, tra i quali l’assistente parlamentare dell’ex eurodeputata Eleonora Forenza, presente al pestaggio. Dinanzi ai giudici baresi saranno processati anche cinque compagni delle vittime, accusati di violenza e minaccia a pubblico ufficiale, perché dopo l’aggressione, «nel tentativo di sfondare il cordone dei militari», avrebbero minacciato e colpito con calci, pugni e spintoni poliziotti e carabinieri.

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Cosa dice il rapporto della Banca d’Italia sulla stabilità finanziaria

Il calo dello spread Btp-Bund ha leggermente attenuato i rischi per il nostro Paese. Ma l’elevato debito pubblico rimane una vulnerabilità fondamentale.

Il calo dello spread Btp-Bund e del rendimento dei titoli di Stato italiani ha «leggermente attenuato» i rischi per la stabilità finanziaria del nostro Paese. Anche se i rialzi dei premi registrati in agosto e in novembre «indicano che la fiducia degli investitori è ancora fragile».

Parola della Banca d’Italia, che nell’ultimo report dedicato alla questione sottolinea comunque come «il deterioramento del quadro macroeconomico e l’elevato debito pubblico continuano a rappresentare elementi di forte vulnerabilità ed espongono l’intera economia ai rischi connessi con un riacutizzarsi delle tensioni sui mercati».

Gli obiettivi del governo per i prossimi anni, inoltre, poggiano ancora in misura rilevante sul gettito derivante dalle clausole di salvaguardia, «la cui attivazione è stata sempre rinviata negli ultimi anni». Di qui il consiglio: «Dissipare tempestivamente l’incertezza connessa con il possibile venir meno di quelle entrate rafforzerebbe la fiducia dei mercati sulla credibilità del riequilibrio di bilancio nel medio periodo e contribuirebbe a consolidare il calo del premio per il rischio sovrano».

A livello globale, la forte riduzione dei tassi di interesse da una parte «aumenta la sostenibilità dei debiti e contribuisce a contenere la crescita dei rischi macroeconomici»; dall’altra, tuttavia, «può indurre gli investitori a ricercare maggiori rendimenti in attività rischiose e incentivare l’accumulazione di livelli eccessivi di debito». Una fase prolungata di tassi bassi «può comprimere la redditività delle banche e delle compagnie di assicurazione».

Così il rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia. “Il livello elevato del debito pubblico continua a rappresentare un fattore rilevante di vulnerabilità dell’Italia e ne accentua l’esposizione a un riaccendersi di tensioni sui mercati finanziari”

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Cos’è l’animazione sospesa, la nuova frontiera della chirurgia

Consiste nel rallentare i parametri vitali del paziente e sostituire il sangue con una soluzione salina fredda. Le cose da sapere sulla tecnica sperimentata con successo negli Usa.

Abbassare la temperatura corporea del paziente, rallentandone le funzioni vitali, per dare ai chirurghi il tempo di intervenire: non è fantascienza, ma una tecnica innovativa sperimentata al Centro medico dell’università del Maryland, chiamata “animazione sospesa”. A dare la notizia è stato il settimanale di divulgazione scientifica inglese New Scientist.

LEGGI ANCHE: La scienza potrebbe invertire il processo di invecchiamento biologico

UNA PRATICA UTILIZZATA SOLTANTO NEI CASI GRAVI

Nell’animazione sospesa il sangue del paziente viene sostituito, a cuore fermo, da una soluzione salina fredda. Questa blocca l’attività cellulare del corpo, evitando i danni ai tessuti derivanti dalla scarsa ossigenazione. Viene utilizzata soltanto nei casi molto gravi, come nei traumi da arma da fuoco, quando il soggetto versa già in condizioni di parziale dissanguamento. Durante la procedura, il respiro e il battito cardiaco sono ancora rilevabili, ma soltanto con apposite strumentazioni di misura.

I PRIMI ESPERIMENTI SU CANI E TOPI

Il primo esperimento riuscito di animazione sospesa è stato condotto su un gruppo di topi nel laboratorio del biochimico americano Mark Roth. Gli animali sono stati introdotti in una camera contenente 80 ppm (parti per milione) di acido solfidrico per un periodo di sei ore, fino ad abbassare la loro temperatura intorno ai 13 gradi. Un altro tentativo è stato condotto nel 2005, questa volta da un gruppo di scienziati dell’Università di Pittsburgh. Gli animali in questione, dei cani, sono stati rianimati dopo tre ore di morte clinica, ma alcuni di loro hanno riscontrato notevoli danni al sistema nervoso. La sperimentazione sull’uomo è invece recentissima ed è stata messa in pratica, per la prima volta, al Centro medico dell’università del Maryland.

LEGGI ANCHE: Mappatura del genoma: così la scienza prova a vincere la sfida

A METÀ TRA LA SCIENZA E LA FANTASCIENZA

A partire dal XX secolo, l’animazione sospesa è diventato un tòpos della letteratura di fantascienza, utilizzato come artificio narrativo per giustificare la sopravvivenza dei personaggi per lunghi intervalli di tempo. Tuttavia, recentemente, l’idea è stata presa sul serio con l’obiettivo di condurre viaggi interstellari, della durata di centinaia o anche di migliaia di anni.

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Ipotesi sgravio fiscale per le imprese che mantengono le neo mamme al lavoro

L’idea annunciata dalla ministra Catalfo. Ma il Pd è critico: «Era una proposta della Lega. Perché premiare chi rispetta la legge?».

Uno sgravio fiscale per quelle imprese dove le donne restano al lavoro anche dopo la maternità. Sarebbe questa l’idea del governo per aumentare il tasso delle donne al lavoro in Italia, tra i più bassi d’Europa. «Stiamo studiando una norma da inserire in manovra che mantiene la donna dopo la maternità a lavoro dando un esonero contributivo al datore di lavoro», ha dichiarato la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, parlando all’anteprima del Festival organizzato dai consulenti del Lavoro.

IL PD: «PERCHÉ PREMIARE CHI RISPETTA LA LEGGE?»

La ministra quindi ha sottolineato la volontà di intervenire sul fenomeno che vede «le donne spesso lasciare il lavoro dopo il primo anno di maternità». La proposta, tuttavia, è controversa. Dal Partito democratico, Chiara Gribaudo ha commentato: «È una proposta già avanzata dalla Lega, che infatti criticammo», ha ricordato la vice capogruppo alla Camera. «Perché dovremmo premiare un’impresa che semplicemente rispetta le regole? Sarebbe una legittimazione per quelle che costringono alle dimissioni le madri lavoratrici o le licenziano appena la legge lo consente».

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Di Maio chiude ancora al Pd in vista delle Regionali

Il leader del Movimento 5 stelle torna a parlare il giorno dopo la decisione di correre in Emilia- Romagna e Calabria presa su Rousseau. «Andiamo soli, ma non è un voto di fiducia sul governo».

Nessuna alleanza col Partito democratico, al massimo un apparentamento con le liste civiche. Lo ha ribadito ancora una volta Luigi Di Maio, capo politico del Movimento 5 stelle all’indomani della votazione sulla piattaforma Rousseau che ha certificato la partecipazione del Movimento alle Regionali in Emilia-Romagna e Calabria (dove il M5s punta sul professore universitario Francesco Aiello), sconfessando di fatto la linea dettata dal leader.

«NON È UN VOTO DI FIDUCIA SUL GOVERNO»

«Evidentemente andiamo da soli in quelle regioni», ha detto Di Maio rispondendo ai cronisti, prima di aggiungere che l’appuntamento in Emilia-Romagna non costituisce «un voto di fiducia sul governo: nessun partito deve farsi prendere da questa teoria, perché è sbagliato». Il leader M5s mette così le mani avanti, cercando di minimizzare quella che pare l’inizio di una crisi. Un ulteriore fronte che si apre nella maggioranza già alle prese con le frizioni della manovra. «Col voto di ieri il M5s ci ha detto a Roma c’è il governo, ma sul territorio c’è il movimento», ha poi proseguito Di Maio. «Non possiamo asservire il M5s alle logiche del governo». E ancora, a difesa di Rousseau: «Senza gli attivisti che votano e chi lavora sul territorio noi non saremo a Roma, nell’Europarlamento e nei Consigli regionali».

DI MAIO SULLA GRATICOLA

Le acque nel Movimento restano agitate. Mentre il presidente della Camera Roberto Fico invita a un «momento di riflessione rispetto all’organizzazione, ai temi e all’identità», Roberta Lombardi e Nicola Morra criticano duramente il modello del capo politico singolo sottolineando la necessità «di gestire il Movimento in maniera più collegiale e plurale». Dal canto suo il premier Giuseppe Conte ha ricordato che «il M5s sta attraversando una fase di transizione e anche Di Maio ha detto che ha bisogno di un rinnovamento interno. Dunque dobbiamo dare un attimo di tempo al movimento per completare questa fase di transizione». Non a caso Di Maio ha convocato una assemblea dei deputati pentastellati mercoledì 27 novembre. A buttare acqua sul fuoco circa un’eventuale sostituzione di Di Maio al vertice è intervenuto il garante Beppe Grillo, arrivato a Roma: «Il M5s si è biodegradato? Ormai siete voi i comici!», ha tagliato corto.

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Bosnia, bimbi disabili torturati nel centro di Pazaric

Lo scandalo che coinvolge l’istituto è stato sollevato da una parlamentare all’opposizione. I dirigenti sono stati licenziati. Ma secondo la stampa ci sono altri casi nel Paese.

Legati ai termosifoni, picchiati, sedati e lasciati senza cibo. È il trattamento che hanno subito alcuni bambini con disturbi mentali in Bosnia-Erzegovina, nel centro di Pazaric, poco lontano da Sarajevo, dove ci sono circa 350 ospiti. A fare emergere il dramma dei piccoli è stata la parlamentare Sabina Cudic, del partito all’opposizione Nasa Stranka, che ha mostrato le foto degli abusi. La scoperta ha generato una catena di proteste da parte dei rappresentanti delle associazioni di genitori e di diverse Ong che, insieme alla parlamentare, hanno chiesto il licenziamento immediato dei vertici dell’istituto. Il governo della Federazione croato-musulmana ha esaudito le richieste e ha sollevato dall’incarico il direttore della struttura Redzep Salic oltre a cinque membri del Consiglio d’amministrazione e tre del comitato di sorveglianza.

«Sabina Cudic risponde alle critiche e spiega come ha avuto le fotografie»

LA BOSNIA HA RISPOSTO CON PROTESTE DI PIAZZA

«Dov’è la vostra umanità?». «Adesso vogliamo delle indagini». «Il governo ora deve punire i responsabili». Questi sono alcuni dei commenti apparsi sugli striscioni, durante le proteste dilagate nella capitale bosniaca, davanti al palazzo del Parlamento. Le foto, pubblicate sul principale quotidiano bosniaco Oslobodjenje, mostrano i piccoli inermi, sdraiati sui lettini con le mani legate dietro la schiena e le caviglie strette con delle corde ai termosifoni. Sempre sul quotidiano, si legge che la parlamentare ha denunciato anche «la somministrazione ai piccoli di medicinali vietati agli under 12. I bambini vengono legati ai mobili durante la notte, quando c’è soltanto una persona, spesso inesperta, a seguirli». Sebbene il governo abbia preso provvedimenti contro l’istituto-lager di Pazaric, secondo il quotidiano Oslobodjenje non è l’unico centro del Paese in cui i bambini vengono maltrattati.

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