Il ministro Smotrich: «Israele non potrà più accettare l’indipendenza di Gaza»

Il ministro delle Finanze del governo israeliano, Bezalel Smotrich, ha affermato che «Israele non sarà più in grado di accettare l’esistenza di un’entità indipendente a Gaza», e che appoggia «l’emigrazione volontaria» dei gazawi verso altri Paesi. A riferirlo è l’agenzia di stampa Reuters. Le parole del ministro sono in contrasto con la posizione degli Stati Uniti e dei Paesi arabi della regione, che sostengono la necessità di un unico governo palestinese nella Striscia e in Cisgiordania.

Il timore dei leader arabi di una seconda Nakba

Bezalel Smotrich, a capo di uno dei partiti nazionalisti religiosi nella coalizione di Netanyahu, ha parlato a seguito dell’appello di due membri del parlamento israeliano che hanno scritto in un editoriale del Wall Street Journal che i Paesi occidentali dovrebbero accettare le famiglie di rifugiati provenienti da Gaza, che hanno «espresso il desiderio di trasferirsi». I commenti dei funzionari del governo israeliano, aggiunge Reuters, stanno rafforzando il timore dei leader arabi nella regione che il piano a lungo termine di Israele sia quello di esiliare i palestinesi da Gaza, ripetendo l’espropriazione di massa di 700 mila abitanti arabi nota come Nakba, avvenuta nel 1948 quando Israele fu fondato. Al tempo, la maggior parte degli sfollati finì nei vicini stati arabi, e i leader di questi Paesi hanno affermato che qualsiasi progetto odierno che possa ripetere quell’evento sarebbe inaccettabile. Il ministro dell’Agricoltura israeliano Avi Dichter, l’11 novembre ha dichiarato che la guerra attuale è la «Nakba di Gaza».

Usa: «Gaza e Cisgiordania sotto unico governo palestinese»

Si stima che circa già 1,5 milioni di persone a Gaza – tre quarti della popolazione della Striscia – siano fuggite dalle proprie case nelle sei settimane di guerra. Lo riferisce il Guardian. Netanyahu ha affermato che Israele non intende nuovamente occupare in modo permanente la Striscia, ma che «manterrà il controllo generale della sicurezza per un periodo indefinito». Tuttavia, c’è stata poca chiarezza sulle modalità con le quali questa sicurezza verrebbe garantita e sulle intenzioni a lungo termine di Tel Aviv. Gli Stati Uniti hanno affermato che Gaza e la Cisgiordania dovrebbero essere sotto il controllo di un unico governo palestinese, e gli altri principi da rispettare nel dopo guerra, annunciati dal segretario di Stato Antony Blinken, sono: «Nessun allontanamento forzato dei palestinesi da Gaza, nessun utilizzo di Gaza come piattaforma per lanciare terrorismo o altri attacchi contro Israele, nessuna riduzione del territorio di Gaza».

Hamas, sì all’accordo per il rilascio di 50 ostaggi in cambio di tre giorni di tregua

Hamas ha accettato le linee generali di un accordo con Israele che prevede il rilascio di 50 ostaggi in cambio di una tregua di tre giorni nella Striscia di Gaza e della liberazione, da parte di Israele, di alcune donne e bambini palestinesi dalle carceri dello Stato ebraico. In base all’accordo, Tel Aviv dovrà la quantità di assistenza umanitaria consentita nell’enclave palestinese. Israele non ha ancora detto sì e sta ancora negoziando i dettagli. Secondo Haaretz c’è il Qatar dietro la trattativa, coordinata con gli Stati Uniti.

Israele-Hamas, vicino l’accordo: tre giorni di tregua per il rilascio di 50 ostaggi. Intesa mediata dal Qatar.
La disperazione di una donna palestinese (Getty Images).

L’Idf: «Trovate armi di Hamas nell’ospedale al-Shifa»

«In un’area specifica dell’ospedale al-Shifa abbiamo visto prove concrete che i terroristi di Hamas hanno utilizzato la struttura come un comando del terrorismo», ha detto il portavoce militare israeliano Daniel Hagari, aggiungendo che l’esercito «pubblicherà queste prove in seguito». L’operazione, ha aggiunto, sta andando avanti «senza attriti» tra le truppe, i pazienti e il personale medico. L’Idf su X ha fatto sapere di aver fornito incubatrici, alimenti per l’infanzia e medicinali all’ospedale.

Media: fatto saltare in aria il Parlamento di Hamas

L’esercito israeliano ha fatto saltare il palazzo del parlamento di Hamas a Gaza, conquistato nei giorni scorsi. Lo ha riferito il sito Ynet.

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Netanyahu: «Non c’è posto a Gaza dove non possiamo arrivare»

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito i miliziani di Hamas che «non c’è un posto a Gaza» dove i militari dello Stato ebraico non possano arrivare. militari di Israele: «Ci avevano detto che non avremmo raggiunto le periferie di Gaza City e lo abbiamo fatto. Ci avevano detto che non saremmo entrati nell’ospedale al-Shifa e lo abbiamo fatto».

Prima autocisterna con carburante entrata a Gaza dall’Egitto

La prima autocisterna con carburante è entrata a Gaza dall’Egitto dal 7 ottobre. Lo ha riferito una fonte della Mezzaluna Rossa egiziana all’Ansa. Il carburante è destinato ai camion dell’Unrwa che trasportano gli aiuti: finora i tir dell’organizzazione delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi erano stati riforniti con quantità limitate di carburante dopo il coordinamento fra le parti. Il capo dell’Unrwa Philippe Lazzarini lancia però l’allarme su X: «Avere carburante solo per i camion non salverà altre vite, entro la fine della giornata circa il 70 per cento della popolazione di Gaza non avrà accesso all’acqua potabile».

Erdogan: «Israele è uno Stato terrorista»

Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che «Israele è uno Stato terrorista», mentre «Hamas è un partito politico che ha vinto le elezioni in Palestina». Il presidente della Turchia ha poi aggiunto che a Gaza «è in corso un genocidio», promettendo che Ankara «prenderà iniziative sulla scena internazionale» per fermarlo.

La Russia addestrerebbe delfini, beluga e foche contro gli incursori nemici

Delfini nel porto di Sebastopoli, beluga e foche nell’Artico. Secondo l’intelligence britannica, la Russia utilizza mammiferi addestrati per difendersi dalle incursioni nemiche. Gli 007 di Londra hanno pubblicato sul profilo Twitter del ministero della Difesa una serie di immagini satellitari in cui si possono osservare numerosi recinti attorno alla base navale di Sebastopoli. «Mosca vi fa ricorso per differenti missioni», hanno scritto i britannici. «Quelli di stanza a Sebastopoli probabilmente servono per contrastare i sommozzatori nemici». Come riporta il Moscow Times, già dagli Anni 60 l’Unione Sovietica utilizzava la base per l’addestramento militare degli animali.

Secondo gli 007 britannici la Russia usa i delfini per difendere il porto di Sebastopoli. E nell’Artico ha schierato beluga e foche.
Un esemplare di delfino tursiope, la specie usata a Sebastopoli (Getty Images).

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La Russia ha raddoppiato i recinti a Sebastopoli nell’arco di tre mesi

Fra aprile e giugno, la Russia ha intensificato la costruzione di recinti galleggianti per mammiferi nel porto,. Gli 007 ritengono che ospitino principalmente delfini tursiopi, una specie nota per l’elevata capacità cognitiva e la curiosità nei confronti degli esseri umani. Le immagini satellitari mostrano quattro strati di reti e barriere nel porto sul Mar Nero assieme a una serie di fortificazioni. Difficile, come ha sottolineato anche il Moscow Times, stabilire con certezza quali compiti Mosca abbia affidato ai mammiferi marini, ma è probabile che siano stati addestrati ad attaccare i sommozzatori nemici. Già nel 2012 la Marina russa era stata accusata di sviluppare un programma per insegnare ai delfini a colpire con coltelli e pistole posizionati sul capo.

Quanto all’Artico, la Russia farebbe affidamento secondo i britannici su beluga e foche, più adatti al clima rigido della zona. Proprio a fine maggio, a largo delle coste svedesi era riapparso il beluga Hvaldimir, già avvistato in Norvegia nel 2019 e sospettato di essere una “spia” di Mosca per via di un’imbracatura per telecamera sul suo corpo. Secondo le autorità scandinave l’esemplare di età compresa fra 13 e 14 anni sarebbe scappato da un recinto e addestrato dalla Marina russa. Dal canto suo, il Cremlino non ha mai fornito una risposta ufficiale, alimentando così le speculazioni.

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Putin, il difficile equilibrio del sistema di potere russo

Vladimir Vladimirovic Putin è sempre stato un arbiter, più che un dominus. Da quando è al Cremlino, le cui molteplici torri sono anche il simbolo di un potere condiviso, VVP ha sempre dovuto bilanciare le spinte dei vari gruppi concorrenti: dagli oligarchi ai siloviki, gli uomini dell’apparato amministrativo, militare e d’intelligence, dai liberali ai battitori più o meno liberi, dagli eredi del decennio yeltsiniano degli Anni 90 ai nuovi rampanti del Terzo millennio. In questo processo di selezione delle élite guidata dall’alto, il ruolo di Putin è stato quello di mantenere un certo equilibrio che però è andato sempre più problematizzandosi accompagnato dall’involuzione autoritaria all’interno e dal peggioramento delle relazioni internazionali. Gli ultimi 10 anni, in sostanza dallo scoppio della crisi ucraina e dall’avvio della guerra nel Donbass nel 2014, il sistema si è irrigidito, ristretto e i meccanismi stabilizzatori hanno mostrato i loro limiti.

Putin, il difficile equilibrio del sistema di potere russo
Putin con Sergei Shoigu e Valery Gerasimov (Getty Images).

Il cerchio magico di Putin si è ridotto al minimo

L’avvio del conflitto su larga scala nel 2022 ha segnato la cesura definitiva, con il cerchio magico del Cremlino ridotto al minimo, l’emarginazione o i silenziamento delle componenti tecnico-liberali e l’emergere di elementi poco controllabili. Che tradotto significa: Putin si è isolato ancor più, circondato solo da un pugno di fedelissimi, come il segretario del Consiglio di sicurezza Sergei Patrushev e i capi dei servizi, Alexander Bortnikov (Fsb) e Sergei Naryshkin (Svr), a cui si aggiungono, volenti o nolenti, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, quello della Difesa Sergei Shoigu, il generale Valery Gerasimov, i vertici dell’Amministrazione presidenziale, la macchina che muove tutto ciò che il capo di Stato vuole, guidata da Anton Vaino e Sergei Kirienko. Gli oligarchi più in vista o si sono dati alla fuga, come Oleg Tinkoff o Alexander Tchubais, o si sono allineati, come la grande maggioranza, mantenendo un basso profilo, tra vicinanza obbligata al regime e sanzioni occidentali, da Oleg Deripaska ad Alisher Usmanov. I tecnici come il premier Mikhail Mishustin e la governatrice della Banca centrale Elvira Nabiullina hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco e sono rimasti al loro posto; infine il partito della guerra, del quale Ramzan Kadirov e Evgeni Prigozhin sono gli elementi di spicco, si è diviso tra chi obbedisce, il leader ceceno, e chi invece semina zizzania, il capo della compagnia Wagner.

Putin, il difficile equilibrio del sistema di potere russo
Putin con il leader ceceno Ramzan Kadyrov (Getty Images).

Vertici istituzionali, da Shoigu a Gerasimov, contro l’ala radicale di Prigozhin 

In questa costellazione e con la guerra in casa che per il Cremlino e la Russia è diventata esistenziale, il Putin arbiter si è trovato a mediare soprattutto tra le correnti di maggior peso, quelle militari, e quelle più rumorose e ribelli e così lo scontro interno, amplificato dal corso del conflitto, si è cristallizzato tra i vertici istituzionali, da Shoigu a Gerasimov, e l’ala radicale, incarnata da Prigozhin. Quest’ultimo, diventato l’icona sul campo di battaglia del nazionalismo russo e anti-ucraino, ha coltivato negli ultimi 16 mesi di guerra la sua immagine di uomo forte, grazie anche al ruolo, per certi versi essenziale, giocato sul terreno dalla Wagner. Sino ad ora VVP si è mostrato relativamente equidistante: da un lato Shoigu e Gerasimov, al netto di errori e difficoltà, non sono pedine sostituibili facilmente e non si tratta solo di una questione militare, ma politica; dall’altro Prigozhin non ha risparmiato critiche nemmeno al Cremlino, in modi nemmeno velati e dai toni poco oxfordiani, rimanendo comunque un perno di quella che viene chiamata ancora a Mosca ‘operazione speciale’. Putin non può e non vuole nemmeno fare a meno degli uni e degli altri, almeno per adesso, proprio perché paradossalmente pur minando da vari punti la stabilità del sistema, ne sono in qualche modo anche le travi portanti e togliendone una verrebbe meno quel contrappeso che concede al Cremlino di decidere sugli equilibri interni. Fino quando il conflitto non avrà preso per Mosca una piega chiara sarà difficile vedere cambiamenti nei gangli decisivi, poi le cose cambieranno.

Parigi, esplosione in centro: vasto incendio e crollo di un palazzo

Un vasto incendio sta tenendo sotto scacco il 5/0 arrondissement di Parigi, proprio al centro della capitale francese e a poca distanza dal quartiere latino. Probabilmente è stata una fuga di gas a provocare l’esplosione che ha portato anche al crollo di un palazzo. Sul posto si sono immediatamente recati i soccorsi, vigili del fuoco e ambulanze, oltre alla sindaca Anne Hidalgo, che segue gli sviluppi in diretta. Secondo le prime notizie diffuse dalla tv Bfm, ci sarebbero diverse persone bloccate sotto le macerie e alcuni feriti gravi. La coltre di fumo nero è visibile da tutta la città e il quartiere è stato completamente isolato.

In pieno centro a Parigi le fiamme hanno avvolto un edificio, poi crollato, dopo un esplosione: forse la causa è una fuga di gas
Pompieri, polizia e ambulanze sul posto per domare le fiamme e soccorrere i feriti (Getty).

Una testimone: «C’era forte odore di gas»

I vigili del fuoco di Parigi hanno chiuso la rue Saint-Jacques, strada che parte della Sorbona, e impediscono l’accesso a chiunque in attesa di isolare le fiamme. L’edificio principale è crollato non appena le fiamme hanno avvolto l’intera facciata. Una giovane ha raccontato a Bfm Tv di aver avvertito, negli attimi che hanno preceduto l’incendio, «un forte odore di gas» in tutta la zona. Poi l’esplosione: «Non ho mai sentito niente di più forte». Il palazzo ospitava la sede della Paris American Academyuna scuola d’arte americana. Non è chiaro quante persone ci fossero al suo interno.

Il primo bilancio: 16 feriti, 7 molto gravi

La sindaca Anne Hidalgo ha parlato con i vertici della prefettura di Parigi, che ha poi diramato un primo bilancio dei feriti. Ci sono attualmente 16 persone coinvolte, sette delle quali hanno riportato ferite molto gravi e versano in condizioni critiche. Le autorità affermano che «al momento nessuna causa dell’esplosione è accertata», sebbene per i media quella della fuga di gas sia l’ipotesi più accreditata. A confermare quest’idea ci sono sia i racconti dei testimoni sia la conferma di alcuni lavori alla rete del gas effettuati in strada nei giorni scorsi.

In pieno centro a Parigi le fiamme hanno avvolto un edificio, poi crollato, dopo un esplosione: forse la causa è una fuga di gas
Anne Hidalgo, sindaco di Parigi (Getty).

Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni

Tra i fedelissimi che hanno sostenuto Putin fin dalla sua ascesa ci sono sicuramente i fratelli Boris e Arkady Rotenberg, partner chiave del Cremlino: alle loro società sono stati affidati nel corso degli anni i progetti più ambiziosi, tra cui i lavori per i Giochi Olimpici invernali di Sochi. Oggetto di sanzioni occidentali dal 2014, i Rotenberg sono riusciti però a “salvare” yacht, palazzi, aerei e altri beni di lusso e oggi, a distanza di quasi un decennio, hanno un patrimonio stimato intorno ai 5 miliardi di dollari. Come hanno fatto? Lo rivelano i Rotenberg Files, un’inchiesta dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) organizzazione giornalistica non-profit, basata sulla fuga di oltre 50 mila email e documenti dalla società russa Evocorp.

Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni occidentali e aiutato la figlia di Putin.
Vladimir Putin (Imagoeconomica).

Maxim Viktorov, la figura chiave che ha aiutato i fratelli Rotenberg

Figura chiave dello schema che ha permesso ai due oligarchi di occultare i loro beni è l’uomo d’affari moscovita Maxim Viktorov, il quale tramite il suo studio legale li ha aiutati a dribblare le sanzioni. Grazie a Viktorov, per esempio, i due hanno mantenuto a lungo la loro partecipazione nella Helsinki Halli, arena polivalente finlandese che ospita concerti, partite di hockey e altri eventi sportivi, tramite il trasferimento delle quote al figlio di Boris, Roman. Il bene è stato congelato solo nel 2022, quando anche Roman è stato raggiunto dalle sanzioni occidentali. Nel 2016, riporta il dossier, Viktorov aveva aiutato i Rotenberg quando una parte del loro impero finanziario era finito sotto la lente d’ingrandimento delle autorità di regolamentazione delle Isole Vergini Britanniche. Ma chi è Maxim Viktorov? Oggi 50enne, poco prima del collasso dell’Urss lavorò  come impiegato del dipartimento investigativo dell’ufficio del procuratore generale per passare poi al Kgb. In seguito ha iniziato a fornire servizi legali a imprenditori e funzionari. Nel 2012, è diventato consigliere dell’ex ministro della Difesa Anatoly Serdyukov. Successivamente assieme al medico Mikhail Kovalchuk, fratello del “banchiere di Putin” Yury, ha fondato l’Associazione russa per il progresso della scienza, a cui si è poi unita Maria Vorontsova, figlia maggiore del presidente. Collezionista di violini, nel 2005 Viktorov a un’asta di Sotheby’s, ne ha acquistato uno realizzato dal maestro italiano Carlo Bergonzi, precedentemente appartenuto a Niccolò Paganini, per 1,1 milioni di dollari.

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Lo chalet in Austria comprato dalla figlia di Putin con un prestito segreto

Studiando i file del dossier, i giornalisti dell’Occrp hanno scoperto poi che, grazie a un prestito segreto da parte dei Rotenberg (Arkady in particolare), Vorontsova sarebbe entrata in possesso di un lussuoso chalet a Kitzbühel, località sciistica austriaca. Come hanno spiegato i residenti, la primogenita dello zar è stata avvistata più volte in città assieme all’ex marito, l’olandese Jorrit Faassen. Sulla carta, a detenere la proprietà dell’immobile è la società cipriota Wayblue Investments, che l’ha acquistata nel 2013 per 10,8 milioni di euro. La Wayblue dal 2015 appartiene a Velidom Ltd. Purtroppo non è dato sapere, spiegano i giornalisti, a chi faccia riferimento quest’ultima società.

Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni occidentali e aiutato la figlia di Putin.
Il centro di Kitzbuhel, in Austria (Getty Images).

Tuttavia, è emerso che la cipriota Olpon Investments, controllata da Arkady Rotenberg, all’inizio del 2013 ha accettato di affidare 11,5 milioni di euro alla banca lettone SMP – all’epoca di proprietà dei Rotenberg che ha investito il denaro nella neonata Wayblue. A metà del 2014, i Rotenberg hanno venduto la banca che, ribattezzata Meridian Trade Bank, due anni dopo ha trasferito il prestito all’estone Cresco Securities. Wayblue non ha rimborsato il capitale del prestito. Secondo Tom Keating, direttore del Centre for Financial Crime and Security Studies con sede a Londra, il piano contorto per l’acquisto dello chalet in Austria è «tipico» degli affari che coinvolgono le persone vicine alla famiglia di Putin.

L’acquisto di un terreno nei Paesi Bassi ha invece lasciato una traccia cartacea 

Se l’acquisizione dello chalet è stata nascosta, un’altra operazione nei Paesi Bassi ha lasciato una traccia cartacea che ha condotto a Faassen. Sempre nel 2013 la società cipriota Gietrin Investments fondò la società olandese Molenkade Ontwikkeling e acquistò un terreno nella periferia di Amsterdam. I veri proprietari della Gietrin Investments sono sconosciuti, ma sono emersi legami con Wayblue Investments a cui ha prestato 750 mila euro, così come con SMP Bank. Il direttore di Molenkade era il marito della cugina di Faassen che poi ha assunto in prima persona la guida della società nel 2019. A settembre di quell’anno, dopo la fine del matrimonio con Vorontsova, l’uomo d’affari ha venduto a sé stesso il terreno, per poi chiudere l’azienda. A maggio 2023, l’ufficio del procuratore olandese ha confiscato l’appezzamento di terra.

Russia, come i fratelli Rotenberg hanno protetto i loro beni dalle sanzioni occidentali e aiutato la figlia di Putin.
Boris Rotenberg (Getty Images).

Il ruolo di Marina e Karina, le compagne dei Rotenberg

Nei documenti trapelati, i giornalisti hanno trovato numerosi altri beni di valore di proprietà di società o persone associate ai Rotenberg, a lungo nascosti grazie alle “magie” di Viktorov e soci. Oltre alla villa in Austria, ci sono due appartamenti nel centro di Riga, una villa in un resort spagnolo alla periferia di Valencia (acquistata per quasi 9 milioni di euro), un aereo Bombardier (valore 42 milioni), una villa sulla Costa Azzurra (4,25 milioni), un appartamento a Monte Carlo, un club ippico e altre residenze sparse per la Francia per un valore di quasi 16 milioni di euro. Molte di queste proprietà appartengono a una cittadina lettone di 36 anni, Maria Borodunova, che in alcuni documenti appare come Maria Rotenberg: si tratta della compagna di Arkady. Altre sono intestate a Karina, consorte di Boris, presidente della Federazione equestre di Mosca. Dai documenti trapelati è emerso che Karina, così come almeno due dei suoi tre figli, ha la cittadinanza statunitense e che questo, in diversi casi, ha permesso al marito di eludere le sanzioni.

Usa-Cina, Joe Biden definisce Xi Jinping «dittatore»

In California, durante un discorso fatto a braccio nel corso di un evento per la raccolta di fondi elettorali, il presidente americano Joe Biden è tornato sul caso dei palloni-spia definendo «dittatore» il suo omologo cinese Xi Jinping. Le parole dell’inquilino della Casa Bianca rischiano di cancellare i «progressi» confermati dal capo della diplomazia a stelle e strisce Anthony Blinken che, primo segretario di Stato a visitare la Cina in cinque anni, sta cercando di allentare le tensioni tra i due Paesi.

«Non sapeva che il pallone-spia fosse lì, è una cosa che suscita imbarazzo nei dittatori»

«Il motivo per cui Xi Jinping si è molto arrabbiato quando ho abbattuto quel pallone pieno di equipaggiamento per spionaggio perché non sapeva che fosse lì», ha detto Biden riferendosi all’incidente di febbraio. «Era andato fuori rotta. È stato portato fuori rotta attraverso l’Alaska e poi giù attraverso gli Stati Uniti e lui non lo sapeva. Quando è stato abbattuto era molto imbarazzato e ha negato che fosse anche lì. È una di quelle cose che suscita grande imbarazzo nei dittatori». E poi: «Ora siamo in una situazione in cui vuole avere di nuovo una relazione. Blinken è appena andato là. Ha fatto un buon lavoro e ci vorrà del tempo».

Usa-Cina, Joe Biden definisce Xi Jinping «dittatore». Pechino: «Giudizi assurdi e irresponsabili». A rischio i progressi diplomatici.
L’incontro tra Antony Blinken e Xi Jinping (Getty Images).

La risposta di Pechino: «Le parole di Biden violano la dignità politica della Cina»

La risposta di Pechino non si è fatta attendere: la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, nel corso del briefing quotidiano, ha detto che le parole di Biden sono «assurde e irresponsabili» e che violano la «dignità politica della Cina». La Repubblica Popolare, ha aggiunto, esprime «disappunto e forte disapprovazione». Le parole di Biden sono arrivate a stretto giro dalla visita di Blinken a Pechino: nella capitale cinese il segretario di Stato Usa ha anche incontrato il presidente Xi.

Blinken in Cina, gli accordi raggiunti su cinque fronti dai due Paesi

Al termine della visita di Blinken a Pechino Yang Tao, direttore generale del Dipartimento per gli Affari nordamericani e dell’Oceania del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato che Cina e Stati Uniti hanno raggiunto accordi su cinque fronti. In primo luogo i due Paesi attueranno le intese comuni raggiunte dai presidenti Xi e Biden a Bali nell’incontro a margine del G20 di novembre 2022, al fine di «gestire efficacemente le divergenze e di promuovere il dialogo, gli scambi e la cooperazione». Cina e Usa hanno poi concordato di mantenere interazioni «di alto livello». Al terzo punto Yang ha riferito che c’è l’impegno a continuare a portare avanti le consultazioni «sui principi guida delle relazioni bilaterali»: Al quarto, invece, che le parti continueranno a portare avanti le consultazioni attraverso il gruppo di lavoro congiunto per affrontare questioni specifiche nelle relazioni. Infine, Cina e Usa hanno concordato di incoraggiare più scambi interpersonali ed educativi, con discussioni positive sull’ipotesi di aumentare i voli passeggeri tra i due Paesi, per favorire più visite reciproche di studenti, accademici e uomini d’affari.

Usa-Cina, Joe Biden definisce Xi Jinping «dittatore». Pechino: «Giudizi assurdi e irresponsabili». A rischio i progressi diplomatici.
L’intervento di Biden al National Safer Communities Summit (Getty Images).

Biden e quel «God save the Queen» diventato virale sui social

Le parole di Biden hanno provocato un certo imbarazzo negli Stati Uniti. Ed è la seconda volta che accade nel giro di pochi giorni. Sabato 17 giugno il presidente Usa aveva chiuso il suo intervento al National Safer Communities Summit in Connecticut, dopo aver parlato per una trentina di minuti chiedendo leggi più severe sul controllo delle armi, con la frase «Alright? God save the Queen, man», forse “scambiandola” con il «God bless America» spesso usato dai presidenti Usa per congedarsi. Ovviamente, la gaffe di Biden è diventata virale sui social.

Usa, il figlio di Joe Biden patteggia per reati fiscali e possesso d’arma da fuoco

Hunter Biden, secondogenito del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ha raggiunto un accordo per patteggiare con il Dipartimento di Giustizia e si dichiarerà colpevole di reati fiscali. A riferirlo è il Washington Post, che spiega come il 53enne abbia depositato, tramite i propri legali, una lettera presso il tribunale distrettuale degli Stati Uniti nel Delaware. Hunter Biden è stato accusato di non aver pagato l’imposta federale sul reddito, ma in base all’accordo raggiunto si dichiarerà colpevole anche per un altro reato, il possesso illegale di un’arma da fuoco in quanto tossicodipendente.

Hunter Biden, 53 anni, ammetterà la propria colpevolezza per evitare processo e carcere
L’abbraccio tra i componenti della famiglia Biden (Getty).

Hunter Biden evita il processo e il carcere

Adesso toccherà a un giudice federale approvare il patteggiamento, che permetterà al figlio di Joe Biden di evitare il carcere, oltre a un processo che avrebbe causato non pochi grattacapi al presidente degli Stati Uniti, in vista delle elezioni del 2024. L’indagine è stata aperta nel 2018 e riguardava sia una dichiarazione dei redditi incompleta sia una sovrastima di alcune spese, reati ammessi ora dallo stesso Hunter Biden e che riguardano una cifra complessiva di circa 1,2 milioni di dollari. Per la difesa, vista la condizione di tossicodipendente in fase di recupero e i reati considerati minori, l’indagine sarebbe stata archiviata se non fosse stato il figlio del presidente.

L’ammissione di Hunter Biden: «Sono un alcolista e un drogato»

Hunter Biden lotta ormai da tempo con la dipendenza da alcol e droga. Nella biografia Beautiful Things, pubblicata nel 2021, ha ampiamente parlato della sua condizione e ha ammesso: «Sono anche un alcolista e un drogato. Ho comprato crack sulle strade di Washington Dc e cucinato la mia in un bungalow di un hotel a Los Angeles». Scritta durante la campagna presidenziale di Donald Trump, la biografia è servita anche per attaccare l’ex presidente: «Trump credeva di potere distruggere me e di conseguenza mio padre».

Hunter Biden, 53 anni, ammetterà la propria colpevolezza per evitare processo e carcere
In una foto del 2010, Barak Obama, Joe Biden e Hunter Biden (Getty).

Biden: «La minaccia della Russia di usare armi nucleari è reale»

«La minaccia della Russia di utilizzare armi nucleari è reale». Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in un incontro con un gruppo di donatori a Palo Alto, in California, il 19 giugno. Soltanto due giorni prima, il 17 giugno, come ha ricordato Reuters aveva definito «irresponsabile» il dispiegamento di armi tattiche in Bielorussia da parte di Mosca. «Quando venni qui due anni fa e dissi che ero preoccupato per il prosciugamento del fiume Colorado, tutti mi guardarono come se fossi pazzo», ha sottolineato Biden. «Stavolta è lo stesso».

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In Bielorussia armi nucleari tre volte più potenti di quelle del 1945

Intanto, come sottolineano i media internazionali, Minsk dal 14 giugno sta ricevendo missili e bombe russi. Il presidente Alexander Lukashenko ha informato dell’arrivo di armi tre volte più potenti delle atomiche utilizzate a Hiroshima e Nagasaki. Il dispiegamento, secondo Reuters, rappresenta la prima mossa di Mosca al di fuori del territorio nazionale dalla caduta dell’Unione sovietica. Il dittatore bielorusso ha anche fornito ulteriori dettagli in un’intervista al canale televisivo di stato russo Russiya-1. «Non avremmo alcun dubbio nell’usare le armi nucleari come strumento di difesa», ha precisato Lukashenko, sottolineando come avesse convinto Putin a schierarle.

Joe Biden sul dispiegamento di armi nucleari in Bielorussia della Russia: «Gesto irresponsabile». E in Ucraina proseguono gli attacchi.
Vladimir Putin incontra Alexander Lukashenko a Sochi il 9 giugno (Getty).

Già nel mese di maggio, in occasione dell’annuncio di Vladimir Putin, la Russia aveva risposto alle accuse occidentali ricordando come gli Usa per decenni avessero schierato armamenti nucleari in Europa. Per quanto Biden parli di minaccia reale, secondo Reuters per ora l’eventualità che l’esercito russo usi armi atomiche è remota. Proseguono invece gli attacchi russi con droni kamikaze in varie città dell’Ucraina. Nella notte, attorno allo spazio aereo di Kyiv i militari hanno intercettato e distrutto una ventina di velivoli. Esplosioni anche negli oblast di Chersaky, Vinnitsa e Khmelnytskyi. Le incursioni sono proseguite per circa tre ore, ma non si riportano al momento danni ingenti o feriti.

Jair Bolsonaro parla di grafene nei vaccini anti Covid, poi il dietrofront: «Ho sbagliato»

Jair Bolsonaro, ex presidente del Brasile, scivola ancora una volta sul Covid. Sabato 17 giugno a Jundai, nello Stato di San Paolo, Bolsonaro è tornato a parlare dei vaccini mRna e in tono perentorio ha affermato che al loro interno è contenuto del grafene. Una frase smentita poche ore più tardi sul proprio profilo Facebook. L’ex presidente ha affermato, secondo quanto riporta il quotidiano Uol: «In essi (nei vaccini, ndr) è presente ossido di grafene, ok? Dove si accumula? Nei testicoli e nelle ovaie». 24 ore più tardi è arrivato il dietrofront: «Ho sbagliato».

L'ex presidente del Brasile è tornato a parlare di vaccini ma si è scusato per averli associati alla sostanza
Jair Bolsonaro in Florida nel febbraio 2023 (Getty).

Bolsonaro: «Mi pento di ciò che ho detto»

Jair Bolsonaro si è corretto e ha chiesto scusa su Facebook. «C’è stato un errore da parte mia», ha dichiarato, «ho inavvertitamente collegato la sostanza al vaccino, fatto smentito ad agosto 2021. Ancora una volta mi dispiace per quello che ho detto e mi scuso». Durante il discorso del 17 giugno aveva sottolineato di aver anche letto il foglietto illustrativo redatto da Pfizer, una delle case farmaceutiche produttrici del vaccino mRna. Quasi 3 mila i commenti ricevuti al post di scuse, tra chi lo accusa di aver diffuso l’ennesima notizia falsa e chi, invece, lo giustifica e gli dimostra il proprio sostegno.

Bolsonaro sarà processato per fake news sul voto elettronico

Per i media brasiliani la notizia ha una doppia valenza. Bolsonaro è scivolato su una fake news a pochi giorni dalla decisione del Tribunale supremo elettorale, il Tse di Brasilia, secondo cui nell’ottobre scorso, dopo la sconfitta contro l’attuale presidente Luiz Inacio Lula, ha diffuso notizie infondate sul malfunzionamento del voto elettronico. Dopo la diffusione dei presunti malfunzionamenti si erano scatenate molte proteste in tutto il Brasile, con tanto di intervento della polizia. Il processo inizierà il 22 giugno 2023 e Bolsonaro rischia fino a otto anni di inibizione dai pubblici uffici.

Bolsonaro andrà a processo il 22 giugno per le fake news sul voto elettronico
Bolsonaro saluta la folla che lo acclama dopo le elezioni nell’ottobre 2022 (Getty).

L’Ucraina, le origini dell’antiamericanismo e la miopia sui piani di Mosca

L’Ucraina, le origini dell’antiamericanismo e la miopia sui piani di MoscaC’è chi spiega la guerra in Ucraina, dopo un breve cenno all’aggressione russa, anche come il frutto avvelenato della Nato e di Wall Street. Sarebbe meglio usare con più dimestichezza la Storia. Si scoprirebbe tra l’altro che l’antiamericanismo degli europei occidentali precede di gran lunga Nato e Wall Street ed è vecchio almeno di due secoli, e in realtà più vecchio ancora. È diverso da quello degli europei orientali che avendo sempre avuto il problema russo sono in genere meno anti-americani. È un sentimento diffuso e non di rado profondo, e fa il paio con l’antico ma persistente antieuropeismo di molti americani, basato una volta sul principio che l’Europa fosse tiranna, altezzosa con i suoi nobili, antidemocratica, papalina, oppure folle con gli eccessi rivoluzionari, mentre oggi ci guarda da tempo come terra déclassée, decaduta, ricca ma imbelle.

Le origini dell’antiamericanismo europeo: da Hegel al nazifascismo fino ai timori britannici 

Per l’antiamericanismo si può risalire come data di nascita, con approssimazione, agli Anni 20 dell’800, quando Georg W.H. Hegel elaborava a Berlino le sue Lezioni sulla filosofia della Storia, da cui emergeva tra l’altro un’immagine degli Stati Uniti destinati a un notevole ma imprecisato futuro, afflitti nel frattempo da un sistema sociopolitico e culturale “immaturo” e “caotico”, oltre che da una dominante ignoranza avendo rotto molti ponti con quel fulcro di civiltà che era l’Europa. Molti europei ripeteranno tutto ciò per l’intero l’800, anche dopo la Prima Guerra mondiale e il passaggio da Londra a New York della capitale finanziaria del globo, e lo ribadiranno con insistenza ancora fino agli Anni 40, con la lettura sdegnosa che nazismo e fascismo, e non solo, avevano della “inferiore” realtà americana, asserita personalmente da Mussolini in varie occasioni e imposta all’informazione e alla letteratura nostrane. Una parte del mondo cattolico, Giuseppe Dossetti in testa, era sulla stessa linea dal 1945 in poi. E non va dimenticato il profondo antiamericanismo che ha sempre contraddistinto parte notevole della cultura francese, basti pensare a un esperto di cose americane come André Siegfried (1875-1959) che tanto ha contribuito alla lettura critica degli Usa, a vari italiani per lo più modesti conoscitori dell’altra sponda, e a molti altri. Per non parlare degli inglesi, che da fine 800 temevano il sorpasso americano, e che si interrogavano ansiosi su quando sarebbe avvenuto (sir Edward Hamilton, Segretario generale del Tesoro, nel 1906, quando il sorpasso economico era da tempo concluso), o che scoppiavano in lacrime in pubblico (sir Edward Holden, presidente della London City and Midland Bank, nel 1916) di fronte all’inaudito e insostenibile attacco della finanza americana ormai più forte di Lombard Street. Il tutto veniva sintetizzato nel 1944-45 dagli inglesi che così commentavano la problematica presenza delle truppe americane pronte a passare oltremanica a combattere Hitler: overfed, oversexed, and over here, troppo nutriti, con troppe donne, e purtroppo qui. Insomma, tra Europa e Stati Uniti non è mai stata una semplice storia d’amore.

Andrea Purgatori torna con Atlantide. Stasera 9 novembre su La7 il rapporto fra Hitler e Mussolini. Ospite Antonio Scurati, autore di M.
Adolf Hitler e Benito Mussolini (Getty Images).

Le due visioni del futuro ordine mondiale e la scelta dell’Europa occidentale di accettare l’ombrello Nato e Usa

In più si era aggiunta, nel 1917-1918  una duplice e fortemente antagonistica visione del futuro mondiale a partire da quello dell’Europa: da parte russo-sovietica l’appello della rivoluzione bolscevica universale, la Germania postbellica prima candidata auspicata; da parte americana i 14 punti del presidente Woodrow Wilson, studiati per creare in particolare in Europa un sistema collettivo di pace capace di superare le guerre del passato e impedire il declino totale del continente. Il Congresso americano alla fine negò con l’isolazionisimo la partecipazione americana al sistema (Società delle Nazioni), Wall Street però condusse molto attivamente la sua diplomazia finanziaria con l’Europa, ormai legata ai capitali americani dopo il suicidio del 1914-1918. E nel 1942 l’America tornò per raccogliere, con varie titubanze, i cocci di quella che era stata l’Europa. L’idea di un massiccio impegno postbellico in Europa richiese un anno e mezzo per maturare, da fine 1945 ai primi del 1947. Gli Stati Uniti lo fecero nel proprio interesse, per non avere una potenza ostile dominante sull’altro lato dell’Atlantico, come già avevano fatto nel 1917 entrando nel primo conflitto mondiale, contro la Germania. Ora si trattava di fronteggiare la Russia, dall’agosto 1949 potenza atomica. L’Europa occidentale accettava che la sua difesa fosse garantita, come deterrente, dagli ordigni atomici americani, oltre che dalle truppe Nato. La maggioranza degli europei ha dimostrato con il voto, per vari decenni, di accettare questo assetto. Dura da 74 anni, un tempo troppo lungo. Il caso ucraino lo ha reimposto all’attenzione senza che appaiano sul fronte dell’Europa le capacità di trarne tutte le conseguenze, e cioè una vera unione strategica e militare dei Paesi ue, in ambito Nato o parzialmente Nato all’inizio, e fino a quando l’Alleanza esisterà. Ma più Europa. Richiederebbe coraggio e lungimiranza, merci rare in un’Unione il cui Paese leader, la Germania, aveva affidato il proprio futuro energetico a due gasdotti via Baltico che partono (o partivano) dalla Russia. Decisione logica quanto a geografia ed economia, sbagliata quanto a politica e strategia, perché la Russia non è quello che ci piacerebbe fosse.

L'Ucraina, le origini dell'antiamericanismo e la miopia sui piani di Mosca
Woodrow Wilson e il suo Gabinetto (Getty Images).

Il dito puntato contro gli Usa che danneggiano l’Europa e la miopia su ciò che Mosca vuole davvero

Non è più possibile, da 30 anni, reclamare l’esistenza di un campo della pace, quello sovietico-russo, contro il campo della guerra, quello dei capitalisti cioè Washington e dei loro accoliti. Quel campo della pace non è mai esistito, come Ucraina conferma e come alcuni illuminati giudizi sulla neonata Urss – uno del futuro ministro degli Esteri di Weimar Walther Rathenau nel 1919, e l’altro della rivoluzionaria Rosa Luxembourg a fine 1918 – già spiegavano chiaramente. Tuttavia, sono in molti ancora oggi ad avere qualche riflesso condizionato. Anche in Italia qualche analista e commentatore di indubbia qualità si abbandona ad analisi dalle quali filtra chiaramente l’idea che a danneggiare l’Europa sono gli Stati Uniti, attenti ai propri interessi e non ai nostri. È vero, sarebbe strano il contrario, occorre vedere però fino a che punto i due interessi sono più o meno paralleli, e quando divergono, com’è naturale fra due aree geografiche così lontane e con interessi commerciali spesso concorrenti, nonostante una integrazione economica via commerci e investimenti incrociati senza confronti al mondo. Lo stesso commentatore sostiene che ormai l’Ucraina è vista diversamente da Washington perché l’obiettivo americano, la fine dei gasdotti Russia-Germania, è stato raggiunto. Non una parola sulla saggezza o meno di quel legame via Baltico, alla luce dei fatti, e sul fatto se sia un male o un bene avervi posto per ora fine. E non una parola su che cosa vuole Mosca, oltre al Donbass.

8 marzo, il discorso di Putin alle donne russe: «Avete scelto la missione più alta: difendere la patria», ha detto in un videomessaggio.
Vladimir Putin (Getty Images).

I piani segreti di Stalin per la Russia e il Vecchio continente non si discostano molto da quelli di Putin

Fino all’apertura degli archivi ex sovietici, negli Anni 90, mancava un capitolo alla storia della strategia dell’Urss per l’Europa dal 1939 in poi, quello dei documenti segreti, che spiegano ciò che Mosca voleva con Stalin. Più o meno ciò che, partendo da una posizione ben più svantaggiata poiché ha perso la Guerra fredda, vuole con Putin. Adesso almeno in parte (gli archivi non sono più da tempo facilmente accessibili) conosciamo di più e sarebbe utile la lettura ad esempio di un saggio storico di 25 pagine reperibile via Google digitando: “Vladimir O. Pechatnov, The Big Three After World War II. New Documents… Wilson Center 1995″. Dice in sostanza che Mosca pensava di emergere dal conflitto come unica potenza militare di terra in Europa, e di avere quindi, direttamente dove arrivava l’Armata Rossa, indirettamente altrove, il controllo dell’Europa occidentale, Gran Bretagna esclusa. Da altre fonti emerge la volontà di impedire qualsiasi alleanza fra due o più Paesi europei, e tantomeno un organismo multilaterale a crescente integrazione come è oggi l’Unione europea, da sempre vista con sospetto e ostilità e ritenuta ufficialmente come la Nato uno strumento della Guerra fredda. Pochi ricordano queste posizioni, e pochi in Occidente, a partire dai tedeschi e da molti italiani, sono disposti ad ascoltare che opinioni hanno gli europei dell’Est, i baltici e gli scandinavi, convinti a grande maggioranza che l’Ucraina è solo una prima mossa per vedere se l’Occidente tiene.

Si può essere anti-Usa ma non si può rinnegare la storia
Stalin (Getty Images).

L’Ue e l’intera Europa non possono sperare in eterno nella copertura Usa

Finora ha tenuto, anche se gli uccelli di malaugurio abbondano. Il tempo però dice che l’Unione europea, e l’intera Europa, non possono sperare in eterno sulla copertura strategica americana, e non possono aspettare in eterno che la Russia diventi un Paese democratico dove sia l’opinione pubblica, alla fine, attraverso libere elezioni a decidere che politica estera seguire. Se da noi molti sono stanchi dell’America, forse da sempre, molti americani applicano da tempo all’intera Europa ciò che nel 1962 l’ex Segretario di Stato Dean Acheson disse della Gran Bretagna: «Ha perso un Impero e non ha ancora ritrovato un ruolo». Joe Biden è un vecchio democratico in politica da oltre mezzo secolo e allievo diretto degli uomini che fecero il Piano Marshall e la Nato e spinsero per l’Unione europea, e si è sempre occupato di Europa. Un’altra dirigenza americana, si è visto con Donald Trump, potrebbe pensarla diversamente. Sarebbe molto miope per Washington non cercare di avere amica l’altra sponda, ma nessuno può escluderlo. Quanto all’antiamericanismo, all’antipatia per l’America, chi ce l’ha dovrebbe cercare di non confonderla con gli interessi dell’Italia e dell’Europa, e farne buon uso. In fondo era un grande amico dell’America, Alexis de Tocqueville, che già nel 1835 osservava come «gli americani trattando con gli stranieri sembrano infastiditi dalla più piccola critica e insaziabili di elogi. Insistono per averli. E se non ottengono soddisfazione, alla fine si elogiano da soli». E aggiungeva: «Si direbbe che, dubbiosi circa i propri meriti, amino vederli costantemente esibiti di fronte ai propri occhi».

Gli Usa accusano la Cina di voler rubare loro il vaccino

Nuova puntata dello scontro a distanza tra Stati Uniti e Pechino. L’ipotesi dell’Fbi : un team di hacker al lavoro per sottrarre i risultati dei ricercatori americani.

Nuova puntata della guerra a distanza tra Stati Uniti e Cina sullo sfondo del contrasto al coronavirus. Ora gli Usa hanno accusato Pechino di voler rubare loro il vaccino contro il Covid-19. Secondo quanto riporta il New York Times l’Fbi avrebbe già lanciato l’allarme: in sostanza, la Cina, attraverso i suoi hacker e la sua rete di spionaggio, starebbe lavorando per tentare di sottrarre ai ricercatori americani le scoperte sul fronte del vaccino e dei trattamenti per combatter il virus. Lo stesso Fbi e il Dipartimento Usa alla sicurezza nazionale si apprestano a emanare un ‘public warning’ per mettere tutti in guardia dall’offensiva di Pechino.

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Crescono i contagi in Corea del Sud: slitta la riapertura delle scuole

Gli studenti sarebbero dovuti rientrare in classe il 13 maggio. Si temono nuovi focolai legati alla vita notturna nei locali di Itaewon, a Seul.

Non solo in Cina, anche in Corea del Sud torna la paura. Nel Paese si sono registrati 35 nuovi casi di coronavirus, il livello più alto dal 9 aprile, con le infezioni collegate alla vita notturna dei locali di Itaewon, a Seul, salite a 79.

«Alle 8:00 di questa mattina, sei ulteriori persone sono risultate positive al Covid-19, portando il totale dei pazienti legati a Itaewon a 79», ha affermato Yoon Tae-ho, funzionario del Central Disaster and Safety Countermeasures Headquarter, rimarcando i rischi di una ripresa dei focolai. I contagi accertati su scala nazionale sono saliti a 10.909.

Per questo Seul ha rinviato di una settimana la riapertura delle scuole inizialmente prevista per mercoledì 13 maggio.

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Nelle Filippine ha eruttato il vulcano Taal

Le autorità hanno disposto l’evacuazione totale nel raggio di 17 chilometri. Le ceneri hanno lambito anche la capitale Manila.

Mattina di paura nelle Filippine per l’attività del vulcano Taal. Alte colonne di cenere illuminate dai fulmini e strisce di lava hanno mostrato tutta la potenza distruttiva della natura.

Taal Volcano Timelapse

WATCH: Taal Volcano continues to spew a thick column of ash in this time lapse video at 1 p.m. as seen from Laurel Batangas, the ash cloud drifting towards Agoncilllo and Lemery. | via Raffy Tima/GMA NewsRELATED STORY: http://bit.ly/36PrU9h

Posted by GMA News on Monday, January 13, 2020

Le autorità filippine hanno attuato una evacuazione totale nel raggio di 17 chilometri e che ha coinvolto oltre mezzo milione di abitanti vicini alla capitale Manila. Le ceneri si sono spinte fino a 14 chilometri di distanza. Il vulcano è considerato dagli esperti tra i più pericolosi del mondo, a causa del gran numero di persone che vivono nelle sue immediate vicinanze.

DOVE SI TROVA IL VULCANO TAAL

Il vulcano Taal è situato in mezzo a un lago dell’isola di Luzon. Negli ultimi 450 anni ha registrato 34 eruzioni di cui l’ultima risale al 1977. L’eruzione più drammatica, che riguarda il Monta Pinatubo, risale al 19991 a circa cento chilometri a nord-ovest di Manila e che ha provocato la morte di oltre 800 persone. L’attività vulcanologica delle Filippine è molto elevata dato che si trovano sulla cosiddetta ‘cintura di fuoco’ del Pacifico. Qui le placche tettoniche entrano in collisione frequentemente e provocando terremoti e attività vulcaniche.

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Libia, Haftar e Sarraj a Mosca per firmare la tregua

Il capo del governo libico di unità nazionale, Fayez al-Sarraj, e il suo rivale, il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte..

Il capo del governo libico di unità nazionale, Fayez al-Sarraj, e il suo rivale, il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte dell’est della Libia, sono attesi oggi a Mosca per firmare una tregua, sui termini del cessate il fuoco tra le loro truppe, entrato in vigore il 12 gennaio 2020. Dopo oltre nove mesi di micidiali combattimenti alle porte della capitale libica Tripoli, la firma di questo accordo (è l’obiettivo di Russia e Turchia) deve diventare un ulteriore passo per abbassare i toni del conflitto, scongiurandone un’ulteriore internazionalizzazione.

LEGGI ANCHE: Iran e Libia, perché l’Italia rischia la crisi energetica

NON È DETTO CHE HAFTAR E SARRAJ SI INCONTRINO DIRETTAMENTE

Ma non è detto che Haftar e Sarraj si incontreranno direttamente. Secondo quanto dichiarato dal capo del gruppo di contatto russo in Libia, Lev Dengov, i leader libici «avranno incontri separati con i funzionari russi e gli emissari della delegazione turca che sta collaborando con la Russia su questo tema. I rappresentanti degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto saranno probabilmente presenti come osservatori ai colloqui».

LEGGI ANCHE: Le mosse diplomatiche di Ue e Italia sulla crisi libica

GLI ACCOMPAGNATORI DI HAFTAR E SARRAJ

I due leader libici non arriveranno in Russia da soli. Haftar, che ad aprile 2019 ha tentato senza successo di impadronirsi di Tripoli, sarà accompagnato dal suo alleato Aguila Salah, presidente del parlamento libico con base in Oriente. Assieme a Sarraj ci sarà invece Khaled al-Mechri, presidente del Consiglio di Stato. A Mosca sono attesi anche i ministri degli Esteri e della Difesa turchi, Mevlut Cavusoglu e Hulusi Akar.

MACRON A PUTIN: «CESSATE IL FUOCO SIA CREDIBILE, DUREVOLE E VERIFICABILE»

Dalla Francia arriva il primo commento sull’incontro tra Haftar e Sarraj a Mosca. Durante una chiamata con Vladimir Putin, il presidente Emmanuel Macron ha detto di volere che il cessate il fuoco in Libia sia «credibile, durevole e verificabile».

LA SITUAZIONE IN LIBIA

Il cessate il fuoco in Libia, richiesto da Russia e Turchia, è entrato in vigore alla mezzanotte del 12 gennaio 2020, con il plauso di Unione europea, Stati Uniti, Nazioni Unite e Lega Araba. La Libia, ricca di petrolio, è nel caos dall’autunno del 2011 quando fu rovesciato il regime di Muammar Gheddafi con una rivolta popolare, sostenuta da un intervento militare guidato da Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

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Haftar e Sarraj hanno accettato il cessate il fuoco in Libia

A partire dalla mezzanotte del 12 gennaio, il conflitto si ferma. Ma entrambi promettono una dura reazione contro chi dovesse rompere la tregua.

Il cessate il fuoco in Libia è in vigore dalla mezzanotte del 12 gennaio. Il capo del Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna), Fayez al Serraj, ha infatti accettato la tregua proposta da Turchia e Russia dopo che alla stessa avevano aderito anche le forze del generale dell’Est, Khalifa Haftar. In un comunicato pubblicato nella notte sulla pagina media del Gna, il premier libico Sarraj, oltre a confermare l’adesione al cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte e a promettere di difendersi in caso di sua violazione, invita le parti a una trattativa sotto l’egida dell’Onu su come pervenire a una tregua duratura e a lavorare con tutti i libici per una conferenza nazionale in vista della Conferenza di Berlino per giungere alla pace.

IL MESSAGGIO DI HAFTAR

Poche ore prima, Ahmed Al Mismari, portavoce dell’ Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, aveva annunciato in un video il cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte. Una dura rappresaglia, ha affermato, verrà attuata contro chi non lo rispetterà. «Le forze di Haftar hanno accettato il cessate il fuoco: è il primo passo per perseguire una soluzione politica. Ancora tanta strada da percorrere, ma la direzione è quella giusta», aveva scritto su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che proprio nella giornata di sabato 11 gennaio era impegnato a Roma ad accogliere Sarraj, mentre a Mosca, nelle stesse ore, si incontravano la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente russo Vladimir Putin.

CONTE OSPITA SARRAJ

L’Italia ha avuto il suo bel da fare per rimediare al pasticcio diplomatico della visita a Roma di Haftar. Alla fine il premier libico Fayez al Sarraj ha deciso di accettare l’invito di Conte. «Ho rappresentato con forza ad Haftar» la posizione dell’Italia, ha dovuto chiarire Conte, «che lavora per la pace» e gli ho espresso «tutta la mia costernazione per l’attacco all’accademia militare di Tripoli». Anche Putin ha mandato un messaggio al generale che sostiene, dopo aver incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel. «Conto molto che a mezzanotte, come abbiamo esortato con Erdogan, le parti in contrasto cesseranno il fuoco e smetteranno le ostilità: poi vorremmo tenere con loro ulteriori consultazioni». Messaggio che alla fine è stato recepito.

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Michael Bloomberg pronto a spendere 1 miliardo contro Trump

Il candidato democratico Michael Bloomberg deciso a innaffiare la campagna col suo denaro. Anche se dovesse uscire sconfitto dalle primarie. Finanzierebbe Sanders o Warren. Pur di sconfiggere il presidente.

Pronto a tutto pur di liberare gli Stati Uniti da Donald Trump. La corsa alla Casa Bianca è destinata a diventare una guerra tra miliardari, a prescindere da chi tra i democratici otterrà la nomination per le presidenziali. L’ex sindaco di New York Michael Bloomberg non ha infatti escluso di spendere un miliardo di dollari della sua fortuna anche se non dovesse essere lui a spuntarla nelle primarie dem. E ha assicurato che mobiliterà la sua ben finanziata campagna per aiutare anche i senatori Bernie Sanders o Elizabeth Warren a battere Donald Trump, nonostante le forti differenza politiche che li separano. Il nemico comune, quindi, finirebbe per appianare i dissidi interni e anche una sconfitta personale non fermerebbe la battaglia elettorale di Bloomberg. Lo ha scritto il New York Times citando lo stesso imprenditore.

UNA FORTUNA DI OLTRE 50 MILIARDI

«Dipende se il candidato ha bisogno di aiuto: se sta facendo molto bene necessiterà di meno aiuto, altrimenti ne avrà più bisogno», ha detto Bloomberg durante una tappa della sua campagna in Texas. Chi conquisterà la nomination, quindi, potrà contare non solo sul suo appoggio finanziario ma anche sulla sua ramificata rete organizzativa. L’ex sindaco di New York, che conta su una fortuna di oltre 50 miliardi di dollari, ha già speso più di 200 milioni in spot pubblicitari, con un ritmo che entro marzo sarà uguale alla somma investita da Barack Obama nel corso dell’intera campagna del 2012. Un enorme investimento pur di sfrattare dalla Casa Bianca un inquilino scomodo e inviso a buona parte della popolazione.

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Il nuovo premier di Malta è Robert Abela

La scelta fatta dagli elettori laburisti rappresenta una voglia di continuità rispetto a Muscat, dimessosi per il caso Caruana.

Dopo la crisi di governo legata al caso Caruana e le dimissioni di Joseph Muscat, Malta ha un nuovo premier. Si tratta di Robert Abela, avvocato 42enne, eletto leader del Partito laburista maltese, diventando automaticamente anche primo ministro dopo le dimissioni di Muscat, accusato di interferenze nelle indagini sull’omicidio della giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia.

UNA SCELTA DI CONTINUITÀ

Figlio dell’ex presidente George e visto come outsider incarnazione della continuità col suo predecessore, Abela è stato scelto dalla maggioranza dei 17.500 elettori laburisti – che hanno votato per la prima volta direttamente il loro leader – per la sua promessa di continuare «con le ricette vincenti» di Muscat. È stato preferito al chirurgo 52enne Chris Fearne, vicepremier uscente.

IN PARLAMENTO DAL 2017

Abela, attivista di lunga data del Partito laburista, è diventato membro del parlamento maltese solo durante le ultime elezioni legislative del 2017, convocate in anticipo da Muscat e vinte a mani basse dal suo partito nonostante un’ondata di scandali che hanno scosso il suo entourage. Abela subentra per soli due anni e mezzo in carica, fino al settembre 2022.

FENECH INCRIMINATO

Il caso Caruana ha travolto il governo, portando all’arresto di Keith Schembri, capo di gabinetto di Muscat, scarcerato poi una volta completati gli interrogatori nei suoi confronti. Per l’omicidio della giornalista è stato invece ufficialmente incriminato Yorgen Fenech, l’imperatore dei casinò, accusato di legami con le mafie italiane e vicino ad ambienti di governo. L’uomo è accusato di essere il mandante dell’autobomba che tolse la vita a Daphne Caruana Galizia.

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Una bomba ha ucciso due soldati americani in Afghanistan

Altri due sono rimasti feriti. L’attentato nel distretto di Dand è stato rivendicato dai talebani.

Due soldati americani sono rimasti uccisi nell’esplosione di un ordigno artigianale in Afghanistan. Altri due militari statunitensi risultano feriti. La notizia arriva dal portavoce delle forze Nato attive nelle regione. L’attentato è stato rivendicato dai talebani ed è avvenuto nel distretto di Dand. Qui la bomba ha colpito il mezzo blindato su cui viaggiavano i soldati. Fonti della polizia locale hanno spiegato che gli americani erano impegnati in un servizio di pattuglia vicino all’aeroporto di Kandahar quando sono stati raggiunti dall’esplosione.

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I risultati delle elezioni presidenziali a Taiwan

Vittoria e nuovo mandato per l’anticinese Tsai-Ing-wen: «Pechino smetta di minacciarci». Staccato di oltre un milione di voti il rivale Han Kuo-yu, dei Nazionalisti del Kuomintang.

I risultati non sono ancora definitivi, ma lo spoglio iniziato subito dopo la chiusura dei seggi e arrivato ormai al 95% non lascia alcun dubbio. L’anticinese Tsai Ing-wen ha vinto le elezioni presidenziali a Taiwan, ottenendo così un nuovo mandato.

OLTRE UN MILIONE DI VOTI DI VANTAGGIO PER TSAI ING-WEN

Tutti i conteggi dei principali media locali le danno un vantaggio di oltre un milione di voti sul suo rivale, Han Kuo-yu, candidato dei Nazionalisti del Kuomintang. Tsai è accreditata del 58% dei consensi, Han è fermo al 38%.

AL FIANCO DI HONG KONG

Quest’ultimo, di fronte al divario ormai incolmabile, ha ammesso la sconfitta e ha riconosciuto la vittoria di Tsai, premiata dagli elettori soprattutto per la sua linea dura nei confronti di Pechino e per il suo essersi schierata al fianco di Hong Kong.

LEGGI ANCHE: Perché le elezioni a Taiwan preoccupano la Cina

«LA CINA SMETTA DI MINACCIARCI»

Le prime parole di Tsai Ing-wen confermano la volontà di opporsi a ogni tentativo di ingerenza: «La Taiwan democratica e il nostro governo eletto democraticamente non cederanno alle minacce e alle intimidazioni. La Cina deve abbandonare la minaccia dell’uso della forza». Alla domanda se il risultato del voto sia il frutto di una scelta di campo tra Cina e Stati Uniti, Tsai ha replicato: «È una scelta per la libertà e la democrazia».

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