Meloni si rassegni, la destra giornalistica non la ama

Feltri, Giordano e adesso anche Sallusti hanno adottato Salvini. Neppure con il Cav furono così servili. Mentre la leader di Fratelli d’Italia li spaventa.

Vittorio Feltri e gli altri big della destra giornalistica hanno adottato Matteo Salvini. Lo trattano come il pupo di casa, lo difendono con accanimento, ne vantano qualità inesistenti, raccontano di minacce simili al famoso attentato che Maurizio Belpietro disse di aver subito. Neppure con Silvio Berlusconi furono così servili. Anzi, dire “servili” non è giusto, né beneducato, diciamo che neppure con Berlusconi furono così coinvolti. Il Cavaliere era il capo, il padrone, quello che li faceva felici con stipendi da favola e che raccontava storie bellissime come quella sulla nipote di Mubarak.

Feltri & Co si bevvero tutto quel liquido caramelloso perché Berlusconi combatteva la sinistra e anche ora questo gruppo di colleghi, nei giornali di carta e su Rete 4 (tranne Barbara), pur di annichilire la sinistra, è pronto a tutto. Con Salvini, però, è diverso. «È de loro», come dicono a Roma. Racconta palle inverosimili, fa cose scorrettissime che mandano in sollucchero tipini fini come Mario Giordano, dà l’idea che se va al potere a quelli di sinistra gli spacca quella parte del corpo lì dietro.

Obiezione: ma come può accadere che un gruppo di agguerritissimi colleghi che ne ha fatte più di Carlo in Francia si innamori di questo ragazzaccio che ha un’evidente voglia di non fare una mazza per tutta la vita? E ancora: ma come, avete a disposizione Giorgia Meloni, di destra autentica, e inseguite questo burlone che non si sa mai che cosa può dire e con chi può mettersi?

IL CAV PRETENDEVA OBBEDIENZA, SALVINI NO

Il mondo di cui parliamo osannò i giudici di Mani Pulite. Divenne garantista solo quando andò al potere Berlusconi. L’orizzonte è tuttavia rimasto quella roba che chiamiamo l’antipolitica. Nel senso che si sentono tutti come Eugenio Scalfari, hanno l’ambizione di dettare le regole a politici che devono solo obbedire. Uno solo di loro, Vittorio Feltri, può ambire ad essere lo Scalfaretto di destra perché dovunque va trascina con sé lettori. Gli altri seguono l’onda. A Berlusconi dovevi obbedire, anche a Umberto Bossi dovevi obbedire, con Salvini fai quello che ti pare. Ecco il successo del puer birroso.

GIORGIA CRESCE, MA PER LEI NESSUNA FANFARA

Giorgia Meloni, fatevelo dire da uno che sarebbe terrorizzato a vederla premier, a loro fa paura. La giovane donna è combattiva, ragiona con la sua testa, ha alle spalle uno come Guido Crosetto (tanta roba, in ogni senso), è «de destra» per davvero. Questo gruppo di giornalisti, oggi di destra, è stato democristiano, socialista, persino comunista, e in fondo non sopporta quelli di destra veri. Meloni si vede chiaramente che ha una storia, che ha un passato il cui elogio reprime, e soprattutto che comunica emotivamente con il suo elettorato. A mano a mano che il Salvini si affloscerà (lui si ammoscia sempre), la Meloni andrà avanti. I giornali di destra già ne parlano, ma senza entusiasmo, senza suonare la fanfara. Arrivasse davvero una che non si fa mettere i piedi in testa, non dico da Feltri ma da Giordano, da Pietro Senaldi, da Giovanna Maglie e compagnia bella?

GRANDI FIRME STATE ATTENTE, RISCHIATE UN’ALTRA FIGURACCIA

Poi Meloni è donna e con le donne si discute meno bene che con un chiacchierone da bar. Ovviamente il giorno in cui Meloni si avvicinerà a Salvini o lo supererà saranno tutti “meloniani”, con il timore però che una di destra vera può non trovare alleati che la portino alla premiership. Da qui il salvinismo coriaceo che oggi si è fatto più tosto dopo il ritorno in campo di Alessandro Sallusti, che per qualche mese era stato costretto a fare il berlusconiano moderato invece ora può urlare a più non posso. Dateci sotto ragazzi! È il vostro momento. Difendete il vostro bambolotto di pezza. Ma sappiate che dura poco e farete la solita figuraccia. Ricordate il proverbio napoletano: «A chi troppo s’acàla, ‘o culo se vede». «Culo» sapete cos’è, vi devo spiegare «s’acàla»? Non c’è bisogno.

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Zingaretti vuole sciogliere il Pd dopo le elezioni regionali

Il segretario in un colloquio con Repubblica: «Vinciamo in Emilia e poi cambia tutto. Apro a Sardine, società civile, ecologisti». Non un «nuovo partito», ma un «partito nuovo».

Sciogliere il Pd. Non per fondare «un nuovo partito», ma per creare «un partito nuovo». Aperto alle Sardine, agli ecologisti e alla società civile. In un lungo colloquio con il quotidiano la Repubblica, il segretario Nicola Zingaretti ha rotto gli indugi esplicitando la sua strategia, da mettere in atto subito dopo le elezioni regionali del 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria.

«Vinciamo in Emilia», dove «stiamo facendo la campagna elettorale per Stefano Bonaccini in splendida solitudine», ovvero senza l’appoggio di Italia viva e Movimento 5 stelle. E poi «cambio tutto», promette Zingaretti. Secondo il quale «in questi mesi la domanda di politica è cresciuta, non diminuita. E noi dobbiamo aprirci e cambiare per raccoglierla». Con una sottile distinzione: «Non penso a un nuovo partito, ma a un partito nuovo. Un partito che fa contare le persone ed è organizzato in ogni angolo del Paese».

Certo, bisogna sciogliere il nodo della legge elettorale. Il percorso è appena iniziato, ma il Germanicum va in direzione di un proporzionale puro con sbarramento al 5%. E per Zingaretti «ci indica una sfida». Occorre «costruire il soggetto politico dell’alternativa, convocando un congresso con una proposta politica e organizzativa di radicale innovazione e apertura. Dobbiamo rivolgerci però alle persone, non alla politica organizzata». Tradotto: «Dobbiamo aprirci alla società e ai movimenti che stanno riempiendo le piazze in queste settimane. Non voglio lanciare un’Opa sulle Sardine, rispetto la loro autonomia. Ma voglio offrire un approdo a chi non ce l’ha».

NO ALLA «CULTURA DELLE BANDIERINE» NEL GOVERNO

Parlando del governo, il segretario dem puntualizza: «È inutile che ci giriamo intorno, non possiamo fare melina fino al 26 gennaio, non possiamo fare ogni giorno l’elenco delle cose sulle quali non c’è accordo nella maggioranza. Purtroppo questo è il risultato della cultura delle bandierine, in cui ci si illude di esistere solo se si difende una cosa. Lo dico ogni giorno a Giuseppe Conte e a Luigi Di Maio: un’alleanza è come un’orchestra, il giudizio si dà sull’esecuzione dell’opera, non sulla fuga di un solista che casomai dà pure fastidio alle orecchie». La linea unitaria «sta pagando, come dimostrano i sondaggi. E casomai apre contraddizioni in chi non vuole scegliere. L’Italia sta gradualmente tornando a uno schema bipolare».

RESISTERE ALLE DESTRE

Per Zingaretti, quindi, «non è il tempo di distruggere, ma di costruire subito una visione e poi un’azione comune, su pochi capitoli chiari: come creare lavoro, cosa significa green new deal, come si rilancia la conoscenza, come si ricostruiscono politiche industriali credibili nell’era digitale». E «questo salto di qualità lo può fare solo il nostro partito», che «ha retto l’urto di due scissioni e oggi i sondaggi ci danno al 20%. Siamo l’unico partito nazionale dell’alleanza, l’unico che si presenta ovunque alle elezioni, l’unico sul quale si può cementare il pilastro della resistenza alle destre».

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Taglio dei Parlamentari, raggiunto il numero di firme per referendum in Senato

Sono 71 le sottoscrizioni depositate in Cassazione. Fonti M5s: «A quanto pare, è arrivato “l’aiutino” della Lega».

Al Senato è stato raggiunto e superato il numero minimo di firme per presentare il quesito del referendum contro il taglio dei parlamentari. Sono in totale 71 le sottoscrizioni (ne servivano 64) che Andrea Cangini (FI), Tommaso Nannincini (Pd) e Nazario Pagano (FI), i tre promotori della consultazione, hanno depositato in Cassazione nel pomeriggio. Secondo fonti parlamentari, in mattinata, sarebbe arrivato un sostanzioso appoggio anche da parte di senatori leghisti.

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HANNO FIRMATO 12 “NEW ENTRY”

Dopo la rinuncia di sette senatori a sottoscrivere la richiesta di referendum per il taglio del parlamentari, sono 12 le “new entry” che hanno deciso di aderire, consentendo così la possibilità di depositare il quesito in Cassazione. Hanno aggiunto le loro firme: cinque senatori di Forza Italia (Francesco Battistoni, Dario Damiani, Maria Alessandra Gallone, Marco Siclari e Roberta Toffanin), sei della Lega (Claudio Barbaro, Massimo Candura, William De Vecchis Roberto Marti, Enrico Montani e Pasquale Pepe) e uno di Liberi e uguali (Francesco La Forgia).

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M5S: «È ARRIVATO L’ “AIUTINO” DELLA LEGA»

Come riporta l’Ansa, fonti del Movimento 5 stelle hanno commentato subito l’appoggio dei senatori leghisti alla raccolta firme per il referendum: «Non hanno resistito alla voglia di tenersi strette le poltrone e a quanto pare è arrivato “l’aiutino” della Lega. Non vediamo l’ora di dare il via alla campagna referendaria per spiegare ai cittadini che ci sono parlamentari che vorrebbero bloccare questo taglio, fermando così il risparmio di circa 300mila euro al giorno per gli italiani che produrrebbe l’eliminazione di 345 poltrone».

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MARA CARFAGNA (FI) ATTACCA: «È UN REFERENDUM SALVA-POLTRONE»

«Quello sul taglio dei parlamentari è un referendum salva-poltrone», ha scritto in una nota Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia. «Siamo e saremo sempre all’opposizione di questo governo dannoso, vogliamo andare al voto anche domani, ma vogliamo farlo in totale trasparenza eleggendo da subito un Parlamento più snello. Non abbiamo alcun interesse a sostenere un finto referendum, vogliamo dire la verità agli italiani. Per questo ai colleghi senatori che mi hanno chiesto un parere ho detto: non prestatevi a un giochino di Palazzo che screditerà la politica, squalificherà Forza Italia, resusciterà il populismo», ha proseguito la vicepresidente della Camera nel documento. La Carfagna ha ricordato anche che «la riduzione dei parlamentari è stata approvata con il sì di Forza Italia appena tre mesi fa, dopo quattro letture» e che il partito è «sempre favorevole al taglio delle poltrone» e che il presidente Silvio Berlusconi «è stato tra i primi a volere una riforma costituzionale di questo tipo». Mara Carfagna ha poi concluso: «Chi vuole il referendum per rimandare il taglio dei parlamentari lo dica apertamente, ci metta la faccia e non utilizzi giochi di palazzo».

SUL REFERENDUMStamattina ho ritirato la firma sul referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. L'ho ritirata,…

Posted by Mario Michele Giarrusso on Friday, January 10, 2020

CHI HA RITIRATO LA FIRMA PER IL REFERENDUM SUL TAGLIO DEI PARLAMENTARI

C’è anche chi ci ha fatto dietrofront, ritirando la propria firma, come i senatori Mario Michele Giarrusso (M5s), Francesco Verducci (Pd) e Vincenzo D’Arienzo (Pd). «Stamattina ho ritirato la firma sul referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. L’ho ritirata, perché la mia posizione è stata strumentalizzata da alcuni e travisata da altri», ha scritto il senatore pentastellato. Al contrario, i dem hanno cambiato idea in conseguenza «di un fatto politico nuovo» e cioè la presentazione di quella proposta di legge elettorale proporzionale, che fin dall’inizio era stata chiesta dal Pd in relazione al taglio dei parlamentari.

LA RACCOLTA FIRME DEI RADICALI

Intanto il Partito radicale ha raccolto 669 firme per promuovere un referendum sulla riforma che taglia il numero dei parlamentari. Peccato che ne sarebbero servite 500 mila. Le sottoscrizioni sono state comunque depositate in Cassazione. «Abbiamo voluto verbalizzare la violenta censura attuata dai media e dal servizio pubblico – ha spiegato Maurizio Turco, il segretario del Partito radicale – ai quali si era rivolto per la prima volta nel discorso di fine anno il Presidente della Repubblica». Turco si è anche detto contrario alla riforma «che prevede la cessione di rappresentanza da parte dei cittadini».

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Biennale, ultima occasione per nominare il sostituto di Baratta

In caso di fumata nera, scatterà la prorogatio del presidente in carica. Non mancano le candidature e le auto-candidature. Da Melandri, Bray e Rutelli fino a Boeri, Christillin e Cicutto.

Ultima riunione venerdì 10 dicembre del Cda della Biennale in carica. Dalla prossima settimana scatta la prorogatio del presidente Paolo Baratta e dei consiglieri, soluzione di ripiego per una politica che non riesce a trovare l’intesa su nulla, dalle nomine Rai (bloccate da mesi) ai vertici delle Autorità della Privacy e Tlc.

Riunione veneziana last minute dunque necessaria per nominare il curatore della Biennale Arte 2021, nomina rimandata da novembre scorso in attesa delle scelte del governo sui vertici di Ca’ Giustinian ma non più rinviabile visti i tempi necessari per selezionare in giro per il mondo gli artisti che esporranno all’Arsenale e ai Giardini.

I PAPABILI: DA MELANDRI A BRAY, FINO A BOERI E CHRISTILLIN

Nel frattempo, pur nelle nebbie partitiche, fioccano le candidature e le auto-candidature alla presidenza. Ex ministri come Giovanna Melandri, Massimo Bray e Francesco Rutelli. Personaggi noti come l’architetto Stefano Boeri e la torinese Evelina Christillin. Esperti come il presidente dell’Istituto Luce Roberto Cicutto. Tutti stanno cercando di convincere il ministro della Cultura Dario Franceschini a rompere il ghiaccio e a procedere con le nomine.

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Agenzia delle Entrate, Gualtieri e Renzi reinsediano Ruffini

Il ministro dell’Economia, in cambio del suo appoggio alla nomina, ottiene il sostegno di Italia viva alla sua candidatura nel collegio Roma 1 per trovare il sostituto di Gentiloni. Elezioni che però si terranno dopo le Regionali. E tutto può ancora succedere.

Luigi Di Maio ha formalmente messo il veto sul ritorno di Ernesto Maria Ruffini alla guida dell’Agenzia delle Entrate. E per questo rischia di perdere ancora una volta a faccia.

Il leader 5 stelle ha fatto sapere per le vie brevi al ministro dell’Economia che è nettamente contrario al rientro di Ruffini nell’Agenzia. E Roberto Gualtieri, sulle prime, non sapeva come uscirne. Poi, tutto è cambiato grazie a uno scambio.

LA COMPENSAZIONE CHIESTA DAL MINISTRO DELL’ECONOMIA

Quale compensazione per spedire Ruffini all’Agenzia delle Entrate, Gualtieri ottiene il sostegno di Italia viva alla sua candidatura nel collegio Roma 1. E le elezioni si terranno il primo marzo prossimo. Serviranno per trovare un sostituto di Paolo Gentiloni spedito a Bruxelles.

Ruffini, infatti, non ha mai fatto mistero della sua amicizia con Matteo Renzi. E forte di questo sostegno ha finora fatto la voce grossa al ministero. Vuole assolutamente tornare sulla poltrona dalla quale è stato cacciato con l’epurazione avviata dal Conte 1. Ora, però, vorrebbe costringere il Conte 2 a rimangiarsi gli atti dell’estate del 2018, vista la circostanza che “Giuseppi” si regge in piedi anche con i voti di Renzi. Sottobanco, però, ha lavorato a favore della candidatura di Gualtieri in sostituzione di Gentiloni. Un’azione, a vantaggio della sua nomina, resa più agevole dalla scelta di Palazzo Chigi di scaricare (solo formalmente) la patata bollente sul Mef.

A complicare le cose, poi, ci s’era messo il veto di Di Maio. A risolvere la questione (in chiave anti Giggino) è arrivato Renzi. Che pur di vedere Ruffini sulla poltrona delle Entrate, e pur di rinsaldare i rapporti con il Pd, ha promesso il suo sostegno a Gualtieri. Nella sostanza si tratta di incassare subito la nomina di Ruffini e di promettere, in futuro, il voto di Italia viva a Gualtieri.

LO SPARTIACQUE DELLE REGIONALI

Calendario alla mano, il voto di Roma 1 arriva dopo il 26 gennaio. E tutto può ancora succedere. Nell’incertezza, le nomine delle agenzie fiscali restano al palo. A cominciare da quella di Alessandra Dal Verme per il Demanio, che spinge non fosse altro per potersi avvicinare a casa, luogo nel quale è solita tornare a metà giornata per un pranzo frugale e un pisolino. Al ministero dell’Economia, come a Palazzo Chigi, sperano di affrontare il tema dopo le elezioni regionali. Come se queste fossero lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Tant’è che al Mef, su indicazioni del Pd, sono alla disperata ricerca di iniziative e misure a sostegno dell’Emilia-Romagna, visto che considerano la Calabria ormai persa. Lo stesso Gualtieri si spenderà per la campagna elettorale di Stefano Bonaccini, anche se non si capisce a quale titolo, visto che il governatore uscente ha tolto il simbolo del Pd dai suoi manifesti.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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Liberi, Uguali ma un po’ incazzati

Germanicum. Jobs Act. Articolo 18. Dossier Alitalia e Autostrade. Tutti i mal di pancia della sinistra, socia di minoranza del governo giallorosso.

All’improvviso, l’emergenza più impellente da risolvere in casa giallorossa nei primi giorni del 2020 è diventata trovare una nuova legge elettorale per pensionare il Rosatellum, la norma vigente che ha avuto la sua epifania alle Politiche del 2018 mentre ora viene disconosciuta da tutti, a iniziare dal Pd.

Al fotofinish il Partito democratico e il Movimento 5 stelle sono riusciti a presentare il testo alla Camera prima che la Corte Costituzionale si pronunci sull’ammissibilità del referendum leghista con l’obiettivo di disinnescare una potenzialmente insidiosa consultazione popolare finalizzata a ripristinare il maggioritario.

La bozza, però, non piace a tutti gli alleati: a puntare i piedi è Liberi e uguali, l’alleato finora più fedele e oscurato dalle continue rivendicazioni di Italia viva. Qualcosa, invece, si muove anche alla sinistra del Pd e la legge elettorale potrebbe non essere l’unico fronte che potrebbe aprirsi nel corso dell’anno.

I DUBBI SULLA LEGGE ELETTORALE

La deadline è appunto il 15 gennaio, termine entro cui è prevista la pronuncia della Consulta. Da qui la necessità di anteporre il tema su tutti gli altri che affollano l’agenda di una maggioranza ancora in cerca d’autore. L’anno è iniziato da sole 96 ore e già Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati a Palazzo Chigi proprio per discutere della riforma, già ribattezzata Germanicum. Un vertice di appena 45 minuti senza renziani e senza Leu, utile a comunicare che tra i due principali azionisti del Conte bis c’è la comune volontà di disegnare assieme le future regole del gioco. Regole che rischiano di escludere però Liberi e uguali, che da mesi ribadisce la propria predilezione per un impianto spagnolo (inviso però a Italia viva) e, soprattutto, teme le conseguenze dello sbarramento al 5%.

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Un timore che lo ha portato ad addurre motivazioni peculiari. La senatrice di Leu Loredana De Petris qualche tempo fa aveva dichiarato: «L’ultima volta, con la soglia al 3%, siamo passati solo noi. Alzandola al 5, in quanti entrerebbero in parlamento? Cinque? Anche Forza Italia sarebbe a rischio…».

LAVORO: RIPRISTINO DELL’ART. 18 E SUPERAMENTO DEL JOBS ACT

Potrebbe essere stata proprio la decisione del Pd di sacrificare Leu sull’altare della speditezza dei lavori a spingere il ministro della Salute Roberto Speranza a riaprire l’annosa questione della regolamentazione del diritto del lavoro. «Al tavolo della verifica dovremo trovare il coraggio di correggere radicalmente gli errori commessi sul mercato del lavoro», ha dichiarato al Corsera.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro della Salute Roberto Speranza.

L’accondiscendenza dimostrata finora da Leu non paga e Speranza lo dice a chiare lettere: «Renzi chiede di rivedere reddito e Quota 100 e i 5 stelle non sono contenti. Io chiedo di rivedere il Jobs act. Non siamo un governo monocolore». E sono proprio i renziani, artefici della riforma, i più risentiti, come dimostra l’avvertimento arrivato, sempre dalle colonne del Corriere della Sera, dalla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova: «La priorità è far ripartire il lavoro e l’economia, non gingillarsi con il Jobs Act che il lavoro lo ha creato. Non servono slogan, servono soluzioni».

MES, L’OLTRANZISMO SOVRANISTA DI FASSINA

C’è poi un altro tema che potrebbe tornare a tenere banco nelle prossime settimane, quando si acuirà lo scontro in vista delle Regionali emiliano-romagnole e calabresi: la nostra eventuale adesione al Meccanismo europeo di stabilità (Mes).  A dicembre la maggioranza aveva solo rinviato all’anno nuovo la decisione se continuare a fare parte o uscire dal Fondo salva-Stati. Decisione che adesso dovrà essere presa: il 20 gennaio prossimo, infatti, dovrebbe tenersi l’Eurogruppo per procedere con la ratifica dei Paesi interessati e non sembrano esserci spazi né per un ulteriore rinvio né per eventuali correzioni. Il presidente dell’organismo, l’economista portoghese Mario Centeno, era stato chiaro: «La decisione era stata presa in giugno. Il testo non si tocca, non c’è motivo per farlo, c’è già l’accordo politico». La firma potrebbe esporre il governo alle facili bordate di Lega e Fratelli d’Italia. E se il M5s potrebbe ingoiare la pillola amara, non è del medesimo avviso Leu, almeno per voce di Stefano Fassina che, è noto, negli ultimi tempi ha lavorato sodo per dare una casa, Movimento patria e costituzione, ai sovranisti di sinistra (ammesso esistano).

Su Twitter l’ex viceministro all’Economia parla di «potenziali gravi conseguenze per i lavoratori» e sostiene che la riforma «renda il default e la ristrutturazione del debito non l’eccezione ma uno strumento ordinario», spronando il Pd a essere «meno subalterno all’Europa».

SU AUTOSTRADE E ALITALIA ASSE LEU E M5S

Ci sono poi altri due possibili punti di frizione tra i dem e Leu che rischiano di avvicinare gli esponenti di Liberi e uguali ai 5 stelle: il dibattito sulla possibile revoca delle concessioni ad Autostrade e quello sul futuro di Alitalia. Quanto al primo, benché lo stesso Giuseppe Conte sembri sposare la proposta del Pd e di Italia viva – una maximulta da fare pagare alla società del gruppo Atlantia controllata dalla famiglia Benetton -, Liberi e uguali non demorde. Sempre Fassina ha definito «immorali» le concessioni vigenti, in quanto «fatte scrivere a garanzia di enormi rendite». Quindi, via Twitter, ha definito la linea, mai così vicina a quella dei pentastellati più oltranzisti: «Avanti tutta con le revoche!».

Situazione simile su Alitalia dove, seppur in formula temporanea (ma in Italia, si sa, non c’è nulla di più permanente di ciò che nasce come provvisorio), Leu batte la strada della nazionalizzazione. Fassina, intervistato da Radio Radicale, ha chiesto di «chiudere l’amministrazione straordinaria e costituire una Newco in cui partecipi allo Stato per procedere entro 24 mesi alla scelta di un partner strategico», ritenendo il piano industriale del consorzio Ferrovie dello Stato, Atlantia e Delta «un “piano biennale di fallimento”, nonostante l’enorme numero di esuberi che prevedrebbe».

I TENTATIVI DI DIALOGO DEL PD

Insomma, le convergenze tra Leu e M5s potrebbero impensierire il Pd che, da parte sua, non ha mancato di fare arrivare segnali di disgelo che non si vedevano dai tempi della fuoriuscita di Bersani & Co dalla Ditta. Come per esempio la recente partecipazione di alcuni dem di spicco (su tutti Graziano Delrio e Andrea Orlando) a un seminario su Stato e mercato organizzato da Alfredo D’Attorre. L’intenzione sembra quella di evitare che Leu si avvicini troppo ai 5 stelle, ricordando all’alleato le origini comuni. E, soprattutto, ricordandogli che ormai Matteo Renzi è uscito dal Partito democratico.

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Taglio dei parlamentari, la battaglia sul referendum allunga la vita al governo

A tre giorni dalla scadenza del 12 gennaio, si tirano indietro quattro senatori di Forza Italia vicini a Mara Carfagna. Ma le defezioni sono almeno otto. Ora diventa cruciale il ruolo della Lega, che potrebbe decidere di invertire la rotta.

Il destino del referendum contro il taglio dei parlamentari è appeso a una manciata di firme. A tre giorni dalla scadenza del termine per la presentazione della richiesta, prevista per il 12 gennaio, si sono infatti tirati indietro quattro senatori di Forza Italia vicini a Mara Carfagna. Ma le defezioni sarebbero di più, almeno otto. E sono pronti al ritiro anche tre senatori del Pd.

La consultazione rischia quindi di saltare: se ciò accadesse, la legge entrerebbe subito in vigore. Ma a “salvare” il referendum potrebbero pensarci altri senatori di Forza Italia, o più probabilmente della Lega. Perché in un intreccio pericolossimo per le sorti del governo, solo se ci sarà il referendum sul taglio dei parlamentari ha buone probabilità di tenersi anche il referendum promosso dal Carroccio per il maggioritario in tema di legge elettorale, su cui il 15 gennaio è chiamata a esprimersi la Corte Costituzionale.

La maggioranza vuole provare a evitarli entrambi. Da una parte pressa i senatori per il ritiro delle firme, dall’altra deposita il “Germanicum”, una proposta di legge elettorale proporzionale. Mentre prosegue il lavoro sotterraneo per “blindare” la maggioranza e metterla al riparo dagli smottamenti nel M5s, magari con l’ingresso di un gruppetto di senatori in uscita da Forza Italia.

LE APERTURE DI CONTE

Tra i parlamentari non sono passate inosservate le parole con cui il premier Giuseppe Conte ha risposto a una domanda del quotidiano Il Foglio sulla possibilità che una parte degli azzurri possa appoggiare maggioranza, votando con Pd e M5s come già avvenuto al parlamento europeo: «Se si dovesse verificare questa condizione la valuteremo. Sarebbe un passaggio senz’altro significativo». Antonio Tajani ha subito parlato di «ipotesi dell’irrealtà», ma di un gruppo di deputati e senatori cosiddetti “responsabili” si vocifera con insistenza.

IL GESTO DEGLI AZZURRI VICINI ALLA CARFAGNA

Del resto i quattro senatori Franco Dal Mas, Massimo Mallegni, Laura Stabile e Barbara Masini, che hanno annunciato di aver ritirato le firme sulla richiesta di referendum per «impedire a qualcuno di farsi prendere dalla tentazione di andare a votare senza ridurre prima il numero degli eletti», sono tutti di Forza Italia. Il gesto prelude allo sbarco in maggioranza degli azzurri che fanno riferimento a Mara Carfagna? Fonti vicine alla vice presidente della Camera, per il momento, negano: «Voce libera vuole che il governo cada. Ma non si può andare a votare con mille parlamentari, alimentando ancora il M5s anti casta».

I CALCOLI CHE STANNO DIETRO AI GIOCHI POLITICI

La tesi prevalente è che se venisse indetto il referendum, si aprirebbe una finestra per far saltare il governo e andare a votare per eleggere 630 deputati e 315 senatori, prima che vengano ridotti a 400 e 200. In tal caso chi vince vincerebbe di più, e chi perde perderebbe di meno. Ma nei giochi politici di queste ore viene fatto anche un altro calcolo: per un cavillo giuridico, se verrà indetto il referendum costituzionale, avrà più probabilità di essere ammesso anche il referendum promosso dalla Lega per una legge elettorale maggioritaria. A quel punto potrebbe essere indetto un election day capace di far fibrillare l’esecutivo, in coincidenza con le elezioni regionali di primavera.

LA MAGGIORANZA PROVA A SMINARE IL CAMPO SULLA LEGGE ELETTORALE

«Rischierebbe di essere un mega-referendum su Salvini», osservano fonti del Pd. E anche per non dare all’ex ministro dell’Interno altre armi di propaganda, il governo prova a tenersi fuori dalla battaglia. Conte e i capi delegazione di maggioranza hanno deciso infatti di non costituire l’esecutivo in giudizio di fronte alle Corte costituzionale. Per “sminare” la questione e dimostrare alla Consulta che sul sistema di voto sta già legiferando il parlamento, è stata accelerata anche la presentazione del Germanicum, nato da un primo accordo di maggioranza che non convice in pieno Liberi e uguali.

IL SEGNALE SALVINI: «FAREI REFERENDUM SU TUTTO»

Il testo è stato depositato da Giuseppe Brescia del M5s. Prevede un sistema con soglia di sbarramento al 5% (nell’iter parlamentare, complici i voti segreti, c’è il rischio che scenda) e diritto di tribuna per i piccoli partiti. Anche in nome di questa prima bozza di legge elettorale tre senatori del Pd, Roberto Rampi e gli orfiniani Francesco Verducci e Vincenzo D’Arienzo, potrebbero ritirare le firme sul taglio dei parlamentari. I senatori dem che hanno firmato in tutto sono sette, gli altri quattro resistono. Il 10 gennaio anche i Radicali presenteranno i risultati della loro raccolta. Ma adesso sarà determinante il ruolo della Lega: «Io farei referendum su tutto», ha detto in serata Salvini. E sembra un segnale chiaro rivolto ai suoi: invertire la rotta sul tema della riduzione del numero dei parlamentari, firmare e metterci la faccia.

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Un gruppo di senatori M5s ha chiesto di abolire il capo politico

Il documento verrà presentato all’assemblea congiunta degli eletti pentastellati. Si domanda anche di togliere il controllo della piattaforma Rousseau alla Casaleggio Associati.

Abolire la figura del capo politico, togliere alla Casaleggio Associati il controllo della piattaforma Rousseau e lasciare a Beppe Grillo soltanto il ruolo di presidente, non più quello di garante del M5s: sono le proposte che un gruppo di senatori pentastellati – capitanati da Primo Di Nicola, Emanuele Dessì e Mattia Crucioli – ha messo nero su bianco e intende presentare all’assemblea congiunta degli eletti in programma nella serata del 9 gennaio.

IL TESTO HA GIÀ RACCOLTO UNA DECINA DI FIRME

Come riferisce Il Fatto Quotidiano, che per primo ha dato la notizia, il testo è già stato sottoscritto da una decina di senatori. L’obiettivo è di raccogliere più firme possibili e far partire il dibattito interno. Nel frattempo anche i deputati Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri hanno deciso di passare al gruppo Misto, facendo scendere a 211 il numero totale dei pentastellati che siedono a Montecitorio.

SI PUNTA SU UNA MAGGIORE «DEMOCRAZIA INTERNA»

Nel documento si chiede di ristrutturare profondamente la “governance” del M5s. Prevedendo una gestione collegiale della futura linea politica e diverse modalità di rendicontazione per la restituzione parziale degli stipendi. Su quest’ultimo punto, in particolare, si propone che in caso di scioglimento del Comitato rendicontazioni le giacenze non vengano più destinate all’Associazione Rousseau, bensì direttamente al Fondo per il Microcredito. Nessun attacco, tuttavia, alla tenuta del governo giallorosso presieduto da Giuseppe Conte, che anzi «non deve saltare». Il messaggio è dunque rivolto ai vertici del M5s e in primis a Luigi Di Maio, cui si domanda un cambiamento radicale in direzione di una «maggiore democrazia interna».

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Come funziona il Germanicum, la nuova proposta di legge elettorale

Depositato il ddl ispirato al modello tedesco. Previsti 391 seggi assegnati col proporzionale, soglia del 5% e diritto di tribuna. Cancellati i collegi uninominali del Rosatellum. Le novità.

L’eterno balletto tutto italiano delle leggi elettorali ha partortito un nuovo modello: questa volta si chiama Germanicum, un sistema di voto ispirato a quello tedesco, depositato dal presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia (Movimento 5 stelle).

ANCHE CHI NON SUPERA LO SBARRAMENTO PUÒ OTTENERE SEGGI

In cosa consiste? Sono previsti 391 seggi assegnati con metodo proporzionale, con soglia del 5% e un meccanismo che permette il diritto di tribuna. E cioè il partito che non supera lo sbarramento nazionale ma ottiene il quoziente in tre circoscrizioni in due Regioni ottiene seggi. La proposta cancella i collegi uninominali del Rosatellum e ne utilizza i 63 collegi proporzionali e le 28 circoscrizioni.

CAMERA: 400 DEPUTATI, OTTO ELETTI ALL’ESTERO

Dei 400 seggi della futura Camera, otto spetteranno ai deputati eletti all’estero (nelle circoscrizioni estere con metodo proporzionale), un seggio va all’eletto in Valle d’Aosta in un collegio uninominale. I restanti 391 seggi sono distribuiti proporzionalmente tra i partiti che superano il 5%.

NUOVO SENATO: 200 POSTI DA ASSEGNARE

I 63 collegi plurinominali del Rosatellum servivano per eleggere 386 deputati, quindi funzionano anche per la nuova Camera formato “mignon”. Stesso metodo per assegnare i 200 seggi del nuovo Senato: quattro vanno ai senatori eletti all’estero, uno alla Val d’Aosta e i restanti 195 sono distribuiti ai partiti che nel resto d’Italia oltrepassano la soglia.

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Il deputato Giuseppe Brescia (Movimento 5 stelle), presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera. (Ansa)

IN GERMANIA IL NUMERO DI ELETTI È VARIABILE

Pure il diritto di tribuna si ispira al modello tedesco anche se il sistema di assegnazione è diverso, dato che in Germania esistono collegi uninominali e il numero dei parlamentari è variabile e non fisso come in Italia.

TEMA LISTINI/PREFERENZE ANCORA DA AFFRONTARE

Il testo depositato da Brescia non affronta il tema delle preferenze. Sul piano della tecnica legislativa è una “novellazione” del Rosatellum, cioè interviene chirurgicamente su quel testo che prevede i listini bloccati, che non vengono modificati nel disegno di legge proposto da Brescia. L’accordo di maggioranza è che il tema listini/preferenze è demandato al successivo confronto.

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Taglio parlamentari, mancano le firme per il referendum

Quattro senatori ci ripensano e si tirano indietro. Slitta il deposito del quesito in Cassazione.

Slitta l’appuntamento del deposito in Cassazione del quesito referendario contro il taglio dei parlamentari perché al momento mancano tutte le 64 firme dei senatori necessarie. Andrea Cangini (Forza Italia) assicura che sarà preso un nuovo appuntamento entro il 12 gennaio, termine ultimo. «In quattro hanno ritirato le firme ma altri si stanno aggiungendo per cui per correttezza abbiamo chiesto alla Cassazione uno slittamento», ha aggiunto Cangini.

DUBBI ANCHE DA PD E M5S

I quattro sarebbero tutti senatori di Forza Italia, dell’area vicina a Mara Carfagna, guidati da Massimo Mallegni. Sempre a quanto si apprende, anche tra i senatori del Pd che hanno firmato è in corso una riflessione, dopo l’intesa col M5s sulla legge elettorale. Le firme devono essere raccolte e verbalizzate entro domenica 12 e possono essere consegnate in Cassazione anche il 13.

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Caso Gregoretti, la maggioranza chiede il rinvio del voto sul processo a Salvini

La richiesta inoltrata dal senatore M5s Crucioli e sostenuta da Pd e Italia viva. Il leghista: «Sono senza dignità».

È stato deciso il rinvio del voto della Giunta delle immunità del Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per il caso Gregoretti. L’orientamento che sembrava aver preso piede tra le fila della maggioranza è stato confermato dalla richiesta inoltrata dal Movimento 5 stelle attraverso il senatore Mattia Crucioli, tenendo conto della sospensione delle attività delle commissioni di Palazzo Madama previste dalla Conferenza dei capigruppo dal 20 al 26 gennaio per via delle elezioni regionali del 26. Anche Italia viva e Partito democratico hanno concordato il rinvio con il M5s. È stato chiesto inoltre un ulteriore approfondimento dell’istruttoria.

GASPARRI AVEVA CHIESTO DI RESPINGERE LA RICHIESTA

In precedenza, Il presidente della Giunta delle immunità Maurizio Gasparri aveva chiesto di respingere la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. La proposta era stata avanzata dal presidente nella relazione illustrata ai senatori, all’inizio della nuova riunione. «Hanno paura di perdere la faccia, sono senza onore e senza dignità», è stato il primo commento di Salvini una volta venuto a conoscenza del rinvio.

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Bonaccini, solitario y final ma non triste

Ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità. Un esempio di leader che risolvei problemi, privo di rabbie personali e concreto, concretissimo. La sinistra lo prenda a modello.

Chissà che pensieri ha al mattino, appena sveglio, Stefano Bonaccini, candidato del Pd (ma non si può dire) per la guida dell’Emilia-Romagna.

Sulle sue spalle, che sembrano molto attrezzate, c’è il destino politico di un Paese, di un governo e di un paio di personaggi della politica che sono arrivati all’ultimo miglio.

Se Bonaccini perde, viene giù tutto. Cade il governo anche se non subito, i cinque stelle vanno per prati, il Pd o si rifonda o si rifonda. Se Bonaccini, invece, vince, Giuseppe Conte può pensare di avere vita più lunga, Luigi Di Maio respira, Nicola Zingaretti apparirà come il salvatore del Pd dopo gli anni di Matteo Renzi, ma soprattutto Matteo Salvini, assediato dalla coriacea Giorgia Meloni, si chiuderà in una birreria e da lì non uscirà più senza che alcuno vada a cercarlo.

LA BATTAGLIA DI BONACCINI CONTRO LA STRANA COPPIA

La battaglia di Bonaccini è stata seria. Non ha voluto compagnia, ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità di lavoro e soprattutto ha a che fare con un signore che parla all’Emilia-Romagna come se fosse una trincea di guerra e non una regione pacifica (forse non più pacificata, ma pacifica) e con una signora che visibilmente sa appena dire il proprio nome e cognome.

Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire

Se questa strana coppia vincerà bisognerà riflettere bene su quanti disastri anche emotivi ha combinato la sinistra in questi decenni. Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire. E allora muoia. Tuttavia non accadrà.

UN MODELLO DI LEADERSHIP DA IMITARE

Il prode Bonaccini al mattino si sveglia, secondo me, “senza pnzier”, tranne quello di quali cittadini incontrare e di cosa dire. Quello sbevazza e fa casino, quell’altra fa la bella donna in tivù, lui fa l’operaio della politica che monta i pezzi che si sono rotti, fa funzionare la casa, ti fa stare tranquillo. Può perdere? In fondo, lo dico prima di sapere come andrà a finire, il modello di leadership di Bonaccini, ma penso anche a Beppe Sala e a tanti altri – non a Michele Emiliano – dovrebbe essere il modello di sinistra vincente. Cioè leader, uomini o donne, che risolvono i problemi, che sono pieni di umanità, privi di rabbie personali, riconciliati con il mondo e concreti, concretissimi.

Da sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, assieme al sindaco di Milano Giuseppe Sala.

Caro Bonaccini, io tifo per Lei (un tempo ti avrei detto tifo per te, ma oggi vale il titolo della canzone di Richy Gianco: «Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo» e quindi ti do del Lei), mi faccia questa cortesia di non mollare in queste settimane, non legga i giornali, lasci stare Rete 4 diventata una specie di astanteria di esagitati, tranne Barbara Balombelli, e vada avanti. Quel voto in più che la farà restare alla guida della sua Regione è lì, veda di prenderlo.

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Bonaccini, solitario y final ma non triste

Ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità. Un esempio di leader che risolvei problemi, privo di rabbie personali e concreto, concretissimo. La sinistra lo prenda a modello.

Chissà che pensieri ha al mattino, appena sveglio, Stefano Bonaccini, candidato del Pd (ma non si può dire) per la guida dell’Emilia-Romagna.

Sulle sue spalle, che sembrano molto attrezzate, c’è il destino politico di un Paese, di un governo e di un paio di personaggi della politica che sono arrivati all’ultimo miglio.

Se Bonaccini perde, viene giù tutto. Cade il governo anche se non subito, i cinque stelle vanno per prati, il Pd o si rifonda o si rifonda. Se Bonaccini, invece, vince, Giuseppe Conte può pensare di avere vita più lunga, Luigi Di Maio respira, Nicola Zingaretti apparirà come il salvatore del Pd dopo gli anni di Matteo Renzi, ma soprattutto Matteo Salvini, assediato dalla coriacea Giorgia Meloni, si chiuderà in una birreria e da lì non uscirà più senza che alcuno vada a cercarlo.

LA BATTAGLIA DI BONACCINI CONTRO LA STRANA COPPIA

La battaglia di Bonaccini è stata seria. Non ha voluto compagnia, ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità di lavoro e soprattutto ha a che fare con un signore che parla all’Emilia-Romagna come se fosse una trincea di guerra e non una regione pacifica (forse non più pacificata, ma pacifica) e con una signora che visibilmente sa appena dire il proprio nome e cognome.

Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire

Se questa strana coppia vincerà bisognerà riflettere bene su quanti disastri anche emotivi ha combinato la sinistra in questi decenni. Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire. E allora muoia. Tuttavia non accadrà.

UN MODELLO DI LEADERSHIP DA IMITARE

Il prode Bonaccini al mattino si sveglia, secondo me, “senza pnzier”, tranne quello di quali cittadini incontrare e di cosa dire. Quello sbevazza e fa casino, quell’altra fa la bella donna in tivù, lui fa l’operaio della politica che monta i pezzi che si sono rotti, fa funzionare la casa, ti fa stare tranquillo. Può perdere? In fondo, lo dico prima di sapere come andrà a finire, il modello di leadership di Bonaccini, ma penso anche a Beppe Sala e a tanti altri – non a Michele Emiliano – dovrebbe essere il modello di sinistra vincente. Cioè leader, uomini o donne, che risolvono i problemi, che sono pieni di umanità, privi di rabbie personali, riconciliati con il mondo e concreti, concretissimi.

Da sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, assieme al sindaco di Milano Giuseppe Sala.

Caro Bonaccini, io tifo per Lei (un tempo ti avrei detto tifo per te, ma oggi vale il titolo della canzone di Richy Gianco: «Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo» e quindi ti do del Lei), mi faccia questa cortesia di non mollare in queste settimane, non legga i giornali, lasci stare Rete 4 diventata una specie di astanteria di esagitati, tranne Barbara Balombelli, e vada avanti. Quel voto in più che la farà restare alla guida della sua Regione è lì, veda di prenderlo.

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Chi è Eleonora Cimbro, l’ex deputata Pd passata da LeU alla Lega

Parabola a destra per l’ex dem passata prima dalle fila di Articolo Uno e poi approdata al Carroccio. Nel 2017 le prime crepe con Renzi, fino alla svolta sovranista del 2019.

Uscire per andare alla sinistra dei Partito democratico per poi approdare alla Lega di Matteo Salvini. È stata la parabola di Eleonora Cimbro. Classe 1978, di Bollate, laureata in lettere classiche, insegnante e madre di cinque figli, Cimbro è stata deputata dal 2013 per il Pd e recentemente, stando a quanto scritto dal portale ilnotiziario.net, è approdata al Carroccio dopo un breve periodo dentro Leu.

DALL’ATTIVISMO ALLA ROTTURA COI DEM

La notizia ha fatto molto discutere sopratutto per il passato dell’ex deputata e il suo attivismo locale tra le fila dem. In passato era stata consigliera comunale e anche segretaria del circolo locale del Pd. Dal 2013, dopo l’elezione a Montecitorio, ha sempre votato la fiducia ai vari governi, da Letta a Gentiloni, passando per Renzi, anche se non ha mai nascosto le sue critiche all’ex segretario. Nel 2017 la prima svolta con il passaggio alla neonata formazione Articolo Uno-Mdp. Un passaggio non senza polemiche dato che la federazione milanese del Pd la indicò con altri colleghi come morosa nei confronti del partito.

LA MANCATA ELEZIONE E L’APPRODO AL CARROCCIO

Con la fine della legislatura è arrivata la candidatura con Leu alle politiche del 2018 per il Senato nel collegio uninominale di Rozzano. Il voto, però, non è andato come previsto. Cimbro ha infatti raccolto solo il 2,6% con il seggio poi vinto da Ignazio La Russa. Nei mesi successivi è arrivata una progressiva virata verso destra. A ottobre, sempre su ilnotiziario.net, ha rilasciato un’intervista in cui confermava il passaggio nell’aria sovranista poi sancito anche da post sui social in cui mostrava di gradire libri e interventi di Diego Fusaro. Un percorso culminato il 7 gennaio con l’iscrizione e con la tessera firmata dallo stesso Salvini, come sancito da una foto tra i due.

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Chi è Eleonora Cimbro, l’ex deputata Pd passata da LeU alla Lega

Parabola a destra per l’ex dem passata prima dalle fila di Articolo Uno e poi approdata al Carroccio. Nel 2017 le prime crepe con Renzi, fino alla svolta sovranista del 2019.

Uscire per andare alla sinistra dei Partito democratico per poi approdare alla Lega di Matteo Salvini. È stata la parabola di Eleonora Cimbro. Classe 1978, di Bollate, laureata in lettere classiche, insegnante e madre di cinque figli, Cimbro è stata deputata dal 2013 per il Pd e recentemente, stando a quanto scritto dal portale ilnotiziario.net, è approdata al Carroccio dopo un breve periodo dentro Leu.

DALL’ATTIVISMO ALLA ROTTURA COI DEM

La notizia ha fatto molto discutere sopratutto per il passato dell’ex deputata e il suo attivismo locale tra le fila dem. In passato era stata consigliera comunale e anche segretaria del circolo locale del Pd. Dal 2013, dopo l’elezione a Montecitorio, ha sempre votato la fiducia ai vari governi, da Letta a Gentiloni, passando per Renzi, anche se non ha mai nascosto le sue critiche all’ex segretario. Nel 2017 la prima svolta con il passaggio alla neonata formazione Articolo Uno-Mdp. Un passaggio non senza polemiche dato che la federazione milanese del Pd la indicò con altri colleghi come morosa nei confronti del partito.

LA MANCATA ELEZIONE E L’APPRODO AL CARROCCIO

Con la fine della legislatura è arrivata la candidatura con Leu alle politiche del 2018 per il Senato nel collegio uninominale di Rozzano. Il voto, però, non è andato come previsto. Cimbro ha infatti raccolto solo il 2,6% con il seggio poi vinto da Ignazio La Russa. Nei mesi successivi è arrivata una progressiva virata verso destra. A ottobre, sempre su ilnotiziario.net, ha rilasciato un’intervista in cui confermava il passaggio nell’aria sovranista poi sancito anche da post sui social in cui mostrava di gradire libri e interventi di Diego Fusaro. Un percorso culminato il 7 gennaio con l’iscrizione e con la tessera firmata dallo stesso Salvini, come sancito da una foto tra i due.

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Come l’Italia ha condannato il contrattacco dell’Iran

Il titolare della Farnesina Di Maio ha parlato di «atto grave» che «accresce la tensione». Mentre il ministro della Difesa Guerini ha chiesto «moderazione e prudenza» confermando che i militari italiani in Iraq stanno bene.

Alla fine la risposta dell’Iran all’uccisione di Soleimani è arrivata l’8 gennaio. Con il bombardamento delle basi americane in Iraq. Lì dove sono impegnati anche i militari italiani, che però non hanno subito dirette conseguenze. Come hanno preso la notizia i vertici politici del nostro Paese? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affidato il suo commento a Facebook: «Seguiamo con particolare preoccupazione gli ultimi sviluppi e condanniamo l’attacco da parte di Teheran. Si tratta di un atto grave che accresce la tensione in un contesto già critico e molto delicato».

«RISCHIO DI CELLULE TERRORISTICHE E MIGRAZIONI»

Il titolare della Farnesina nel suo post ha proseguito così: «Purtroppo è la storia che si ripete. Invitiamo entrambe le parti alla moderazione e alla responsabilità. La regione vive una instabilità da decenni, una nuova guerra spingerà la proliferazione di cellule terroristiche e di nuovi flussi migratori. Non è più accettabile tutto questo. Si apprenda dagli errori del passato e si torni al dialogo».

COALIZIONE INTERNAZIONALE DI CUI FA PARTE L’ITALIA

Poi ha espresso a nome del governo vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per il loro impegno: «È accaduto quello che temevamo. L’Iran ha risposto al raid Usa lanciando decine di missili contro le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. Entrambe ospitano personale della coalizione internazionale anti-Isis, di cui fa parte anche l’Italia».

La sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza


Il ministro della Difesa Guerini

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha ribadito che «la sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta, a loro va la più stretta vicinanza, da parte mia e di tutte le istituzioni», sottolineando poi che fin dall’inizio dell’attacco iraniano alle basi statunitensi in Iraq la Difesa sta seguendo «la situazione e le evoluzioni con la massima attenzione». Guerini nel corso della notte ha sentito il comandante del contingente italiano, il generale Fortezza, che lo ha rassicurato sulle condizioni dei nostri militari.

GUERINI CHIEDE «MODERAZIONE E PRUDENZA»

«In questo momento è indispensabile agire con moderazione e prudenza», ha detto Guerini in un colloquio telefonico con il collega iracheno Al Shammari. E infine: «Ogni possibile soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione, con un approccio flessibile, anche per non vanificare gli sforzi fino a oggi profusi».

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L’esercito dei buoni ci salvi dai miserabili trumpismi

Mentre rischiamo una guerra mondiale e l’Australia va in fiamme, in Italia ci si preoccupa di Sanremo. Finché sarà questo il nostro stato d’animo Salvini e Meloni avranno gioco facile. L’unico antidoto è puntare sulle grandi idee, quelle di una sinistra plurale che collabori con i movimenti cattolici.

Ogni notte, sarà così per tanto tempo ancora, un’agenzia lancerà la notizia di una reazione militare iraniana e della risposta americana o viceversa. Ogni notte avremo il timore che chi ha le sorti del mondo nelle mani possa fare la mossa sbagliata, quella che ci porterebbe tutti verso la terza guerra mondiale.

LEGGI ANCHE: La sinistra riparta dalle parole rivoluzionarie di Zuppi

Il fanatismo dei leader religiosi iraniani e l’analogo fanatismo del più pericoloso presidente americano stanno facendo girare sulle nostre teste droni che portano bombe anche là dove possono provocare l’incidente irrecuperabile.

L’APOCALISSE AUSTRALIANA

Cambiamo scenario. La cronaca ci dice che l’incendio che in Australia ha distrutto un territorio pari all’Austria, ha ucciso un miliardo di animali e ora vogliono abbattere 10 mila cammelli perché c’è poca acqua e loro ne bevono troppa.

Nei roghi che stanno distruggendo l’Australia sono morti almeno 1 miliardo di animali.

Rileggete quel numero, voi che postate sui social le foto dei vostri gattini, di piccoli cani, di criceti: un miliardo di animali, alcuni anche rari, che sono stati bruciati vivi nel cuore di uno dei Paesi più ricchi del mondo. Finora nulla è stato fatto per arginare questo disastro, chiunque l’abbia provocato sia il riscaldamento globale sia un centinaio di piromani da chiudere in galera per tutta la loro vita.

GLI ITALIANI INTERESSATI ALLE QUERELLE SANREMESI

A colpire, qui da noi, è la passione che si accende su Rita Pavone e su Rula Jebreal e su altre stupidaggini analoghe che sembra far svanire le ombre dei disastri che riguardano l’intera umanità e, in essa, di noi come singoli. Non guardiamo oltre la nostra tivù o il nostro telefonino. Lo dico in fretta perché non voglio iscrivermi al partito di coloro che disprezzano la modernità, comprese le nuove cattive abitudini.

Rita Pavone durante il programma Rai “Woodstock – Rita Pavone racconta”.

Il tema che ci dovrebbe interessare è come sia potuto accadere che gran parte dell’umanità, soprattutto in Occidente, sia diventata così indifferente. C’è stata in questi giorni una corsa per vedere il film di Checco Zalone. L’altra sera siamo usciti in 50 dopo aver visto quello di Ken Loach e non si è praticamente formato un solo capannello, non c’era niente da dire, quel film bello e terribile ci aveva detto che non avevamo più niente da dire.

COSÌ LA CULTURA EGOSITICA È DIVENTATA CUPA RABBIA

Finché sarà questo il nostro stato d’animo, Matteo Salvini troverà sempre la strada della vittoria e se non vincerà lui vincerà Giorgia Meloni. La campagna contro la solidarietà, il multiculturalismo, l’accettazione dell’altro, il dono di sé hanno fatto prevalere una specifica cultura egoistica che ha perso l’allegria dei primi anni liberisti ed è diventata cupa rabbia contro gli altri, tutti gli altri, anche contro di te elettore di Salvini se scoprirai che un altro elettore di Salvini ti intralcerà la strada. Se l’Emilia-Romagna ci farà il regalo di far vincere il candidato del Pd tireremo un sospiro di sollievo. Salvini si berrà due birrozze e comincerà piano piano a fare i bagagli. Ma la questione di fondo non cambierà.

salvini premier 2020
Matteo Salvini.

L’ANTIDOTO AL TRUMPISMO È FUORI DA UNA LOGICA DI PARTITO

La sinistra e anche il cattolicesimo sociale e democratico assieme con l’anima laica del Paese e con la destra liberale avevano decenni fa in animo di competere per costruire un Paese di Grandi Virtù, non questa miserabile esibizione di trumpismi. Lasciate razzolare Mario Giordano, Maria Giovanna Maglie, Pietro Senaldi e persino Vittorio Feltri. Quello che li potrà distruggere è fuori da una logica di partiti o di partiti associati ed è dentro una cultura in cui ci si occupa dell’altro e si creano correnti di opinioni, movimenti reali, azioni esemplari che, aggiungendosi a chi già è sul campo, rafforzeranno l’esercito dei buoni. Non mi impressionano le parole di questi facinorosi di Rete4. Mi impressiona il fatto che abbiano fatto facilmente breccia in una società sbriciolata. Ecco perché devono tornare le grandi idee, quelle di una sinistra plurale che collabori con grandi movimenti cattolici. Quanti partiti potranno nascere da questa confluenza è del tutto irrilevante. L’importante è che arrivi il messaggio che l’esercito dei buoni, non dei buonisti, è in campo senza ritrosie e senza paure.

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A che punto è la discussione della giunta sul caso Gregoretti

I 23 senatori stanno studiando il dossier che coinvolge l’ex ministro dell’Interno. Il timing per il 20 gennaio dovrebbe essere rispettato. Ma potrebbe esserci un rinvio per non influenzare il voto del 26 in Emilia e Calabria.

La Giunta delle immunità del Senato è entrata nel vivo del caso Gregoretti per decidere sull’autorizzazione a procedere, chiesta dal tribunale dei ministri di Catania nei confronti di Matteo Salvini quand’era alla guida del Viminale. Sul tavolo dei 23 senatori nel complesso barocco di Sant’Ivo alla Sapienza, c’è la memoria scritta presentata dal leader della Lega. Nove pagine per difendersi dall’accusa di sequestro di persona contestata dal tribunale ma su cui la procura catanese ha chiesto l’archiviazione.

SUL TAVOLO UN POSSIBILE RINVIO DEL VOTO

Nel dubbio, il diretto interessato ha insistito: «Se vogliono mandarmi in galera, non trovano un uomo preoccupato ma orgoglioso di aver difeso i confini. Io al governo rifarei lo stesso», ha ammonito a Radio 24. Ma in attesa del verdetto della Giunta, previsto il 20 gennaio, nei corridoi parlamentari corre voce di un rinvio del voto a dopo le regionali del 26 gennaio. Del resto i 30 giorni a disposizione della Giunta, e che scadono attorno al 20 gennaio, non sono un termine perentorio, mentre sono rilevanti i 60 giorni entro i quali deve esprimersi l’aula del Senato per il voto definitivo.

I DUBBI SUL POSSIBILE IMPATTO SUL VOTO IN EMILIA

Il rischio – secondo alcuni – è che la ‘condanna’ della Giunta possa creare un effetto ‘martire’ attorno al ‘capitano’, con un boom di consensi a una settimana dal voto cruciale in Emilia-Romagna e in parte in Calabria. Troppo rischioso, insomma. In ogni caso, perché il voto slitti deve esserci una richiesta motivata da parte dei senatori della Giunta. Poi deciderà l’ufficio di presidenza. Niente di concreto, al momento, per il presidente della Giunta, il senatore Maurizio Gasparri che ha continuato a lavorare sul caso e in particolare sulla proposta che dovrà fare in quanto relatore. Quindi ha tagliato corto e assicurato che i tempi per una discussione approfondita ci sono.

I TEMI DI LAVORO DELLA GIUNTA

Il calendario fissato a dicembre conta cinque riunioni, compresa quella finale e due sono di lunedì, quando in genere non si riunisce l’Aula. Considerando che ogni senatore ha 10 minuti per intervenire, non è il tempo a mancare. In ogni caso, nel pomeriggio la Giunta potrebbe ‘limitarsi’ a prendere atto della memoria di Salvini con qualche commento e far partire la discussione direttamente sulla proposta del relatore, che potrebbe esser pronta entro fine settimana. Sulla carta comunque i numeri sembrano chiari e più orientati a mandare a processo il leghista.

LA GIUNTA PROPENDE PER IL VIA LIBERA

Sarebbero infatti 13 i “sì” (M5s, Pd, Iv e probabilmente i tre senatori del Misto) e 10 i contrari, tutti del centrodestra. Parecchi però tacciono in attesa di leggere tutte le carte. I 5Stelle si riuniranno per fare il punto sulla questione. A far pendere la bilancia da una parte all’altra è la somiglianza o meno con il caso Diciotti che portò Salvini davanti alla Giunta un anno fa. Anche allora la sua versione fu che il mancato sbarco dei migranti era stata un’azione collegiale del governo. Stavolta però nella sua difesa manca l’endorsement scritto del premier e dell’allora vicepremier Di Maio. Ci sono invece le mail dei dirigenti di vari ministeri che dimostrano – secondo Salvini – che tutto il governo sapeva, Conte compreso.

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Le Sardine fanno un congresso per darsi una struttura

La data verrà comunicata entro il 26 gennaio, giorno delle elezioni in Emilia-Romagna e Calabria. Si avvicina la trasformazione in partito? Santori puntualizza: «Confermo l’incontro nazionale, ma è più giusto parlare di un weekend insieme».

Le Sardine vanno a congresso per darsi una struttura a livello nazionale. E sebbene avessero recentemente dichiarato di non voler dar vita a un nuovo partito («sarebbe come mettere confini al mare», aveva detto Mattia Santori in un’intervista a Repubblica), ora sembrano più vicine a una svolta in questa direzione.

Il congresso sarà probabilmente una due giorni, le cui date saranno rese note entro il 26 gennaio, quando si terranno le elezioni regionali in Emila-Romagna e Calabria. La decisione è stata presa dal direttivo nazionale di Bologna delle Sardine ed è stata annunciata in tivù dalla portavoce torinese del movimento, Francesca Valentina Penotti.

«A livello regionale siamo un po’ divisi», ha spiegato Penotti, «nel senso che ogni Regione pensa giustamente un po’ per sé. In Piemonte avremo una sorta di congresso-riunione il 25 gennaio, in Emilia-Romagna fra il 18 e il 19 gennaio ci sarà ‘Sardina ospita sardina’». Quanto all’evento nazionale con tutti i referenti locali del movimento, «posso dirvi che entro il 26 gennaio uscirà una data e ci incontreremo dopo le elezioni regionali».

Successivamente Santori è intervenuto con una precisazione, raccolta dal quotidiano online Open: «Confermo l’incontro nazionale, ma non sarà un congresso come lo si intende generalmente. È più giusto parlare di un weekend insieme con tutti i referenti delle Sardine, per continuare il dialogo iniziato a Roma» con la manifestazione a Piazza San Giovanni.

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Perché vanno ascoltate le parole rivoluzionarie del cardinal Zuppi

In un’epoca caratterizzata dal furore di irresponsabili, Trump in testa, l’arcivescovo di Bologna propone un nuovo umanesimo. Base per una nuova politica.

Le parole di guerra che leggiamo o ascoltiamo in questi giorni lasciano annichiliti. L’Iran minaccia vendette sanguinose e Donald Trump, autore di questa crisi, parla di risposte militari che investiranno anche i luoghi d’arte, e, temo, di culto, in ogni caso «sproporzionate». Da anni non sentivamo da un leader di un Paese d’Occidente parole tanto infuocate e irresponsabili. Ovviamente Matteo Salvini è d’accordo con lui. In molti di noi si riaffaccia l’anti-americanismo degli anni del Vietnam a cui bisogna resistere perché non possiamo fare a meno dell’America, anche se oggi è piccola cosa, priva di egemonia, ridotta e isterica potenza militare guidata da un uomo senza qualità.

IL MONDO È IN MANO AL FURORE DI IRRESPONSABILI

L’ansia maggiore sta nella sensazione che nessuno di noi possa fare alcunché per proteggere il mondo dal furore di irresponsabili. Ci è capitato di vivere in questa stagione della storia in cui mancano personalità mondiali, a parte papa Francesco, e proliferano mezze calzette con troppo potere. Eppure non è vero che non si possa fare nulla. Non c’è ovviamente un gesto che può fermare questa corsa alla guerra mondiale, quella guerra mondiale «a pezzettini» come la definì il pontefice alcuni anni fa. Viviamo in un Paese che rifiuta di assumere un ruolo di pace e che rischia di essere diretto da uomini di guerra.

BISOGNA CREARE GRANDI MOVIMENTI CONTRO L’ODIO

Eppure noi sappiamo, perché è la storia del mondo che ce lo dice, che lo sviluppo di solidi movimenti di pace, che la rinascita di una opinione pubblica responsabile potranno fare il miracolo se le giovani generazioni ne diventeranno protagoniste. Oggi un movimento di pace non può esser sospettato di parteggiare per una parte contro un’altra. Il mondo non solo non è diviso in due ma la competizione vede contrapposti vecchi imperi, imperi che rinascono, e rinascenti suggestioni imperiali. Oggi scendere in campo ha il vantaggio di apparire ingenui, insospettabili, non strumentalizzabili. Si tratta di creare grandi movimenti contro l’odio. Se le ho capite bene,  anche le Sardine hanno questo come obiettivo, ma serve di più.

LA LEZIONE DEL CARDINALE DI BOLOGNA

Vorrei suggerire a chi mi legge un libro fondamentale scritto dal cardinale di Bologna, con il collega Loreno Fazzini, Matteo Maria Zuppi che su questo tema ci ha donato riflessioni importanti. Il libro non è riassumibile. Ogni frase vale come un suggerimento, come una esperienza di vita di un sacerdote che è stato sulla strada per tanti anni e che per anni con la comunità di Sant’Egidio si è occupato di mettere pace in Paesi come il Mozambico. Scrive monsignor Zuppi: «Per non odiare, ovvero sentirsi veramente amati, è necessario e indispensabile esser credenti, o meglio, cristiani?». Ecco la risposta: «Penso che sia una alleanza tra i credenti, quando prendono sul serio il Vangelo, e quanti non rinunciano alla sfida di restare umani anche in tempi difficili, animi nobili e alti, che per questo non cedono all’odio in nome dell’Umanità stessa».

VERSO UN NUOVO UMANESIMO

È l’idea di un nuovo umanesimo che comprenda tutte le fedi e anche chi non ha fede a illuminare l’ispirazione del cardinale Zuppi e a dargli la suggestione che si possa creare un movimento di pace che sia incentrato sul rifiuto dell’odio. Scrive ancora Zuppi: «Quante vite hanno rovinato l’isolamento dell’io e la schiavitù dell’io. Un’antropologia moderna, che proietta giudizi negativi sugli altri per proteggere se stessi, promette l’infinito e crea una vita dimezzata».

IL MALE DELL’ADORAZIONE DI SÉ

Zuppi affronta anche un tema che fu centrale nella riflessione degli «atei devoti» negli anni ratzingeriani, la critica del relativismo, e dice che «bisogna scoprire il valore positivo di un innovativo relativismo, cioè l’abbandono della assolutizzazione di sé per rendersi disponibili alla relazione…Ma vorrei usare questa parola popolare, relativismo, per cambiarne, prima o poi, il significato. Dobbiamo lottare in tanti modi contro il rischio di una idolatria che ci imprigiona: l’adorazione di sé, come fosse una divinità da servire e alla quale sacrificarsi. E contemporaneamente lottare contro la caduta di senso del limite, perché si fa fatica a contrastare una soggettività per la quale qualunque atto diventa lecito in base al principio della libertà dell’io, senza la considerazione del bene e dei rischi comuni. Relativizzare il sé e aprirci agli altri, non può, invece, che liberarci, sollevarci, calmarci, e orientare le nostre risorse interiori, dando senso al tutta la nostra esistenza. Ci aiuta e ricentrare davvero il nostro sé, il nostro essere».

SOLO L’AMORE PUÒ CONTRASTARE LA PAURA

E poi un concetto fondamentale: «La paura è un segnale che ci rende consapevoli di un pericolo. È una spia importante, un indicatore che occorre prendere in considerazione, e non ignorare per spavalderia, per leggerezza, per presunzione. È importante, quindi, prendere con serietà la paura, ma poi occorre contrastarla con l’unico atteggiamento capace di superarla: l’amore. Se la paura decide per noi diventa rabbia, rivalsa, diffidenza o aggressività. Contrastiamo la paura, invece, anzitutto aprendoci all’amore perché questo genera una forza inaspettata, nuova e creativa, che ci rende capaci di cose grandi».

LA DIFFERENZA SOSTANZIALE TRA BUONO E BUONISTA

Il cardinale ha scritto così un manifesto per il “buonismo”? Zuppi è schietto, e persino eccessivamente franco, come il suo papa e dice: «Buonismo è fermarsi ad una buona azione che serve a te e non a chi sta male, è credere di far pace con la propria coscienza solo per un buon sentimento di attenzione all’altro, come se volere bene non comportasse farsi carico. I cristiani sono i primi a non trovarsi bene nella casa dei buonisti. Il samaritano è buono, non buonista….La compassione che lui vive, e che siamo chiamati a sperimentare anche noi, è quella che si fa carico, fino a cercare di risolvere il problema della persona sofferente….Il buonismo non risolve, si compiace troppo di sé, non si misura con la fatica della ricerca di soluzioni». Il libro di Zuppi (Odierai il prossimo tuo, editore Piemme) è una miniera di pensieri forti qui solo in parte riassunti. Mi interessa solo che chi mi legge, e leggerà il libro, immagini che si può non stare inerti di fronte alle brutture del mondo, ma che si può iniziare la grande rivoluzione contro l’odio. Assumendo il bene degli altri come realizzazione di sé, si può creare la via maestra per un nuovo umanesimo e quindi per una nuova politica.

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