Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena

Silvio Berlusconi non c’è più. E la notizia della morte, per altro anticipata dal continuo aggravamento delle sue condizioni di salute, è qualcosa cui si stenta a credere. Perché il Cavaliere aveva costruito una buona parte della sua narrazione sulla compiaciuta mitologia del suo essere immortale, perché comunque la si giudichi la sua figura ha condizionato gli ultimi cinquant’anni della vita pubblica. Prima come imprenditore rampante, poi come politico. Infine dal 1994, anno della sua discesa in campo, come politico-imprenditore.

Berlusconi è stato ispiratore, vittima, innovatore, narciso

Molto su di lui è già stato scritto, molto detto, e ancora se ne scriverà negli anni a venire. Perché la biografia di Silvio ha le prerogative dell’interminabilità. Perché l’uomo ha inciso non solo sull’economia e poi sulla politica, ma pure sull’immaginario collettivo di un Paese che a lui deve una mutazione antropologica. Dal quartiere modello di Milano due al partito azienda, nulla della vita pubblica di questo Paese è rimasto immune dalla sua impronta. Giocata con grandissima abilità su più registri: ispiratore, vittima, custode come nessuno mai del suo personale tornaconto, innovatore, narciso fino a rasentare la parodia di se stesso.

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Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi. (Getty)

Forza Italia morirà con lui al termine di una diaspora già iniziata

Che succederà ora? Berlusconi lascia un impero mediatico il cui futuro è denso di interrogativi. I figli, specie Marina e Pier Silvio, lo vorranno portare avanti. Ma avranno la forza di faro senza alle spalle un padre che ne ha sempre accompagnato le mosse, anche quando sembrava che la politica e poi la malattia allontanasse il suo interesse? E lascia anche un partito, Forza Italia, sui cui destini è più facile scommettere. Una sua personale creatura, una geniale invenzione che nel 1993 si affacciò sulla scena politica sorretta da un marketing senza precedenti, che non può avere eredi, e che quindi morirà con lui al termine di una diaspora per altro già da tempo iniziata. E sulla quale Giorgia Meloni potrà ultimare la sua Opa non ostile concordata con la figlia Marina nei suoi primi giorni di governo.

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Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi nel 1985. (Getty)

La mossa con Fini e lo sdoganamento della destra missina

Per chi ne ha seguito dall’inizio l’irresistibile ascesa, viene in mente anche con una certa nostalgia il Berlusconi del Mundialito, del sole in tasca con cui pretendeva si presentassero i suoi venditori, della capacità di sparigliare la scena politica sponsorizzando Gianfranco Fini come sindaco di Roma e di fatto dando il via allo sdoganamento della destra missina che proprio con l’ingresso di Meloni a Palazzo Chigi ha avuto il suo compimento.

Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi dopo la vittoria nel 2001. (Getty)

Silvio un uomo di folgoranti inizi, ma di mesti finali

Il prima e il dopo nella vita di Berlusconi hanno segnato la biografia del personaggio. I successi imprenditoriali sono innegabili, così come la sua azione dirompente in politica. Se c’è un’osservazione da fare, a caldo, prima che di lui nei prossimi anni si scrivano fiumi di inchiostro, è che è stato un maestro nell’entrare in scena, ma non uno che alla fine è stato capace di uscirvi, quando avrebbe potuto ritirarsi forte della nomea di padre nobile che nessuno avrebbe messo in discussione. Silvio un uomo di folgoranti inizi, ma di mesti finali, impaurito forse dall’idea della morte che ha cercato di arginare non come l’accettazione di un destino che la vecchiaia serenamente impone, ma sciorinando il mito di una eterna giovinezza che il suo inesausto e a volte stonato slancio vitale non ha mai fatto venire meno.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi

«E ora che succede?». È questa la domanda che risuona già nei capannelli di Forza Italia e non solo. Sarà l’interrogativo principale anche a Palazzo Chigi. Sì, perché la morte del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi avrà ripercussioni non solo dentro i confini azzurri, ma anche sulla stabilità dello stesso governo. Lo sa benissimo Giorgia Meloni che con la virata verso FdI impressa nell’ultimo periodo dal coordinatore di Fi Antonio Tajani e dalla compagna di Silvio, Marta Fascina, naturalmente con la benedizione della primogenita del Cav Marina, aveva visto in qualche modo puntellata la sua maggioranza. Adesso senza il leader, lo scenario torna a essere fluido e la stessa Forza Italia corre il serio rischio di spaccarsi. O di scomparire.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Marta Fascina e Silvio Berlusconi nel settembre 2022 (da Fb).

I nodi economici e quelli politici di Forza Italia

Il prezzo che giocoforza paga un partito personale che non ha mai avuto altro leader al di fuori di Silvio. Del resto, è lunga la teoria di delfini che il Cav prima ha osannato e poi messo da parte. Una fine che forse ha rischiato di fare lo stesso Tajani che, nella nuova geografia azzurra, si sarebbe trovato al fianco tre commissari (uno per il Nord, uno per il centro e uno per Sud). Una riorganizzazione che avrebbe dovuto cominciare a vedere la luce sabato ad Arcore, se non fosse sopraggiunto il ricovero improvviso del leader. A tal proposito, le parole di un ex azzurro e ora esponente di Azione come Osvaldo Napoli colgono nel segno: «È certo che lascia un’importante eredità politica, ma non lascia eredi da lui riconosciuti. Con la sua scomparsa si chiude davvero una stagione politica e l’Italia entra in una terra incognita tutta da esplorare». Una terra tutta da esplorare, appunto. Non subito, naturalmente. Adesso è il momento del cordoglio e dell’unità. Ma prima o poi i nodi verranno al pettine. A cominciare da quelli economici, visto che a foraggiare Forza Italia è sempre stato in larghissima parte Berlusconi. Dal 2014 il Cav ha iniettato quasi 100 milioni di euro nelle casse del partito, mentre i figli hanno versato  500 mila euro nel 2022. Una ‘donazione’ necessaria, visto che solo nel 2023 37 parlamentari su 62 hanno pagato la quota. Normale quindi che molti eletti comincino a chiedersi se la famiglia continuerà su questa linea oppure no. Ma sono i nodi politici quelli che scottano di più e che, come detto, rischiano di rendere Meloni meno salda in sella. Tant’è che la premier, nel suo videomessaggio di saluto al Cavaliere, ha provato subito a serrare le fila, toccando le corde dell’emotività: «Con lui l’Italia ha imparato che non doveva mai farsi porre dei limiti, ha imparato che non doveva mai darsi per vinta», ha detto. «Con lui noi abbiamo combattuto, vinto, perso, molte battaglie. E anche per lui porteremo a casa gli obiettivi che, insieme, ci eravamo dati».

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Giorgia Meloni e Matteo Salvini (Getty Images).

L’ala Tajani-Fascina teme il ritorno dei ronzulliani

Per adesso il timone è in mano all’ala Tajani-Fascina-Marina Berlusconi che ha depotenziato l’area vicina a Licia Ronzulli. Non è da escludere però che a breve inizi uno smottamento di azzurri verso la Lega, verso la stessa FdI, ma pure verso Azione e Italia viva. L’attuale capogruppo al Senato ha sempre intrattenuto buoni rapporti con Matteo Salvini. «Se è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo», azzarda una fonte di Fi con Tag43, «non è fantapolitica immaginare che presto Licia, dopo aver subito lo smacco di essere stata allontanata dal cerchio ristretto di Berlusconi, di esser stata defenestrata da coordinatore di Fi in Lombardia e di aver rischiato sabato scorso di perdere anche il ruolo di presidente dei senatori, sposti i suoi sempre più verso la Lega». E con i suoi si intende parlamentari come Alessandro Cattaneo, anche lui vittima dello spoils system targato Fascina, o di Paolo Emilio Russo, da poco sostituito con Danila Subranni a capo della comunicazione azzurra. Senza contare tutti quei forzisti che nel riassetto immaginato ad Arcore avrebbero dovuto rinunciare a ruoli nel partito, dal sottosegretario Giuseppe Mangialavori, coordinatore di Fi in Calabria, al presidente della commissione Affari sociali della Camera, Ugo Cappellacci, coordinatore in Sardegna. Si dirà che questo però non cambia nulla sul fronte della coalizione di maggioranza ed è vero. Ma è altrettanto vero che il peso specifico e di contrattazione di Salvini potrebbe aumentare su battaglie che, invece, non scaldano troppo i Fratelli d’Italia. Vale per l’autonomia, ma vale anche per Quota 100.

La mappa di Forza Italia: chi sta con Ronzulli e chi con Tajani
Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo (da Fb).

I governisti azzurri potrebbero bussare alle porte di FdI

Ben diverso il quadro, invece, se alcuni azzurri decidessero di fare le valigie e traslocare in Azione o Italia viva. Pure il partito di Calenda, in realtà, potrebbe avere un certo appeal dalle parti degli azzurri, potendo far leva sul peso di ex pezzi da novanta di Forza Italia come Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. Scenario che una fonte parlamentare di centrodestra tende però a escludere: «Se Renzi e Calenda parlassero dall’alto di un 10 per cento, questo discorso avrebbe un senso, ma con percentuali tra il 2 e il 3 per cento quale azzurro dovrebbe decidere di fare un salto nel buio?». Un effetto calamita, insomma, Renzi potrebbe suscitarlo solo in una prospettiva di breve periodo e cioè in un’ottica di sostegno all’attuale maggioranza, «ma siamo sicuri», continua la fonte, «che Meloni ci starebbe e non farebbe lei stessa saltare il tavolo per imporsi poi sì con il 30 per cento? Più probabile casomai che se Forza Italia nei prossimi mesi dovesse implodere, l’ala azzurra più governista bussi direttamente alla porta di FdI». Poco male per la tenuta complessiva della maggioranza, anche se suonerebbe come un fallimento dell’effettiva presa sul partito di Tajani…

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell’Ambiente

«La necessità, non più rinviabile, di predisporre una legge nazionale per il contenimento del consumo del suolo è prevista tra le riforme del Pnrr, ma è anche contemplata nel Piano per la transizione ecologica». Con queste parole, pronunciate alla Camera, Gilberto Pichetto Fratin iscrive il suo nome tra i ministri dell’Ambiente che sono intervenuti sul consumo del suolo, un tema che «va affrontato subito» (Gian Luca Galletti, 2015, governo Renzi) ed era giudicato «urgente» già nel 2013 (Andrea Orlando, governo Letta). Nel Paese delle catastrofi naturali (in Emilia-Romagna quello più recente, ma ancora prima Ischia, le Marche, solo per citare gli ultimi territori colpiti) non esiste una legge organica sul consumo di suolo. Al di là del merito della questione, che di per sé è assai complicata perché investe molti piani istituzionali – dal governo centrale alle Regioni e i Comuni – e tocca ancora più interessi, ci si chiede: come è possibile che la politica non riesca intervenire su un tema che da almeno un decennio essa stessa ritiene una priorità?

Ue, sì al regolamento sullo stop alle auto a benzina e diesel: l'Italia si astiene. Pichetto Fratin punta a reintrodurre i biocarburanti tra i combustibili neutri
Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. (Getty)

La «svolta» sul tema doveva esserci già nel 2014…

Questa carrellata dei ricordi, che non vuole essere per nulla esaustiva, potrebbe iniziare da Andrea Orlando, ministro Pd dell’Ambiente tra il 2013 e il 2014. Proprio a inizio 2014 Orlando portò in Consiglio dei ministri una legge sul tema che definì «una svolta per l’uso del suolo nel nostro Paese». Pochi mesi dopo – con la caduta del governo Letta e il passaggio di Orlando alla Giustizia – il dossier finì nelle mani di Maurizio Martina e Gian Luca Galletti, rispettivamente ministri dell’Agricoltura e dell’Ambiente dell’esecutivo Renzi. I due provarono a dare una spinta al disegno di legge che intanto avanzava più che lentamente alla Camera. A novembre 2014, infatti, inviarono una lettera all’allora ministra per i Rapporti con il parlamento, Maria Elena Boschi, chiedendo di accelerare l’esame parlamentare.

Andrea Orlando.

La tragedie recenti e il problema del dissesto idrogeologico

«Il disegno di legge in questione», si leggeva nella lettera congiunta, «rappresenta un passaggio importante e molto atteso al fine di introdurre norme per contenere il consumo del suolo, valorizzare il suolo non edificato, promuovere l’attività agricola che sullo stesso si svolge o potrebbe svolgersi, nonché per perseguire gli obiettivi del prioritario riuso del suolo edificato e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo del suolo inedificato, al fine complessivo di impedire che lo stesso venga eccessivamente “eroso” e “consumato” dall’urbanizzazione. Tali esigenze risultano particolarmente pressanti anche alla luce dei fenomeni di dissesto idrogeologico che sono alla base di numerose tragedie anche recenti». I ministri Martina e Galletti chiedevano, infine, «di voler sollecitare alla presidenza della Camera una rapida conclusione dell’esame del disegno di legge al fine di una sua calendarizzazione in assemblea auspicabilmente prima della fine dell’anno».

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell'Ambiente
L’ex ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. (Getty)

Ddl approvato alla Camera nel 2016, ma impantanato in Senato

Spinte che portarono, effettivamente, a un primo via libera parlamentare nel maggio 2016. «Il disegno di legge sul consumo del suolo è una vera urgenza nazionale: per questo ritengo l’approvazione del testo avvenuta oggi alla Camera un fatto politico di grande rilievo», aveva detto Galletti il giorno dell’ok, auspicando un’approvazione anche al Senato per «superare un problema italiano come il consumo del suolo e insieme aprire nuove opportunità di sviluppo sostenibile». Per il testo, però, Palazzo Madama si trasformò presto in una palude e il ddl finì impantanato.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sta visitando in queste ore l'Emilia-Romagna martoriata dalle alluvioni.
Conselice allagata dopo l’alluvione in Emilia-Romagna. (Getty)

La Meloni ha stanziato 160 milioni di euro dal 2023 al 2027: pochi

Nell’ultima legge di Bilancio, il governo Meloni ha inserito un articolo dal titolo “Fondo per il contrasto del consumo di suolo”. Lo stanziamento ammonta a 160 milioni di euro dal 2023 al 2027. Le risorse sono destinate la rinaturalizzazione di suoli degradati o in via di degrado in ambito urbano e periurbano. Secondo Per Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, si tratta di «nulla che contrasti il consumo di suolo, nulla che fermi la cementificazione che sta uccidendo il Paese. Stanno solo mettendo soldi (e pochi) per “rinaturalizzare” suoli (non si sa come: magari pure denaturalizzando altrove) che un attimo prima erano stati degradati, cosa che, diciamo pure, dovrebbe fare chi li ha inquinati e degradati». Un parere che è stato pubblicato su Altraeconomia.

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell'Ambiente
Sergio Costa, ex ministro dell’Ambiente in quota M5s. (Getty)

Sergio Costa e il solito ritornello del «non c’è un pianeta B»

Insomma, in sette anni poco o nulla si è mosso. Tranne le dichiarazioni. Per dire, di nuovo Orlando qualche mese fa, all’indomani dell’alluvione che ha investito Ischia, è tornato a ripetere che «bisogna fare una legge sul consumo del suolo». E il titolare dell’Ambiente del Movimento 5 stelle Sergio Costa diceva solennemente a fine 2019: «È fondamentale agire ora per arrestare il consumo di suolo. Perché domani potrebbe essere troppo tardi. E non c’è un pianeta B. Mi appello, dunque, alle forze politiche di maggioranza affinché, parallelamente all’iter parlamentare del “Cantiere ambiente”, fondamentale per la messa in sicurezza del nostro Paese dal dissesto idrogeologico, si discuta e si approvi celermente la legge sul consumo di suolo». Ora si è iscritto anche l’attuale ministro. E il flusso delle dichiarazioni scorre.

Meloni, il rapporto col direttore del Corriere Fontana e la rete dei media

Pubblichiamo un estratto del libro I potenti al tempo di Giorgia, edito da Chiarelettere, uscito il 30 maggio e scritto proprio dal direttore di Tag43.it Paolo Madron e da Luigi Bisignani. Il capitolo in questione è quello su “Giorgia e la rete dei media”.

I potenti al tempo di Giorgia, arriva il libro di Paolo Madron e Luigi Bisignani
I potenti al tempo di Giorgia.

La7 procura a Cairo dei mal di pancia, può sempre contare su Luciano Fontana, che gli fa da pontiere come meglio non si può. Il rapporto tra uno dei più longevi direttori del «Corriere della Sera» e la premier è di lunga data e solidissimo. Tra i due messaggi ed emoticon, che lei ama usare à gogo.

Se n’è avuta prova anche di recente, in uno degli inciampi più spinosi che il governo ha dovuto affrontare, il caso dell’anarchico Cospito e le polemiche sul 41 bis. Meloni non è andata a rendere conto in Parlamento, ma ha scritto al «Corriere» per far sapere la sua posizione. Come ha fatto Rachele Silvestri per la fake sul figlio.

Se è per questo, Fontana ha anche dato un’intera pagina a Lollobrigida perché potesse giustificarsi dell’infelice uscita sulla sostituzione etnica, e ha dato ampio spazio ad Arianna per dire che non conosceva la nuova ad di Terna Giuseppina Di Foggia, e ancora alla premier per illustrare la sua posizione sul 25 aprile.

Selvaggia Lucarelli contro il ministro Lollobrigida: «Chiede di lavorare nei campi ma si è laureato dal divano». Il tweet si riferisce alle parole dell'uomo al Vinitaly
Giorgia Meloni e Francesco Lollobrigida. (Getty)

A questo punto Giorgia direbbe: «Noi a Quarto potere je famo ’na pippa».

Cortesia e disponibilità si ricambiano. Quando Berlusconi ha deciso di non candidare la brianzola Michela Vittoria Brambilla alle ultime elezioni, Fontana ha chiesto aiuto a Meloni e lei l’ha piazzata in un collegio sicuro in Sicilia. Nel feudo dove il Cavaliere ha fatto eleggere anche la sua finta moglie Marta Fascina.

Ad accomunarle, per usare un eufemismo, la scarsa frequentazione dell’isola e lo stupore dei locali elettori di trovarsele in lista.

E che c’entra Fontana con la più animalista dei parlamentari, conduttrice di una fortunata trasmissione tivù a difesa dei quattro zampe?

Si dice che sia stata proprio Brambilla, con la quale vanta un’antica amicizia, a portarlo la prima volta ad Arcore a conoscere Berlusconi. E che Fontana abbia ricambiato il favore presentandola a Bernardo Caprotti, il patron di Esselunga, perché la sua azienda ittica potesse trovare spazio tra gli ambiti scaffali dei suoi supermercati. Ma magari sono solo favole metropolitane.

Corsa alla candidatura nel centrodestra: tutti i nomi in lizza
Michela Vittoria Brambilla e Silvio Berlusconi nel 2009. (Getty)

Per Meloni avere il «Corriere della Sera» non pregiudizialmente contro mi pare cosa non da poco. Basterà a farla sentire meno isolata, a mitigare la sindrome di accerchiamento di cui lei e il suo entourage sembrano sempre più soffrire.

Mi verrebbe da dire «lo scopriremo solo vivendo», ma già qualche scenario lo si intuisce. Meloni dovrà stare attenta alle invasioni di campo. Non ti sarà sfuggito che Cairo non ha preso benissimo l’espansione a Milano della famiglia Angelucci, importanti imprenditori della sanità.

Paolo Berlusconi, Antonio Angelucci e il Giornale.

Ma se lo sapevano anche i muri che stavano trattando con Berlusconi l’acquisto del «Giornale»

Sì, ma considerando che la partita andava avanti da tempo in un lungo tira e molla, tutti erano convinti che alla fine il Cav non avrebbe venduto. E invece la costanza e il rapporto personale tra le due famiglie hanno favorito la conclusione dell’affare, suggellata con un pranzo milanese a casa di Marina.

Un segnale dell’indurimento di Cairo è arrivato anche dal rinnovo dei vertici della Fondazione Corriere, uno dei salottini buoni dell’intellighenzia meneghina. Poteva essere l’occasione per mettere dentro qualcuno che strizzasse l’occhio alla destra. Ha scelto De Bortoli, Mieli, Calabi e Mario Monti, che non sembrano meloniani sfegatati.

Milano è una enclave della sinistra, un editore non può non tenerne conto.

Tiriamo le somme. Tra i media su chi può contare Meloni? «Libero», «il Giornale», «Il Tempo», «La Verità», «La Gazzetta del Mezzogiorno», i quotidiani di Riffeser, Mediaset e due telegiornali Rai. E la non ostilità di via Solferino. Fossi in lei non mi lamenterei.

E i giornali di Caltagirone da che parte stanno?

L’ingegnere, col suo fiuto, da tempo ha puntato su Meloni.

Tra i direttori che più fanno opinione, Giorgia ha dalla sua Vittorio Feltri, che si è tra l’altro dimostrato un formidabile acchiappavoti, portandosi dietro un bacino di consensi importante, le due volte che si è candidato con lei. Al punto che nel 2015 Meloni e Salvini lo volevano pure portare al Quirinale.

Emilia-Romagna, il tweet choc di Feltri: «Prima piangono che non piove, poi perché qualcuno annega». Critiche sui social
Vittorio Feltri (Youtube)

Forse la premier deve cercare di essere più inclusiva, di non chiudersi a riccio bollando come reato di lesa maestà quando un giornale scrive un articolo critico nei suoi confronti. Non deve essere difficile, in fondo è giornalista anche lei. Ma ora sta seguendo la massima di Francesco Cossiga, suggerita da Margaret Thatcher: i giornali è meglio non leggerli.

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro

Dai benzinai a Mario Draghi passando per gli scafisti. Fino alla Corte dei conti, l’ultima protagonista di quella che potremmo definire la saga dal titolo È colpa di altri. In questi mesi di governo, infatti, non sono mancati scaricabarili e ‘nemici’ utili per allontanare responsabilità e colpe dal perimetro della maggioranza.

L’emendamento del governo per escludere la Corte dei conti dal controllo sul Pnrr

L’ultimo atto di questa strategia è l’emendamento presentato dal governo al dl Pa che esclude la Corte dei conti dal ‘controllo concomitante’ sul Pnrr, cioè il potere di verifica durante l’attuazione di un piano e non successivamente. In conferenza stampa il ministro per gli Affari Ue, Raffaele Fitto, ha più volte ribadito che non c’è nessuno scontro in atto con i giudici contabili, ma l’esecutivo ha applicato solo le norme e «il regolamento europeo indica chiaramente che la verifica del raggiungimento dell’obiettivo viene fatta tra Commissione Ue e Stato membro, quindi non è una competenza della Corte dei conti». Nonostante i toni felpati del ministro, difficile non leggere nella dinamica in atto una contrapposizione tra poteri dello Stato. Soprattutto dopo che la stessa Corte aveva evidenziato ritardi su alcuni progetti del Pnrr, come sulle colonnine di ricarica delle auto elettriche e sull’idrogeno. Anche perché, è sembrato il sottotesto di Fitto in alcuni passaggi della conferenza stampa, i rilievi della Corte stanno rendendo più difficile la trattativa del governo in Europa sulla revisione del Piano.

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro
Il ministro per gli Affari Ue Raffaele Fitto (da Fb).

I ritardi sul Pnrr? Colpa di decisioni di altri

E non solo. Il ministro è tornato su un altro cavallo di battaglia del governo per giustificare l’attuazione non proprio spedita del Pnrr. «Alcuni elementi di criticità» relativi al Piano «sono oggetto di decisioni precedenti sulle quali noi abbiamo avviato un adeguamento e una correzione degli interventi». Così l’esecutivo è tornato a indicare in Draghi il responsabile delle difficoltà che sta riscontrando il Piano. Non una novità. Già a marzo scorso, infatti, si era registrata tensione tra l’attuale esecutivo e quello precedente. «Molti progetti sono irrealizzabili, non ce la facciamo», aveva sentenziato Fitto. Parecchi osservatori lessero la dichiarazione come un atto d’accusa all’ex premier tanto che i retroscena parlarono di una telefonata riparatoria tra Giorgia Meloni e l’ex banchiere centrale (mai confermata). Vero è, però, che Francesco Giavazzi, consigliere economico di Draghi a Palazzo Chigi, accettò un invito in tv per dire che «chi dice oggi che il Piano è in ritardo non capisce come funziona».

La scelta dei tecnici di governo non sta portando a Draghi i risultati sperati: da Saipem Tim, tempi duri per le aziende strategiche del Paese
Francesco Giavazzi  (Getty Images).

Il dito puntato da Meloni contro i benzinai e gli scafisti, unici bersagli del governo

Normale scaricabarile, si dirà. Giusto. Eppure in questi mesi di scaribarili se ne sono visti parecchi. Come non dimenticare infatti l’accusa ai benzinai di speculare sul prezzo del carburante? Tutto nacque dalla decisione del governo Meloni di non rinnovare lo sconto sulle accise messo in campo da Draghi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina che aveva fatto lievitare, tra l’altro, il costo dei carburanti. Meloni, dopo un primo rinnovo, stoppò la misura, dirottando – legittimamente – quelle risorse ad altre voci di spesa. La conseguenza fu un aumento dei prezzi alla pompa. Una dinamica che portò, però, l’esecutivo ad accusare i distributori di speculare sul prezzo, tanto da spingere Palazzo Chigi a emanare un decreto legge per obbligarli a esporre cartelli con i prezzi medi nella zona di riferimento. Scelta mal digerita dai gestori che proclamarono uno sciopero, in parte poi revocato. Che dire poi dell’immigrazione? Grande cavallo di battaglia della destra pronta a blocchi navali (ricetta FdI) e chiusura di porti (Lega) all’opposizione. Gli ultimi dati disponibili parlano di quasi 50 mila sbarchi da gennaio. Nello stesso intervallo di tempo nel 2022 erano stati 19.550 e nel 2021 ancora meno, 14.700. Nel momento più critico dell’emergenza, segnato dalla tragedia di Cutro che costò la vita a 90 persone, Meloni scelse come bersagli gli scafisti. In un Cdm riunito proprio in Calabria per emanare norme durissime contro chi gestisce i viaggi illegali, la premier disse: «Noi siamo abituati a un’Italia che si occupa soprattutto di andare a cercare i migranti attraverso tutto il Mediterraneo, quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo, perché vogliamo rompere questa tratta».

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro
Giorgia Meloni durante la conferenza stampa a Cutro (Getty Images).

La maggioranza sotto nel voto sul Def a causa del taglio dei parlamentari

E come dimenticare il brutto incidente parlamentare di fine aprile quando la maggioranza finì sotto alla Camera sul voto sul Def? In quel caso, le forze di maggioranza individuarono la responsabilità nel taglio dei parlamentari. «Quello che abbiamo visto è una conseguenza di quella furia iconoclasta che ha portato a un taglio lineare dei parlamentari, senza preoccuparsi del fatto che i ruoli apicali della Camera dei deputati, a differenza del Senato, sono rimasti esattamente gli stessi», attaccò il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. Simile posizione era stata espressa anche dal collega di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, secondo cui «alcuni quorum, funzionali per rendere efficaci le votazioni, che sono stati stabiliti quando questa camera era di 630 componenti, sono rimasti immutati, nonostante la Camera sia stata ridotta a 400 componenti». Non considerando che ovviamente con il taglio dei parlamentari anche i quorum sono stati visti al ribasso (alla Camera da 316 a 201). Di chi sarà la colpa del prossimo capitolo?

Lo spazio di Lettera43 e il tempo mancato per dire addio a Salvini

Questo giornale è stato un felice azzardo. Ringrazio e saluto, con il rimpianto per un giornale che aveva spazio e futuro. Anche per vedere la fine del leader della Lega.

Non so se oggi è l’ultimo o il penultimo giorno di Lettera43, ma preferisco andar via prima dei padroni di casa. È buona creanza.

In questa casa sono stato bene, ho trovato un direttore, Paolo Madron, molto bravo, di larghe vedute, un vero liberale e una redazione che ho sentito come una grande famiglia. Ringrazio anche la segreteria di redazione, in molti casi veramente amichevole.

IL FELICE AZZARDO

Potrei chiudere qui con questi ringraziamenti rivolti, di cuore, verso persone a cui non ho mai stretto la mano e tanto meno dato o ricevuto un abbraccio. Non c’entra la Covid-19, c’entra la particolarità di questo strumento di comunicazione che descrivono freddo ma non lo è.

Io nel giornalismo ho provato tutte le esperienze, i quotidiani, il settimanale, la radio, qualche comparsata in tv ma il giornalismo online mi si è presentato davanti all’improvviso per merito di Jacopo Tondelli, direttore de Linkiesta. Quando Jacopo, con Massimiliano Gallo, lasciò la sua creatura, andai via anche io per solidarietà e poco dopo ricevetti una bella telefonata di Paolo Madron che mi invitava a scrivere su Lettera43.

Pensai che sarebbe stato un azzardo cambiare, ma è stato un felice azzardo perché Lettera43 si è rivelato un giornale vero, con notizie tempestive, commenti puntuali, interazione con i lettori divertenti, urticanti, sempre utili.

AVREI VOLUTO DARE L’ADDIO A SALVINI

Mi sarebbe piaciuto che questa esperienza fosse durata di più. Avrei voluto scrivere una pagina di addio a Matteo Salvini quando sarà fatto fuori dalla Lega che cercherà di riconquistare uno status di partito serio, di governo, internazionalmente stimato. Mi sarebbe anche piaciuto celebrare anche il ritorno a casa di Luigi Di Maio la cui fragilità e mutevolezza di opinioni mi sembrano leggendarie. Pazienza.

Ho la soddisfazione di aver colto tempestivamente la crisi del governo giallo verde e il lento declino del facinoroso che guida la Lega.

Lettera43 nel panorama dell’informazione ha svolto un ruolo prezioso schierandosi, senza fanatismi, per un’Italia seria, aperta alle riforme, occidentale.

QUEI GIORNALI DIVENTATI MICRO PARTITI

L’equilibrio fra giornalismo di carta e giornalismo online, malgrado la crisi in cui questa testata è precipitata, dice che sul medio periodo sarà la carta a lasciare il passo, non a cedere, ma a lasciare il passo ai giornali in Rete. C’è nell’online e in altri forme di comunicazione tecnologicamente avanzate una rapidità, una interrelazione con i fatti, una immediata percezione del rapporto con chi legge che la carta non ha mai realizzato né potrà mai realizzare. Non solo per ragione del tutto evidenti. La carta arriva dopo, ma anche perché i giornali di carta, ancora preziosissimi, sono in Italia micro-partiti politici. Ogni collega, è un “vizietto” anche mio, crede di essere il miglior leader del proprio schieramento. Cosa che a sinistra è riuscita solo a Ezio Mauro e a Paolo Mieli, mentre il mitico Scalfari, pur essendo un numero uno, non ce l’ha mai fatta.

A destra abbiamo molti replicanti di Vittorio Feltri, inarrivabile. È l’unico collega che cerca di apparire più respingente di quanto sia nella realtà, forse. Però sia la Repubblica di Ezio Mauro, sia il giornalismo tutto intero quando era egemonizzato da Paolo Mieli, sia il giornalismo feltrizzato appartengono a un’era che si sta esaurendo.

LO SPAZIO DI LETTERA43

Nel centro sinistra si vedono le tracce di questa crisi con la vicenda dell’estromissione di Verdelli a favore di un giornalista-senatore come Molinari. A destra non è visibile ancora perchè la pancia della destra e i suoi pensieri ribollono. Ma la destra, se non sceglie la strada della eversione (che non sceglierà), a un certo punto taglia le sue ali, e l’effetto di un mondo pieno di Trump, di Johnson, di Bolsonaro e Orban si rivelerà fragile perché tutti loro danno risposte a problemi che la loro cultura ha creato e perché nessuno di loro, o tutti loro in gruppo, non valgono la furbizia della classe dirigente cinese. E questo, da occidentale, non mi fa piacere.

Lo spazio per Lettera43, come si può capire da queste parole, secondo me c’era. Non l’ha pensata così l’editore. Spero solo che questa conclusione non disperda le qualità umane e intellettuali di una redazione di serie A. Questa sarebbe colpa grave.

Arrivederci a
tutti e grazie.

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La Lega porta dentro la Camera l’odio contro Silvia Romano

Il deputato Pagano ha definito la cooperante liberata dopo 18 mesi di prigionia nelle mani di al Shabaab una “neo terrorista”. Proteste da Pd e M5s. Fico: “Parole inaccettabili”.

Non sono bastati giorni di insulti sui social, ora le offese e le ingiurie nei confronti di Silvia Romano, la cooperante liberata dopo 18 mesi nelle mani di al Shabaab, sono risuonate persino dentro la Camera dei deputati. Il deputato della Lega Alessandro Pagano l’ha infatti definita Silvia Romano “la neo-terrorista”.

PD, M5s, FICO E CARFAGNA CONTRO LA LEGA

Pagano è stato ripreso dalla vicepresidente Carfagna, cosa che non ha impedito vivaci proteste di molti deputati. Il Pd ha chiesto che la Lega chieda scusa. Il M5s ha definito gli insulti vergognosi. E il presidente Roberto ha definito quelle di Pagano “inaccettabili parole di odio”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha commentato: “In questi giorni letto e ascoltato cose raccapriccianti”.

LE FORZE DELL’ORDINE CONTRO GLI ODIATORI

Intanto a Milano, dove il pm ha aperto un’inchiesta dopo la campagna d’odio sul web verso la ragazza, prosegue il passaggio di pattuglie di forze dell’ordine lungo la via dove si trova l’abitazione della cooperante liberata dopo 18 mesi.

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Con l’accordo sui migranti via libera al decreto Rilancio

Intesa sulle regolarizzazioni di colf e braccianti per sei mesi. Alle 14 il consiglio dei ministri che deve dare il via libera a 10 miliardi per la cig, sei alle pmi, quattro per il taglio Irap. Tutte le novità.

Con l’accordo sulle regolarizzazioni, arriva il decreto Rilancio da 55 miliardi, per il quale è previsto in consiglio dei ministri alle 17. Dieci miliardi per la cig, 6 alle pmi, 4 per il taglio dell’irap, 6 per le pmi, 5 a sanità e sicurezza, 2,5 per turismo e cultura, 2 alla messa a norma delle attività. La ministra dell’Agricoltura Bellanova: un permesso di lavoro di 6 mesi per milioni di persone, ha vinto la dignità, ora tutele. La ministra dell’Interno Lamorgese: dignità a colf e braccianti, garantire legalità ed esigenze del mercato del lavoro.

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Serve un governo e questo non lo è

Basta chiacchiere su migranti, Mes e mascherine. Se Conte non è capace di fare un salto di qualità, deve saltare e lasciare il posto.

L’Italia, sempre ma soprattutto nel tempo del Covid, ha bisogno di un governo. Quali caratteristiche deve avere questo governo? Deve essere innanzitutto autorevole. L’autorevolezza non significa il consenso bulgaro, ma che il governo sappia comandare la macchina dello stato, sappia prendere decisioni tempestive, indichi ai cittadini i comportamenti che in fase di emergenza si possono temere o no, sappia guidare il sistema regionale, dia agli imprenditori prospettive serie in tempi stabiliti, sappia alleviare le sofferenze dei più poveri.

BASTA CON LE CHIACCHIERE

Queste cose le può fare un governo di sinistra o di destra. A scelta vostra, io ovviamente ho la mia scelta. Non è necessario che questo governo abbia applausi o like sui social, l’importante è che faccia. Una volta Cuore fece l’elenco delle correnti del Pci, che ufficialmente non esistevano, e ne indicò una a guida Gerardo Chiaromonte, storico leader riformista, che aveva come nome “Basta con le chiacchiere”. Ecco: basta con le chiacchiere. Con quelle sui migranti, sul Mes, sulle mascherine ecc. ecc.

UNA SITUAZIONE DI PERICOLO, A PARTIRE DA SILVIA ROMANO

Senza un governo con queste caratteristiche diventa difficile anche la cosa più semplice e si discute di stupidaggini ogni giorno che dio manda in terra. I giornali di destra stanno massacrando la povera Silvia creando attorno a lei una situazione di pericolo che merita di essere vigilata. Un governo serio, in via informale, suggerisce alla prefettura di Milano di non perdere tempo nel darle la tutela. Magari il conto lo mandiamo a Feltri.

SULLE MASCHERINE SI MUOVA IL MINISTRO DEGLI INTERNI

Mancano la mascherine? Oppure ci sono nei depositi delle regioni? Il ministro degli Interni scateni l’inferno e trovi le mascherine e se 0,50 non è remunerativo per i farmacisti (e non lo è) si stabilisca un prezzo equo.

Il Mes, basta con le chiacchiere appunto, chissenefrega delle opinioni dei 5 stelle. Più parlano, più l’Italia appare un debitore inaffidabile.

ORGANIZZAZIONI CRIMINALI IN PIENA FASE 3

E poi occhio a quel che succede nel grande mondo della piccola e media distribuzione: usurai, finanziamenti fasulli ad esercizi per riciclare denaro sporco. Anche le organizzazioni criminali sono uscite dal letargo della Fase 1 e sono in piena Fase 3.

Queste
cose ed altre le può fare un governo vero.

Soprattutto una deve fare. Abbiamo sempre saputo qual era la collocazione internazionale dell’Italia. Ora invece c’è chi tira per Putin e chi per la Cina. L’innamoramento cinese è trasversale. Dovremmo essere, invece, europeisti e atlantisti. Invece siamo tornati una Italietta che si è messa sul mercato. Uno squallore prima che un errore.

O CONTE FA IL SALTO DI QUALITÁ O DEVE SALTARE

Questo governo che servirebbe con tutta evidenza non è il governo Conte. Penso che il premier abbia fatto cose che altri suoi sodali giallo verdi non avrebbero mai fatto. Ha avuto alle spalle un partito generoso, il Pd. Ora non basta più. Ora serve un salto di qualità, o lui fa il salto o deve saltare e lasciare il posto a un altro.

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Pandini lascia la Lombardia e Gallera torna alle dirette

Il portavoce di Salvini, inviato a Milano per aggiustare gli incidenti comunicativi di Fontana e dell’assessore al Welfare, è rientrato a Roma. Ma c’è chi è convinto che mancherà molto.

Dopo circa un mese Matteo Pandini, portavoce di Matteo Salvini, molla la presa su Regione Lombardia per tornare a occuparsi del segretario e dei gruppi parlamentari della Lega a Roma.

Era arrivato agli inizi di aprile dopo una serie di incidenti comunicativi che saranno ricordati nella storia politica di una regione devastata dall’emergenza Covid-19. Come non ricordare la celebre immagine del governatore Attilio Fontana che non riesce a mettersi la mascherina. Oppure Giulio Gallera, che durante le sue dirette era capace di dire tutto e il contrario di tutto.

Pandini era arrivato per mettere in ordine le cose. E proprio le dirette erano scomparse dopo il suo arrivo. Ci aveva messo la faccia Salvini. L’ex ministro dell’Interno era entrato dalla porta principale della Regione per invertire una rotta comunicativa che continuava a far perdere punti nei sondaggi alla Lega. Ma adesso Pandini se ne va. Torna a Roma. L’emergenza del resto pian piano inizia a scemare un po’ in tutta Italia. Caso vuole che, pronti via, neanche 24 ore di tempo e si è rifatto vivo proprio l’assessore Gallera, scomparso dopo una raffica di figuracce in diretta. L’esponente di Forza Italia, che si dice punti alla poltrona di sindaco di Milano nel 2021, torna stasera, dopo un mese in esilio. Torna nelle dirette di Lombardia notizie, quelle che ai lombardi non mancavano molto. C’è già chi è convinto che Pandini mancherà molto.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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I nodi da sciogliere nel decreto Rilancio

Regolarizzazione dei lavoratori immigrati, bonus vacanze, tutela delle banche. La maggioranza è ancora divisa su alcune delle misure.

Manca ancora un accordo di fondo sul tanto atteso decreto Rilancio, già decreto aprile e decreto maggio. Le misure che valgono 55 miliardi di euro devono essere ancora “limate” visto che tra i partiti di maggioranza restano distanze su alcuni nodi.

LEGGI ANCHE: Le misure contenute nel decreto Rilancio

IL BRACCIO DI FERRO SULLA REGOLARIZZAZIONE

Il primo riguarda la regolarizzazione degli immigrati che lavorano come braccianti, colf e badanti (circa 500 mila persone) su cui si sta consumando il braccio di ferro tra M5s e Pd. I pentastellati hanno alzato le barricate contro ogni tipo di sanatoria. Nella serata di lunedì il ministro all’Economia Roberto Gualtieri e fonti del Pd avevano assicurato che la norma arriverà in cdm, come concordato già domenica notte. Nel testo, spiegano i dem, «sono stati inseriti una serie di vincoli per accogliere le obiezioni M5s, inclusa l’esclusione di ogni sanatoria per chi sia stato condannato per reati come il caporalato: non si può continuare a discutere all’infinito». Al premier Giuseppe Conte, dicono le stesse fonti, spetterà una mediazione.

CRIMI: «NO A SANATORIA DEI REATI PER CHI DENUNCIA LAVORO IRREGOLARE»

Mediazione che si prospetta tutta in salita visto che il capo politico del M5s Vito Crimi ha ribadito: «Purtroppo l’ultima bozza visionata ieri sera riporta ancora la sanatoria dei reati per chi denuncia un rapporto di lavoro irregolare. L’auspicio di trovare una soluzione positiva rimane, continuiamo a lavorare con spirito collaborativo per questo obiettivo. Ma resta fermo che sul punto non arretreremo di un millimetro». E ha aggiunto: «Chi ha sfruttato le persone e ha drogato i mercati usando manodopera in nero a basso costo eludendo contributi e tasse, non può farla franca». Anche Conte tira diritto per la sua strada: «Regolarizzare per un periodo determinato immigrati che già lavorano sul nostro territorio significa spuntare le armi al caporalato, contrastare il lavoro nero, effettuare controlli sanitari e proteggere la loro e la nostra salute tanto più in questa fase di emergenza sanitaria».

BANCHE E BONUS VACANZE

Ma non è finita qui. Ad agitare il percorso del decreto in casa M5s anche il tema della tutela delle banche, norma che prevede garanzie statali per sei mesi dal valore di 15 miliardi. Italia viva invece punta i piedi sul bonus vacanze riservato, nei piani, alle famiglie con un Isee fino a 50 mila euro. I renziani sarebbero per destinare i 2 miliardi direttamente agli imprenditori che, invece, sarebbero costretti ad anticipare il bonus ai clienti in cambio di un credito di imposta a fine anno.

LEGGI ANCHE: Il governo dà l’ok alle Regioni: riaperture differenziate dal 18 maggio

LE REGIONI CHIEDONO 5,4 MILIARDI

Infine resta il nodo degli enti locali. I presidenti di Regione hanno chiesto un impegno economico maggiore degli 1,5 miliardi stanziati nel decreto: ne servono 5,4.

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È tutto sulle spalle del Pd. Zingaretti ora dica basta

Il segretario non deve confondere la tradizione di responsabilità del partito con la vocazione al sacrificio. Morire per Crimi o perdere la fiducia degli italiani a causa delle incursioni di Salvini non vale la pena. È il momento di dettare all’alleato M5s le condizioni per proseguire. Altrimenti un bel vaffa si vada al voto.

La cronaca politica quotidiana e soprattutto la sua lettura nel tempo ci dicono che c’è una minoranza politica, un partito di governo e il suo mondo elettorale e no, che portano sulle palle un intero Paese e fanno da sponda a quella parte di Italia che non vuole morire.

La cronaca politica quotidiana e soprattutto la sua lettura nel tempo ci dicono che c’è una minoranza politica, un partito di governo e il suo mondo elettorale e no, che portano sulle palle un intero Paese e fanno da sponda a quella parte di Italia che non vuole morire. Questa parte politica e questo suo elettorato non sono premiati dai sondaggi che, invece, indicano come vi sia una maggioranza favore di chi con la crisi sta giocando e mettendo a rischio la comunità nazionale.

Il partito è il Pd che deve fronteggiare quotidianamente un premier vanesio e scattante su qualsiasi nomina pubblica e un alleato di governo cialtronesco che si muove come una variabile impazzita su tutto lo scacchiere politico-sociale.

ANDREBBE APPLICATA LA “DIPLOMAZIA DEL VAFFA”

Non si capisce perché questo partito responsabile e il suo elettorato debbano farsi carico di una componente così irresponsabile. D’altro canto all’opposizione ci sono due forze di cui una torna a vivere le suggestioni di uno scontro frontale in una guerra senza limiti agli avversari politici, alle istituzioni, alla convivenza civile e un’altra attratta dalle proprie urla nel timore di perdere quel vantaggio che i sondaggi le stanno dando. La domanda è semplice. Fino a che punto è utile che il Pd e la sua gente si facciano carico di questa situazione? Non è arrivato il momento di applicare quella aurea “diplomazia del vaffa”, chiudere baracca e burattini, e fare al Paese un discorso di verità?

LA LEGA E IL DISASTRO LOMBARDO

Il discorso di verità non è lungo, anzi lo è ma è sintetizzabile con esempi lampanti. C’è un partito di opposizione che ha sottratto soldi allo Stato ma che pretende di fare il giustiziere di sprechi altri. Questo partito aveva una classe dirigente periferica fra buona e eccellente. Il giudizio non è cambiato solo se sottraiamo dal calcolo i governanti della principale regione d’Italia, la Lombardia. I dati del Covid-19 ci dicono che il caso italiano non sarebbe così clamoroso se la Lombardia fosse stata guidata da persone serie e non da due incapaci.

IL M5S BLOCCA OGNI INIZIATIVA PER SALVARE IL PAESE

C’è dall’altro canto un inutile partito di governo che ha un leader provvisorio che è più ridicolo di chi l’ha preceduto e che blocca ogni iniziativa tesa a salvare il Paese. La sanatoria per i migranti impegnati in agricoltura, prima di essere un atto di giustizia, è una necessità per l’impresa agricola. La discussione sul Mes è diventata infantile e cialtronesca. La corsa alla prima scena, da parte di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio all’arrivo di Silvia Aisha è stata indecente. Si può continuare e si vedrà che si inanellano episodi di malgoverno, di approssimazione, di cialtroneria dilagante che giustificano una scelta di rottura da parte del Pd o almeno un suo discorso solenne al Paese in cui si denunciano questi avversari e questi alleati e si indicano le condizioni tassative per proseguire. Altrimenti si vada verso il governo del presidente e poi verso il voto.

IL SENSO DI RESPONSABILITÀ NON È VOCAZIONE AL SACRIFICIO

L’esasperazione che corre veloce nelle vene del Paese rischia di essere canalizzata contro chi sta tenendo in piedi la baracca. Il livello morale e di responsabilità delle forze indicate sta tutto negli editoriali di Vittorio Feltri e dei suoi seguaci giornalisti, una versione italiana della setta del reverendo Moon con annesso istinto suicida collettivo. Rischia di arrivare un momento in cui la fragile barriera costituita da un partito debole ma di volenterosi come il Pd crollerà su se stessa. Nicola Zingaretti è stato bravo finora, al netto delle sue titubanze e malgrado la malattia che lo ha per un certo periodo fermato. Tuttavia il leader del Pd non può scambiare la tradizione di responsabilità che “viene da lontano” nella vocazione al sacrificio. Morire per Vito Crimi? Consegnarsi alle contumelie dell’ex compagno di Daniela Santanchè? Perdere la fiducia degli italiani per le incursioni di un ex giovane politicante con il vizio del moijto? Ma dai.

LEGGI ANCHE: Ora salviamo Silvia Romano da Feltri e Sallusti

Anche la storia della liberazione di Silvia si presenta con una discussione demenziale. La domanda vera è se questa liberazione poteva essere ottenuta quando vicepremier era il noto “cazzaro verde” risparmiando sofferenze alla ragazza e se non sono venuti dal leghista input a non darsi troppo da fare per portare la ragazza qui da noi. Troppi moralisti non dicono la verità agli italiani. Io non voglio salire in cattedra, collocazione che non mi appartiene. Vorrei semplicemente suggerire a Zingaretti and company di mettere l’orologio su un giorno e un’ora precisa e arrivato quel momento scatenare l’inferno.

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Ora salviamo Silvia Romano da Feltri e Sallusti

Gli attacchi sui social e i titoli dei giornali salviniani contro la cooperante liberata portano a due considerazioni. La prima è che ci sono italiani con cui non si può prendere neppure il caffè. La seconda è che finché questi energumeni non saranno al governo nel nostro Paese ci sarà ancora speranza

Alcune, in verità forse centinaia, reazioni sui social e i titoli dei giornali salviniani portano a due considerazioni.

La prima è che ci sono concittadini con cui non si può prendere neppure il caffè.

La seconda è che finché si riuscirà ad avere governi, belli o brutti, che non siano guidati da questi energumeni l’Italia sarà sempre il Paese della speranza.

LA CRUDELTÀ DI MEDIA E OPINIONE PUBBLICA

Mi auguro che i genitori, finita la quarantena, portino Silvia Romano lontano. Molti ex rapiti si sono allontanati sia fisicamente sia dai media per non esser sottoposti a un trattamento da parte di una fetta della opinione pubblica che, per crudeltà, assomiglia a quella dei suoi rapitori.
Noi che restiamo e che siamo felici per Silvia e che vogliamo sapere di lei quello che lei avrà voglia di dirci, dovremo convivere con italiani, nostri vicini di casa, nostri concittadini, “nostri” insomma, da cui vorremmo tenerci lontani e che ci fanno schifo.

NON C’È PIÙ LIMITE ALLA SCONCEZZA

Sarà che invecchiando ho un ricordo edulcorato del passato e anche degli scontri politici del passato, mi riferisco a quelli verbali perché gli altri, che spero non tornino, fanno orrore, ho in mente le cosacce che ci dicevamo non solo noi comunisti contro i fascisti e viceversa, ma anche gli improperi che i democristiani ci lanciavano contro essendo essi stessi nel nostro tiro. Il salto di qualità negativo di questa nostra stagione è che non sembra esserci limite alla sconcezza. La gara è a chi la spara più grossa. La cosa non riguarda solo il caso di Silvia. Persino un giornalista relativamente moderato come Stefano Zurlo mette o accetta che sia messo in capo a un suo articolo un titolo in cui si dice che questo governo colpisce gli imprenditori e favorisce i mafiosi.

LA SINISTRA HA SOTTOVALUTATO LA DEGENERAZIONE

Da anni non c’è un limite all’offesa politica e la sinistra giustizialista (quella che si è angosciata per lo scontro Bonafede-Di Matteo) porta una grave responsabilità per aver corroso la vita pubblica con la distruzione sistematica e personale di qualunque avversario, anche dell’ex amico. Si può tornare indietro? No. Ricostruire una nuova umanità è impresa pressoché impossibile a meno che nelle nuove generazioni non nasca un sentimento in cui passioni anche controverse siano unite dalla voglia di convivenza. Le colpe della sinistra, perché la sinistra ha delle colpe, ha sempre delle colpe e preferisco dirle io piuttosto che lasciare questo terreno ad altri, è di aver sottovalutato questa degenerazione che in parte nasceva anche al proprio interno. Non si è aperta una battaglia culturale ad alzo zero contro chi praticava la violenza verbale, si trattasse di Umberto Bossi o del giornalista legato alle procure. Via via questo corso d’acqua si è fatto limaccioso, è diventato impetuoso, ha fatto nascere partiti politici che oggi raccolgono gran parte del voto degli italiani.

SILVIA ORA DEVE DIFENDERSI DA FELTRI, SALLUSTI & CO

Silvia nella sua generosità, nella sua ingenuità in questo mondo è tornata. È sempre un mondo migliore di quello dei suoi rapitori, ma non sarà il mondo della sua serenità. Quella dovrà procurarsela da sé, perché, dopo essersi difesa dai rapitori, ora dovrà difendersi da Vittorio Feltri, Alessandro Sallusti e accoliti.

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Revoca concessione Autostrade, Zingaretti: «Si decida sulla base del merito»

Il segretario del Pd torna sul tema caro al M5s. Toti attacca il governo: «Il Mit è assente da tanto tempo: nessuno controlla».

Il governo è ancora diviso sulla revoca della concessione ad autostrade. Se il Movimento 5 stelle è compatto sul “sì” ed Italia viva sul “no”, il Pd non ha ancora preso una posizione netta. Il segretario Nicola Zingaretti, dall’Abbazia di San Pastore nel Reatino, dove si svolge una due giorni dem con ministri e parlamentari in vista della verifica di governo, ha dichiarato: «il governo, Conte e i ministri approfondiscano questo argomento e poi si decida sulla base del merito. In uno Stato di diritto si fa così».

TOTI ATTACCA IL GOVERNO: «AUTOSTRADE? IL MIT È ASSENTE DA TANTO TEMPO»

Intanto, sempre sullo stesso argomento, il presidente della regione Liguria Giovanni Toti ha detto la sua: «Vedo che continua un dibattito sul ritiro della concessione a Aspi sì, ritiro della concessione, ad Aspi ritiro no. Mi permetto di sottolineare che a Bergamo è caduto un altro calcinaccio da una galleria e non mi pare fosse in concessione, era gestita da Anas. Se si tolgono le concessioni, vorrei capire: chi gestisce le autostrade? Mi sembra – ha aggiunto Toti – che il governo annaspi senza dare delle risposte. Se ci sono le condizioni, si ritirino le concessioni, ma ieri è crollato qualcosa anche in una galleria di Anas e alcune persone sono morte lungo la strada statale per Lecco perché è crollato un ponte di Anas. Il presidente della Liguria ha anche attaccato il governo, in particolare il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti: «Finora le concessionarie autostradali si sono auto-controllate per un lunghissimo periodo di tempo ma nessuno al Mit ha controllato. Già a ottobre – ha continuato Toti – avevo chiesto alla Direzione generale delle concessioni del Mit di avere notizie sulla situazione della gallerie in Liguria e francamente nessuno mi ha risposto. In Liguria dei controlli se ne sta facendo carico la Procura, che però non è un organismo ispettivo del Governo. Il Ministero è assente da tanto tempo».

BUFFAGNI ATTACCA AUTOSTRADE: «NON SI PUÒ FARE CASSA SULLA SICUREZZA DEI CITTADINI»

Anche il governo è intervenuto sull’ipotesi di revoca della concessione ad autostrade. «Queste persone – ha detto il vice ministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni – hanno gestito talmente male l’azienda che un ponte è caduto. Le responsabilità verranno accettate dalla magistratura ai fini penali, ma ai fini manageriali e gestionali credo che il problema sia conclamato. Un governo serio come il nostro, indipendentemente dal partner con cui stiamo al governo, deve garantire che i cittadini possano viaggiare sicuri perché paghiamo una marea di soldi di autostrade che, secondo noi sono sovradimensionati. A me interessa che questa azienda che ha una concessione pubblica, o chiunque la avrà, garantisca la sicurezza. Non si può fare cassa sulla sicurezza dei cittadini».

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Nomine Rai, l’ad Salini formalizza le proposte in vista del cda

Stefano Coletta alla guida di Ra1 e Intrattenimento prime time, Ludovico Di Meo alla direzione di Rai2, Cinema e serialità, mentre a Silvia Calandrelli tocca Rai3 e Cultura. Ecco tutti i nomi.

L’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini ha formalizzato le proposte di nomina dell’azienda, in vista del cda in programma per il 14 gennaio 2020. Stefano Coletta alla direzione di Rai1 e dell’Intrattenimento di prime time, Ludovico Di Meo alla guida di Rai2 e della direzione Cinema e serialità, Silvia Calandrelli a Rai3 e alla direzione Cultura, Franco Di Mare all’Intrattenimento del day time, Angelo Teodoli al Coordinamento generi, Duilio Giammaria ai Documentari, Eleonora Andreatta alla direzione Fiction, Luca Milano alla direzione Ragazzi.

LEGGI ANCHE: I veti incrociati tra M5s e Pd bloccano le nomine Rai

NEW FORMAT, APPROFONDIMENTO E DISTRIBUZIONE

Per i New Format si farà il job posting, mentre sarà assegnata in seguito la direzione Approfondimento. Alla guida della Distribuzione, altra figura chiave prevista dal piano industriale, sarà indicato Marcello Ciannamea.

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Basilicata|Basilicataonline.com, Nicola Orsi, il manager che supporta Orsini nella corsa al dopo Boccia

Vicino a Cl e all’ex ministro Maurizio Lupi, è lui che ha convinto il numero uno di Federlegno Arredo a scendere in campo per la presidenza di Confindustria. Nonostante il tiepido supporto del suo territorio: l’Emilia-Romagna.

Si chiama Nicola Orsi ed è il direttore dei rapporti istituzionali, a livello nazionale come a livello comunitario, di FederlegnoArredo, l’associazione di categoria di cui è presidente Emanuele Orsini, uno dei candidati alla presidenza nazionale di Confindustria.

Vicino a Comunione e Liberazione Orsi è da sempre uomo dell’ex ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi (ex Forza Italia, ora deputato nel gruppo Misto, cui toccò di dimettersi da ministro per lo scandalo relativo a Ercole Incalza che coinvolse suo figlio), che l’ha voluto membro del Consiglio Generale di Fondazione Fiera Milano.

E anche segretario generale della fondazione di Lecco “Costruiamo il Futuro” che Lupi presiede e che ha come soci fondatori oltre 100 esponenti del mondo imprenditoriale, artigianale, culturale, liberi professionisti e amministratori della provincia di Lecco e di Monza e Brianza. 

L’INVENTORE DELLA CANDIDATURA DI ORSINI PER IL DOPO BOCCIA

Orsi è l’inventore della candidatura di Orsini alla successione di Vincenzo Boccia. È lui che ha convinto il suo presidente a mettersi in gioco, nonostante (ma dall’entourage dell’interessato si afferma il contrario) il tiepido supporto del suo territorio – l’Emilia-Romagna non ha ancora deciso su quale dei diversi candidati andare – spiegandogli che in tutti i casi avrebbe comunque guadagnato un posizionamento d’immagine molto più di quello che la presidenza di Federlegno (dal 2017) e il Salone del Mobile finora gli hanno dato. 

L’APPOGGIO DEL MONDO CIELLINO

Orsini, 46 anni, titolare di una piccola impresa, la Sistem Costruzioni di Solignano Nuovo in provincia di Modena, che progetta e realizza case e edifici in legno su misura, è molto supportato dal mondo ciellino. È grazie a esso, per esempio che a suo tempo ha avuto, unitamente al personale impegno di Fabrizio Palenzona, la nomina a vicepresidente – oggi è presidente – di Unicredit Leasing. 

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BASILICATA | www.basilicataonline.com,Versamenti e restituzioni: i conti dei partiti

Con lo Spazzacorrotti le donazioni sono pubbliche. Anche quelle dei parlamentari. Ma tra polemiche, scissioni e cambi casacca non tutti sono puntuali con i pagamenti. E spesso si tratta di big: da Renzi a Bossi.

Il Movimento 5 stelle ha chiuso l’anno con la polemica sulle restituzioni. Tra chi si è messo in regola all’ultimo istante e chi invece sarà sottoposto al giudizio dei probiviri, il tema tiene banco. «L’85% dei parlamentari è in regola con le restituzioni ai cittadini», hanno fatto sapere i capigruppo cinque stelle di Camera e Senato Davide Crippa e Gianluca Perilli, annunciando l’avvio dei procedimenti per chi non è in regola. Ma la questione non riguarda solo i pentastellati: anche gli altri partiti fanno spesso i conti con le somme che i parlamentari dovrebbero versare alle rispettive tesorerie. E talvolta in primo piano ci sono nomi di peso, come insegna la vicenda dell’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, che si è scontrato con il Pd, suo ex partito: a fine 2017 l’allora tesoriere Francesco Bonifazi gli aveva fatto notificare un decreto ingiuntivo per recuperare oltre 80 mila euro. Ma ci sono esempi più recenti, da Matteo Renzi a Umberto Bossi. 

LEGGI ANCHE: Le sfide del 2020 su cui il governo si gioca la sopravvivenza

Lettera43.it ha infatti esaminato i documenti sui sostenitori delle forze politiche: con il cosiddetto Spazzacorrotti ogni partito deve pubblicare i nomi, parlamentari compresi, di chi fa una donazione maggiore di 500 euro. E qualsiasi partito chiede almeno quella cifra.

IL PD CHIEDE 1.500 EURO AL MESE

Le situazioni più critiche sono legate a strappi politici. Da quanto si legge sul sito del Pd, alla sezione “trasparenza“, Renzi ha fatto un solo versamento nel 2019: è di 6.500 euro e risale al 25 febbraio. Il Pd chiede ai suoi parlamentari di destinare alle casse del partito 1.500 euro al mese: l’ex presidente del Consiglio, almeno fino a novembre (e da quanto risulta sul file pubblico), ha quindi saldato poco più di quattro quote, nonostante fosse un esponente dem fino ad agosto. Nel documento, poi, il nome di Maria Elena Boschi ricorre una sola volta per un contributo, dell’11 settembre scorso, pari a 6 mila euro, un quadrimestre esatto. L’ex ministra ha però sempre ribadito di essere «in regola con i pagamenti».

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Matteo Renzi, leader di Italia viva.

ITALIA VIVA…GIÀ AD AGOSTO

Nell’agosto del 2019, quando Italia viva non era stata lanciata ufficialmente, Renzi ha versato 10 mila euro sul conto della nascente creatura politica. Anche Boschi, con due diverse donazioni (una da mille euro e un’altra da 500) ha dato un contributo di partenza a Iv per un totale di 1.500. Una quota che ha coperto un intero trimestre: il minimo di versamento richiesto dal partito renziano è infatti di 500 euro. Singolare è invece il caso accaduto con l’attuale viceministra dell’Istruzione, Anna Ascani: continua a destinare con precisione la sua quota al Pd, ma ad agosto ha optato per una doppia contribuzione. Una ai dem e un’altra, sempre da 1.500, proprio a Iv. Ascani è tra le renziane che hanno preferito non lasciare il Pd: così dall’estate scorsa non risultano altri versamenti a Italia viva.

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Matteo Salvini.

I CONTI DELLE DUE LEGHE

I parlamentari della Lega danno un sostegno importante: 3 mila euro. Cifra decisamente alta che, secondo quanto si è lasciato sfuggire il senatore Ugo Grassi (ex M5s), servirebbe «per contribuire alla progressiva restituzione dei 49 milioni di euro». Per risalire alle donazioni occorre consultare due diversi documenti: quello della Lega Nord e l’altro della Lega per Salvini Premier. Il vecchio Carroccio conta pochi aficionados tra i deputati e senatori: nei vari mesi ricorrono nomi di peso come l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, il senatore di lungo corso, Roberto Calderoli, e l’ex sottosegretario all’Economia, Massimo Garavaglia. Sono loro, insieme a un altro sparuto gruppo di sostenitori, a rimpinguare le casse della vecchia Lega. Un’ampia maggioranza di leghisti, invece, contribuisce al rafforzamento economico del nuovo partito, quello tutto a trazione salviniana. In entrambi i casi, stando a quanto pubblicato ufficialmente sui siti, il leader storico, Umberto Bossi, non figura tra i contributori. C’è solo il suo omonimo, il senatore Simone Bossi.

LE DIFFICOLTÀ DI FORZA ITALIA

Da tempo Forza Italia è alle prese con ristrettezze economiche, tanto che il tesoriere, Alfredo Messina, ha dovuto far sentire la propria voce lo scorso anno. «Pagare è un obbligo morale, chi non paga deve capire che è un inadempiente, non si deve sentire un furbo», ha tuonato, spiegando di dover stare dietro a tutti per ottenere la quota mensile che nel caso degli azzurri ammonta a 900 euro al mese. Il documento sui contributi, che si ferma a novembre, riporta che l’ex ministro Renato Brunetta ha fatto un solo bonifico, ad aprile, di 3.600 euro, a copertura del primo quadrimestre. Plausibile che arrivi un altro maxi pagamento a saldo del resto, visto che predilige soluzioni “uniche”. Anche l’ex leader dell’Ugl ed ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini è ferma al primo ottobre con un contributo che però ha coperto il mese di settembre, in cui non figurano versamenti. Il deputato Osvaldo Napoli ha invece dato il suo ultimo contributo il 30 luglio (per coprire agosto), mentre la collega a Montecitorio Daniela Ruffino è ferma al 27 giugno. Un altro deputato, Sestino Giacomoni, ha versato in totale per il 2019 solo due quote, entrambe a ottobre. Un quadro complicato per gli azzurri, che però fa in parte tirare un sospiro di sollievo: secondo Messina solo una parte residuale è indietro con i versamenti.

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Cari ex Pci, su Craxi continuate a sbagliare

Il leader socialista è stato capro espiatorio di un sistema politico. A 20 anni dalla sua morte, bisognerebbe avere il coraggio di riconoscerne la statura.

Ho visto ieri sera
Hammamet di
Gianni Amelio
. Lo davano in due sale dello
stesso cinema, tutte e due piene. È
un gran film, girato con mano leggera da un regista attento e padrone
del suo tempo con attori formidabili, non solo Pierfrancesco
Favino
, eccezionale, non solo Renato
Carpentieri
e Omero
Antoniutti
o il soffertissimo Vincenzo
Balzamo
di Giuseppe
Cederna
, ma anche la formidabile Livia
Rossi
nel ruolo difficile di Stefania
Craxi
.

FUORI DALLA DAMNATIO MEMORIAE

“Un gran bel film” è
una osservazione da spettatore, neppure particolarmente cinefilo che
non può sfuggire, tuttavia, alla valutazione politica del lavoro di
Amelio. Un primo risultato il regista e i produttori Agostino
e Maria Grazia Saccà
l’hanno raggiunto
togliendo il dibattito su Craxi dal
politichese
o peggio ancora dalla damnatio
memoriae
. Quando tanti spettatori vanno
al cinema per vedere un film come questo, non vuol dire solo
ricatturare l’attenzione di vecchi socialisti e di antichi
comunisti, ma tornare a parlare a un pubblico che non ha creduto che
la storia italiana sia cominciata con Beppe
Grillo
e Matteo
Salvini
.

NON RISOLVE IL “CASO CRAXI”

Il film tuttavia non
risolve, né poteva, il “caso Craxi”. È
probabile che chi sia entrato nella sala cinematografica con un
pregiudizio favorevole al leader Psi lo abbia visto confermato. È
credibile che altri abbiano mal digerito l’autodifesa strenua che
Craxi fa di sé e alcuni commenti ascoltati in sala a fine
proiezione fanno pensare che molti anti-craxiani siano rimasti tali.
Tuttavia non credo che Amelio, che non conosco, né Agostino e Maria
Grazia Saccà, che non conosco, volessero con il film dare una svolta
alla lettura della vicenda umana e politica di Bettino Craxi.
Volevano semplicemente raccontare una storia
dura
, complessa, una tragedia
italiana
, con le parole e con il punto di
vista della “vittima”.

hammamet-craxi-2

IL PUNTO DI VISTA DELLA VITTIMA

Perché di questo si
tratta: Hammamet
racconta il punto di vista della vittima. Uso questo termine
deliberatamente perché i vent’anni che ci separano dalla sua morte
restituiscono appieno al leader socialista il ruolo di capro
espiatorio di un sistema politico
e
l’obiettivo di una magistratura che si rivelò, anche in quella
occasione, totalmente priva di umanità. Craxi è un
uomo malato
, che si è rifugiato nella sua
casa tunisina e che combatte perché la sua storia non diventi storia
criminale. Chiama gli altri partiti politici alla comune
responsabilità del finanziamento illegale. È
incazzatissimo con i comunisti o ex che, secondo lui, si sono
avvantaggiati delle azioni di una procura che li aveva risparmiati.
Si ribella ai compagni di partito, c’è un netto riferimento a
Giuliano Amato, che
non lo difendono. Sia Craxi sia Moro, anni prima, hanno la netta
consapevolezza che la loro fine potrebbe travolgere non solo partiti,
non solo il sistema politico, ma modificare le basi stesse della
democrazia. Così è stato. Ma non se ne discute. Il “caso Moro”
viene chiuso nella rassegnazione di una fine inevitabile e nel
dibattito successivo (il solito) su quanto Stato ci sia dietro gli
assassini. Nel “caso Craxi” c’è l’ottusità di chi non vuole
uscire dal circuito mediatico-giudiziario.

LA FINE DEI SOCIALISTI

Lasciamo perdere Moro,
ora. Il “caso Craxi” porta alla luce poche cose molto chiare. I
socialisti dopo la morte del loro capo si sono dispersi
,
molti sono diventati combattivi militanti di destra. Nel loro
orizzonte la storia del Psi inizia e finisce col leader più
discusso, al punto che sono rare i dibattiti sull’intera e
grandiosa storia socialista italiana. Per tantissimi socialisti il
“caso Craxi” è la conferma dell’odio reciproco con i
comunisti. Dall’altra parte abbiamo la cultura, e oggi la classe di
governo, giustizialista che con i “casi Craxi” ha trovato la
legittimazione per creare movimenti politici, per arrivare al governo
del Paese, dando il peggio di sé, come si vede quotidianamente. Nel
mio mondo, quello ex comunista, alcuni hanno fatto sforzi
per restituire a Craxi la dignità del grande capo politico

(dispiace molto che i socialisti e la famiglia Craxi tuttora non
dicano una parola sui tentativi di Massimo
D’Alema
, allora premier, e di molti suoi
“seguaci” di portare Craxi in Italia senza l’offesa della
carcerazione e delle manette). Tuttavia questi ex
comunisti “revisionisti”
hanno parlato
solo a se stessi nel timore che l’anima
antisocialista e anticraxiana
, molto forte
negli ex Pci, potesse ribellarsi.

L’UOMO TORNA AL CENTRO

Il film aiuta invece
questo processo. Aiuta a rimettere al centro l’uomo Craxi e il suo
discorso politico. E aiuta a fare gesti esemplari. Avevo proposto che
un gruppo di ex dirigenti dell’ex Pci si recasse ad Hammamet
nel ventennale anche scontando l’eventuale
immorale presenza di Salvini
. Alcuni
dirigenti socialisti hanno chiesto a Zingaretti
di capeggiare una delegazione del Pd
. Perché
tanto silenzio? Perché accettare quest’ultimo ricatto dei perdenti
della storia, cioè il mondo giustizialista e grillino, e rifiutare
di fare i conti con un uomo, un partito, le sue idee, i suoi errori,
l’orrore di una morte annunciatissima. Perché, mi chiedo, noi che
siamo stati comunisti dobbiamo, vent’anni dopo, farci rinchiudere nel
recinto di una cultura antipolitica
guidata da procure e da giornalisti? Deve emergere un punto di vista
della politica che, sulla base di una seria ricostruzione – attendo
di leggere il libro di Fabio Martini
–, possa avviare una riconciliazione fra
tutte le sinistre
dove non ci siano più
figli di un dio minore, uomini di malaffare, puri senza macchia.

hammamet-craxi

LO SPESSORE UMANO DELLA POLITICA

Il “caso Craxi” non si
chiuderà mai e non si deve chiudere mai. Il film ci parla anche
dello spessore umano che dovrebbe avere la
politica
. Noi stiamo vivendo anni atroci in
cui l’avversario non è solo nemico ma un
“oggetto” che deve essere annichilito
.
Chi ha visto il film capisce quanto dolore si crea, quando dolore si
sparge (quel gruppo di gitanti ad Hammamet che insultano Craxi),
quando ci allontaniamo da una società veramente civile.

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Perché la Segre ha dato forfait all’invito di Salvini

Il leghista la voleva a un convegno sull’antisemitismo a Roma. La senatrice a vita ha rifiutato per gli impegni milanesi in occasione della Giornata della memoria. Non risparmiando una frecciatina: «Tema altrettanto importante è il razzismo».

Tra Liliana Segre e Matteo Salvini proprio non scocca la scintilla politica. Dopo le polemiche di fine 2019 con tutto il centrodestra sull’istituzione della discussa Commissione anti-odio, ora la senatrice a vita è stata invitata dal leader della Lega al convegno “Le nuove forme dell’antisemitismo” in programma il 16 gennaio a Palazzo Giustiniani a Roma. Ma lei ha rifiutato perché «impegnatissima» tutto il mese a Milano con le iniziative per il Giorno della memoria (lunedì 27 gennaio).

FRECCIATA SUL RAZZISMO

Nella sua garbata risposta a Salvini, la Segre ha detto di apprezzare «l’iniziativa sull’antisemitismo, un problema che si riaffaccia virulento nelle cronache del nostro tempo in tanti Paesi d’Europa e del mondo intero». Però ha anche avvertito che è un tema che non va separato da quello del razzismo. Una frecciata all’ex ministro dell’Interno? Proprio per il suo impegno a non far dimenticare l’Olocausto, lei che fu deportata nei campi di concentramento, la Segre è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e in seguito le è stata assegnata la scorta per le minacce ricevute via social.

ASTENSIONE DELLA LEGA SULLA COMMISSIONE

A novembre si parlò di una visita privata tra la senatrice a vita e Salvini – con tanto di figlia al seguito – anche se poi il segretario della Lega smentì. Adesso la senatrice auspica alla collaborazione nella Commissione parlamentare contro l’odio che lei ha fortemente voluto e che presiederà, istituita nonostante l’astensione del Carroccio nella votazione al Senato: «Confido che il vostro convegno potrà dare un contributo in questo senso e che anche nella Commissione contro lo hate speech deliberata dal Senato».

Matteo Salvini. (Ansa)

Salvini ha preso atto replicando: «La capisco, la ringrazio per la risposta. Sarà una bellissima giornata in cui lanceremo dentro e fuori il parlamento una grande campagna in difesa di Israele perché nel 2020 gli antisemiti, quelli che odiano Israele, non possono essere compresi nel contesto civile, quindi i nemici di Israele sono miei nemici».

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Conte e il vertice con Sarraj per recuperare la faccia

Dopo la gaffe diplomatica di aver ricevuto prima Haftar, il premier prova a rimediare: «Non abbiamo agende segrete, l’unica opzione è politica». Il leader riconosciuto dall’Onu: «Sì al cessate il fuoco, ma la parte che attacca si ritiri».

Dopo il flop diplomatico dell’Italia che aveva ricevuto a Roma il generale della Cirenaica Khalifa Haftar prima del premier libico Fayez al Sarraj, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha cercaro di rimediare incontrando per quasi tre ore a Palazzo Chigi proprio il leader del governo riconosciuto dalle Nazioni unite.

«NON ABBIAMO AGENDE NASCOSTE»

Conte ha provato così a rimediare alla gaffe: «L’Italia ha sempre linearmente, coerentemente lavorato per una soluzione politica, per contrastare l’opzione militare, ritenendo l’opzione politica l’unica prospettiva che possa garantire al popolo libico benessere e prosperità. Non abbiamo altri obiettivi, non abbiamo agende nascoste».

«COSTERNAZIONE» PER L’ATTACCO DEL 4 GENNAIO A TRIPOLI

Basterà? Conte ha anche aggiunto: «Ho rappresentato con forza questa posizione anche al generale Haftar, al quale ho espresso tutta la mia costernazione per l’attacco del 4 gennaio 2020 a Tripoli all’accademia militare. Posso garantire che l’Italia continuerà a lavorare in modo convinto e determinato a sostegno del popolo libico, per offrire tutte le garanzie per un futuro di pace, stabilità e benessere».

«LIBIA POLVERIERA, STOP AD ARMI E INTERFERENZE»

Il capo del governo italiano si è detto quindi «estremamente preoccupato per l’escalation in Libia», visto che «gli ultimi sviluppi stanno rendendo un Paese una polveriera con forti ripercussioni, temiamo, sull’intera regione». Per Conte dunque bisogna «assolutamente fermare il conflitto interno e le interferenze esterne».

«L’UNIONE EUROPEA È LA MASSIMA GARANZIA»

Inoltre l’Italia si è detta pronta ad adoperarsi «sempre più per un coinvolgimento ancor maggiore dell’Unione europea perché siamo convinti che questo intervento offra la massima garanzia di non rimettere le sorti future del popolo libico alla volontà di singoli attori. L’Ue è la massima garanzia che si possa offrire oggi all’autonomia e all’indipendenza del popolo libico».

SARRAJ: «HAFTAR NON SEMBRA DISPONIBILE AL RITIRO»

Sarraj dal canto suo ha risposto così: «Accogliamo con piacere l’iniziativa di Russia e Turchia per un cessate il fuoco e sempre disponibili ad accogliere qualsiasi tipo di iniziativa possa andare in questa direzione. La condizione è il ritiro della parte che attacca, che non sembra disponibile a ciò» perché ha un altro modus operandi. Poi parole di riconciliazione con il nostro Paese: «Ho avuto modo di apprezzare il ruolo dell’Italia in questo dossier».

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