Grillo, il tacito rinnovo del contratto con il M5s e le frecciatine a Conte

Tra maggio e giugno ben tre volte nella Capitale. Per Beppe Grillo, che a lungo era rimasto defilato, si tratta di un vero e proprio ritorno sulla scena politica. Ma è fuori strada chi pensa che questo attivismo sia figlio della querelle sul contratto di consulenza per la comunicazione siglato ad aprile 2022 e scaduto a maggio tra il garante e il M5s. Sì perché, a quanto apprende Lettera43, non c’è nessun accordo da chiudere e il motivo è molto semplice: la precedente intesa è stata stipulata con la clausola del “tacito rinnovo”. Il che significa anche, però, che non esiste neppure alcun termine temporale. Potrebbe protrarsi ad libitum? Non proprio, in realtà. Al nostro giornale viene infatti spiegato che «come ogni contratto, si regge sul consenso di entrambe le parti». Per il momento, comunque, il fondatore del Movimento può dormire sonni tranquilli, visto che neppure l’entità economica ha subito o subirà ritocchi. Una cifra che dovrebbe aggirarsi intorno ai 300 mila euro, sebbene non abbia mai trovato chiare conferme dal partito di Giuseppe Conte. Grillo dunque continuerà a essere il testimonial del M5s, il che prevede, come da accordi, la promozione di campagne e «strategie digitali», oltre alla produzione di contenuti audio e video. Ma anche l’organizzazione di eventi e iniziative politiche. Sia in Italia sia all’estero dove è prevista la partecipazione a convegni, tavole rotonde e «a incontri con personalità scientifiche e istituzionali».

Grillo, il tacito rinnovo del contratto con il M5s e le frecciatine a Conte
Beppe Grillo sul palco della manifestazione romana del 17 giugno (Imagoeconomica).

La polemica sulle «brigate di cittadinanza»

Non è stata dunque di “ansia da rinnovo” a dettare le ultime uscite del comico genovese alla manifestazione Cinque stelle organizzata sabato 17 giugno a Roma contro la precarietà del lavoro. Semmai ansia da prestazione. Anche se le polemiche, con l’Elevato che si è ripreso la scena, non accennano a placarsi. Tanto che si è dovuto piegare, non una ma ben due volte, a correggere il tiro. Segno dei tempi visto che il blog di Beppe in questi anni ha sempre fatto proseliti pure per i suoi post spesso sibillini e aperti a molteplici interpretazioni. Dopo l’appello alle «brigate di cittadinanza» con tanto di «passamontagna», infatti, il garante M5s ha prima postato una foto su Instagram di un uomo mascherato e t-shirt griffata Movimento e corredata da commenti per circoscrivere il senso delle sue parole in piazza («Brigata ‘Riparazione panchine’» e «Restiamo in attesa delle brigate dei tombini e dei marciapiedi») e poi ha diffuso un video con l’invito, seppure ironico, a fermarsi tutti: «Era una boutade», ha spiegato Grillo. «È possibile che prendiate tutto sul serio?».

Grillo torna a lanciare frecciate a Conte: cambio di leadership all’orizzonte?

Questa volta però il tema non è tanto prendere sul serio o meno Grillo, anche perché il comico ligure non è nuovo a sparate, quanto interrogarsi sulla ratio di queste sortite. Escluse le ragioni economiche, come detto, restano quelle più politiche che rimandano ai rapporti sempre altalenanti tra Beppe e il presidente pentastellato Giuseppe Conte, tema collegato, secondo alcuni, persino a un futuribile cambio di leadership. Una prospettiva che, in caso di flop alle Europee, lo stesso Elevato potrebbe in cuor suo auspicare. Il retropensiero si fa largo soprattutto tra i contiani di ferro. In diversi non hanno difficoltà, seppure off the record, a masticare amaro di fronte «all’ennesimo tentativo di gettare ombre su Conte» andato in scena sabato scorso. E il riferimento neanche tanto velato è a quella stoccata – «Raccogliete i progetti e mandateli a Conte. Conte prima o poi li capirà» – da parte del fondatore della chiesa dell’Altrove. Qualcuno non esclude che Grillo stia «preparando il terreno per spianare la strada a una leadership diversa, soprattutto se dopo le Amministrative pure il risultato delle Europee sarà deludente». E i nomi più gettonati sono quelli delle due ex sindache: «Raggi e Appendino, si sa», ragionano, «hanno sempre avuto il pieno sostegno del garante. Senza contare che sono grilline della prima ora e che potrebbero raddrizzare la barra». Una tesi che però tra i Cinque stelle che conoscono bene il fondatore si tende a escludere: «Non c’è nessuno più lontano di Beppe dalle strategie di palazzo. Non è proprio nella sua natura», replicano a Lettera43. Salvo poi aggiungere: «Potrebbero essere tesi messe in circolazione perché fanno comodo a qualcuno». A chi, al momento, non è dato saperlo. Ma si tratta comunque di affermazioni che aprono uno squarcio rispetto all’immagine di granitica compattezza che l’ex premier ha voluto e vuole assolutamente dare del Movimento, soprattutto dopo l’addio dei dimaiani e la fine del quotidiano controcanto al leader ai tempi del governo Draghi. Ma questo è un altro capitolo e, come è noto, nel M5s ogni giorno ha la sua pena.

Salvini e le contraddizioni sul codice stradale, tra velocità e tolleranza zero

Molti slogan “di pancia”, sulla scia dell’ultima tragedia della strada, qualche misura annunciata e rimangiata, in generale parecchia confusione. Non si capisce bene quale sia la linea politica del ministro dei Trasporti Matteo Salvini in tema di sicurezza stradale. Il leader della Lega aveva appena parlato di inasprimento del codice della strada, con pene esemplari per chi guida in stato d’ebrezza e regole ferree per i neo-patentati. Anche perché non poteva certo farsi scappare la possibilità di commentare, sull’onda emotiva dello sdegno generale, l’incidente mortale che ha visto coinvolti gli youtuber TheBordeLine a Casal Palocco. Ma intanto il Capitano ha aperto anche all’idea che il limite di 130 chilometri orari possa essere eliminato, su alcune tipologie di strade. Nonostante l’eccesso di velocità sia, secondo uno studio Aci/Istat, la terza causa di incidenti dopo le distrazioni alla guida e il mancato rispetto di una precedenza o di un semaforo. E soprattutto è il principale responsabile dei sinistri più gravi, spesso fatali. Secondo i dati della polizia stradale, dei 70.554 incidenti del 2022, 1.362 sono stati mortali, con 1.489 vittime, 28.914 persone con lesioni e 42.300 feriti. Numeri in aumento rispetto al 2021. Non è la prima delle contraddizioni di Salvini, che sul tema è già scivolato altre volte.

Matteo Salvini ha annunciato di voler alzare il limite di 130 km/h
Matteo Salvini presente ai funerali di Silvio Berlusconi (Getty).

Salvini vuole regole rigide, ma anche aumentare il limite di velocità

In un’intervista su Radio24, Salvini ha affermato di essere «convinto che su alcune tratte italiane a tasso di incidentalità prossimo allo zero, in alcuni orari, laddove ci sono tre, quattro o addirittura cinque corsie un superamento controllato degli attuali 130 chilometri orari come negli altri Paesi europei possa essere preso in considerazione». Al di là del riferimenti all’Europa, dove soltanto Bulgaria e Polonia hanno limiti in alcuni casi fissati a 140 km/h, l’idea pare cozzare con quanto detto più volte e ribadito, poche ore dopo, anche al Tg1: «Serve educazione stradale, ma serve anche tolleranza zero per chi sbaglia. Quindi revoca della patente per chi è recidivo, guidando drogato o ubriaco. E per i neopatentati l’impossibilità di guidare auto di grossa cilindrata per i primi tre anni e la sospensione della patente per chi viene trovato alla guida mentre usa il telefonino».

Salvini nel 2013 twittava: «Assenzio, limoncello e ora… sereni al volante»

E proprio sulla revoca della patente per chi viene trovato alla guida in stato d’ebrezza si registra un altro scivolone. Salvini nel 2013 twittava, dopo una «gran serata coi Fratelli Leghisti», qualcosa che lasciava intendere come lui stesso si fosse messo alla guida dopo aver bevuto: «Ginepro, assenzio, limoncello e ora… sereni al volante con Vasco! Liberi liberi siamo Noi!!!». Un tweet che oggi, dopo 10 anni, risulta incoerente con le posizioni prese, come gli è stato contestato già nel novembre 2022. In quell’occasione Salvini ha annunciato di essere «al lavoro sui codici» per cambiare le regole dopo la strage avvenuta in Emilia-Romagna, quando in un incidente automobilistico morirono tre bambini e una giovane donna di 22 anni. 

Il caso delle targhe alle biciclette: prima l’annuncio, poi il dietrofront

Ma non è finita, perché in tema di viabilità e sicurezza, Salvini ha recentemente annunciato alla Camera di voler presentare un «pacchetto che interverrà anche sulla mobilità dolce, sulle due ruote, prevedendo casco, assicurazione, targa e freccia obbligatorie per monopattini e biciclette». Poi, dopo 48 ore di polemiche e allarmi lanciati dalle varie associazioni, lui stesso ha smentito sul giornale Libero, dicendo che «qualcuno ha giocato a fare confusione». Salvini ha spiegato che «targhe, frecce, casco, assicurazioni e limiti di velocità sono per i monopattini, non per le biciclette». Un dietrofront in piena regola. E pensare che nel 2015, con un altro tweet, definiva «matti!» i membri del Partito democratico, dopo che «un senatore ha proposto di mettere targa, e di far pagare il bollo, anche a proprietari di BICICLETTA».

Matteo Salvini ha annunciato di voler alzare il limite di 130 km/h
Matteo Salvini durante Assarmatori 2023 (Imagoeconomica).

Il futuro di Mario Draghi tra politica e ruoli di alto profilo

Non c’è modo migliore che far sentire una presenza se ci si dedica a coltivare la propria assenza. Sembra diventata questa la regola cui obbedisce Mario Draghi, uno che anche quando da presidente del Consiglio era sotto i riflettori cercava di spegnerli. E non c’è modo migliore che far sapere di essere fuori dalla vita pubblica per creare le condizioni per potervi ritornare. Da quando non è più a Palazzo Chigi, l’ex premier e governatore della Banca centrale europea ha limitato uscite pubbliche e interventi. Fa eccezione la doppia apparizione, doverosa, ai funerali di Silvio Berlusconi e Flavia Franzoni, moglie di Romano Prodi che però, come in precedenza alle esequie romane di Benedetto XVI, non è stata accompagnata da esternazioni. Solo che a volte il silenzio dice più delle parole, come proprio lo stesso Draghi ha dimostrato dopo l’uscita dalla Bce. Cui seguì un lungo silenzio rotto in rare occasioni, come la celebre lettera al Financial Times del marzo 2020 sulla «guerra» al Covid-19, che letta col senno di poi fu la premessa della sua chiamata alla guida del governo.

Dei fedelissimi, solo Cingolani allineato con Meloni

Ma l’averlo visto se pur silente di nuovo in pubblico ha rinfocolato gli interrogativi: cosa ha in mente oggi Draghi? Davvero ha detto basta a politica e ruoli istituzionali o invece lui e i suoi lavorano al grande ritorno? L’inner circle che tra il 2021 e il 2022 ha blindato governo e apparati di Palazzo Chigi ha preso strade diverse: lo si trova in banche, aziende, ruoli nella pubblica amministrazione. Pochi di loro, primo fra tutti il neo amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, in sinergia col governo Meloni. La maggior parte in aperta divergenza, a testimoniare la presenza di uno Stato profondo legato agli apparati di potere che trovano in Draghi un punto di riferimento, che non ha certo legittimato il “destra-centro” conservatore e con venature sovraniste.

Il futuro di Mario Draghi tra politica e ruoli di alto profilo
Roberto Cingolani (Imagoeconomica).

Giavazzi fulmina Giorgia sullo scaricabarile del Pnrr

A volte i Draghi boys esternano, e si intuisce che esprimono una posizione ampiamente condivisa con il loro ispiratore. Aveva iniziato a marzo 2023 Francesco Giavazzi, ex super consulente economico di Palazzo Chigi, oggi dominus della Scuola di amministrazione della Bocconi, fulminando Meloni e i suoi per lo scaricabarile sui ritardi sulla messa a terra del Piano nazionale di ripresa e resilienza: «Chi parla di ritardi del Pnrr non sa come funziona», ha tagliato corto il professore, per altro rimbrottato su Repubblica dal duo BoeriPerotti, ossia due suoi colleghi bocconiani.

Il futuro di Mario Draghi tra politica e ruoli di alto profilo
Francesco Giavazzi (Imagoeconomica).

Funiciello e il manifesto che è un’antitesi del melonismo

Ha proseguito, velatamente, Antonio Funiciello, neo Identity manager di Eni dopo esser stato capo di gabinetto di Draghi, pubblicando la dotta requisitoria sulla leadership “Leader per forza”, fondata sulla narrazione di una visione del potere capace di anticipare i cambiamenti per governarli, fautrice di pragmatismo e scelte anti-conflittuali. Un manifesto che da Mosè ad Angela Merkel propone esempi vicini e lontani, letto come un’antitesi all’attuale melonismo di governo.

Il futuro di Mario Draghi tra politica e ruoli di alto profilo
Antonio Funiciello (Imagoeconomica).

Garofoli, che bocciatura alla riforma della giustizia

Last but not least, è sceso in campo Roberto Garofoli, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio e figlio del partito dei grand commis del Consiglio di Stato, di cui è presidente di Sezione. Sua la decisione di bocciare la madre di tutte le riforme proposte da Meloni, quella che in materia di giustizia abroga di fatto il reato di abuso d’ufficio.

Il futuro di Mario Draghi tra politica e ruoli di alto profilo
Roberto Garofoli (Imagoeconomica).

Anche Giugliano nel “partito draghiano” che si muove

Un fuoco di fila che mostra come i protagonisti della stagione draghiana non intendano garantire analoga e simmetrica lealtà a Meloni, che per un anno e mezzo è stata brava e disciplinata scolara dall’opposizione. Salvo poi giocare allo scaricabarile sul suo predecessore. Cosa che ha irritato non poco Draghi e i suoi. Civis Draghianus Sum è la parola d’ordine con cui i protagonisti del fu governo d’unità nazionale stanno tornando in pista ai più alti livelli della società civile e dell’impresa. Ultimo ad aggiungersi a questa lista è Ferdinando Giugliano, già portavoce a livello internazionale, speech writer e consigliere di Draghi, di recente approdato in Unicredit come responsabile delle attività di advocacy e public affairs. Insomma, se non è un “partito” draghiano – termine che l’ex governatore della Bce, forse pensando all’infausta esperienza di Mario Monti con Scelta civica, ha sempre disdegnato – poco ci manca.

Il futuro di Mario Draghi tra politica e ruoli di alto profilo
Ferdinando Giugliano (Imagoeconomica).

L’ambizioso discorso al Massachusetts Institute of Technology

E se c’è un manifesto del “Draghi-pensiero” per il post Palazzo Chigi lo si ritrova nel discorso tenuto il 7 giugno al Massachusetts Institute of Technology, in occasione del conseguimento del Premio Miriam Pozen. Un discorso definito da molti kissingeriano, di schietto realismo, di riconoscimento delle tare e dei limiti del sistema globalizzato, di esibita aderenza politica euro-atlantica. Un discorso-manifesto che pone di fatto come prioritaria per il Paese la necessità di un’autorevole e profonda visione su scala internazionale. Oltre, chiaramente, a evidenziare in filigrana quali possano essere le grandi ambizioni dell’ex premier e governatore che, nel breve periodo, non possono avere a che fare con incarichi nel settore privato o ambizioni nell’agone politico nostrano. Draghi ha deciso di volare alto. Problemi globali, di sfide a tutto campo: Intelligenza artificiale, inflazione, transizione energetica, sfida delle autocrazie. Nella consapevolezza che «i singoli Paesi europei, per quanto forti siano, sono troppo piccoli per padroneggiare queste sfide da soli. E più queste sfide sono grandi, più il cammino verso un’unica entità politica, economica e sociale, seppur lungo e difficile, diventa inevitabile. Il nostro viaggio che è iniziato molti anni fa, ed è accelerato con la creazione dell’euro, sta continuando».

Il futuro di Mario Draghi tra politica e ruoli di alto profilo
Mario Draghi (Imagoeconomica).

Un futuro da conferenziere ed editorialista, ma non solo

Draghi ha contezza dei «nostri tempi difficili. Ma i tempi non sono mai stati facili. Sono arrivato qui nell’agosto del 1972. Mentre ero uno studente, abbiamo avuto la guerra del Kippur, diversi shock petroliferi, il crollo del sistema monetario internazionale, il terrorismo imperversava in tutto il mondo e l’inflazione era fuori controllo, solo per citare alcuni eventi di quel tempo e naturalmente eravamo nella Guerra fredda». Da qui può esserci la fine del ciclo del Draghi di potere e l’inizio di quello del Draghi teorico di virtù e miserie dell’economia globalizzata? Forse. Dunque ci si può aspettare nel futuro prossimo un Draghi conferenziere, editorialista, narratore dei grandi scenari di sistema. Interprete insieme del posizionamento dell’Italia sulla scena internazionale e di ciò che i suoi alleati occidentali le chiedono.

Colle, Commissione Ue, Nato: le partite che interessano a Super Mario

Ciò non toglie che la politica sia un capitolo chiuso. L’ex premier è abile nel non chiedere mai ciò che vorrebbe, ma di farselo offrire. Vedi la vicenda Quirinale, che però ha visto frustrate, anche per suoi errori di strategia, le sue aspettative di insediarsi al Colle. Il 2024 sarà l’anno del rinnovo della Commissione europea e della segreteria della Nato. Emmanuel Macron, Joe Biden, Olaf Scholz e gli altri big dell’Occidente non possono che pensare con favore a un ritorno in pista di Super Mario. E il banchiere divenuto premier è nome spendibile per entrambi i ruoli. In quest’ottica, la logica di schierare il suo “partito” trasversalmente costringerebbe Meloni, con cui i rapporti sono attualmente molto freddi per non dire inesistenti, a prendere in considerazione la sua figura, di cui però potrebbe aver bisogno come sorta di testimonial nella sua campagna tesa a spostare gli assetti politici dell’Unione europea. Che poi Draghi accarezzi ancora l’idea del Quirinale non v’è dubbio, ma la rielezione di Sergio Mattarella colloca l’ipotesi molto avanti nel tempo.

Elezioni Regionali Molise 2023: data, candidati, liste e come si vota

I cittadini del Molise sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente della Regione più i 20 consiglieri regionali. Tre i candidati alle elezioni regionali: Francesco Roberti (centrodestra); Roberto Gravina (centrosinistra) e, infine, Emilio Lizzo, candidato indipendente. La lista della Democrazia Cristiana, con alla carica di governatore l’ex ministro Elisabetta Trenta, era stata esclusa dalla corsa alla candidatura per decisione del Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso presentato dal partito dopo una prima bocciatura arrivata dal Tar Molise. Saranno in totale 15 le liste in campo e ben 284 i candidati alla carica di consigliere per Palazzo D’Aimmo.

Nelle giornate di domenica 25 e lunedì 26 giugno, i cittadini del Molise voteranno per eleggere il presidente regionale e i venti consiglieri.
Schede elettoriali (Getty Images).

Le liste dei candidati alle elezioni regionali 2023 in Molise

Tre candidati, tre sfidanti per le elezioni del presidente del Molise: il candidato del centrodestra, Francesco Roberti, ingegnere e docente di Elettronica presso l’I.I.S.S. Ettore Majorana di Termoli, si presenta con la lista Roberti presidente per il Molise. A sostenerlo politicamente vi saranno Lega Salvini premier, Unione di centro, Fratelli d’Italia, Forza Italia, Popolari per l’Italia, il Molise che Vogliamo e Il Molise in buone mani-Noi moderati. Per il centrosinistra, Roberto Gravina, avvocato e sindaco di Campobasso dal 2019, si candida con la lista Gravina Presidente 2023, risultato di un’intesa tra il M5S, Costruire democrazia, Molise democratico e socialista, Alleanza verdi-sinistra italiana, Partito democratico e Gravina presidente Progresso Molise. Emilio Izzo, attivista, è invece il terzo candidato indipendente con la lista Movimento politico di salvezza pubblica «Io non voto… (i soliti noti)».

Come si vota alle regionali in Molise

I seggi per l’elezione del presidente della Regione del Molise e dei venti consiglieri resteranno aperti dalle 7 alle 23 di domenica 25 giugno e dalle 7 alle 15 di lunedì 26 giugno. Non è ammesso il voto disgiunto né il ricorso al ballottaggio. La coalizione del presidente eletto avrà diritto ad almeno 12 seggi. In materia di soglie di sbarramento, saranno escluse dalla ripartizione dei seggi, la o le liste collegate a un candidato presidente con meno dell’8 per cento dei voti e le liste in coalizione che abbiano ottenuto meno del 3 per cento dei voti.

Beppe Grillo ironizza sulle polemiche: «Hanno visto un uomo aggiustare tombini in passamontagna»

Beppe Grillo torna sulle brigate di cittadinanza, dopo le polemiche del fine settimana scorso e le parole pronunciate sabato sul palco di Roma, durante la manifestazione del Movimento 5 stelle. Con il consueto sarcasmo, il comico e cofondatore del partito, ha invitato tutti alla calma: «Per favore, fermatevi. Era una boutade. Ma è possibile che prendete tutto sul serio?». Il riferimento è alla frase che ha scatenato le critiche: «Volete il leader, ma siate i leader di voi stessi. Fate le brigate di cittadinanza, mettete il passamontagna e di nascosto andate a fare i lavoretti, mettete a posto marciapiedi, aiuole, tombini. Fate il lavoro e scappate. Reagite!». Parole che i suoi avversari politici, tanto dall’area di centrodestra quanto dal Terzo polo, hanno utilizzato per attaccarlo.

Beppe Grillo ha parlato di «brigate di cittadinanza» sabato 17 giugno 2023
Beppe Grillo si rivolge alla folla durante la manifestazione del 17 giugno 2023 (Imagoeconomica).

Grillo ironizza: «Visto un idraulico pensionato che aggiustava i tombini»

Grillo, che attualmente ha il ruolo di Garante all’interno del Movimento 5 stelle, ha risposto alle critiche scherzando: «Voglio dire: fermatevi, perché mi sono arrivate delle notizie drammatiche veramente. È stato avvistato un pensionato di 74 anni, un idraulico che stava aggiustando sei tombini di notte con un passamontagna. Fermatevi! Un albanese di 64 anni con cazzuola ha messo a posto otto marciapiedi durante la notte con il passamontagna. Non si può andare avanti così. Fermatevi. Ci vuole anche una legge: il governo deve reagire. Deve fare una legge. Abolire l’abuso d’ufficio e mettere l’abuso di lavori socialmente utili. Finitela, siate coerenti con voi stessi, con il governo e con la politica. Smettetela perché sennò scoppia veramente un casino ottimale».

Conte lo ha difeso: «Le sue parole strumentalizzate»

Nelle scorse ore, anche il leader del Movimento 5 stelle, l’ex premier Giuseppe Conte, ha commentato la vicenda difendendo Grillo: «I media mainstream hanno provato a ignorare la piazza di Roma, strumentalizzando una frase del discorso tenuto da Beppe Grillo sul palco di chiusura. Una frase estrapolata dal suo contesto e criminalizzata perché, accarezzando il gusto del paradosso, incitava i presenti a indossare il passamontagna per compiere non già azioni violente, bensì pacifiche e utili per la propria comunità».

Beppe Grillo ha parlato di «brigate di cittadinanza» sabato 17 giugno 2023
Giuseppe Conte e Beppe Grillo durante la manifestazione (Imagoeconomica).

Beppe Grillo ironizza sulle polemiche: «Hanno visto un uomo aggiustare tombini in passamontagna»

Beppe Grillo torna sulle brigate di cittadinanza, dopo le polemiche del fine settimana scorso e le parole pronunciate sabato sul palco di Roma, durante la manifestazione del Movimento 5 stelle. Con il consueto sarcasmo, il comico e cofondatore del partito, ha invitato tutti alla calma: «Per favore, fermatevi. Era una boutade. Ma è possibile che prendete tutto sul serio?». Il riferimento è alla frase che ha scatenato le critiche: «Volete il leader, ma siate i leader di voi stessi. Fate le brigate di cittadinanza, mettete il passamontagna e di nascosto andate a fare i lavoretti, mettete a posto marciapiedi, aiuole, tombini. Fate il lavoro e scappate. Reagite!». Parole che i suoi avversari politici, tanto dall’area di centrodestra quanto dal Terzo polo, hanno utilizzato per attaccarlo.

Beppe Grillo ha parlato di «brigate di cittadinanza» sabato 17 giugno 2023
Beppe Grillo si rivolge alla folla durante la manifestazione del 17 giugno 2023 (Imagoeconomica).

Grillo ironizza: «Visto un idraulico pensionato che aggiustava i tombini»

Grillo, che attualmente ha il ruolo di Garante all’interno del Movimento 5 stelle, ha risposto alle critiche scherzando: «Voglio dire: fermatevi, perché mi sono arrivate delle notizie drammatiche veramente. È stato avvistato un pensionato di 74 anni, un idraulico che stava aggiustando sei tombini di notte con un passamontagna. Fermatevi! Un albanese di 64 anni con cazzuola ha messo a posto otto marciapiedi durante la notte con il passamontagna. Non si può andare avanti così. Fermatevi. Ci vuole anche una legge: il governo deve reagire. Deve fare una legge. Abolire l’abuso d’ufficio e mettere l’abuso di lavori socialmente utili. Finitela, siate coerenti con voi stessi, con il governo e con la politica. Smettetela perché sennò scoppia veramente un casino ottimale».

Conte lo ha difeso: «Le sue parole strumentalizzate»

Nelle scorse ore, anche il leader del Movimento 5 stelle, l’ex premier Giuseppe Conte, ha commentato la vicenda difendendo Grillo: «I media mainstream hanno provato a ignorare la piazza di Roma, strumentalizzando una frase del discorso tenuto da Beppe Grillo sul palco di chiusura. Una frase estrapolata dal suo contesto e criminalizzata perché, accarezzando il gusto del paradosso, incitava i presenti a indossare il passamontagna per compiere non già azioni violente, bensì pacifiche e utili per la propria comunità».

Beppe Grillo ha parlato di «brigate di cittadinanza» sabato 17 giugno 2023
Giuseppe Conte e Beppe Grillo durante la manifestazione (Imagoeconomica).

Palermo chiama i suoi fedelissimi come vice in Acea, Luna Berlusconi in pole per il Senato e le altre pillole del 19 giugno

È passato un po’ di tempo da quando Fabrizio Palermo, ora numero uno di Acea, era amministratore delegato di Cdp, ma i suoi fedelissimi non lo hanno dimenticato. Così Pierfrancesco Ragni e Tommaso Sabato, rispettivamente ex direttore finanziario ed ex direttore Cdp Infrastrutture e Pubblica Amministrazione, hanno subito risposto sì alla sua chiamata. Raggiungeranno Palermo, da un anno amministratore delegato della municipalizzata romana, come suoi vice.

Luna monzese

Altro che Luna caprese: alla fine chi rischia di correre per il collegio del Senato “liberato” da Silvio Berlusconi si chiama Luna Roberta Berlusconi, ovvero la figlia prediletta di Paolo, il fratello del Cavaliere. Perché? I cosiddetti figli di secondo letto di Silvio, ovvero Luigi, Barbara ed Eleonora non hanno ancora compiuto 40 anni, ovvero l’età per candidarsi a un seggio di Palazzo Madama. E quelli che potrebbero partecipare? Marina non ci pensa, Pier Silvio non ne ha voglia. E allora che si fa? Visto che tutti parlano di Paolo, l’ipotesi di far scendere in campo Luna sta facendo presa, e rapidamente, come il cemento. Poi c’è il suo ex marito, Edoardo Sylos Labini, che sta sempre in televisione a discettare di cultura. E così sarà “Luna monzese”…

Da Luna Berlusconi che potrebbe correre in Senato a Nicola Porro attacca i giornalisti Sky: le pillole del 19 giugno
Luna Berlusconi (Imagoeconomica).

Porro contro SkyTg24: «Murdoch si è rotto…»

Non mancano mai gli “scarsi professionisti” dell’informazione contro cui puntare il dito: nella sua “zuppa” di sabato sui social Nicola Porro ha preso di mira una giornalista di Sky, Chiara Piotto, corrispondente da Parigi, che aveva detto che Elon Musk va a investire in Francia e non in Italia, dove secondo la cronista va a parlare di decrescita perché la Penisola non risulta attrattiva. Porro afferma l’esatto contrario, forte del fatto che lui a Roma ha intervistato Musk sentendo quali sono le sue idee, non per “sentito dire” come tanti altri ma proprio dalla voce del miliardario sudafricano. «Murdoch si è rotto i coglioni di sovvenzionare questi cialtroni», ha affermato Porro, «questa Chiara Piotto evidentemente ha una bella esperienza di come Murdoch abbia investito in Italia miliardi e li abbia persi grazie a lei e ai suoi colleghi in questa avventura che si chiama SkyTg24 che brucia miliardi da anni».

Da Luna Berlusconi che potrebbe correre in Senato a Nicola Porro attacca i giornalisti Sky: le pillole del 19 giugno
Nicola Porro ai funerali di Berlusconi (Imagoeconomica).

Gelli jr cerca l’Albania

In una delle infinite dirette sui social dove protagonista è Vittorio Sgarbi, ed esattamente quella dove il sottosegretario al ministero della Cultura girava per gli stand di Mercanteinfiera alle Fiere di Parma in mezzo a tonnellate di mobili e oggetti vari, nella giornata riservata agli operatori, appare all’improvviso un messaggio di Raffaello Gelli. Che annuncia: «Ti chiamerò perché avrei pensato di andare a abitare in Albania». Ma sì, il figlio di Licio Gelli punta su Tirana…

Dov’è l’Hilton? A destra

Festa romana per i 60 anni di vita dell’hotel Roma Cavalieri, il caro, vecchio, Hilton di Monte Mario. Il complesso alberghiero che, all’epoca, scatenò i primi ecologisti italiani, contrari alla cementificazione della collina verde (ma la Rai ci mette del suo con la terribile antenna sparaprogrammi). Chi ha condotto la serata a bordo piscina con cena e musiche in tema Beatles? Non era Flavio Insinna. E nemmeno Fabio Fazio. Ebbene sì, il protagonista e mattatore si chiama Pino Insegno. Uno che è di casa da Giorgia Meloni. Infatti la mejo battuta durante l’evento è stata questa: «Scusi, dov’è l’Hilton? A destra».

Da Luna Berlusconi che potrebbe correre in Senato a Nicola Porro attacca i giornalisti Sky: le pillole del 19 giugno
Pino Insegno e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Palermo chiama i suoi fedelissimi come vice in Acea, Luna Berlusconi in pole per il Senato e le altre pillole del 19 giugno

È passato un po’ di tempo da quando Fabrizio Palermo, ora numero uno di Acea, era amministratore delegato di Cdp, ma i suoi fedelissimi non lo hanno dimenticato. Così Pierfrancesco Ragni e Tommaso Sabato, rispettivamente ex direttore finanziario ed ex direttore Cdp Infrastrutture e Pubblica Amministrazione, hanno subito risposto sì alla sua chiamata. Raggiungeranno Palermo, da un anno amministratore delegato della municipalizzata romana, come suoi vice.

Luna monzese

Altro che Luna caprese: alla fine chi rischia di correre per il collegio del Senato “liberato” da Silvio Berlusconi si chiama Luna Roberta Berlusconi, ovvero la figlia prediletta di Paolo, il fratello del Cavaliere. Perché? I cosiddetti figli di secondo letto di Silvio, ovvero Luigi, Barbara ed Eleonora non hanno ancora compiuto 40 anni, ovvero l’età per candidarsi a un seggio di Palazzo Madama. E quelli che potrebbero partecipare? Marina non ci pensa, Pier Silvio non ne ha voglia. E allora che si fa? Visto che tutti parlano di Paolo, l’ipotesi di far scendere in campo Luna sta facendo presa, e rapidamente, come il cemento. Poi c’è il suo ex marito, Edoardo Sylos Labini, che sta sempre in televisione a discettare di cultura. E così sarà “Luna monzese”…

Da Luna Berlusconi che potrebbe correre in Senato a Nicola Porro attacca i giornalisti Sky: le pillole del 19 giugno
Luna Berlusconi (Imagoeconomica).

Porro contro SkyTg24: «Murdoch si è rotto…»

Non mancano mai gli “scarsi professionisti” dell’informazione contro cui puntare il dito: nella sua “zuppa” di sabato sui social Nicola Porro ha preso di mira una giornalista di Sky, Chiara Piotto, corrispondente da Parigi, che aveva detto che Elon Musk va a investire in Francia e non in Italia, dove secondo la cronista va a parlare di decrescita perché la Penisola non risulta attrattiva. Porro afferma l’esatto contrario, forte del fatto che lui a Roma ha intervistato Musk sentendo quali sono le sue idee, non per “sentito dire” come tanti altri ma proprio dalla voce del miliardario sudafricano. «Murdoch si è rotto i coglioni di sovvenzionare questi cialtroni», ha affermato Porro, «questa Chiara Piotto evidentemente ha una bella esperienza di come Murdoch abbia investito in Italia miliardi e li abbia persi grazie a lei e ai suoi colleghi in questa avventura che si chiama SkyTg24 che brucia miliardi da anni».

Da Luna Berlusconi che potrebbe correre in Senato a Nicola Porro attacca i giornalisti Sky: le pillole del 19 giugno
Nicola Porro ai funerali di Berlusconi (Imagoeconomica).

Gelli jr cerca l’Albania

In una delle infinite dirette sui social dove protagonista è Vittorio Sgarbi, ed esattamente quella dove il sottosegretario al ministero della Cultura girava per gli stand di Mercanteinfiera alle Fiere di Parma in mezzo a tonnellate di mobili e oggetti vari, nella giornata riservata agli operatori, appare all’improvviso un messaggio di Raffaello Gelli. Che annuncia: «Ti chiamerò perché avrei pensato di andare a abitare in Albania». Ma sì, il figlio di Licio Gelli punta su Tirana…

Dov’è l’Hilton? A destra

Festa romana per i 60 anni di vita dell’hotel Roma Cavalieri, il caro, vecchio, Hilton di Monte Mario. Il complesso alberghiero che, all’epoca, scatenò i primi ecologisti italiani, contrari alla cementificazione della collina verde (ma la Rai ci mette del suo con la terribile antenna sparaprogrammi). Chi ha condotto la serata a bordo piscina con cena e musiche in tema Beatles? Non era Flavio Insinna. E nemmeno Fabio Fazio. Ebbene sì, il protagonista e mattatore si chiama Pino Insegno. Uno che è di casa da Giorgia Meloni. Infatti la mejo battuta durante l’evento è stata questa: «Scusi, dov’è l’Hilton? A destra».

Da Luna Berlusconi che potrebbe correre in Senato a Nicola Porro attacca i giornalisti Sky: le pillole del 19 giugno
Pino Insegno e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex

Nella maionese di Forza Italia che rischia di impazzire dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi c’è un ingrediente che potrebbe avere difficoltà a trovare il suo posto. Eh sì, perché Marta Fascina, al secolo Marta Antonia, ora rischia grosso: senza più la “blindatura” (sentimentale e politica) del fondatore la “moglie per finta” pare destinata a esser fatta fuori dai nemici interni dell’ala che fa capo alla numero uno dei senatori azzurri, Licia Ronzulli, mentre il vicepresidente del partito (e futuro possibile reggente), Antonio Tajani,  è tutt’altro che propenso a esibire il petto per farle da scudo.

Da ‘angelo di Arcore’ alle ambizioni (deluse) da king maker azzurra

Eppure Fascina è uno di quei personaggi femminili che meriterebbero un film biografico del regista cileno Pablo Larraín o comunque un ritratto riflettuto sulla relazione tra le donne e il potere, relazione mediata dagli uomini forti che hanno avuto accanto. Nella variegata fenomenologia del gentil sesso che si è accompagnato al debordante Cavaliere e raramente ha evitato il destino di una condizione comprimaria, se non decorativa (si eccettuano certamente i casi di mamma Rosa e della primogenita Marina), Marta si era ritagliata un ruolo del tutto particolare. Ruolo che ha subito una profonda metamorfosi dalla controllatissima discrezione dei primi tempi alle ambizioni da king maker coltivate nell’ultima fase. Dal semplice chignon biondo alla Eva Kant alle posture da novella Eva Peron, insomma, il passo è stato breve. Troppo breve, secondo molti in Forza Italia. Lineamenti affilati e compostezza di gesso, per il gran rito funebre in Duomo l’ultima “lady B” è riuscita a sfoderare le lacrime delle grandi occasioni e ha mantenuto con disciplina lo sguardo catatonico sul feretro per quasi tutta la funzione religiosa. I figli più grandi, Marina e Pier Silvio, l’hanno presa più volte per mano, soprattutto Marina. Tuttavia,  questo presunto rapporto privilegiato pare non possa salvarla dal declino politico. Sul fronte dell’eredità economica, il testamento dovrebbe riservarle una dote intorno ai 90-100 milioni di euro, oltre a qualcuna delle ville del Cavaliere. Ma quella che più pesa è l’eredità politica e Fascina non pare in grado o comunque non ha avuto il tempo di costruirsi lo standing per dettare i giochi come stava provando a fare fino all’addio del sovrano di Arcore.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Marta Fascina al funerale di Silvio Berlusconi con i figli del Cav, Marina, Piersilvio, Barbara ed Eleonora (Imagoeconomica).

Le passate tensioni con Tajani e il rapporto con Ronzulli

La quasi moglie e quasi leader ha intrattenuto rapporti altalenanti con Tajani. All’inizio aveva una relazione eccellente con la “ribelle” Ronzulli – che l’ha voluta fortemente alla corte di Silvio per far fuori Francesca Pascale – ma poi ha lavorato per estrometterla e ora, giocoforza, sarà costretta a subirne il ritorno, nel tentativo dei vertici del partito di includere e dare spazio a tutte le sensibilità e le correnti pur di non implodere. Appare dunque arduo immaginare una diarchia al femminile tra lei e Marina in supporto allo stesso ministro degli Esteri che avrà l’onere formale, e l’investitura sostanziale da Giorgia Meloni, di traghettare Fi oltre le colonne d’Ercole del voto europeo. Tra Fascina e Tajani, infatti, ci sono stati momenti di forte tensione nel recente passato. Il libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Giorgia (Chiarelettere), racconta ad esempio la sfuriata che l’attuale vicepremier riservò alla première dame a Villa Grande, la residenza romana del Cavaliere, all’indomani del duro scontro tra Fi e Fdi per l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, su cui si riflettevano le tensioni legate alla formazione del governo. «Non devi allargarti, devi stare al tuo posto», avrebbe urlato Tajani prima di uscire nel parco della magione a sbollire la rabbia. «Ovviamente il Cavaliere non poteva certo permettere che la sua Marta venisse aggredita in quel modo. Ha preteso le scuse di Tajani, cosa che è avvenuta solo più di un’ora dopo il fattaccio», racconta Bisignani a Madron. Vedremo ora che ruolo vorranno giocare effettivamente i figli dell’ex premier (non sembra ci sarà un impegno diretto in politica, almeno a breve). Fatto sta che quella di Fascina sembra una figura destinata a scivolare in secondo piano. «A proposito, sai come la chiamavano nel partito prima che diventasse la First dame? “Matta” Fascina», rivela ancora Bisignani a Madron. Un soprannome che stride con il suo aplomb glaciale, benché poi talvolta la frizione sia scappata pure a lei, come quando insultò Renato Brunetta sul piano politico e anche per la sua statura all’indomani delle dimissioni da Fi dell’ex ministro che non aveva accettato la scelta del partito di sgambettare il governo Draghi.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Silvio Berlusconi tra Marta Fascina e Marina nel febbraio 2022 (Imagoeconomica).

Da aspirante meteorina all’ufficio stampa del Milan e al Parlamento: l’ascesa di Fascina

Calabrese, di Melito di Porto Salvo, classe 1990, deputata alla seconda legislatura, Marta cresce a Portici, la stessa cittadina della esiziale (per la carriera politica di Berlusconi) Noemi Letizia. Studia poi a Napoli e si laurea in Filosofia alla Sapienza di Roma. Vuole fare politica e ci prova già nel 2013 con il Popolo della libertà, ma non entra nel consiglio comunale della stessa Portici. Ha ambizioni da giornalista, collabora anche con il Giornale, ma la svolta arriva con l’ingresso nell’ufficio stampa del Milan e la conoscenza con Adriano Galliani. Bisignani entra nel dettaglio: «Marta non aveva ancora 20 anni, e come tante ragazze sognava di fare strada nel mondo dello spettacolo. Per questo inviava di continuo il suo curriculum e i suoi book fotografici a Emilio Fede. Voleva candidarsi come “meteorina”, un’invenzione dell’allora direttore del Tg4 e che Berlusconi pare gradisse molto. Il giornalista la incontra durante una festa a Portici e resta colpito, oltre che dall’avvenenza, dalla maniacale conoscenza di tutte le formazioni del Milan. E la porta ad Arcore dal Cavaliere, che quel giorno le fa un provino sportivo. La interroga a bruciapelo chiedendole la formazione del Milan campione d’Italia 1967-68 ai tempi della presidenza di Franco Carraro. Provino brillantemente superato. Berlusconi la piazza all’ufficio stampa del Milan, che all’epoca è governato da Adriano Galliani in coabitazione con Barbara Berlusconi, cui questa Marta, che arriva lì imposta dal padre, proprio non piace, forse perché ne intravede le matrigne potenzialità. Per reazione, Marta trova la sponda di Galliani, che al contrario si mostra molto più protettivo».

Il quasi matrimonio con B e il tentativo di sistemare i suoi fedelissimi

Poi il Milan nel 2017 cambia proprietà e Fascina deve essere ricollocata. Intanto è riuscita a stringere un rapporto di fiducia, appunto, con Ronzulli che la spinge verso Berlusconi in funzione anti-Pascale. Nel 2018 passa il treno delle elezioni politiche, la giovane viene paracadutata in Campania e si ritrova in Parlamento. All’inizio della pandemia giunge l’ufficializzazione della relazione con il Cavaliere. Fascina inizia a essere sempre più presente accanto a Berlusconi, anche nei vertici politici e nei passaggi decisionali cruciali. La svolta ulteriore arriva a ridosso della battaglia dell’anno scorso per il Quirinale: Berlusconi viene ricoverato d’urgenza, e in gran segreto, al San Raffaele. Silvio resta per quasi due giorni privo di coscienza e al suo risveglio trova Marta che gli sta tenendo la mano. Allora le promette di sposarla. I figli, saputa la notizia, vanno su tutte le furie e Ronzulli si inventa la pantomima del quasi-matrimonio: è il marzo del 2022.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Adriano Galliani e Gianni Letta al matrimonio simbolico di Marta Fascina e Silvio Berlusconi (Imagoeconomica).

Pier Silvio comunque non si presenta alla cerimonia di Villa Gernetto e manca pure Giorgia Meloni, mentre Matteo Salvini c’è. Fascina deve ingoiare il rospo, ma si fa risarcire in altro modo: alle elezioni del 2022 si ricandida, stavolta in Sicilia, e giustifica la nuova catapulta così: «La Sicilia è una regione meravigliosa, che conosco sin dai tempi, quando ero piccola, mio padre mi ci portava in vacanza». Stavolta, però, riesce a piazzare anche i suoi, a partire dall’ex compagno di scuola Tullio Ferrante, avvocato campano di San Giorgio a Cremano che viene eletto e subito spedito come sottosegretario al ministero delle Infrastrutture, nelle grinfie di Salvini ed Edoardo Rixi. Poi ci sono Alessandro Sorte e Stefano Benigni, i due astri nascenti lombardi che segnano il passaggio di potere da Ronzulli (che a sua volta aveva spodestato Mariastella Gelmini) a Fascina. La transizione era in corso e le manovre di Marta in pieno svolgimento. Il trapasso del Tutankhamon di Arcore potrebbe però stravolgere tutto un’altra volta. La vendetta è in preparazione e la quasi first lady difficilmente riuscirà a mantenere la presa sul partito, a cominciare dalle indiscrezioni che avrebbero voluto addirittura il padre Orazio candidato per Fi alle Europee. A livello parlamentare Fascina non ha presentato alcuna proposta di legge e nemmeno interrogazioni, interpellanze, mozioni o risoluzioni; d’altronde era in tutt’altre faccende affaccendata. In compenso ha co-firmato la proposta di bandiera per una Commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della giustizia, un tormentone del trentennio berlusconiano. Un po’ pochino, certo, ma adesso senza più Silvio e un probabile futuro da “deputata semplice” ci sarà da iniziare a pedalare.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex

Nella maionese di Forza Italia che rischia di impazzire dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi c’è un ingrediente che potrebbe avere difficoltà a trovare il suo posto. Eh sì, perché Marta Fascina, al secolo Marta Antonia, ora rischia grosso: senza più la “blindatura” (sentimentale e politica) del fondatore la “moglie per finta” pare destinata a esser fatta fuori dai nemici interni dell’ala che fa capo alla numero uno dei senatori azzurri, Licia Ronzulli, mentre il vicepresidente del partito (e futuro possibile reggente), Antonio Tajani,  è tutt’altro che propenso a esibire il petto per farle da scudo.

Da ‘angelo di Arcore’ alle ambizioni (deluse) da king maker azzurra

Eppure Fascina è uno di quei personaggi femminili che meriterebbero un film biografico del regista cileno Pablo Larraín o comunque un ritratto riflettuto sulla relazione tra le donne e il potere, relazione mediata dagli uomini forti che hanno avuto accanto. Nella variegata fenomenologia del gentil sesso che si è accompagnato al debordante Cavaliere e raramente ha evitato il destino di una condizione comprimaria, se non decorativa (si eccettuano certamente i casi di mamma Rosa e della primogenita Marina), Marta si era ritagliata un ruolo del tutto particolare. Ruolo che ha subito una profonda metamorfosi dalla controllatissima discrezione dei primi tempi alle ambizioni da king maker coltivate nell’ultima fase. Dal semplice chignon biondo alla Eva Kant alle posture da novella Eva Peron, insomma, il passo è stato breve. Troppo breve, secondo molti in Forza Italia. Lineamenti affilati e compostezza di gesso, per il gran rito funebre in Duomo l’ultima “lady B” è riuscita a sfoderare le lacrime delle grandi occasioni e ha mantenuto con disciplina lo sguardo catatonico sul feretro per quasi tutta la funzione religiosa. I figli più grandi, Marina e Pier Silvio, l’hanno presa più volte per mano, soprattutto Marina. Tuttavia,  questo presunto rapporto privilegiato pare non possa salvarla dal declino politico. Sul fronte dell’eredità economica, il testamento dovrebbe riservarle una dote intorno ai 90-100 milioni di euro, oltre a qualcuna delle ville del Cavaliere. Ma quella che più pesa è l’eredità politica e Fascina non pare in grado o comunque non ha avuto il tempo di costruirsi lo standing per dettare i giochi come stava provando a fare fino all’addio del sovrano di Arcore.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Marta Fascina al funerale di Silvio Berlusconi con i figli del Cav, Marina, Piersilvio, Barbara ed Eleonora (Imagoeconomica).

Le passate tensioni con Tajani e il rapporto con Ronzulli

La quasi moglie e quasi leader ha intrattenuto rapporti altalenanti con Tajani. All’inizio aveva una relazione eccellente con la “ribelle” Ronzulli – che l’ha voluta fortemente alla corte di Silvio per far fuori Francesca Pascale – ma poi ha lavorato per estrometterla e ora, giocoforza, sarà costretta a subirne il ritorno, nel tentativo dei vertici del partito di includere e dare spazio a tutte le sensibilità e le correnti pur di non implodere. Appare dunque arduo immaginare una diarchia al femminile tra lei e Marina in supporto allo stesso ministro degli Esteri che avrà l’onere formale, e l’investitura sostanziale da Giorgia Meloni, di traghettare Fi oltre le colonne d’Ercole del voto europeo. Tra Fascina e Tajani, infatti, ci sono stati momenti di forte tensione nel recente passato. Il libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Giorgia (Chiarelettere), racconta ad esempio la sfuriata che l’attuale vicepremier riservò alla première dame a Villa Grande, la residenza romana del Cavaliere, all’indomani del duro scontro tra Fi e Fdi per l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, su cui si riflettevano le tensioni legate alla formazione del governo. «Non devi allargarti, devi stare al tuo posto», avrebbe urlato Tajani prima di uscire nel parco della magione a sbollire la rabbia. «Ovviamente il Cavaliere non poteva certo permettere che la sua Marta venisse aggredita in quel modo. Ha preteso le scuse di Tajani, cosa che è avvenuta solo più di un’ora dopo il fattaccio», racconta Bisignani a Madron. Vedremo ora che ruolo vorranno giocare effettivamente i figli dell’ex premier (non sembra ci sarà un impegno diretto in politica, almeno a breve). Fatto sta che quella di Fascina sembra una figura destinata a scivolare in secondo piano. «A proposito, sai come la chiamavano nel partito prima che diventasse la First dame? “Matta” Fascina», rivela ancora Bisignani a Madron. Un soprannome che stride con il suo aplomb glaciale, benché poi talvolta la frizione sia scappata pure a lei, come quando insultò Renato Brunetta sul piano politico e anche per la sua statura all’indomani delle dimissioni da Fi dell’ex ministro che non aveva accettato la scelta del partito di sgambettare il governo Draghi.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Silvio Berlusconi tra Marta Fascina e Marina nel febbraio 2022 (Imagoeconomica).

Da aspirante meteorina all’ufficio stampa del Milan e al Parlamento: l’ascesa di Fascina

Calabrese, di Melito di Porto Salvo, classe 1990, deputata alla seconda legislatura, Marta cresce a Portici, la stessa cittadina della esiziale (per la carriera politica di Berlusconi) Noemi Letizia. Studia poi a Napoli e si laurea in Filosofia alla Sapienza di Roma. Vuole fare politica e ci prova già nel 2013 con il Popolo della libertà, ma non entra nel consiglio comunale della stessa Portici. Ha ambizioni da giornalista, collabora anche con il Giornale, ma la svolta arriva con l’ingresso nell’ufficio stampa del Milan e la conoscenza con Adriano Galliani. Bisignani entra nel dettaglio: «Marta non aveva ancora 20 anni, e come tante ragazze sognava di fare strada nel mondo dello spettacolo. Per questo inviava di continuo il suo curriculum e i suoi book fotografici a Emilio Fede. Voleva candidarsi come “meteorina”, un’invenzione dell’allora direttore del Tg4 e che Berlusconi pare gradisse molto. Il giornalista la incontra durante una festa a Portici e resta colpito, oltre che dall’avvenenza, dalla maniacale conoscenza di tutte le formazioni del Milan. E la porta ad Arcore dal Cavaliere, che quel giorno le fa un provino sportivo. La interroga a bruciapelo chiedendole la formazione del Milan campione d’Italia 1967-68 ai tempi della presidenza di Franco Carraro. Provino brillantemente superato. Berlusconi la piazza all’ufficio stampa del Milan, che all’epoca è governato da Adriano Galliani in coabitazione con Barbara Berlusconi, cui questa Marta, che arriva lì imposta dal padre, proprio non piace, forse perché ne intravede le matrigne potenzialità. Per reazione, Marta trova la sponda di Galliani, che al contrario si mostra molto più protettivo».

Il quasi matrimonio con B e il tentativo di sistemare i suoi fedelissimi

Poi il Milan nel 2017 cambia proprietà e Fascina deve essere ricollocata. Intanto è riuscita a stringere un rapporto di fiducia, appunto, con Ronzulli che la spinge verso Berlusconi in funzione anti-Pascale. Nel 2018 passa il treno delle elezioni politiche, la giovane viene paracadutata in Campania e si ritrova in Parlamento. All’inizio della pandemia giunge l’ufficializzazione della relazione con il Cavaliere. Fascina inizia a essere sempre più presente accanto a Berlusconi, anche nei vertici politici e nei passaggi decisionali cruciali. La svolta ulteriore arriva a ridosso della battaglia dell’anno scorso per il Quirinale: Berlusconi viene ricoverato d’urgenza, e in gran segreto, al San Raffaele. Silvio resta per quasi due giorni privo di coscienza e al suo risveglio trova Marta che gli sta tenendo la mano. Allora le promette di sposarla. I figli, saputa la notizia, vanno su tutte le furie e Ronzulli si inventa la pantomima del quasi-matrimonio: è il marzo del 2022.

La parabola di Marta Fascina, da lady Arcore a semplice ex
Adriano Galliani e Gianni Letta al matrimonio simbolico di Marta Fascina e Silvio Berlusconi (Imagoeconomica).

Pier Silvio comunque non si presenta alla cerimonia di Villa Gernetto e manca pure Giorgia Meloni, mentre Matteo Salvini c’è. Fascina deve ingoiare il rospo, ma si fa risarcire in altro modo: alle elezioni del 2022 si ricandida, stavolta in Sicilia, e giustifica la nuova catapulta così: «La Sicilia è una regione meravigliosa, che conosco sin dai tempi, quando ero piccola, mio padre mi ci portava in vacanza». Stavolta, però, riesce a piazzare anche i suoi, a partire dall’ex compagno di scuola Tullio Ferrante, avvocato campano di San Giorgio a Cremano che viene eletto e subito spedito come sottosegretario al ministero delle Infrastrutture, nelle grinfie di Salvini ed Edoardo Rixi. Poi ci sono Alessandro Sorte e Stefano Benigni, i due astri nascenti lombardi che segnano il passaggio di potere da Ronzulli (che a sua volta aveva spodestato Mariastella Gelmini) a Fascina. La transizione era in corso e le manovre di Marta in pieno svolgimento. Il trapasso del Tutankhamon di Arcore potrebbe però stravolgere tutto un’altra volta. La vendetta è in preparazione e la quasi first lady difficilmente riuscirà a mantenere la presa sul partito, a cominciare dalle indiscrezioni che avrebbero voluto addirittura il padre Orazio candidato per Fi alle Europee. A livello parlamentare Fascina non ha presentato alcuna proposta di legge e nemmeno interrogazioni, interpellanze, mozioni o risoluzioni; d’altronde era in tutt’altre faccende affaccendata. In compenso ha co-firmato la proposta di bandiera per una Commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della giustizia, un tormentone del trentennio berlusconiano. Un po’ pochino, certo, ma adesso senza più Silvio e un probabile futuro da “deputata semplice” ci sarà da iniziare a pedalare.

Lollobrigida invita a colazione gli ex ministri dell’Agricoltura

Lollo ha capito che deve parlare meno e che è meglio diventare ‘ecumenico’ evitando polemiche inutili. Mercoledì farà una cosa che stupirà tutti, esibendo questa sua «nuova politica inclusiva e non divisiva», ha affermato un esponente di Fratelli d’Italia a una cena. A questo punto scatta la curiosità: che si inventerà il ministro cognato, ovvero Francesco Lollobrigida, titolare del dicastero dell’Agricoltura ora pomposamente ribattezzato come della Sovranità alimentare? Distribuirà personalmente pasti alla comunità di Sant’Egidio o alla mensa della Caritas? Andrà a una cena vegetariana con Elly Schlein? Farà un selfie gastronomico con Chiara Ferragni?

Lollobrigida invita a colazione gli ex ministri dell'Agricoltura
Teresa Bellanova, ministra dell’Agricoltura dal 5 settembre 2019 al
14 gennaio 2021 (Imagoeconomica).

Da Patuanelli a Bellanova, da Pecoraro Scanio ad Alemanno: gli ex al tavolo

No, molto di più: mercoledì a colazione, nella sede del ministero, ha invitato a mangiare gli ex titolari del dicastero che negli ultimi anni hanno “lavorato” a via XX Settembre. Di destra, di sinistra e di centro. Una tavolata con il grillino Stefano Patuanelli, la renziana Teresa Bellanova, i leghisti Gian Marco Centinaio e Luca Zaia, i piddini Maurizio Martina e Paolo De Castro, e poi Nunzia De Girolamo, Mario Catania, Francesco Saverio Romano, Alfonso Pecoraro Scanio. Non può mancare ovviamente il destrissimo Gianni Alemanno. E Calogero Mannino ci sarà? Ricordate a Lollo che nel 1963, per sei mesi, un politico come Bernardo Mattarella guidò il ministero, nel primo governo di Giovanni Leone…

Lollobrigida invita a colazione gli ex ministri dell'Agricoltura
Gianni Alemanno, ministro dell’Agricoltura dall’11 giugno 2001 al
17 maggio 2006 (Imagoeconomica).

Lollobrigida invita a colazione gli ex ministri dell’Agricoltura

Lollo ha capito che deve parlare meno e che è meglio diventare ‘ecumenico’ evitando polemiche inutili. Mercoledì farà una cosa che stupirà tutti, esibendo questa sua «nuova politica inclusiva e non divisiva», ha affermato un esponente di Fratelli d’Italia a una cena. A questo punto scatta la curiosità: che si inventerà il ministro cognato, ovvero Francesco Lollobrigida, titolare del dicastero dell’Agricoltura ora pomposamente ribattezzato come della Sovranità alimentare? Distribuirà personalmente pasti alla comunità di Sant’Egidio o alla mensa della Caritas? Andrà a una cena vegetariana con Elly Schlein? Farà un selfie gastronomico con Chiara Ferragni?

Lollobrigida invita a colazione gli ex ministri dell'Agricoltura
Teresa Bellanova, ministra dell’Agricoltura dal 5 settembre 2019 al
14 gennaio 2021 (Imagoeconomica).

Da Patuanelli a Bellanova, da Pecoraro Scanio ad Alemanno: gli ex al tavolo

No, molto di più: mercoledì a colazione, nella sede del ministero, ha invitato a mangiare gli ex titolari del dicastero che negli ultimi anni hanno “lavorato” a via XX Settembre. Di destra, di sinistra e di centro. Una tavolata con il grillino Stefano Patuanelli, la renziana Teresa Bellanova, i leghisti Gian Marco Centinaio e Luca Zaia, i piddini Maurizio Martina e Paolo De Castro, e poi Nunzia De Girolamo, Mario Catania, Francesco Saverio Romano, Alfonso Pecoraro Scanio. Non può mancare ovviamente il destrissimo Gianni Alemanno. E Calogero Mannino ci sarà? Ricordate a Lollo che nel 1963, per sei mesi, un politico come Bernardo Mattarella guidò il ministero, nel primo governo di Giovanni Leone…

Lollobrigida invita a colazione gli ex ministri dell'Agricoltura
Gianni Alemanno, ministro dell’Agricoltura dall’11 giugno 2001 al
17 maggio 2006 (Imagoeconomica).

Auto blu, piccoli Comuni e Province non mollano: i numeri

Un’auto di servizio a disposizione ogni 900 abitanti circa. Ad Avezzano, comune di oltre 40 mila abitanti in provincia de L’Aquila, di sicuro non mancano vetture pronte per l’uso dell’amministrazione: ce ne sono 47 in totale, tutte di proprietà, di cui una addirittura a «uso esclusivo con autista», l’auto blu nel suo significato pieno con autista dedicato alla guida per uno dei rappresentanti della Giunta. Quasi il triplo delle 18 auto che sono in dote alla presidenza del Consiglio. Insomma, Avezzano ha maggiori necessità rispetto a Palazzo Chigi. E così alcuni enti, come quello abruzzese a braccetto con la Provincia di Reggio Calabria, che gestisce un parco auto di 60 vetture nonostante la riduzione dei poteri, diventano l’emblema dell’immortalità di questa italica passione, che tutti dicono di voler limitare. Ma che negli anni ha resistito a ogni riforma e alle crociate di ogni ambizioso ministro, per ultimo Renato Brunetta.

Auto blu, piccoli Comuni e Province non mollano: i numeri
Renato Brunetta (Imagoeconomica).

Da San Vito al Tagliamento a Vigevano: quando l’auto blu è una passione

Secondo il censimento 2023 sulle auto in dotazione della Pubblica amministrazione, relativo al 2022, ci sono oltre 30 mila auto nella Pa, esattamente, 30.665. Confermando che negli anni scorsi non c’è stata una reale diminuzione: semplicemente molti enti non avevano risposto al dipartimento della Funzione pubblica. Nel 2021 se ne contavano 29.894, ma avevano dato le informazioni 8.142 amministrazioni, mentre nell’ultimo report è giunto un feedback da 8.328 enti, circa l’83 per cento del totale. La passione per l’auto blu, dunque, non è mai cessata: la media infatti resta intorno a 3,7 auto di servizio a disposizione di ogni amministrazione, categoria che va dalla Asl alle agenzie pubbliche, oltre ovviamente ai ministeri e governo, Regioni e Comuni. Ed è proprio tra le amministrazioni locali che si trovano i casi più singolari. Avezzano è irraggiungibile in termini assoluti, ma in questa classifica si distingue anche il Comune di San Vito al Tagliamento, 15 mila abitanti in provincia di Pordenone: il censimento registra 33 vetture di proprietà. Non ci sono problemi di spostamento nel perimetro dell’ente, insomma. Simile la situazione nel Comune di Rho, 50 mila abitanti nell’hinterland milanese, che conta 21 auto di servizio, facendo il paio con il Comune di Vigevano, oltre 60 mila residenti in provincia di Pavia. L’abitudine non conosce barriere geografiche: Battipaglia, località del Salernitano di circa 50 mila abitanti e nota per la produzione di mozzarella di bufala, ha segnalato la dotazione di ben 20 auto di servizio, stesso numero di Montalto Uffugo, 20 mila abitanti nel Cosentino. Singolare il caso di Ventasso, in provincia di Reggio-Emilia, nato dalla fusione dei comuni di Busana, Collagna, Ligonchio e Ramiseto. L’eredità è oggi di 18 veicoli per l’amministrazione di un ente che mette insieme meno di 4 mila abitanti. Tornando a Sud, Torre del Greco, popolo Comune vesuviano, raggiunge quota 16.

Province (per ora) senza poteri ma con un nutrito parco macchine

E che dire delle Province che si apprestano alla resurrezione per volere della maggioranza? Quella di Reggio Calabria, come accennato, è leader assoluta: può contare 60 auto di servizio. Per avere un’idea, sono molte di più rispetto alle 36 della città metropolitana di Roma e il doppio in confronto alle 29 della città metropolitana di Milano. Anche altri enti provinciali hanno conservato una buona dotazione. Grosseto e Pavia sono due casi significativi con 28 auto, così come meritano menzione le 24 di Lecco e Sondrio e le 20 di Arezzo. Insomma, in attesa che vengano ripristinati i poteri, le Province non rinunciano a niente. Se nelle realtà medio-piccole le auto blu abbondano, figuriamoci nelle metropoli. Spicca il Comune di Torino, guidato dal sindaco Stefano Lo Russo, che conta ben 191 veicoli (di cui 13 ncc e il resto di proprietà), che vince per distacco rispetto a ogni altra amministrazione. Sotto la Mole piace l’auto: il numero è in netto aumento rispetto alle 154 del 2021. Roma Capitale, amministrata da Roberto Gualtieri, è seconda con 109 auto, di cui 85 ncc, per una popolazione che è almeno tre volte superiore a quella del capoluogo piemontese. Il Comune di Milano ha invece “refertato” solo 41 auto, seppure con un incremento di 10 unità rispetto al censimento 2021, mentre restano a quota 91 le vetture disponibili per il Comune di Firenze, un dato nettamente superiore alle 62 di Bologna. Tre le città più importanti, la virtuosa Napoli si ferma a 12 vetture nei garage pubblici.

Auto blu, piccoli Comuni e Province non mollano: i numeri
Tra le grandi città italiane, Torino detiene il record di auto blu con 191 veicoli (Imagoeconomica).

Coni e Sport e Salute non pervenuti

Al netto del miglioramento nelle risposte nella Pa, resiste un 17 per cento di enti che non riferiscono il dato delle auto di servizio. Come il Coni di Giovanni Malagò, e la società “parallela” e “avversaria”, Sport e Salute. Magari non hanno a disposizione alcun veicolo, chissà. Solo che non è possibile saperlo. Top secret pure le informazioni su alcuni Comuni capoluogo, come Caserta, Enna e Varese e sulle città metropolitane di Napoli e Messina. Certo, non tutto è negativo. Un esempio? La cura Draghi a Palazzo Chigi stava sortendo degli effetti: nel 2022 alla presidenza del Consiglio le auto a «uso non esclusivo con autista», sono scese in un anno da 31 a 18, quasi tutti a noleggio con conducente (ncc). Anche il “Draghi boys”, Daniele Franco, al Ministero dell’Economia aveva operato un mini taglio, passando a 5 auto a disposizione rispetto alle precedenti 6. Al ministero del Turismo, per sua natura, la possibilità di spostarsi è agevole con 43 auto di servizio, anche se tra le amministrazioni dello Stato svetta il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con un totale di 58 veicoli, segnando un paradosso: tra governo e ministeri c’è una maggiore attenzione a non abusare delle auto blu, che pure per la Capitale sfrecciano in continuazione. Ma sui territori è, forse, peggio perché alcune ferme nei garage. Perché sono troppe.

Forza Italia, chi dentro Lega e Fdi gestirà il travaso (ma occhio a Renzi)

Forza Italia sorvegliata speciale. Soprattutto dalle parti dei partiti alleati, Fratelli d’Italia e Lega. Oltre che da Italia viva, visto che la morte di Silvio Berlusconi fa riemergere un vecchio pallino di Matteo Renzi e cioè lanciare un’Opa su Fi. Bisogna però prima capire se la creatura del Cavaliere riuscirà a sopravvivere al suo fondatore, e soprattutto per quanto (fino alle Europee?). Nel frattempo si preannuncia un gran da fare per gli addetti allo scouting tra Fratelli d’Italia e tra i leghisti a cui toccherà dirigere l’eventuale traffico azzurro in entrata nei rispettivi partiti. Come già scritto, infatti, per ora il timone di Fi è in mano all’ala composta da Antonio Tajani, Marta Fascina e Marina Berlusconi ed è un assetto che Giorgia Meloni spera che possa reggere sia per non destabilizzare la maggioranza di governo sia nell’ottica delle Europee 2024 e del progetto che ha in serbo la premier: creare un asse tra Conservatori e Popolari. Ma se così non fosse? In quel caso entrerebbero in azione i pontieri. A loro il compito di dare semaforo verde ai berluscones in libera uscita, con un occhio di riguardo alla pattuglia di senatori, visto che a Palazzo Madama i numeri sono sempre più ballerini. Primo passo in vista, chissà, di un futuribile partito unico, una sorta di riedizione del Popolo della libertà.

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Santanchè, che conosce il berlusconismo, in prima linea

Una cosa è certa: una iniziale scrematura dei curriculum non può non passare da esponenti milanesi di spicco di Fdi come Daniela Santanchè e – anche se in maniera più defilata per il ruolo istituzionale che riveste – Ignazio La Russa. Ma sarebbe soprattutto l’attuale ministra del Turismo a tenere le fila del dossier. Giocano a suo favore sia il ruolo di coordinatore regionale di Fdi in Lombardia e sia l’approfondita conoscenza del mondo berlusconiano di cui ha fatto parte. Ma in generale nel gruppo di testa dei “selezionatori” c’è l’intera compagine lombarda, come spiegano a Tag43 fonti parlamentari del partito, «e non solo, perché è da Milano che ha preso il via il berlusconismo, ma anche perché dopo l’affermazione di Fdi in Lombardia non si può prescindere dagli esponenti del territorio».

Il ministro del Turismo Daniela Santanche ha fatto una proposta per aiutare l'Emilia-Romagna, colpita dall'alluvione.
Daniela Santanché. (Getty)

In Regione allertati i meloniani Garavaglia e Romani

Tradotto significa, quindi, personalità come il capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione, Christian Garavaglia, o lo stesso presidente del Consiglio regionale, Federico Romani. Che guarda caso, tra l’altro, è figlio dell’ex ministro azzurro Paolo Romani, a proposito di ponti con Forza Italia.
 Naturalmente, un ruolo di primo piano spetta a Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione del partito. Come è avvenuto per la composizione delle liste dalle elezioni politiche in poi, dentro Fdi non si prescinde neppure dal “cognato d’Italia”, Francesco Lollobrigida, che appunto fa parte della cerchia ristretta di Meloni e che ha in mano i principali dossier politici.

Cos'è, cosa significa e come funziona il giurì d'onore, lo strumento chiesto da Fornaro dopo le affermazioni di Donzelli.
Giovanni Donzelli e Giorgia Meloni. (Getty Images)

A Malan torna utile la vecchia militanza in Forza Italia

Così come da Guido Crosetto, che è tra i fondatori del partito. Il ministro della Difesa, inoltre, è piemontese. Al bisogno, quindi, in vista del rinnovo della giunta regionale, chi meglio di lui potrà avere voce in capitolo in una eventuale selezione di azzurri sul territorio? Magari insieme a un altro big piemontese del partito come l’attuale capogruppo Fdi in Senato, Lucio Malan, per il quale torna utile pure la vecchia militanza tra le file di Fi. Al netto del fatto che, comunque, ogni decisione finale spetterà, ça va sans dire, alla premier.

Dal dialogo immaginario tra un uomo e il governo, al libro lanciato in senato a Franco Marini, chi è il senatore Lucio Malan
Lucio Malan.

Come detto, tutto dipenderà dalla tenuta o meno di Forza Italia e, dunque, dalla capacità di Tajani di traghettare il partito almeno fino alle Europee. In caso contrario, in vista dell’appuntamento elettorale per rinnovare il parlamento Ue, una voce in capitolo su eventuali innesti forzisti tra le fila meloniane l’avrà infine l’eurodeputato milanese Carlo Fidanza.

Porte aperte in Via Bellerio? Ancora presto

Anche dentro la Lega, però, le antenne sono tese. Si sa che una parte degli azzurri, soprattutto l’area ronzulliana, ha sempre avuto un canale di dialogo privilegiato con Matteo Salvini. Troppo presto, tuttavia, per immaginare migrazioni e, quindi, porte aperte in via Bellerio. Da queste parti, infatti, si è sempre puntato a privilegiare le ricandidature «per chi ha operato bene», come spiegano fonti parlamentari del Carroccio a Tag43, «e questo vale sempre, non solo in vista delle Europee tra un anno». Un conto poi sono «i portatori di voti e quindi gli eventuali innesti di qualità», ragionano, «un altro è imbarcare tanto per imbarcare». Comunque sia se l’implosione di Forza Italia dovesse consumarsi a stretto giro, le camicie verdi non resterebbero a guardare e soprattutto non lascerebbero campo libero a Fdi o ai renziani, desiderosi di ridare verve al centro. Un’eventuale campagna acquisti comunque seguirebbe rigidi passaggi piramidali «perché nella Lega le gerarchie funzionano e si rispettano».

Cosa c'è dietro nomina di ronzulli in lombardia
Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini. (Getty Images)

Europarlamento, si muovono i leghisti Zanni e Campomenosi

Per semplificare, insomma, l’imprimatur spetta al segretario, ma sarebbe l’ultimo miglio. C’è un passaggio intermedio imprescindibile: quello innanzitutto dei capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. E poi quello dei coordinatori regionali che «sono il vero filtro sul territorio», così come, guardando all’europarlamento, le figure dell’eurodeputato leghista e presidente del gruppo Identità e democrazia, Marco Zanni, e del capo delegazione del Carroccio a Bruxelles, Marco Campomenosi.

Il rischio è subire lo scacco matto da Renzi

Il quadro chiaramente è in divenire. Una cosa è certa, però: né Fdi e né la Lega vogliono rimanere col cerino in mano e quindi subire uno scacco matto da Matteo Renzi. Le mosse dell’ex premier vengono guardate a vista, anche perché sono ben noti i suoi colpi da stratega parlamentare. Intervistato da la Repubblica, per esempio, dice di non puntare agli elettori di Fi, salvo aggiungere che sarebbe «irrispettoso parlarne ora», ma poi quasi si defila sottolineando lo spazio più grande che adesso Meloni ha al centro «e mi stupirei se non provasse a occuparlo». Una sorta di avviso ai naviganti. A riprova che all’occorrenza il leader di Rignano sfodererà tutte le sue doti da king maker.

Terzo polo, Renzi già corteggia Ronzulli e altri in uscita da Forza Italia
Licia Ronzulli, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. (Getty)

Ruggeri direttore responsabile del Riformista non è un caso…

Del resto, i buoni intenditori le prime avvisaglie le hanno colte nella scelta dell’ex parlamentare di Forza Italia Andrea Ruggeri come direttore responsabile del Riformista (di cui Renzi, appunto, è direttore editoriale). E che dire del titolo “Come te non c’è nessuno” con cui ha aperto il quotidiano il giorno dopo la morte del Cav? Insomma, per ora ammicca, ma «può entrare in azione da un momento all’altro», è il pensiero comune tra i più sospettosi del centrodestra. «E se lo fa in Senato, toccando le corde giuste con gli azzurri in materia di giustizia, per esempio, gli può davvero riuscire di rafforzare la sua pattuglia e arrivare a condizionare la maggioranza».

Ministero delle Imprese, i tre dossier in capo a Urso che sono spariti

Qui c’è da chiamare Chi la visto? Se la celebre trasmissione tivù si occupasse di leggi e decreti avrebbe il suo bel da fare dalle parti di via Molise, sede del ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit). Cosa si è smarrito? Sono almeno tre i dossier in capo al dicastero guidato da Adolfo Urso di cui si sono perse le tracce.

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Commercianti ambulanti, punto spinoso

Il primo è il ddl Concorrenza. Il testo è stato portato in Consiglio dei ministri una prima volta il 6 aprile, ma solo il 20 ha ricevuto il via libera. Da lì in poi si è aperto un buco nero. Il provvedimento, infatti, non è mai stato trasmesso dal governo al parlamento. Al momento, sapere notizie più dettagliate è impossibile. Fonti parlamentari si limitano a confermare la mancata trasmissione. E anche capire il nodo che blocca l’avanzamento dell’iter è impresa non facile. Nel testo ci sono punti spinosi – come le concessioni dei commercianti ambulanti, che saranno assegnate tramite gara, a partire sin da subito dai posteggi non ancora assegnati, salvaguardando l’affidamento degli attuali concessionari che potranno godere di un rinnovo in via eccezionale per 12 anni e la liberalizzazione dei saldi, prima inseriti poi stralciati dal testo -, ma non ci sono temi che hanno spaccato il parlamento in tempi recenti.

Ministero delle Imprese, i tre dossier in capo a Urso che sono spariti
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. (Getty)

Però balneari e tassisti sono fuori dal dossier

La questione balneari era stata risolta dal governo Draghi, mentre Giorgia Meloni ha deciso di non affrontare il dossier taxi. «Si introduce una prassi virtuosa, sin qui priva di riscontri nella recente storia legislativa italiana: finora la legge, infatti, non era mai stata approvata per due anni consecutivi. In 15 anni, dal 2009, è stata realizzata solo due volte nel 2017 e appunto nel 2022. Questa è la terza», aveva comunicato il Mimit il giorno dell’approvazione. Fatto sta che da quel momento il provvedimento è rimasto nei cassetti dell’esecutivo. Quando si aprirà? Chissà.

Qualcuno, tra i tecnici, parla di problemi di copertura

Il secondo provvedimento approvato tra squilli di tromba del governo e in particolare del Mimit è il cosiddetto ddl Made in Italy. Tra le misure simbolo l’istituzione del Fondo sovrano da un miliardo per il Made in Italy, per l’attrazione di capitali e la realizzazione di investimenti governativi diretti e indiretti e l’arrivo del liceo del Made in Italy. Il giorno successivo all’approvazione in Cdm, il primo giugno, il capo di gabinetto del ministero, Federico Eichberg, aveva indirizzato un lettera a dir poco entusiasta ai dipendenti. «L’occasione dell’attuazione delle norme del ddl Made in Italy (a completamento dell’iter parlamentare) saranno la tua, la mia occasione di scrivere un verso nella narrazione del racconto chiamato “made in Italy”», aveva scritto Eichberg. Ma la narrazione, evidentemente, può aspettare e anche in questo caso il ddl non è stato trasmesso. Qualcuno, tra i tecnici, parla di problemi di copertura delle misure. Ma conferme ufficiali non vengono date.

Decreto legge Tlc: 10 articoli rimasti in bozza

Infine, il 22 maggio comincia a circolare un bozza di decreto legge Tlc: 10 articoli con norme destinate a principalmente a tre settori (banda ultralarga, sviluppo tecnologico e lavoro) per complessivi 1,5 miliardi di risorse. Anche in questo caso, il dossier è in mano principalmente a Urso. Dopo la bozza – i cui contenuti sono stati riportati dalla stampa – non se ne è saputo più nulla. Zero. Pronto, Chi l’ha visto? Abbiamo bisogno di voi.

Forza Italia, le suppletive di Monza primo test per avviare il dopo-Berlusconi

Mentre dopo la morte di Silvio Berlusconi una Forza Italia orfana del suo fondatore prova a immaginare un futuro politico, già si prepara la prima, vera sfida per quel che resta del partito del Cavaliere. Parliamo delle elezioni suppletive che devono colmare il seggio lasciato vuoto al Senato proprio dal defunto Berlusconi, eletto il 25 settembre 2022 nell’uninominale di Monza (Lombardia – 06), grazie al 50,26 per cento dei voti col sostegno dell’intera coalizione di centrodestra. E adesso cosa succederà?

Monza, scontato che il candidato del centrodestra sarà un forzista

Il seggio, venuto a mancare il suo vincitore, è vacante. Nei prossimi mesi vanno programmate nuove elezioni in cui è pressoché scontato che il candidato del centrodestra sarà un forzista. Il voto di Monza è un primo crocevia per la creatura politica di Berlusconi. Che può far capire molto sul futuro del partito a lungo predominante nel panorama politico italiano. Gli scenari che si aprono sono tre: il primo verrebbe messo in campo per evitare di trasformare in un redde rationem sul futuro di Forza Italia la scelta del candidato all’uninominale. Il secondo, invece, subordinerebbe la decisione in un collegio sulla carta “blindato” alla lotta tra due correnti in cui il partito è diviso, quella legata a Licia Ronzulli e quella di Antonio Tajani. L’ultimo scenario è quello di un’iniziativa personale della famiglia Berlusconi, che darebbe così un primo segnalare di continuità dell’azione politica del Cav. Ma vediamo nel dettaglio.

La mappa di Forza Italia: chi sta con Ronzulli e chi con Tajani
Silvio Berlusconi e Licia Ronzulli al Senato (Getty Images).

1. L’ipotesi non di rottura: il nome del rientrante Mandelli

Se l’elezione suppletiva per sostituire al Senato il quattro volte presidente del Consiglio venisse trattata come un’elezione “normale”, molti indicatori puntano nella direzione di una scelta fatta col bilancino, di un nome cioè capace di non rappresentare una rottura. Su Open è emersa l’indiscrezione che il “Mister X” possa essere il rientrante Andrea Mandelli. Consigliere comunale dal 2002 a Monza, candidato sindaco sconfitto al ballottaggio nel capoluogo brianzolo nel 2012, senatore dal 2013 al 2018 e deputato dal 2018 al 2022, Mandelli presiede inoltre dal 2009 la Federazione dell’Ordine dei farmacisti italiani (Fofi). Il suo nome può garantire standing e relativa terzietà. Politicamente vicino a Tajani, al tempo stesso non è mai stato particolarmente critico con la rivale interna Ronzulli. Anche se a quest’ultima molti imputano il fatto che Mandelli sia stato, alle Politiche 2022, mandato allo sbaraglio a giocarsi la rielezione alla Camera nel collegio di Milano – Loreto, dove all’uninominale è stato sopravanzato da Bruno Tabacci.

2. Scontro tra le correnti e accentramento sulla Fascina

Se Forza Italia saprà gestire questa fase e convergere su un nome politico condiviso, un minimo spiraglio di futuro oltre Berlusconi può aprirsi. Ma tra Lega e Fratelli d’Italia pronti alla scalata da un lato e le ambizioni politiche di molti colonnelli dall’altro, il rischio di implosione è sempre dietro l’angolo. Un secondo scenario apre la strada alla concezione della partita per Monza come resa dei conti tra le correnti, che potrebbe anche finire con l’accentramento sempre maggiore delle scelte su colei che oggi appare l’arbitro del partito, l’ultima compagna del Cavaliere Marta Fascina. La quale, alla vigilia del funerale, ha imposto a Forza Italia la linea dei suoi fedelissimi.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Marta Fascina e Silvio Berlusconi nel settembre 2022 (da Fb).

L’idea è che figure come Tajani non abbiano ancora in mente una successione, abituate come sono state a vivere, a lungo, un passo dietro Silvio. La Fascina, invece, ha ben altri obiettivi politici e personali dopo tre anni vissuti fianco a fianco dell’ex premier. In quest’ottica, Monza può essere l’anticamera di un tutti contro tutti su cui rischia di partire la scalata degli “alleati” ai membri di punta di Forza Italia. E qui si apre la porta al terzo scenario. Quello che vede la famiglia Berlusconi chiamata a mettere una fiche, direttamente o indirettamente, sulla scelta del successore del Cav per un seggio che ha valenza non solo politica ma anche simbolica.

3. Che ruolo giocherà la famiglia? L’idea Messina

La famiglia Berlusconi, garante finanziaria di Forza Italia, ha tutto l’interesse a non vedere perso il seggio che fu di Silvio. «Il soggetto politico è in mano a Marina Berlusconi e agli altri figli grazie alle fideiussioni da 100 milioni di euro» garantite negli anni, spiega la Repubblica, e questo consente alla famiglia di mantenere in capo il controllo del simbolo. Per questa ragione, la prima sfida politica potrebbe vedere un coinvolgimento diretto in prima persona degli imprenditori e manager della dinastia del Cav. Troppo importante la posta in palio e troppo chiare le minacce di implosione del partito. Marina Berlusconi, forte dell’asse personale con Giorgia Meloni, ha un prestigio personale come figura di sistema in virtù del suo vissuto imprenditoriale e del suo ostentato distacco verso ambizioni politiche personali mostrato in passato. L’ipotesi di scendere in campo da “garante” della continuità berlusconiana è stata proposta da Open, che ha parlato di una possibile candidatura della ditta Fininvest a supplenza del seggio di Berlusconi. Tanto che si parla del fatto che «possa essere Alfredo Messina il candidato nell’uninominale di Monza. Legatissimo alla famiglia Berlusconi, dagli Anni 90 orbita con ruoli dirigenziali nella galassia Fininvest e Mediolanum». Su cui però grava l’incognita età: ha quasi 88 anni, più del defunto Silvio.

Forza Italia, le suppletive di Monza primo test per avviare il dopo-Berlusconi
Alfredo Messina.

Ma nei sondaggi la preferita è sempre Marina…

In quest’ultimo scenario, non è da escludere che la “golden share” dei Berlusconi possa sostanziarsi in una discesa diretta nell’agone politico di uno dei figli. Prima indiziata potenziale, la stessa Marina. Non ci sono voci consolidate, ma c’è sicuramente una grande domanda di continuità dell’elettorato berlusconiano. Il sondaggio emerso su la Repubblica il 14 giugno, giorno dei funerali di Berlusconi, mostra che Marina è col 54 per cento la preferita tra gli elettori del Cav come futura leader di Forza Italia. L’ipotesi continuità come garanzia in un partito senza regole di successione chiare. E che forse a una vera successione potrebbe non arrivare mai.

Silvio Berlusconi aveva avuto in vita un totale di 5 figli: Luigi, Eleonora, Barbara, Pier Silvio e Marina, ecco chi sono.
Marina Berlusconi (Getty).

Affluenza bassa e strategia per le Europee: le incognite

Una suggestione? Molto si capirà dal ruolo che i Berlusconi giocheranno nel decidere il candidato a Monza. Si andrà sicuramente dopo la pausa estiva, oltre metà settembre. Ma le elezioni suppletive consentiranno di mettere in campo strategie e visioni in vista di appuntamenti più corposi, come le Europee 2024. A cui non è affatto scontato che Forza Italia arrivi integra. L’obiettivo della famiglia Berlusconi e di Forza Italia sarà evitare che il seggio cambi padrone, passando al campo progressista.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Bandiere di Forza Italia (Getty).

Sarebbe un colpo duro da sopportare. E che i forzisti vogliono escludere. Sicuramente da un lato è necessario organizzare continuità e coordinamento con le altre forze di governo. Ma dall’altro sarà doveroso trovare un fattore mobilitante per gli elettori. Le suppletive hanno spesso tassi d’affluenza bassissimi e sulla capacità di portare i brianzoli al voto per il loro senatore si giocherà anche molto del futuro di Forza Italia. Su questo campo, va detto, nulla avrebbe lo stesso effetto di rivedere il cognome Berlusconi sulla scheda.

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan

Al netto della “svista” in cui sono incorsi Michela Murgia, Paolo Berizzi e Roberto Saviano a proposito del presunto saluto romano (e del presunto inneggiamento alla X Mas) nel corso della parata militare del 2 giugno, l’episodio ripropone un’annosa questione: ma è davvero efficace, e utile, disperdere energie, anche e soprattutto intellettuali, per gridare «al lupo al lupo!» fascista inseguendo manifestazioni che del fascismo spesso non fanno che rivelare aspetti perlopiù folcloristici, estetici, qualche volta persino grotteschi (o patetici, se si preferisce, come nel caso delle annuali manifestazioni in occasione della morte del duce, o in quella della marcia su Roma)? Non c’è dubbio che occorre tenere alta la guardia, ma sapendo discernere il ridicolo dall’inquietante e dal pericoloso (come può essere stato l’assalto alla Cgil di Roma, o quello al liceo fiorentino dello scorso febbraio, in questo caso a prescindere da ogni aspetto ideologico: qui c’è di mezzo la violenza).

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan
Il tweet di Berizzi sulla parata del 2 giugno.

Ora si grida all’occupazione meloniana della Rai, ma da anni siamo assuefatti a una narrazione revisionista

Finché si sollevano polveroni e si criticano gli aspetti più formali che sostanziali (Giorgia Meloni che veste di nero, il presidente del Senato Ignazio La Russa che tiene in casa busti di Mussolini, e così via) non si rende un buon servizio all’antifascismo. E non è esasperando la polemica contro l’occupazione (come se fosse la prima volta che avviene) della Rai che si può intervenire sui meccanismi che permettono questo tipo di occupazioni, e men che meno sulla qualità dell’informazione. Certo, si dirà, ma una destra che si impossessa della tivù nazionale (oltre a possedere Mediaset) può davvero incidere sulla “narrazione” del Paese e inculcare idee e principi favorevoli a una progressiva fascistizzazione della società. Giusto. Ma, a maggior ragione, non è con gli slogan e la retorica (che appaiono spesso più una cortina fumogena frutto di boutade identitarie e calcoli elettorali) che si può contrastare con efficacia questo rischio. Da anni, per non dire da decenni, il mainstream informativo, certamente non solo televisivo, è appiattito su una narrazione revisionista, questa sì pericolosa. Perché minacciando la nostra memoria storica, rischia di cancellare ogni differenza tra ciò che è bene e ciò che è male (per la democrazia, ovviamente). Ed è su questo che bisognerebbe intervenire.

La disattenzione e il deficit politico abbassano le difese immunitarie della democrazia

E invece, sul revisionismo, tranne poche voci isolate (si potrebbe citare, per tutti, il rettore Tomaso Montanari, che con i suoi interventi ha cercato, per esempio, di richiamare l’attenzione sull’ambiguità, per usare un eufemismo, della legge del ricordo delle Foibe, venendo a più riprese bacchettato da Aldo Grasso sulla prima pagina del Corriere della Sera, senza, peraltro, che nessuna forza politica, o altra personalità, progressista fosse intervenuta in suo sostegno), la sinistra, in senso lato, non sembra sufficientemente attenta. Ciò è ancor più grave, considerando che, dopo tutto, proprio al nostro Paese spetta il triste primato di aver inventato il fascismo (non per caso Gobetti lo definiva come l’«autobiografia della nazione»), e cancellare la memoria di questa responsabilità non fa che favorire il rafforzamento di quella sorta di fascismo endemico, quasi antropologico, mai sopito. È qui che si misura la capacità di una sinistra che voglia davvero contrastare questo rischio con lungimiranza e concretezza e non con slogan e facili allarmismi. Ancora nel lontano 2017, Piero Ignazi, su Repubblica, commentando alcuni episodi di violenza neofascista di quei giorni (compreso un tentativo di occupazione della stessa redazione romana del giornale) sottolineava come quei rigurgiti fossero sostenuti non solo da un classico mix di nostalgismo e, appunto, neofascismo, ma anche dalla capacità di una parte non secondaria di questo stesso neofascismo (vedi i casi Forza Nuova o CasaPound) di penetrare i varchi della rete civile con esperienze comunitarie e visioni politiche alternative. Tutto questo, era sempre Ignazi a rimarcarlo, grazie anche a una sorta di distrazione/disattenzione dell’opinione pubblica e di deficit della politica, un deficit condito da qualche indulgenza di troppo e da una retorica antifascista che, per Ignazi, hanno abbassato le difese immunitarie e lasciato campo libero ai cultori del totalitarismo.

Il fascismo 2.0 si combatte con la memoria storica non con gli slogan
L’assalto neofascista alla Cgil di Roma, il 9 ottobre 2021.

L’anti-capitalismo di destra e le armi spuntate della sinistra

Se oltre allo scarso contrasto alle minacce portate dal revisionismo storico, aggiungiamo l’altro grande ambito, quello economico, ci rendiamo conto di quanto la sinistra fatichi a contrastare l’avanzata della destra, peraltro su un tema che dovrebbe appartenerle intimamente, quello dell’anticapitalismo. Perché non c’è dubbio che tra i punti di forza della destra radicale vi sia anche la rielaborazione e la proposta di ricette socio-economiche che, volendo sintetizzare, si potrebbero definire come “anticapitalismo di destra”; cifra (peraltro mutuata dalla maggior parte dei movimenti fascisti sorti un po’ in tutta Europa tra le due guerre) che accomuna pressoché tutte le espressioni del radicalismo di destra europee, guarda caso nei Paesi, Ungheria e Polonia su tutti, lontani mille miglia dalla tradizione liberista e capitalista per esempio angloamericana e tedesca. E che si pone come componente tra le più pregnanti del modello populista. Ovvio che una sinistra, come quella italiana, ma non solo, da decenni schierata su posizioni persino turbo-capitaliste e globaliste si ritrovi con poche armi spuntate nel contrapporsi a un fascismo 2.0 che invece solletica le pulsioni appunto più populiste, identitarie, sovraniste (con tutto il corollario xenofobo, omofobo, islamofobo e chi più ne ha più ne metta).

Giorgia Meloni e Viktor Orban, i motivi di un allontanamento
Selfie tra Giorgia Meloni e Viktor Orban.

Come evitare la «defascistizzazione retroattiva del fascismo»

Una sinistra davvero efficace, insomma, dovrebbe contrastare l’avanzata di questa ondata reazionaria occupando, con le idee e le proposte, gli spazi che ancora esistono, anche ripensando, vedi appunto il caso dell’anti-capitalismo, le proprie posizioni. Ma senza entrare nell’ambito dei programmi politici, e rimanendo in quello culturale, faccio un solo, ultimo esempio: lo scorso anno, Aldo Cazzullo, editorialista del Corriere della Sera e divulgatore tra i più letti e conosciuti, ha pubblicato Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo, un libro coraggioso, che demolisce tutti i luoghi comuni sul fascismo e sul suo duce, mostrandoci Mussolini per quel che è stato, ovvero un dittatore crudele e criminale, che si è macchiato di terribili crimini contro l’umanità. Oltreché coraggioso, il libro di Cazzullo è anche importante, perché, forse per la prima volta dopo Giorgio Bocca, non uno storico (gli storici restano purtroppo confinati nella ristretta cerchia accademica), ma un popolare divulgatore si è finalmente contrapposto a una lunga e affermata tradizione che, dall’immediato Dopoguerra a oggi, ha prodotto, grazie all’impegno di giornalisti altrettanto popolari come Indro Montanelli, Mario Cervi, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Giordano Bruno Guerri, e fino al caso limite di Gianpaolo Pansa, una pubblicistica a dir poco edulcorata e autoassolutoria sul fascismo, concorrendo a quella «defascistizzazione retroattiva del fascismo» (copyright dello storico Emilio Gentile) che inevitabilmente ha portato, per riprendere il termine, a un abbassamento delle difese immunitarie.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso

Il potenziale dualismo nel consiglio di amministrazione della Rai con la presidente Marinella Soldi si profila all’orizzonte. Ma dalle parti di Viale Mazzini non è un mistero che Simona Agnes, membro dell’organo di amministrazione in quota Forza Italia, ambisca a prendere il posto della numero uno nominata da Mario Draghi in quota Partito democratico (e molto ben inserita nella filiera Paolo GentiloniMatteo Renzi). Tra l’altro, qualora Soldi dovesse rassegnare anzitempo le dimissioni, l’interim potrebbe ricadere sul consigliere più anziano, che appunto è Agnes.

I “draghiani senza Draghi” continuano a comandarsela nella tivù pubblica

La giornalista e manager, classe 1967, esperta di marketing e relazioni esterne, con competenze poliedriche che spaziano dal turismo fino alla cultura e alla sanità, è protetta e promossa dal sempiterno Gianni Letta, in nome degli interessi di Forza Italia in Rai naturalmente, ma anche – con sguardo più ampio – a vantaggio di quel blocco “Ursula” che va da Fi fino ai dem non schleiniani: i cosiddetti “draghiani senza Draghi” che continuano a comandarsela nella tivù pubblica, a dispetto della nuova stagione meloniana. In quest’ottica, Soldi e Agnes apparterrebbero persino allo stesso milieu, ma poi, si sa, le rivalità si costruiscono pure sulle dinamiche personali e sulla tattica di breve respiro, come gli ultimi voti in cda hanno dimostrato.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Simona Agnes.

La rappresentanza di genere? Questa volta ha chiuso un occhio

E così, mentre Soldi si mette (un po’) di traverso, Agnes esulta per il nuovo corso: «Le nomine che abbiamo approvato delineano una Rai equilibrata, dinamica e pluralista». Certo, poi magari c’è qualche problemino circa la rappresentanza di genere, visto che su 21 direzioni soltanto sei sono guidate da donne. E fa specie che la consigliera in quota azzurra non abbia alzato un sopracciglio quando invece in una vecchia intervista sul Premio internazionale di giornalismo intitolato a Biagio Agnes, il suo illustre papà, ebbe a dire: «Purtroppo ogni anno le donne sono in minoranza e dobbiamo ricordarci che ci sono tante brave donne giornaliste». Eh sì, «dobbiamo ricordarci»: peccato le amnesie nei momenti cruciali.

Il padre Biagio ex direttore generale a Viale Mazzini 

Nata a Roma, ma di origini paterne irpine, Simona ha studiato legge alla Luiss, però ha la Rai nel dna. Biagio fu direttore generale a Viale Mazzini negli Anni 80, oltre che fondatore e direttore del Tg3. Erano i fasti (effimeri) del pentapartito e lui scalò le gerarchie della tivù di Stato mentre il suo amico e conterraneo Ciriaco De Mita prendeva il potere nella Democrazia cristiana. Peraltro il fratello Mario, lo zio di Simona, è stato presidente nazionale dell’Azione cattolica e direttore dell’Osservatore romano, questo per raccontare il background della figlia d’arte, cui tocca adesso l’amorevole e gelosa custodia della memoria del padre attraverso la guida della fondazione e l’organizzazione del premio a lui dedicati. Ma anche grazie alla reviviscenza nei palinsesti di un programma storico della Rai, inventato da papà Biagio e dedicato ai temi della sanità, come Check-up, che peraltro oggi vanta una singolare convenzione con la sola Regione Campania (con tanto di polemiche a Napoli per i 600 mila euro sborsati a Rai Com da Scabec, la in house che si occupa di cultura, per valorizzare la dieta mediterranea).

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Biagio Agnes.

Piaggio, Telecom e una carriera nella comunicazione

Quasi fosse una predestinata, Simona si è sempre mossa nel settore della comunicazione, delle pr e delle relazioni istituzionali ad alti livelli. Piaggio e Telecom le esperienze aziendali preminenti riportate in curriculum prima di mamma Rai. Ma Agnes ha costantemente sposato con sorvegliato savoir-faire le iniziative benefiche alla frivolezza del jet set nostrano, le campagne medico-scientifiche ai velluti della miglior hotellerie, le riflessioni impegnate contro la mafia alle terrazze patinate del generone romano. Perché, in fondo, da Telethon ai Vanzina è un attimo.

Sensibile agli interessi di chi fa concorrenza alla Rai…

Componente, tra l’altro, dei cda dell’Istituto Treccani e della Treccani Scuola, Agnes è donna di comunicazione ma non ama molto i social. Non ha un profilo Facebook, mentre il suo account Twitter è una zattera abbandonata alle correnti, visto che l’ultimo aggiornamento risale al 2018. Va appena meglio su Instagram, con una pagina privata che conta meno di 700 follower. Del padre dice che egli «difese la tivù pubblica». Una missione che appare oggi difficile da perseguire per chi dentro Viale Mazzini è in qualche modo sensibile agli interessi del primo editore televisivo in concorrenza con la Rai. Ma tant’è. «Tutta l’azienda aspetta da noi risposte importanti», dice adesso Simona. Vedremo, però se il buongiorno si vede dal mattino…

Così Berlusconi ha dimostrato l’inutilità politica della satira

«Cos’ha fatto di buono Berlusconi?». Se lo chiedevano, mi pare, Adriano Celentano e Roberto Benigni in un varietà Rai di qualche decennio fa, realizzato presumibilmente durante un governo Prodi. Al termine di un bilancio tra il serio e il faceto, i due showmen salvavano un solo provvedimento del collega che dal 1994 si divideva fra la professione di barzellettiere e quella di premier: la patente a punti, introdotta nel 2003 dal gabinetto Berlusconi II. La patente a punti è rimasta l’unica, solitaria benemerenza riconosciuta al Cavaliere fino a ieri, giorno della sua morte, quando il sito Escort Advisor lo ha omaggiato ricordando un altro risultato indiscutibilmente lodevole dell’era Berlu: lo sdoganamento del termine ‘escort’ come sinonimo di prostituta. «Una parola meno offensiva e più dignitosa per le operatrici del sesso,» spiega un comunicato del sito dedicato alle recensioni delle sex-worker, sottolineando che, attraverso la rilevanza mediatica dei processi legati al bunga-bunga, Berlusconi «ha contribuito a normalizzare, anche se a modo suo, un settore ancora oggi controverso».

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L’omaggio del sito Escort advisor a Berlusconi.

Nessuno come Berlusconi è stato ridicolizzato dalla satira e nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui

La patente a punti e la promozione lessicale della prostituzione: anch’io potrei fermarmi qui, come elogio funebre. Sono fuori tempo massimo sia per il servo encomio che per il codardo oltraggio e non appartengo alla generazione allevata da Sua Emittenza con Bim Bum Bam e Paperissima. Per onestà intellettuale, però, devo riconoscere che per noi autori di satira politica nessun personaggio dell’ultimo scorcio di ‘900 ci ha ispirato e reso reattivi e produttivi più di Silvio Berlusconi. I risultati non erano sempre di qualità eccelsa, spesso era satira involgarita da un body-shaming allora entusiasticamente praticato anche da penne e matite eccellenti. Ma c’era anche parecchia roba forte e buona, che dava ai suoi autori un brivido di grandezza: ecco la vignetta definitiva, ecco la risata che lo seppellirà. Ma col passar del tempo ci sentivamo come scultori che si ritrovano a dover scalpellare una montagna anziché il solito blocco di pietra: anche se si è geni dallo scalpello mirabolante e si sgobba giorno e notte per anni e anni e anni, la montagna rimane lì, uguale. Dài delle martellate clamorose, ti sembra di staccare grossi pezzi di roccia, senti il presagio di una frana, e magari qualche cascata di ciottoli arriva davvero, dài e dài credi di avere modificato il profilo del monte, e invece no: il monte è più o meno uguale a se stesso e sempre al suo posto. Quelli cambiati siamo noi: stanchi, invecchiati, con gli scalpelli fuori uso, che guardiamo impotenti le comitive di gitanti che fotografano la montagna e la trovano carina e pittoresca, senza apprezzare né notare le scalfitture che ci sono costate anni di fatiche: le decine di soprannomi, le centinaia di caricature, le campagne al vetriolo sui suoi processi, il caparbio tiro a segno sulle sue sfrenatezze, gli sfottò ai suoi reggicoda, anche loro tutti al loro posto, avanzati in carriera o beneficati, ma sempre grati e adoranti.

Ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live

Insomma, è vero nessuno come il Cav è stato ridicolizzato dalla satira, ma è altrettanto vero che nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui, dimostrandone l’inutilità politica e dissipando l’illusione, di cui la sinistra si pasceva dai tempi di Dario Fo e del Male, che il ghigno e lo sberleffo possano davvero far paura al potere e aprire gli occhi al popolo. Quando qualcuno grida che il re è nudo e il re, anziché correre a nascondersi, sculetta e si mette in posa, il popolo ride ma alla fine passa dalla sua parte. E chi deve andare a nascondersi è quello che lo ha smascherato. Fatto sta che ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live, a mezzanotte passata, l’ora dei vampiri.

Via Silvia, spianata dall’uomo di Arcore, è ora trafficatissima

Lo sguardo più lucido e preveggente sulla fine del Caimano non è venuto dalla satira, ma dalla canzone. Precisamente da Caparezza, che nel 2011, nella strepitosa Legalize the Premier, descriveva con largo anticipo gli ultimi giorni del patriarca del centrodestra: «E se capita che un giorno starai male, male/vedrai leccaculo al tuo capezzale/darai una buona parola per farli entrare/nel tuo paradiso fiscale». Il rapper di Molfetta chiariva che il pezzo non era dedicato solo a Berlusconi, ma anche a tutti i suoi successori, cui il Cavaliere ha mostrato che una volta arrivati al potere si possono modificare le leggi a proprio uso e consumo, «perché una volta che hai asfaltato una strada ci possono passare tutti». Una strada che, all’uso dell’antica Roma, potremmo chiamare via Silvia. Aperta e spianata dall’uomo di Arcore, e ora trafficatissima.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito

Forza Italia piange la morte di Silvio Berlusconi, con sincera commozione, e non potrebbe essere altrimenti. Ma oltre al dolore umano per la scomparsa del fondatore, dovrà arrivare il momento di fare i conti per capire come potrà andare avanti il partito, prima di tutto dal punto di vista economico. I soldi sono il principale punto debole degli azzurri, soprattutto ora che il Cav non c’è. Fino a quando è stato in vita, infatti, era lui a mettere le risorse a disposizione, senza andare per il sottile. L’ex presidente del Consiglio non si è mai tirato indietro, chiedendo una mano al fratello Paolo e ai cinque figli. A Silvio nessuno diceva di no.

I 700 mila euro donati coprono la maggior parte degli introiti

Tanto per rendere l’idea, nel 2023 il supporto finanziario della famiglia Berlusconi è stato fondamentale, altrimenti il piatto piangerebbe, eccome: le tabelle delle donazioni volontarie raccontano di 700 mila euro affluiti nelle casse degli azzurri grazie agli assegni staccati nella cerchia familiare e aziendale. Il fratello Paolo ha provveduto a sottoscrivere un’elargizione liberale, una delle forme di finanziamento consentite dalla legge, di 100 mila euro il 24 febbraio. Un esempio seguito dal figlio dell’ex premier, Luigi Berlusconi, con la medesima cifra e nello stesso giorno. Così tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, tutti gli altri figli, Barbara, Eleonora, Marina e Pier Silvio, hanno donato 100 mila euro alle casse di Forza Italia, come ha fatto successivamente la Fininvest, la società più nota della famiglia. Il totale è stato, appunto, di 700 mila euro che ha praticamente coperto tre quarti degli introiti degli azzurri legati alle donazioni.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Luigi e Paolo Berlusconi, figlio e fratello di Silvio. (Getty)

Finanziamento pubblico: arriva poco dal 2 per mille

Il dato complessivo supera di poco il milione di euro, senza i Berlusconi si parlerebbe di 250 mila euro. Roba da partitino. Ma la somma derivante dalla famiglia dell’ex presidente del Consiglio, è più alta anche rispetto ai 581 mila euro arrivati grazie al 2 per mille, destinato dai contribuenti e su cui i forzisti hanno sempre dimostrato dei limiti: tra i partiti della maggioranza è quello che ottiene meno dall’ultima forma di finanziamento pubblico. Non occorre l’indovino per comprendere il peso specifico economico del supporto dato da Berlusconi alla sua creatura. In un certo senso si trattava di un atto d’amore, un gesto dovuto per un progetto che ha coltivato dal 1994, con l’eccezione della parentesi del Popolo delle libertà. Per questo ora si addensano le nubi sul futuro, sulle reali intenzioni degli eredi.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Bandiere di Forza Italia. (Getty)

Forza Italia, debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di B

Di fatto per i figli del fondatore il partito rischia di trasformarsi in un buco nero in cui gettare risorse, senza considerare che – bilanci alla mano – Forza Italia, come soggetto giuridico, ha contratto un debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di Berlusconi. Si tratta di una questione delicata, quanto intricata, che nelle prossime settimana andrà affrontata. Ma anche se gli eredi dell’ex presidente del Consiglio non vorranno pretendere gli arretrati, dovranno decidere se hanno voglia di mettere mano alla tasca per finanziare un partito, che allo stato attuale sarà gestito da altri. E che ha prospettive di consenso non proprio esaltanti. Nell’inner circle berlusconiano giurano che la vicenda non era stata discussa, nonostante la grave malattia dell’anziano leader.

Pier Silvio Berlusconi, dopo una visita al padre, ricoverato in terapia intensiva da mercoledì, si è lasciato andare ad alcune affermazioni
Pier Silvio Berlusconi. (Getty Images)

Quanti morosi tra i parlamentari: pure Bergamini e Cannizzaro

In mezzo c’è un’altra questione, non affatto secondaria: il recupero delle cifre dei “morosi”, un’operazione che era stata avviata da qualche settimana con discreti risultati. Ogni eletto, tra Camera e Senato, è chiamato a restituire 900 euro al mese. Una pratica che però non è seguita da tutti i parlamentari. Anzi, quasi la metà non rispetta i tempi. Nell’elenco dei donatori, da inizio 2023, non si ritrovano peraltro dei nomi parlamentari in vista di Forza Italia, come i due vicepresidenti del gruppo alla Camera, Deborah Bergamini e Francesco Cannizzaro, che tuttavia in passato hanno fatto dei versamenti più sostanziosi dei 900 euro mensili. Solo che di recente c’era stato un appello per recuperare le somme, a cui non risultano risposte.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Silvio Berlusconi e Deborah Bergamini.

Chi è disposto a foraggiare un progetto ormai morente?

Stessa situazione caratterizza il vice capogruppo al Senato, Adriano Paroli, e altri colleghi azzurri a Palazzo Madama, come Claudio Fazzone (l’ultimo versamento è di 20 mila e risale all’agosto del 2022, in piena campagna elettorale), Dario Damiani, Mario Occhiuto e Daniela Ternullo. In realtà non figura nell’elenco nemmeno il capogruppo a Montecitorio, Paolo Barelli, che però ha spiegato che si tratta di un errore della registrazione delle donazioni, a cui comunque non è stato posto rimedio. Sempre a Montecitorio non sono registrate sui documenti da parte dei deputati Tommaso Calderone e nemmeno di Annarita Patriarca. Per tutti l’arretrato è minimo, sebbene moltiplicata la quota mensile per in cinque mesi si arrivi a 4.500 euro, e può essere saldato con un’unica operazione, anche se l’azione di recupero per i morosi è più vasta e coinvolge molti ex parlamentari. Ma, al netto dell’assiduità dei versamenti, c’è un punto focale: chi è davvero intenzionato a foraggiare un partito con prospettive tutt’altro che rosee? Qui torna alla mente la frase di un parlamentare pronunciata negli ultimi giorni di vita del leader. «Forza Italia è Silvio Berlusconi, Silvio Berlusconi è Forza Italia». Che significa che senza di lui non esiste nemmeno più il partito.