Le misure colpiscono vari settori, tra cui il manifatturiero, il tessile, il minerario, nonché otto dirigenti ritenuti coinvolti nell’attacco. Trump: «Teheran è il principale sponsor mondiale del terrorismo».
Continuano le rappresaglie tra Teheran e Washington. Il 10 gennaio 2020, è infatti arrivata la risposta Usa all’attacco iraniano alle due basi statunitensi in Iraq. Il segretario al Tesoro Steve Mnuchin e il segretario di Stato Mike Pompeo hanno annunciato in una conferenza stampa alla Casa Bianca nuovesanzioni contro Teheran. Le misure colpiscono vari settori, tra cui il manifatturiero, il tessile, il minerario (acciaio e alluminio in particolare), nonché otto dirigenti ritenuti coinvolti nell’attacco. Tra questi ci sono il segretario del Consiglio supremo di sicurezza iraniano Ali Shamkhani e il comandante della milizia Basij Gholamreza Soleimani.
TRUMP: «LE SANZIONI RESTERANNO FINCHÉ L’IRAN NON CAMBIERÀ ATTEGGIAMENTO»
Secondo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, le nuove sanzioni «avranno un enormeimpatto sull’economia dell’Iran» e taglieranno «sostanziali entrate che potrebbero essere usate per sostenere lo sviluppo del programma nucleare e missilistico, il terrorismo e i gruppi terroristici nella regione». Trump ha sottolineato come il regime di Teheran sia «responsabile per gli attacchi contro il personale e gli interessi degli Stati Uniti» e resti «il principale sponsor mondiale del terrorismo». Il presidente ha anche detto che «le sanzioni economiche all’Iran resteranno finché il regime non cambierà atteggiamento. E gli Stati Uniti sono pronti ad abbracciare la pace con tutti coloro che la cercano».
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Resi pubblici documenti e mail in cui alcuni dipendenti prendevano in giro le autorità e insabbiavano i difetti di progettazione dell’aereo delle tragedie.
Nuova grana per la Boeing. Dopo le dimissioni il 23 dicembre scorso dell’amministratore delegato Dennis Muilenburg a causa della crisi del 737 Max, sono stati resi pubblici migliaia di email e documenti interni contenenti critiche e prese in giro alle autorità e non solo proprio sul 737 Max, l’aereo ormai a terra da mesi dopo due incidenti mortali che sono costati la vita a 346 persone.
Il 737 Max è stato «progettato da clown e controllato da scimmie», si legge in una delle email dalle quali emerge anche come i dipendenti di Boeing abbiano convinto, anche ricorrendo ad alcuni trucchi, le compagnie aeree e le autorità che non fosse necessario alcun addestramento con simulatori per i piloti del velivolo. Alcuni dipendenti del colosso Usa dunque erano a conoscenza dei difetti di progettazione del Max737. «Non sono ancora stato perdonato da Dio per tutto l’insabbiare che ho dovuto fare l’anno scorso», è scritto in un messaggio del 2018.
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L’isola ribelle al voto, con lo spettro di Hong Kong. Favorita la presidente uscente Tsai Ing-wen sfidata da Han Kuo-yu, leader del Kuomintang filo-Pechino, e dal terzo incomodo James Soong, appoggiato dal patron Foxconn. Le cose da sapere.
Sabato 11 gennaio, quella che per la Cina resta ancora oggi “l’isola ribelle” per antonomasia, Taiwan, andrà al voto per eleggere il presidente della Repubblica.
La Republic of China (ROC, in sigla) – come si auto denominò ai tempi della fuga del “generalissimo” Chang Chai Shek di fronte alle truppe comuniste di Mao Zedong, in contrapposizione all’allora nascente (e vittoriosa) People Republic of China (PRC) che prendeva vita a Pechino – resta ancora oggi la spina nel fianco più dolorosa per il regime cinese.
TAIWAN, LA NAZIONE CHE NON C’È
Una nazione che in realtà assomiglia sempre di più, almeno dal punto di vista del diritto internazionale, a una “nazione che non c’è”, grazie al feroce ostracismo di Pechino che ha praticamente imposto con ogni mezzo ai governi del Pianeta di non riconoscerla ufficialmente, se si eccettuano poco più di una quindicina di Paesi, per lo più staterelli dei Caraibi e africani.
Anche il Vaticano, che da sempre manteneva salde relazioni diplomatiche con Taipei e non con Pechino, ormai stregato anch’esso dal fascino ammaliante della nuova superpotenza globale, pare si appresti a cambiare presto barricata.
A Taipei, capitale di quella che, ai tempi del dominio spagnolo sull’isola, si chiamava Formosa (da hermosa, bella, in spagnolo appunto), non sembrano preoccuparsene più di tanto, mentre ormai la campagna elettorale è alle ultimissime battute.
I TRE CANDIDATI ALLA PRESIDENZA
I due partiti che ancora una volta si fronteggiano sono il vecchio, pluri-trasformista e ormai apertamente filocinese Kuomintang o Partito nazionalista (Kmt), fondato all’epoca proprio da Chang Chai Shek, con il suo candidato, Han Kuo-yu, e il Partito democratico progressista (Dpp) a vocazione fortemente indipendentista guidato della attuale presidente in carica e candidata, Tsai Ing-wen, data per favorita fino al silenzio pre-elettorale imposto ai sondaggi con l’arrivo del nuovo anno. Una donna combattiva e risoluta che ha sempre messo molta paura e procurato molti fastidi a Pechino nel corso del suo mandato. A fare da terzo incomodo, il piccolo ma agguerrito People First Party (Pfp), con candidato James Soong.
TSAI ING-WEN DATA PER FAVORITA
L’andamento del dibattito pre-elettorale in corso ha fatto emergere la differente situazione in cui si trovano Tsai e Han. La presidente, che fino alla sofferta designazione a candidata da parte del suo partito, il Dpp, era apparsa in serio svantaggio nei sondaggi, oggi viene considerata protagonista di una sensazionale rimonta.
La presidente uscente e candidata del Democratic Progressive Party, Tsai Ing-wen (Getty Images).
Secondo gli ultimi dati disponibili (ricordiamo che dal primo gennaio è scattato appunto il divieto di pubblicazione) Tsai sarebbe sopra in vantaggio su Han di circa 10 punti.
IL PATRON DI FOXCONN SOSTIENE SOONG
A scompigliare le carte di questa campagna elettorale taiwanese già di per sé agguerritissima, c’è poi il convitato di pietra, il potentissimo uomo d’affari Terry Gou, l’uomo più ricco di Taiwan, proprietario del colosso cinese Foxconn, prima azienda al mondo nella produzione di componentistica per apparecchiature elettroniche, che tempo fa ha annunciato il suo supporto al candidato presidente James Soong e al suo People First Party.
Il leader del People First Party, James Soon (Getty).
Una presa di posizione davvero ingombrante, che ha pesato molto nel dibattito elettorale e che Gou ha motivato facendo riferimento alla corruzione e all’incapacità di garantire la sicurezza di Taiwan dei due maggiori partiti in lizza, il Dpp e il Kmt.
L’OMBRA DI HONG KONG E IL PESO GEOPOLITICO DEL VOTO
Queste elezioni a Taipei rivestono un ruolo per nulla marginale sugli equilibri geopolitici del triangolo Taiwan-Pechino-Washington, considerando che, oltre al nuovo presidente, verranno eletti anche i componenti del nuovo parlamento.
Si delineerà insomma l’assetto politico di Taiwan per i prossimi quattro anni: un periodo che si prevede cruciale per l’area asiatica, e non solo. Molte cose che avvengono a Taiwan, infatti, disturbano e irritano apertamente la leadership di Pechino, proprio a partire dalla possibilità di svolgere libere elezioni. Il richiamo alla ribelle Hong Kong, che ormai da oltre sei mesi protesta riempendo le strade, proprio per richiedere altrettanta autonomia elettorale e di governo, è fin troppo esplicito, e urticante per Pechino.
Han Kuo-yu, il candidato del filocinese Kuomintang (Getty Images).
INVESTIMENTI ESTERI E LAVORO: LA DOTE DI TSAI
Tra i due candidati principali in lizza, la signora Tsai ha puntato su una situazione economica nel complesso positiva e in crescita, attribuendosene il merito. Gli investimenti esteri a Taiwan sono in forte aumento: i dati forniti dal ministero per gli Affari economici parlano di un +20% su base annua nel periodo gennaio-novembre. Il programma di incentivi per il rientro in patria di aziende che avevano delocalizzato in Cina viene presentato da Tsai come un successo personale: oltre 150 aziende hanno aderito, contribuendo così alla creazione di molti nuovi posti di lavoro. A livello politico, nonostante la perdita di ulteriori alleati diplomatici passati dalla parte della Cina, Taiwan ha visto addirittura rafforzato il sostegno degli Usa a livello politico e militare.
HAN COSTRETTO A DIFENDERE LA SOVRANITÀ DELL’ISOLA
Han, un leader dotato senz’altro di altrettanto – se non persino maggiore, per certi versi – carisma della Tsai, ha assistito invece allo spegnersi inesorabile dei primitivi exploit nei sondaggi della scorsa primavera. A fronte dei successi politici ed economici rivendicati dall’attuale presidente e candidata, nelle ultime settimane si è dovuto piuttosto preoccupare di ribadire come, se eletto, non sarebbe un presidente arrendevole nei confronti della Cina. Nel corso del dibattito elettorale infatti, si è visto più volte costretto ad affermare pubblicamente che la sua priorità sarà quella di difendere la sovranità di Taiwan. La crisi di Hong Kong infatti lo ha messo in seria difficoltà, consentendo a Tsai di ergersi a difensore dell’integrità taiwanese nei confronti della Cina.
PECHINO PER ORA “TOLLERA” LE INTEMPERANZE
In questo scenario il ruolo della potente Cina sembra essere quello, in qualche modo paternalistico, del gigante buono che tollera pazientemente le intemperanze di una provincia ribelle, aspettando il momento in cui le cose – inevitabilmente, secondo i burocrati di Pechino – ritorneranno “al loro stato naturale” e la ribelle Taiwan tornerà nell’abbraccio della madrepatria. Solo il futuro dirà se questa loro convinzione uscirà rafforzata o indebolita dal risultato elettorale a Taipei.
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Lo riferisce Newsweek citando fonti del Pentagono e delle intelligence Usa e irachena.
Il Boeing dell’Ukrainian Airlines precipitato durante la fase di decollo dall’aeroporto di Teheran causando la morte di 176 persone l’8 gennaio, sarebbe stato abbattuto per errore da un missile anti-aereo iraniano. Lo scrive Newsweek che cita tre fonti: una del Pentagono, una dell’intelligence Usa e un’altra dell’intelligence irachena.
Secondo le fonti citate, l’aereo sarebbe stato colpito da un missile terra-aria Tor M-1, di fabbricazione russa, noto come Gauntlet presso la Nato. La batteria anti-aerea iraniana sarebbe stata attiva contro possibili risposte ai raid compiuti contro due basi americane in Iraq seguiti all’uccisione da parte di un drone Usa del generale iraniano Qassem Soleimani.
I resti dell’aereo ucraino caduto a Teheran. (Ansa)
«Qualcuno potrebbe aver commesso un errore», ha commentato il presidente Usa Donald Trump. «Ho un mio sospetto su quanto accaduto», ha aggiunto il tycoon sulle indiscrezioni stampa che puntano il dito sul sistema anti-missilistico di Teheran escludendo problemi tecnici del Boeing 737 precipitato.
In mattinata, il team di esperti ucraini che indaga sul disastro aveva incontrato a Teheran le autorità dell’aviazione civile iraniana, che continuano a ritenere che il velivolo sia precipitato a seguito di un problema tecnico. La Repubblica islamica ha invitato a partecipare all’inchiesta anche il Canada e la Svezia che nella tragedia hanno avuto rispettivamente 63 e 10 morti.
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Venti persone sono rimaste ferite a causa dell’agguato contro una struttura delle Nazioni unite a nord di Kidal.
Venti persone, tra cui 18 peacekeeper, sono rimaste ferite questa mattina in un attacco missilistico contro una base delle Nazioni Unite nella regione settentrionale di Kidal, nel Mali: lo riporta la Bbc, che cita un portavoce dell’Onu. Nell’attacco, che per il momento non è stato rivendicato, sono stati feriti gravemente sei peacekeeper, ha sottolineato il portavoce. L’8 gennaio l’inviato delle Nazioni Unite per la regione ha dichiarato al Consiglio di sicurezza che gli attacchi nel Sahel sono aumentati di cinque volte dal 2016.
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Il governo di accordo nazionale ha accolto la mossa di Putin e Erdogan per fermare i combattimenti a partire dal 12 gennaio. Ma intanto Haftar prosegue i raid.
Il Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna) «accoglie con favore qualsiasi appello alla ripresa del processo politico e ad allontanare lo spettro della guerra, in conformità con l’Accordo politico libico e il sostegno alla Conferenza di Berlino patrocinata dalle Nazioni Unite». Lo si legge in una nota del Gna pubblicata dopo l’incontro dell’8 gennaio ad Istanbul tra il presidente russo Putin e quello turco Erdogan nel quale i due hanno proposto tra le altre cose «un cessate il fuoco in Libia a partire dalla mezzanotte di domenica 12 gennaio».
NUOVO RAID SULL’AEROPORTO DI MITIGA
In attesa di un via libera anche da parte della Cirenaica, gli scontri sul terreno sono continuati. Secondo il giornale The Libya Observer l’aeroporto di Tripoli Mitiga, l’unico funzionante nella capitale libica, è stato oggetto nella notte di nuovi raid aerei da parte dell’aviazione facente capo al generale Khalifa Haftar, in riferimento al supporto dell’aviazione degli Emirati Arabi Uniti. L’8 Ahmed Al Mismari, portavoce del sedicente esercito nazionale libico (Lna) guidato da Haftar, aveva annunciato l’estensione del divieto di sorvolo anche «sulla base e sull’aeroporto Mitiga a Tripoli», richiamando «le compagnie aeree ad attenersi severamente a questo provvedimento e a non mettere in pericolo i loro aeromobili».
SMENTITE OPERAZIONI DI TERRA A MISURATA
Vengono invece smentite informazioni circa incursioni terrestri delle milizie di Haftar vicino allo scalo e anche ai confini della municipalità di Misurata, un altro fronte in cui il generale è all’attacco, più a est. «Smentisco qualsiasi notizia che le truppe di Haftar siano arrivate all’aeroporto o al confine di Misurata», ha detto un consigliere comunale di Tripoli, Ahmed Wali precisando che «sono arrivati a sparare missili da 18 km di distanza».
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Nel 2005 il geografo e biologo metteva in guardia sulla fragilità del continente. Una terra poco fertile, arida e sfruttata come una miniera. Consigliava di puntare sulla viticoltura e sull’export di carne di canguro. Ma nessuno gli diede ascolto.
Esportare vino e carne di canguro invece che lana, carni ovine o cereali: è il consiglio che Jared Diamond, antropologo, biologo e geografo statunitense, diede all’Australia in tempi non sospetti.
Allora, era il 2005, molti australiani si indignarono, snobbando le riflessioni dell’esperto premio Pulitzer. Ma ora, nel mezzo dell’emergenza incendidefinita una “Chernobyl australe”, le sue parole tornano attuali.
I NUMERI DELL’APOCALISSE AUSTRALIANA
Dallo scorso settembre oltre 10 milioni di ettari sono ormai andati in fiamme; 25 persone e oltre un miliardo di animali sono morti; oltre 2500 case sono andate distrutte. Nella capitale Canberra sono state distribuite ai cittadini 100 mila maschere con filtri protettivi per permettere alla popolazione di sopravvivere con un livello di respirabilità dell’aria che è stato registrato come «il peggiore al mondo». Per ora sono scattati almeno 183 arresti per incendi nel solo Nuovo Galles del Sud, tra cui una quarantina di minorenni.
LE RESPONSABILITÀ POLITICHE
Ma per i cittadini ci sono evidentemente anche responsabilità politiche, e il primo ministro Scott Morrison è stato ripetutamente contestato. A parte andarsene in vacanza natalizia alle Hawaii nel mezzo della crisi, a parte aver voltato le spalle durante una visita in una comunità devastata dai roghi a una donna incinta che chiedeva più risorse, a parte fare arrabbiare i connazionali per uno spot in cui si vantava per il dispiegamento di forze quando invece era accusato di aver risposto con colpevole ritardo all’emergenza, Morrison è nel mirino soprattutto per aver dichiarato che il suo governo non farà nulla per combattere i cambiamenti climatici.
Il primo ministro australiano Scott Morrison in visita all’osola dei Canguri devastata dalle fiamme (Getty images)
La Carbon Tax che in due anni aveva ridotto le emissioni di gas serra dell’1,4% è stata tolta nel 2014, e la delegazione australiana al recente vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è stata accusata di ostacolare i negoziati per concordare piani di riduzione delle emissioni di carbonio a livello globale. L’Australia è il più grande esportatore mondiale di carbone e gas naturale liquefatto, e la relativa lobby è potente.
LA COMBINAZIONE FATALE DI TRE FATTORI
Incendi dolosi a parte, il Paese in questi ultimi mesi è stato colpito da una eccezionale combinazione di tre fattori. Caldo estremo, innanzitutto: a metà di dicembre la temperatura media era arrivata a 41,9 gradi, e secondo il locale Bureau of Meteorology le temperature sono aumentate di oltre un grado Celsius dal 1920. Poi, siccità prolungata: la primavera più secca da quando 120 anni fa si è iniziato a registrare il dato. Terzo elemento, venti fortissimi: fino a 60 miglia l’ora. Gli incendi boschivi sono cosa normale in Australia, ma se il caldo aumenta anche la loro intensità cresce, fino a oltrepassare il livello di guardia.
Abitazioni distrutte dalle fiamme nel Galles del Sud (Getty Images).
Vero, l’Australia può contare su centinaia di migliaia di vigili del fuoco volontari che lavorano 24 ore su 24 per cercare di tenere gli incendi sotto controllo. Ma secondo gli esperti bisognerebbe puntare di più sulla prevenzione, a partire dall’edilizia nelle zone a rischio incendi: costruire case resilienti e realizzare zone cuscinetto più ampie tra le proprietà e il Bush, la tipica vegetazione australiana.
L’ALLARME LANCIATO DA DIAMOND NEL 2005
Forse però occorrerebbe andare oltre. E ricordare Jared Diamond: il biologo, fisiologo, ornitologo, antropologo e geografo il cui best-seller Armi, acciaio e malattie nel 1997 rivoluzionò la storiografia lanciando il genere definito “storia mondiale”. L’Australia è una terra che Diamond conosce bene. Ne parla anche nel suo recentissimo Crisi. Come rinascono le nazioni. Ma a questo Paese un altro capitolo lo aveva dedicato in Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere del 2005. E lì il suo avvertimento era stato proprio questo: l’Australia è il continente ecologicamente più fragile del Pianeta e per sopravvivere la sua economia dovrebbe cambiare in maniera radicale. Non solo sul fronte del carbone.
UN’ECONOMIA BASATA SULLO SFRUTTAMENTO
«L’attività mineraria in senso stretto (ovvero l’estrazione di carbone e metalli) è oggi un fattore chiave nell’economia australiana, perché rappresenta la quota più cospicua delle esportazioni», ricorda Diamond. Aggiungendo: «La miniera è anche una chiave metaforica per comprendere la storia ambientale dell’Australia e la sua difficile situazione attuale». Lo ripetiamo: scriveva nel 2005. «L’estrazione mineraria, fondamentalmente, non è che lo sfruttamento fino all’estremo di risorse che non si rinnovano con il tempo. Dato che l’oro non cresce nei campi anno dopo anno e che dunque non c’è bisogno di tener conto del ritmo con cui si rinnovano i giacimenti, i minatori estraggono il minerale da un filone fino a quando si esaurisce».
Una donna cammina con una mascherina a Sydney (Getty Images).
Dunque, l’estrazione di minerali deve essere «tenuta ben distinta dallo sfruttamento di risorse rinnovabili» che si rigenerano per riproduzione biologica o per la formazione di un nuovo strato di suolo, e che possono essere sfruttate indefinitamente «a condizione che vengano prelevate con un ritmo più lento rispetto a quello con cui si rinnovano». Ma «l’Australia ha sempre trattato le sue risorse rinnovabili (e continua a farlo) alla stregua di minerali: le sfrutta molto più velocemente di quanto non si rigenerino».
UNA TERRA SENZA MINERALI E POCO FERTILE
Come ricorda Diamond, «ecologicamente, l’ambiente dell’Australia è eccezionalmente fragile». Per questo «sono già diventati gravi molti problemi che potrebbero prima o poi paralizzare anche altri Paesi ricchi (e che già imperversano in molte zone del Terzo Mondo)». La siccità da cui i continui incendi, infatti, è dovuta al fatto che «l’Australia è il continente meno fertile: ha il suolo mediamente meno ricco di sostanze nutrienti, il tasso di crescita vegetale più basso e la più bassa produttività». E questo «perché il suolo australiano è, per la maggior parte, così vecchio che i suoi minerali sono stati trascinati via dalle innumerevoli piogge. Le rocce più antiche presenti sulla superficie terrestre (quasi 4 miliardi di anni) si trovano nella catena montuosa del Murchison Range, nell’Australia occidentale». La mancanza di vulcani, glaciazioni e sollevamenti non ha permesso un ripristino. Di conseguenza l’agricoltura australiana dipende da un uso e abuso di fertilizzanti e carburanti che aumenta non solo i costi di produzione, ma anche l’impoverimento del suolo e l’effetto serra.
UNA RICONVERSIONE MAI AVVENUTA
Diamond consigliava una riconversione massiccia verso prodotti a più alto valore aggiunto, che ridurrebbero questo impatto. Benissimo dunque il vino. La viticultura australiana è fortunatamente in rapida espansione ed è un boom che secondo l’esperto va incoraggiato. Più si brinda con vino degli antipodi e più si contribuisce a salvare l’ambiente. Ma anche gli allevamenti ovini per Diamond dovrebbero lasciare il passo all’esportazione di carne di canguro, che in molti Paesi è apprezzata, e la cui produzione sarebbe perfettamente sostenibile.
Un koala salvato dai Vigili del fuoco.
Però, come osservava lo stesso geografo con sarcasmo, «gli australiani considerano i canguri soltanto degli animali fastidiosi e dannosi, e non credono che la loro carne possa rimpiazzare una buona cena tradizionale all’inglese, a base di carne di montone e di manzo. Molte organizzazioni per la difesa degli animali si oppongono alla caccia dei canguri, dimenticando però che le condizioni di vita e i metodi di macello degli ovini e dei bovini sono molto più crudeli di quelli dei canguri selvatici. Gli Stati Uniti proibiscono esplicitamente l’importazione di carne di canguro perché questo animale è ritenuto ‘carino’ e perché la moglie di qualche senatore deve aver sentito dire che è una specie a rischio di estinzione. In effetti alcune specie di canguro sono in pericolo, ma non (ovviamente) quelle di cui è autorizzata l’uccisione, che sono anzi molto numerose».
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L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu per scongiurare l’escalation.
Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».
LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN
Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.
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L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu per scongiurare l’escalation.
Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».
LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN
Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.
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Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei..
Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei nostri consumi). Al contrario degli americani che con il fracking, il petrolio dal gas scisto delle rocce, stanno estraendo olio nero negli Usa, gli italiani dipendono quasi totalmente dalle importazioni straniere di greggio. La fragilità dell’Italia negli attacchi tra l’Iran e gli Stati Uniti, e nella contemporanea escalation della guerra in Libia, è prima di tutto nelle conseguenze economiche che una crisi petrolifera come quelle degli Anni 70 avrebbe sul Paese a un passo dalla recessione. Dallo strike degli Usa contro il generale iraniano Qassem Soleimani, le Borse sono in calo e il prezzo del greggio è volato sopra 70 dollari al barile. La pioggia di razzi iraniani in Iraq dell’8 gennaio, in rappresaglia, ha provocato una nuova impennata.
DIPENDENTI USA VIA DAI GIACIMENTI IN IRAQ
Dopo le basi militari, i siti petroliferi degli americani in Iraq – dove c’è anche l’Eni a Zubair, vicino a Bassora – e negli altri Stati del Golfo sono i primi target degli attacchi di Teheran. Un assaggio in questo senso è stato il raid messo a segno nel settembre scorso dagli iraniani agli impianti petroliferi più grandi al mondo, in Arabia Saudita. La regia dell’attacco con droni dall’Iran o dallo Yemen, che bloccò il 6% della produzione petrolifera globale mostrando la vulnerabilità di Raid, fu con ogni probabilità del generale Soleimani, da più di 20 anni a capo delle forze d’élite all’estero (al Quds) dei pasdaran. Dopo il suo omicidio mirato del 3 gennaio, le major americane hanno imbarcato i connazionali impiegati nei campi estrattivi del Sud dell’Iraq e del Kurdistan iracheno su voli verso gli Emirati e il Qatar, ha confermato il ministero del Petrolio di Baghdad.
Il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco President Recep Tayyip Erdogan discutono di Libia, Iran… e petrolio. GETTY.
LA MINACCIA DEL BLOCCO DELLO STRETTO DI HORMUZ
I mercati sono in fibrillazione anche per la minaccia iraniana, mai così concreta, di bloccare alle petroliere loStretto di Hormuz, controllato dai pasdaran, nel Golfo persico. Dalla più importante arteria di transito globale del greggio passa un terzo dell’export totale del petrolio via mare (il 29% verso l’Italia), da tutti i Paesi del Golfo esclusi lo Yemen e l’Oman; e anche tutto il gas naturale liquefatto del Qatar. La possibilità di una crisi energetica per l’Italia è aggravata dalla guerra in Libia diventata aperta tra potenze straniere. Forze rivali libiche e rinforzi arrivati dalla Turchia da una parte e da russi, emiratini ed egiziani dall’altra si dirigono verso la battaglia finale di Tripoli. In Libia gli introiti dell’export del greggio, redistribuite dalla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e dalla Banca centrale libica a tutte le fazioni in campo, sono il carburante del conflitto.
L’uscita o un’estromissione del Cane a quattro zampe dalla Libia è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.
LO STOP DEL GREGGIO DA IRAN E VENEZUELA
Come in Iraq, i vertici delle compagnie rassicurano che le estrazioni proseguono ai livelli invariati del 2019 «attraverso il personale locale». In Libia, a dicembre la produzione nazionale di greggio era arrivata al massimo (1,25 milioni di barili al giorno) da sette anni. Cioè dalla precedente escalation tra il 2013 e il 2014 che sfociò nella battaglia all’aeroporto di Tripoli. Le turbolenze concomitanti in Nord Africa e in Medio Oriente cadono durante un import-export del greggio già rallentato da mesi per le sanzioni massime di Trump all’Iran e dall’embargo totale al Venezuela, maggiore riserva mondiale di petrolio. Se dal 2018 Eni e le altre compagnie occidentali sono uscite dai contratti di esplorazione e di sfruttamento appena avviati con Teheran, dopo l’accordo sul nucleare, in Libia l’uscita o un’estromissione del Cane a sei zampe è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’omologo greco Kyriakos Mitsotakis discutono del gasdotto EastMed. GETTY.
L’ACCORDO TURCO-LIBICO PER SPARTIRSI IL MEDITERRANEO
Eni è la prima e storica compagnia straniera a essere entrata ell’ex colonia italiana, negli Anni 50. Un partner strategico consolidato, sopravvissuto nell’Est all’avanzata del generale filorusso Khalifa Haftar e ben impiantato nella Tripoli islamista, sostenuta da anni dalla Turchia e dal Qatar. Con il Noc gestisce il complesso di raffineria di petrolio e gas a Mellitah, terminal delgreenstream che porta il gas libico verso l’Italia, i contratti con le società petrolifere durano decenni, e parte del gas di Eni serve le centrali elettriche dei libici. In compenso gli italiani rischiano molto nella corsa alle riserve di gas nel Mediterraneo orientale. Con un colpo di spugna, a novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha stretto un accordo bilaterale e arbitrario con la Libia sulla giurisdizione delle acque che spacca in due il mare nostrum, violando il diritto marittimo internazionale.
La disputa sul gas si concentra soprattutto sulle riserve attorno all’isola di Cipro contesa dalla Turchia
TURCHIA CONTRO ITALIANI E FRANCESI A CIPRO
In cambio di armi e rinforzi a terra a Tripoli e Misurata, Erdogan intende accaparrarsi i giacimenti al largo della Grecia e di Cipro, nelle acque dell’Egitto dove l’Eni ha scoperto e sfrutta il grande campo offshore di Zohr, e più a Est in quelle del Leviathan a Sud di Israele. La disputa (anche di altre major straniere) si concentra soprattutto sulle riserve attorno al piccolo Stato dell’Ue conteso dalla Turchia: a ottobre Ankara aveva alzato il livello dello scontro, inviando una nave da trivellazione proprio in un blocco esplorativo affidato da Nicosia a Eni e alla francese Total. Un’entrata a gamba tesa anche nel progetto EastMed – la pipeline concorrente alla russo-turca TurkStream – che passando per Creta dovrebbe portare il gas in Europa. Non a caso, con l’Egitto l’Ue, Italia in testa, ha dichiarato illegittimo l’accordo marittimo turco-libico. Ma mentre l’Ue parla, Erdogan agisce.
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Buckingham Palace ha confermato che la coppia si allontanerà dalla famiglia reale. In una lunga lettera i due hanno spiegato di voler cercare un’autonomia finanziaria a cavallo delle due sponde dell’Atlantico.
Harry e Meghan hanno deciso di fare le valigie. Da ora intendono essere solo reali ‘part time’, non più «membri senior della Royal Family»: formalmente rispettosi dell’autorità della regina e dei loro doveri verso la dinastia dei Windsor – la cosiddetta Firm -, ma decisi a fare la loro vita, a ritagliarsi un’autonomia anche finanziaria e a dividere il loro tempo fra il Regno Unito, gli Usa e il Canada.
LA CONFERMA UFFICIALE DA BUCKINGHAM PALACE
La svolta era stata preannunciata con toni pungenti dal Sun di Rupert Murdoch, uno dei tabloid della destra populista britannica da cui Harry si è sentito perseguitato dopo le nozze del 2018 con l’ex attrice di radici afroamericane, fino ad avviare una raffica di battaglie legali e a evocare il timore di un bis del trattamento inflitto da certi media a sua madre Diana. Sulla decisione la corte aveva inizialmente messo il timbro, salvo poi fermare tutto con un secondo, clamoroso comunicato di smentita con il quale di fatto la regina ha dato per ora un secco altolà ai duchi di Sussex.
I DUBBI DOPO LE VACANZE DELLA COPPIA IN USA
L’annuncio era scoccato al rientro dei duchi di Sussex da un chiacchierato viaggio negli States, dove hanno trascorso le vacanze di Natale con la madre di lei, disertando le tradizionali celebrazioni di casa Windsor. Evidentemente dopo gli ultimi colloqui con la stessa regina, oltre che con Carlo, principe di Galles. E appare il suggello di una sorta di sforzo di emancipazione, seppure solo parziale, dalla famiglia reale britannica dopo mesi nei quali non erano mancati segnali di disagio e indiscrezioni su conflitti a corte: alimentate anche dalla recente intervista televisiva di coppia nella quale Harry aveva parlato di «strade diverse» rispetto al fratello maggiore William, duca di Cambridge e secondo in linea di successione alla corona assieme alla moglie Kate Middleton.
ALLA RICERCA DELL’INDIPENDENZA FINANZIARIA
Per il Sun, in sostanza i Sussex pianificano adesso, almeno per i prossimi mesi, di passare buona parte del tempo in Canada, territorio legato alla monarchia dove la coppia ha già ricevuto accoglienze molto calorose con il piccolo Archie, nato l’anno scorso, e dove Meghan aveva vissuto ai tempi del suo lavoro da attrice per le riprese della serie Suites a Toronto. Buckingham Palace, nel dare la notizia, ha diffuso intanto una dichiarazione ad hoc firmata dai duchi. «Dopo molti mesi di riflessione e di discussioni interne», vi si legge, «abbiamo scelto di avviare quest’anno la transizione per ritagliarci progressivamente un nuovo ruolo dentro l’istituzione» monarchica. «Noi», recita ancora il testo, «intendiamo fare un passo indietro come membri ‘senior’ della Royal Family e lavorare per diventare finanziariamente indipendenti, sebbene continuando a sostenere pienamente Sua Maestà la Regina. Ed è con il vostro incoraggiamento, in particolare negli ultimi anni, che ci sentiamo pronti a intraprendere questo adattamento».
A LAVORO PER LANCIARE UN NUOVO ENTE CARITATEVOLE
«Ora», ha continuato la nota di Harry e Meghan dopo la strizzata d’occhio alla gente comune, «abbiamo in programma di bilanciare il nostro tempo fra il Regno Unito e il Nord America, continuando a onorare i doveri verso la Regina, il Commonwealth e le organizzazioni di cui siamo patroni. Un bilanciamento geografico che ci permetterà di far crescere nostro figlio nel rispetto della tradizione reale in cui è nato, garantendo al contempo spazio alla nostra famiglia per concentrarsi su un nuovo capitolo, incluso il lancio di una nostra nuova entità caritativa» (separata da quella di William e Kate, come già si sapeva).
LE CRITICHE A MEGHAN PER LA SEPARAZIONE
Il messaggio degli ormai ex reali si è poi chiuso con l’impegno a rendere noti «i dettagli» di questa nuova attività «a tempo debito», con il «più profondo ringraziamento» ai loro sostenitori e con l’impegno a continuare a collaborare comunque fra gli altri «con Sua Maestà la Regina, il principe di Galles e il duca di Cambridge». Peccato che la mossa non fosse evidentemente concordata – e resta da capire come, visto il necessario nihil obstat di ogni comunicazione partorita dal palazzo – né con la 93enne sovrana, né con l’erede al trono Carlo. Tanto da suscitare la reazione “irritata” della regina, secondo quanto riferiscono fonti ufficiose citate dal Mail. E da giustificare il plateale contrordine: una seconda nota, firmata dalla vice responsabile della comunicazione reale, Hannah Howard, in cui si legge: «Le discussioni col Duca e la Duchessa di Sussex sono in una fase iniziale. Comprendiamo il loro desiderio di un approccio diverso, ma queste sono questioni complicate e richiedono tempo per essere elaborate». Ma gli ormeggi sembrano ormai mollati. E i media più ostili del Regno sono già pronti a scatenare la polemica. Come conferma fra i primi Piers Morgan, controverso quanto popolare anchorman tv britannico amico di Donald Trump, che si affretta a twittare veleno sulla duchessa di Sussex: «C’è chi dice che io sia troppo critico verso Meghan Markle. Ma la verità è che lei ha scaricato la sua famiglia, ha scaricato suo padre, ha scaricato molti dei vecchi amici, ha diviso Harry da William e ora lo divide dalla Royal Family. E che io ho ragione».
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Prima uscita pubblica per l’ex ad di Renault-Nissan, che ha tenuto una conferenza stampa dopo essere scappato dal Giappone. «Sono innocente. È stato un complotto tra la procura giapponese e l’azienda di Yokohama».
L’ex amministratore delegato di Renault-NissanCarlos Ghosn è comparso a Beirut di fronte ai media dopo la sua fuga dal Giappone dove si trovava in stato di libertà vigilata da più di un anno per accuse di corruzione. «È un giorno felice per me oggi perché sono finalmente libero di esprimermi e di spiegare», ha esordito il manager. «Sono felice per essere ora con la mia famiglia e i miei cari… dopo essermi battuto per 400 giorni per la mia innocenza e dopo esser stato detenuto in condizioni brutali e contro i principi fondamentali del rispetto dei diritti umani».
«FUGGITO PER LIBERARMI DALL’INGIUSTIZIA»
«Non sono qui per raccontarvi come ho lasciato il Giappone», ha attaccato Ghosn, «non mi sono sottratto alla giustizia ma all’ingiustizia e all’oppressione», ha spiegato aggiungendo di non sentirsi al di sopra della legge ma di avere i mezzi «per far emergere la verità». Sulla decisione di fuggire dal Giappone, Ghosn ha detto di aver dovuto affrontare «la scelta più difficile della mia vita… ma era necessario per proteggermi e proteggere la mia famiglia».
L’ACCUSA DI UN COMPLOTTO TRA NISSAN E GIUSTIZIA GIAPPONESE
L’ex ad di Renault-Nissan, ha accusato la stessa società automobilistica e la giustizia giapponese di «aver orchestrato una campagna» e «un complotto» contro di lui. L’ex ad ha detto che «la procura e la società sono in combutta» e che lui «può fare tutti i nomi delle persone coinvolte nel complotto», ma che non vuole «nuocere agli interessi del Libano». Ghosn, che ha la nazionalità francese, brasiliana e libanese, era stato arrestato nel novembre del 2018 e rimasto in carcere per diversi mesi in Giappone.
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Il bilancio provvisorio è di un morto e almeno tre feriti. Gli ultimi aggiornamenti.
Una persona è morta e almeno tre sono rimaste ferite in una sparatoria a Ottawa, in Canada, a circa un chilometri dal parlamento. A dare la notizia è stata la polizia canadese su Twitter, attorno alle 14 italiane dell’8 gennaio. «La polizia sta rispondendo a una sparatoria al 400 di Gilmour Street. Sono stati segnalati diversi feriti. È in corso una risposta coordinata. Si prega di evitare la zona. Seguiranno ulteriori informazioni», si legge nel tweet.
Ancora sconosciuto il motivo della sparatoria. I feriti in gravi condizioni sono già stati trasportati in ospedale, secondo quanto riportato dai media canadesi.
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Sono circa mille i nostri connazionali attivi sul territorio. Di questi 400 nella base di Erbil. Nessun ferito dopo l’attacco di Teheran. La scheda.
Sarebbero tutti in salvo i soldati italiani di stanza a Erbil dopo l’attacco contro la base di Ayn al-Asad in Iraq che ospita militari americani. Proprio a Erbil si trova una parte consistente dei circa mille nostri connzionali attualmente presenti in varie località dell’Iraq. In particolare, dal 2015 è attiva la task force Land composta da militari dell’esercito che hanno compiti di addestramento dei peshmerga, le forze di sicurezza curde.
SONO 400 GLI ITALIANI A ERBIL
I militari italiani presenti a Erbil sarebbero al momento circa 400, di cui 120 istruttori. Nessuno, è stato ribadito, avrebbe subito conseguenze dopo l’attacco. La task force land è inquadrata nel Kurdistan training coordination center (Ktcc), il cui comando è attribuito alternativamente per un semestre all’Italia e alla Germania: a esso contribuiscono nove nazioni, con propri addestratori (Italia, Germania, Olanda, Finlandia, Svezia, Gran Bretagna, Ungheria, Slovenia e Turchia). Gli istruttori militari italiani addestrano i peshmerga in varie discipline: dalla formazione basica di fanteria all’uso dei mortai e dell’artiglieria, dal primo soccorso alla bonifica degli ordigni improvvisati.
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Manifestazioni in 80 città degli Stati Uniti dopo l’omicidio mirato di Soleimani. Si teme una nuova palude in Medio Oriente. Mentre i dem alla Camera annunciano una risoluzione per limitare il presidente.
In più di 80 città degli Usa si manifesta contro lo strike algenerale iraniano Qassem Soleimani. Davanti alla Casa Bianca un migliaio di pacifisti ha condannato il gigantesco azzardo di Donald Trump, e tra loro come sempre da tempo è spiccata un’infervorata Jane Fonda.
DE NIRO CONTRO I PIANI DEL «GANGSTER»
L’attrice e attivista americana che negli Anni 70 si mobilitò contro la palude del Vietnam protesta per scongiurare il «nuovo Vietnam in Medio Oriente». Che milioni di americani temono e che Teheran promette giurando vendetta. Robert De Niro, che a Trump non le manda a dire, è convinto iniziare una guerra sia «l’unico modo» per il «gangster» di «farsi rieleggere».
ALTRI ATTI PER INTERDIRE THE DONALD
Guarda caso con il 2020 si è aperto al Senato il processo per l’impeachment, dove a sorpresa il falco repubblicano John Bolton si è fatto avanti per testimoniare come chiesto dai dem. Se non altro il finimondo scatenato in Medio Oriente oscura la campagna mediatica internazionale sulla messa in stato di accusa di Trump. Eppure proprio l’omicidio mirato di Soleimani in Iraq innesca altri atti per interdire il presidente.
STRIKE LEGITTIMO? DUBBI ANCHE OLTREOCEANO
Diversi esperti di diritti umani e strateghi contestano alla Casa Bianca la «liceità» dell’uccisione di un alto comandante militare, in un Paese terzo, come nel caso di Soleimani. Un «atto di guerra (non la reazione «di difesa» rivendicata dalla segreteria di Stato Usa) anche per l’ex consigliere del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran Gary Sick, tra i massimi conoscitori americani dell’Iran. L’argomentazione di un «attacco terroristico imminente» pianificato da Soleimani contro gli Stati Uniti – dossier dichiarato coperto da segreto di Stato – lascia perplessi anche Oltreoceano. Tecnicamente gli omicidi mirati, anche di figure statali del calibro del comandante delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione, sono ammessi dall’articolo 2 della Costituzione Usa sulla legittima difesa – ma in circostanze limitatissime. A patto che sia pressoché certa la minaccia imminente.
Americani contro la guerra all’Iran di Trump, Usa. (Getty).
NANCY PELOSI TORNA ALLA CARICA
L’incaricata dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, che ha appena guidato l’inchiesta sull’omicidio di Jamal Khashoggi, chiede «trasparenza» dalla Casa Bianca, su un atto estremo – anche per conseguenze – sul quale l’Amministrazione è tenuta a rendicontare. Anche per l’esperta di intelligence, ed ex advisor dell’Onu, Hina Shamsi quanto finora affermato da Trump e dal suo accondiscendente segretario di Stato Mike Pompeo non è convincente come giustificazione: «Se ci sono più informazioni il presidente deve prendersi la responsabilità di diramarle. Non possiamo tirare a indovinare». Per i dem lo strike a Soleimani è «dinamite in una polveriera», ha esclamato l’ex vicepresidente Joe Biden. Mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi – già promotrice dell’impeachment – ha annunciato al voto dell’assemblea a maggioranza democratica una risoluzione «sui poteri di guerra per limitare le azioni militari del presidente».
LA LETTERA SUL RITIRO AMERICANO DALL’IRAQ DIFFUSA PER ERRORE
Un testo per riaffermare la «responsabilità di supervisione del Congresso. Rendendo obbligatoria, in assenza di ulteriori azioni parlamentari, la fine entro 30 giorni delle ostilità militari contro l’Iran», ha anticipato Pelosi. Tenuto conto dell’«attacco «provocatorio e sproporzionato» che «ha messo in serio pericolo i nostri militari, i nostri diplomatici e altri, rischiando una grave escalation di tensione con l’Iran». Il riferimento è alle migliaia di rinforzi mandate dagli Usa con ponti aerei a inizio 2020, in aggiunta alle migliaia di unità già presenti in Medio Oriente. Quando ancora alla fine dell’anno la Casa Bianca premeva per smantellare questi contingenti, dopo il repentino disimpegno dalla Siria. Un clima schizofrenico: dopo lo strike di Soleimani, circola in Rete una misteriosa lettera per la Difesa irachena del Comando generale Usa sul «riposizionamento delle unità» per un «ritiro sicuro», nel «rispetto della sovranità irachena». «Diffusa per errore», ha ammesso il Pentagono, «ma esistente».
In Times Square, a New York, contro le guerre di Trump in Medio Oriente. GETTY.
DAL PENTAGONO ALT ALLA MINACCIA VERSO I SITI CULTURALI
LaGermania e altri Paesi europei hanno iniziato a «snellire» i contingenti in Iraq, l’Italia a «riposizionare» le sue unità fuori dalle basi Usa attaccate a colpi di mortaio. La Nato in sé si è distaccata pubblicamente dall’operazione contro Soleimani «decisa solo dagli Usa». Mentre anche Oltreoceano il Pentagono ha smentito platealmente la minaccia di rappresaglia, diffusa e rilanciata via Twitter dal presidente americano, di «colpire i siti culturali», contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati. Tutto il mondo si è levato contro i raid su Persepoli e sulla ventina di siti persiani patrimonio dell’umanità dell’Unesco: un crimine di guerra in base alla Convenzione dell’Aia del 1954. Ma le migliaia di americani in piazza chiedono di più per le Presidenziali del 2020: «Stop alle bombe in Iraq» e «militari fuori da tutto il Medio Oriente», prima che l’Iran e le sue milizie sciite alleate li caccino col sangue. Il 2 gennaio negli Usa era in programma una trentina di cortei nel weekend, per l’impeachment di Trump.
IMPEACHMENT E IRAN: PROTESTE A CATENA
I razzi del 3 gennaio contro Soleimani e il leader degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al Muhandis hanno moltiplicato le contestazioni. Numeri che in America non si vedevano dalla guerra in Iraq del 2003. A Times Square a New York, davanti alla Trump Tower a Chicago, a Memphis, Miami, San Francisco: contro il flagello di Trump il popolo dei pacifisti – e non solo – è in moto come ai tempi del Vietnam. Un caos anche Oltreoceano, dove lochoc mondiale provocato da Trump sull’Iran si somma alle acque agitate per l’impeachment. È doppio combustibile per le sessioni infuocate del Congresso. Non casuale, in proposito, è il sì di Bolton a parlare per la messa in stato di accusa del presidente: i dem considerano un loro trionfo il passo dell’ex advisor (silurato) di Trump alla Sicurezza nazionale. E nessuno, anche tra i repubblicani, converrebbe come la Casa Bianca che con la morte di Soleimani gli americani «sono più sicuri». Tranne probabilmente Bolton, ma neanche la guerra all’Iran di Trump lo ha placato.
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L’Alto rappresentante Borrell e i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Regno Unito e Germania sono rimasti bloccata a Bruxelles senza sbocchi. E il vertice di pace a Berlino resta un miraggio.
Naufragata la missione diplomatica dell’Unione europea che avrebbe voluto tentare di convincere le due fazioni libiche a deporre le armi, l’Alto rappresentante Josep Borrell e i quattro ministri degli Esteri di Italia, Francia, Regno Unito e Germania hanno dovuto ripiegare su una riunione a Bruxelles. Per ragioni di sicurezza dopo gli ultimi attacchi, è stata la motivazione ufficiale, anche se a pesare sulla decisione con ogni probabilità è stata anche la contrarietà all’iniziativa lasciata trapelare nei giorni scorsi dal governo di Tripoli di Fayez al-Sarraj, forte ora del sostegno militare garantito dalla Turchia.
L’INCOGNITA TURCA A BENGASI
Nell’incontro, fatto traslocare in fretta e furia nella capitale europea, non si è potuto dunque fare altro che ribadire una serie di appelli di principio già espressi nei giorni scorsi dagli stessi attori che hanno partecipato alla riunione: la necessità del dialogo, l’invito a interrompere le interferenze esterne, la de-escalation. Mentre sul campo la realtà procede a passi spediti in tutt’altra direzione, con il generale Khalifa Haftar che sfrutta ogni secondo utile per cercare di guadagnare terreno con le sue truppe, con i soldati turchi che hanno già iniziato a dispiegarsi nel Paese per aiutare Sarraj, con la possibile presenza di mercenari e mezzi russi a fianco delle forze di Bengasi.
IL TOUR DE FORCE DIPLOMATICO DI DI MAIO
L’Europa pensa che sia ancora possibile riuscire a fermare con le parole questo marchingegno sempre più veloce e complicato. In Libia «bisogna parlare con tutti e convincerli a un cessate il fuoco», ha insistito il ministro Luigi Di Maio prima di volare alla volta della Turchia per mettere subito in pratica il proposito, incontrando il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu. Il titolare della Farnesina si sposterà poi nel giro di qualche giorno prima in Egitto, Paese vicino invece ad Haftar, e quindi in Algeria e in Tunisia. Una maratona diplomatica che dimostra la volontà italiana di garantirsi un ruolo di mediazione mantenendosi su una posizione equidistante dalle fazioni in lotta. «Ma l’Ue deve parlare con una voce sola», ha ammonito Di Maio a Bruxelles, dicendosi sicuro che le iniziative europee «vedranno un cambio di passo» nei prossimi giorni.
DI MAIO APRE A UN TAVOLO CON ANKARA E MOSCA
A margine dell’incontro con Cavusoglu Di Maio ha detto di essere pronto «ad aprire un tavolo tecnico con la Turchia e anche con la Russia, perchè in questo momento, per trovare una soluzione alla crisi libica» oltre a «partner come gli Stati Uniti, ci sono paesi importanti come la Russia, l’Egitto e la Turchia che sono fondamentali». «È importante dialogare con tutti e trovare una soluzione tutti insieme», ha aggiunto.
IL MIRAGGIO DEL VERTICE DI BERLINO
L’invito del titolare della Farnesina che affonda il coltello in quella che storicamente è una delle debolezze dell’Ue nella sua proiezione sulla politica estera e che fa il paio con l’appello del commissario europeo italiano Paolo Gentiloni, secondo il quale l’Unione europea deve ora «evitare di trovarsi di fronte a fatti compiuti» e farsi superare da una situazione geopolitica che va «più veloce della nostra ambizione». Per ora l’unica iniziativa concreta a livello europeo sembra essere la conferenza sulla Libia di cui si parla da mesi e che a Berlino dovrebbe far sedere intorno a un tavolo tutti gli attori regionali coinvolti in qualche modo nel conflitto. Anche l’Algeria, che era finora stata tenuta fuori, è stata invitata da Angela Merkel a partecipare all’incontro, per il quale tuttavia non è stata fissata ancora nemmeno una data e che continua a slittare.
IL PESO DELLA CRISI IRANIANA SULLA LIBIA
Intanto, mentre tutti osservano gli sviluppi sul terreno, i valzer dei colloqui e delle telefonate incrociate proseguono. Tra i protagonisti c’è naturalmente anche la Russia, con Putin che vedrà prima Erdogan e poi nel fine settimana la cancelliera tedesca. Anche se l’attenzione e la preoccupazione del mondo, probabilmente anche quella dell’Unione europea, in questo momento sembra essere maggiormente concentrata sulla crisi dell’Iran. E tra i corridoi delle istituzioni europee circolano voci, non confermate, sulla possibilità di un vertice a livello di capi di Stato e di governo sulla complessa situazione mediorientale.
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Putin è volato a sorpresa in Siria per incontrare Assad. Un vertice di sicurezza prima dell’incontro ad Ankara con Erdogan. Così Mosca tenta di puntellare il Medio Oriente dopo la morte di Soleimani.
Nel pieno della crisi che ha investito il Medio Oriente dopo l’eliminazione da parte degli Usa del generale Qassem Soleimani, il presidente russo Vladimir Putin, a sorpresa, si produce in una sortita in Siria, dove ha incontrato il rais Bashar al-Assad. Un fuori programma che si è saldato con la visita prevista per l’8 gennaio a Istanbul – in agenda invece da tempo per tenere a battesimo il gasdotto TurkStream insieme al collega turco Recep Tayyip Erdogan – e che andrà ad aumentare il profilo di mediatore costruito sapientemente dallo zar nel corso dell’ultimo anno.
SUL TAVOLO LIBIA, SIRIA E QUESTIONE ENERGETICA
Il tema del gas, infatti, a questo punto resterà sullo sfondo e per forza di cose la geopolitica prenderà il sopravvento (benché lo scatto in avanti d’Israele, Cipro e Grecia per realizzare il condotto Eastmed, inviso alla Turchia e di certo non gradito da Mosca, va ad aggiungersi al delicato gioco di alleanze in corso nel Mediterraneo orientale). Putin ed Erdogan faranno così il punto della situazione e il Cremlino ha fatto sapere che a Istanbul «si discuterà dell’ulteriore sviluppo della cooperazione russo-turca e di temi internazionali rilevanti, inclusa la situazione in Siria e in Libia».
ANKARA E MOSCA SUI DUE FRONTI LIBICI
La Libia d’altra parte sembra essere il nodo più spinoso sul tavolo, dato che Mosca – pur sostenendo di aver sempre mantenuto rapporti equidistanti fra le parti – ha sostenuto Haftar, c’è chi dice con uomini e mezzi, mentre Ankara si appresta a inviare truppe per spalleggiare il governo di Tripoli. Insomma, se in Siria Putin ed Erdogan hanno trovato un accordo, in Libia rischiano di trovarsi su fronti contrapposti. La crisi siriana, poi, è tutt’altro che faccenda conclusa.
I RISCHI DEL CAOS IRANIANO SULLA SIRIA
L’Iran, terzo puntello della triplice alleanza per tenere in sella Assad (e suo alleato più convinto), ora si ritrova sotto tiro e una sua reazione scomposta potrebbe far saltare i difficili equilibri sperimentati sul campo. Putin, che in Siria visiterà non solo Damasco ma anche “altri siti” non meglio precisati, ha voluto sottolineare come nella capitale siriana «si possano notare, ad occhio nudo, segni di vita pacifica in ripresa». Traduzione: non si metta a rischio l’exit-strategy stilata sin qui per rimettere in piedi la Siria.
UN TOUR PER SONDARE GLI ANIMI
Ecco allora che la sortita dello zar appare come un tour a tappe forzate per sondare gli animi da vicino. Dopo Assad ed Erdogan, infatti, Putin vedrà anche Angela Merkel a Mosca l’11 gennaio appositamente invitata per parlare di «Siria, Libia e Ucraina». Altra mossa per mettere il colbacco sulla crisi mediorientale e mostrarsi come leader responsabile che tenta di risolvere i problemi invece di crearli.
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Carole, che ha raggiunto il marito a Beirut dopo la fuga da Tokyo, è accusata dai pm giapponesi di falsa testimonianza.
Guai per la moglie di Carlos Ghosn. Il pubblico ministero di Tokyo ha infatti spiccato un mandato di arresto per Carole, la 53enne con cittadinanza libanese che si è a lungo battuta per la liberazione del marito criticando duramente il sistema giudiziario giapponese.
L’ACCUSA DI FALSA TESTIMONIANZA DURANTE UN’UDIENZA
La signora che ha raggiunto l’ex numero uno di Renault-Nissan a Beirut dopo la sua rocambolesca fuga da Tokyo dove si trovava in libertà vigilata in attesa di processo per frode industriale e fiscale, è accusata di falsa testimonianza.
LA BATTAGLIA PER IL MARITO
All’ex tycoon 65enne era stato vietato di vedere la propria consorte nel periodo di detenzione, e aveva un accesso limitato alle conversazioni tramite videoconferenza durante la libertà su cauzione. Al suo arrivo in Libano, la scorsa settimana, Ghosn ha escluso che la moglie avesse orchestrato il piano di fuga, insistendo che il progetto era stato ideato da lui personalmente. Carole, che ha anche cittadinanza statunitense, aveva lasciato il Giappone lo scorso aprile dopo il quarto mandato di arresto a carico di Ghosn, ma aveva continuato a battersi per garantirgli un equo processo e la liberazione.
NISSAN HA CALCOLATO PERDITE PER 290 MILIONI DI EURO
Intanto Nissan ha definito la fuga del manager «un atto di sfida contro il sistema giudiziario giapponese». Nel primo comunicato ufficiale la casa automobilistica ha giudicato l’atto «estremamente spiacevole», spiegando che le azioni dell’ex top manager quando era alla guida dell’azienda, rilevate nel corso di un’inchiesta interna, sono giudicate estremamente gravi. Nissan ha aggiunto che continuerà a cooperare con le autorità preposte, e il fatto che Ghosn non si trovi più in Giappone non significa che le accuse nei suoi confronti cadranno. L’indagine interna ha calcolato che le perdite frutto delle malversazioni finanziarie dell’ex tycoon assieme all’ex direttore finanziario statunitense Greg Kelly ammontano a oltre 35 miliardi di yen, quasi 290 milioni di euro.
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I nostri uomini sono stati trasferiti in una zona più sicura. La Germania invece è pronta al ritiro. La Nato sospende temporaneamente l’attività di addestramento sul campo.
La Nato ha confermato il proprio impegno in Iraq anche se le attività di addestramento sono «temporaneamente sospese». Lo ha detto il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg al premier iracheno Adil Abdul Mahdi. «Gli alleati Nato», ha sottolineato Stoltenberg, «rimangono fortemente impegnati nella missione in Iraq che sta contribuendo a rafforzare le forze irachene e impedire il ritorno dell’Isis».
La discussione, è la precisazione, si è incentrata sulla «situazione della sicurezza nella regione e sulle implicazioni per la missione di addestramento non combattente della Nato in Iraq». Il segretario generale ha quindi ricordato che «l’addestramento delle forze locali è uno strumento prezioso per la stabilità e la lotta al terrorismo internazionale» e ha assicurato che l’attività di addestramento sul campo è «temporaneamente sospesa, ma è pronta a continuare quando la situazione lo permetterà». Riguardo alla situazione regionale Stoltenberg ha riferito che gli «alleati hanno chiesto moderazione e una de-escalation e che l’Iran si astenga da ulteriori provocazioni».
LA GERMANIA VERSO IL RITIRO DELLE TRUPPE
Intanto sul campo è cominciato il riposizionamento. La Germania ritirerà alcune delle sue truppe schierate in Iraq nell’ambito della della coalizione anti-Isis. Circa 30 soldati di stanza a Baghdad e Taji saranno trasferiti in Giordania e in Kuwait, ha detto un portavoce del ministero della Difesa alla Afp, aggiungendo che il ritiro «inizierà presto».
L’ITALIA STA PIANIFICANDO UNA PARZIALE RIDISLOCAZIONE
«Nessuna ipotesi di ritiro dei militari italiani», ha dichiarato invece il ministero della Difesa italiano. Come scritto da LaStampa, i nostri soldati hanno lasciato la base americana a Baghdad, da due giorni sotto il tiro dei mortai per essere trasferiti in un luogo più sicuro. Il quartier generale della Coalizione internazionale che opera in Iraq «al momento sta pianificando una parziale ridislocazione degli assetti al di fuori di Baghdad», ha confermato lo Stato Maggiore della Difesa precisando che ciò «non rappresenta un’interruzione della missione e degli impegni presi» dall’Italia con i partner internazionali e che la decisione è stata presa a «livello di coalizione internazionale». La pausa delle attività di addestramento e l’eventuale ridislocazione dei militari italiani dalle zone di operazione irachene, sottolinea infatti lo Stato Maggiore della Difesa, «rientra nei piani di contingenza per la salvaguardia del personale impiegato» e dipendono «solo dalle misure di sicurezza adottate»: dunque «non rappresentano una interruzione della missione e degli impegni presi con la coalizione». Lo Stato Maggiore ricorda inoltre che «gli stati di allertamento e le misure di sicurezza sono decise a livello di coalizione internazionale in coordinamento con le varie nazioni partner».
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La maggior parte degli accusati sono giovani. Duemila case bruciate e 7 milioni di ettari di boschi in fumo. I numeri.
La polizia australiana ha fatto sapere di avere arrestato oltre 180 persone sospettate di avere appiccato incendi nel NuovoGalles del Sud, tre solo nell’ultimo fine settimana, mentre proseguono i devastanti roghi nonostante le piogge degli ultimi giorni in alcune aree del Paese. Lo riporta la stampa australiana. Oltre 7 milioni di ettari di boschi sono bruciati da settembre ad oggi, e nella maggior parte dei casi si è trattato, secondo le autorità, di incendi provocati dall’uomo.
TRA I FERMATI 40 MINORENNI
Tra i fermati, anche 40 minorenni, che saranno giudicati dai tribunali nei prossimi mesi. In tutto sono stati contestati a 183 persone 205 reati connessi agli incendi boschivi; 24 di questi sono accusati di incendio doloso e rischiano una pena massima fino a 21 anni di reclusione. Altri avrebbero provocato i roghi per incuria e disattenzione, accendendo fuochi per cucinare o bruciare rifiuti, incappando comunque nei severissimi divieti in atto dall’inizio dell’emergenza incendi. Solo sabato scorso almeno 60 case sono state distrutte dal fuoco nel Nuovo Galles del Sud.
DUEMILA CASE DISTRUTTE
Almeno 2 mila case sono state distrutte in Australia negli incendi in atto dal settembre scorso, in cui sono morte almeno 25 persone e milioni di animali, mentre i soccorritori si apprestano a far fronte ad un ulteriore peggioramento delle condizioni meteo. Il caldo ha concesso nelle ultime ore una breve tregua, e i vigili del fuoco ne stanno approfittando per ampliare le linee di contenimento intorno ai focolai. È probabile che le temperature saliranno di nuovo verso la fine della settimana, e vi è il timore che i due incendi maggiori in atto nel Nuovo Galles del Sud possano finire per confluire in un unico, gigantesco, fronte di fuoco.
DANNI PER ALMENO 430 MILIONI DI EURO
Il Consiglio delle assicurazioni australiano ha fornito una stima parziale dei danni che ha raggiunto i 700 milioni di dollari australiani (430 milioni di euro), ma si prevede che saranno molto più ingenti.
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