Il numero due della Lega fa un appello alle altre forze politiche: «Sediamoci a un tavolo per cambiare le regole del gioco e dare un governo decente a questo Paese». Ma Salvini lo stoppa.
Un tavolo costituente «per cambiare le regole del gioco». Lo ha proposto il vicesegretario della LegaGiancarlo Giorgetti, appellandosi alle altre forze politiche. Al centro della discussione, in primis, la riscrittura della legge elettorale. «Sediamoci a un tavolo per cambiare tre-quattro regole del gioco e per dare un governo decente a questo Paese», ha detto Giorgetti durante il convegno “Metamorfosi”.
«VA DATA LA POSSIBILITÀ A CHI GOVERNA DI DECIDERE»
A Lucia Annunziata, che gli domandava se ritenesse necessario aprire un tavolo per le riforme, Giorgetti ha risposto: «Era l’unica cosa che bisognava fare il 20 di agosto. Interesse dell’Italia è che questo governo non vada avanti così, ci si mette d’accordo per cambiare le quattro-cinque cose necessarie,magari anche la legge elettorale per dare la possibilità a chi governa di decidere».
SALA SULLA STESSA LUNGHEZZA D’ONDA
«Se la struttura costituzionale rimane quella di adesso e si torna al sistema proporzionale, questo Paese è spacciato, indipendentemente da chi va al governo. Lo dico non autorizzato da Salvini, quindi nessuno può dire che io suggerisco…» Con lui sul palco il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che ha condiviso l’idea: «Sono d’accordo, anch’io oggi vedrei la necessità di una costituente a cui partecipano persone che sanno di cosa parlano». Secondo Giorgetti «l’interesse dell’Italia è che questo governo non vada avanti così: ci si mette d’accordo per dare la possibilità a chi governa di decidere».
ANCHE RENZI APRE AL NUMERO DUE LEGHISTA
«Oggi Giorgetti della Lega lancia l’idea di scrivere tutti insieme le regole del gioco. Mi sembra una proposta saggia e intelligente. Italia viva c’è», ha scritto su Twitter Matteo Renzi. Decisamente più freddo Matteo Salvini. «Sono impegnato in temi molto più concreti», ha detto il leader della Lega a margine di un incontro a Capriano Briosco. Per Salvini, la proposta di Giorgetti «può essere interessante in prospettiva, però incontrando gli italiani, dalla Calabria alla Romagna, mi chiedono meno tasse e meno burocrazia oggi. Quindi me ne occuperò più avanti».
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Il numero due della Lega fa un appello alle altre forze politiche: «Sediamoci a un tavolo per cambiare le regole del gioco e dare un governo decente a questo Paese». Ma Salvini lo stoppa.
Un tavolo costituente «per cambiare le regole del gioco». Lo ha proposto il vicesegretario della LegaGiancarlo Giorgetti, appellandosi alle altre forze politiche. Al centro della discussione, in primis, la riscrittura della legge elettorale. «Sediamoci a un tavolo per cambiare tre-quattro regole del gioco e per dare un governo decente a questo Paese», ha detto Giorgetti durante il convegno “Metamorfosi”.
«VA DATA LA POSSIBILITÀ A CHI GOVERNA DI DECIDERE»
A Lucia Annunziata, che gli domandava se ritenesse necessario aprire un tavolo per le riforme, Giorgetti ha risposto: «Era l’unica cosa che bisognava fare il 20 di agosto. Interesse dell’Italia è che questo governo non vada avanti così, ci si mette d’accordo per cambiare le quattro-cinque cose necessarie,magari anche la legge elettorale per dare la possibilità a chi governa di decidere».
SALA SULLA STESSA LUNGHEZZA D’ONDA
«Se la struttura costituzionale rimane quella di adesso e si torna al sistema proporzionale, questo Paese è spacciato, indipendentemente da chi va al governo. Lo dico non autorizzato da Salvini, quindi nessuno può dire che io suggerisco…» Con lui sul palco il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che ha condiviso l’idea: «Sono d’accordo, anch’io oggi vedrei la necessità di una costituente a cui partecipano persone che sanno di cosa parlano». Secondo Giorgetti «l’interesse dell’Italia è che questo governo non vada avanti così: ci si mette d’accordo per dare la possibilità a chi governa di decidere».
ANCHE RENZI APRE AL NUMERO DUE LEGHISTA
«Oggi Giorgetti della Lega lancia l’idea di scrivere tutti insieme le regole del gioco. Mi sembra una proposta saggia e intelligente. Italia viva c’è», ha scritto su Twitter Matteo Renzi. Decisamente più freddo Matteo Salvini. «Sono impegnato in temi molto più concreti», ha detto il leader della Lega a margine di un incontro a Capriano Briosco. Per Salvini, la proposta di Giorgetti «può essere interessante in prospettiva, però incontrando gli italiani, dalla Calabria alla Romagna, mi chiedono meno tasse e meno burocrazia oggi. Quindi me ne occuperò più avanti».
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Nell’emendamento dem prevista un’aliquota del 10%. La misura era già stata bocciata dalla Camera dei deputati a maggio. Sarà questo il mese buono per le italiane?
Se questa volta la proposta fosse approvata, finalmente le donne non saranno più costrette a pagare a un’Iva al 22% sugli assorbenti. Con un emendamento al decreto legge sul fisco presentato in commissione Finanze alla Camera il Partito Democratico rilancia il taglio alla tassa sulle mestruazioni che la Camera dei deputati aveva già rigettato a maggio.
MILLE EMENDAMENTI, CONDONO PD E CRITICHE DA CONFINDUSTRIA
In realtà sono circa mille gli emendamenti al decreto fiscale presentati alla Camera. Il Pd chiede anche di estendere anche agli avvisi bonari la pace fiscale. Quanto alla manovra, si va verso la modifica della sugar tax e anche della plastic tax, che resta nel mirino di Confindustria. Secondo l’associazione degli imprenditori, la tassa sugli imballaggi costa 109 euro l’anno a famiglia, mentre l’aumento della tassa sulle auto aziendali sarebbe ‘una stangata per 2 milioni di lavoratori’.
LA NUOVA VERSIONE PREVEDE L’IVA AL 10%
La nuova formulazione dell’emendamento contro la cosiddetta “tampon tax” prevede che «ai prodotti sanitari e igienici femminili, quali tamponi interni, assorbenti igienici esterni, coppe e spugne mestruali, si applica l’aliquota del 10 per cento dell’imposta sul valore aggiunto (Iva)» contro l’attuale 22.
LA BOCCIATURA DI MAGGIO PER UN COSTO DI 212 MILIONI
A maggio dello scorso anno la stessa misura era stata respinta con 253 deputati contrari e appena 189 voti favorevoli. All’epoca il costo del taglio era stato calcolato dalla Ragioneria dello Stato in 212 milioni di euro. La bocciatura della misura era stata contestata ampiamente e sul web era stata lanciata la petizione “il ciclo non è un lusso” per far riconoscere che il ciclo mestruale riguarda più di metà della popolazione, anche se quella con in mano le maggiori leve del potere, anche legislativo. Che questo sia il mese buono per cambiare le cose?
BOLDRINI: «PROPOSTA BIPARTISAN»
«Insieme ad altre 32 deputate di vari gruppi politici, sia di maggioranza che di opposizione, ho sottoscritto un emendamento al decreto fiscale che riduce dal 22 al 10% l’Iva sui prodotti sanitari e igienici femminili. Perché non sono beni di lusso ma una necessità!», ha scritto in una nota Laura Boldrini aggiungendo l’hashtag “#NoTamponTax“.
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Nell’emendamento dem prevista un’aliquota del 10%. La misura era già stata bocciata dalla Camera dei deputati a maggio. Sarà questo il mese buono per le italiane?
Se questa volta la proposta fosse approvata, finalmente le donne non saranno più costrette a pagare a un’Iva al 22% sugli assorbenti. Con un emendamento al decreto legge sul fisco presentato in commissione Finanze alla Camera il Partito Democratico rilancia il taglio alla tassa sulle mestruazioni che la Camera dei deputati aveva già rigettato a maggio.
MILLE EMENDAMENTI, CONDONO PD E CRITICHE DA CONFINDUSTRIA
In realtà sono circa mille gli emendamenti al decreto fiscale presentati alla Camera. Il Pd chiede anche di estendere anche agli avvisi bonari la pace fiscale. Quanto alla manovra, si va verso la modifica della sugar tax e anche della plastic tax, che resta nel mirino di Confindustria. Secondo l’associazione degli imprenditori, la tassa sugli imballaggi costa 109 euro l’anno a famiglia, mentre l’aumento della tassa sulle auto aziendali sarebbe ‘una stangata per 2 milioni di lavoratori’.
LA NUOVA VERSIONE PREVEDE L’IVA AL 10%
La nuova formulazione dell’emendamento contro la cosiddetta “tampon tax” prevede che «ai prodotti sanitari e igienici femminili, quali tamponi interni, assorbenti igienici esterni, coppe e spugne mestruali, si applica l’aliquota del 10 per cento dell’imposta sul valore aggiunto (Iva)» contro l’attuale 22.
LA BOCCIATURA DI MAGGIO PER UN COSTO DI 212 MILIONI
A maggio dello scorso anno la stessa misura era stata respinta con 253 deputati contrari e appena 189 voti favorevoli. All’epoca il costo del taglio era stato calcolato dalla Ragioneria dello Stato in 212 milioni di euro. La bocciatura della misura era stata contestata ampiamente e sul web era stata lanciata la petizione “il ciclo non è un lusso” per far riconoscere che il ciclo mestruale riguarda più di metà della popolazione, anche se quella con in mano le maggiori leve del potere, anche legislativo. Che questo sia il mese buono per cambiare le cose?
BOLDRINI: «PROPOSTA BIPARTISAN»
«Insieme ad altre 32 deputate di vari gruppi politici, sia di maggioranza che di opposizione, ho sottoscritto un emendamento al decreto fiscale che riduce dal 22 al 10% l’Iva sui prodotti sanitari e igienici femminili. Perché non sono beni di lusso ma una necessità!», ha scritto in una nota Laura Boldrini aggiungendo l’hashtag “#NoTamponTax“.
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Nell’emendamento dem prevista un’aliquota del 10%. La misura era già stata bocciata dalla Camera dei deputati a maggio. Sarà questo il mese buono per le italiane?
Se questa volta la proposta fosse approvata, finalmente le donne non saranno più costrette a pagare a un’Iva al 22% sugli assorbenti. Con un emendamento al decreto legge sul fisco presentato in commissione Finanze alla Camera il Partito Democratico rilancia il taglio alla tassa sulle mestruazioni che la Camera dei deputati aveva già rigettato a maggio.
MILLE EMENDAMENTI, CONDONO PD E CRITICHE DA CONFINDUSTRIA
In realtà sono circa mille gli emendamenti al decreto fiscale presentati alla Camera. Il Pd chiede anche di estendere anche agli avvisi bonari la pace fiscale. Quanto alla manovra, si va verso la modifica della sugar tax e anche della plastic tax, che resta nel mirino di Confindustria. Secondo l’associazione degli imprenditori, la tassa sugli imballaggi costa 109 euro l’anno a famiglia, mentre l’aumento della tassa sulle auto aziendali sarebbe ‘una stangata per 2 milioni di lavoratori’.
LA NUOVA VERSIONE PREVEDE L’IVA AL 10%
La nuova formulazione dell’emendamento contro la cosiddetta “tampon tax” prevede che «ai prodotti sanitari e igienici femminili, quali tamponi interni, assorbenti igienici esterni, coppe e spugne mestruali, si applica l’aliquota del 10 per cento dell’imposta sul valore aggiunto (Iva)» contro l’attuale 22.
LA BOCCIATURA DI MAGGIO PER UN COSTO DI 212 MILIONI
A maggio dello scorso anno la stessa misura era stata respinta con 253 deputati contrari e appena 189 voti favorevoli. All’epoca il costo del taglio era stato calcolato dalla Ragioneria dello Stato in 212 milioni di euro. La bocciatura della misura era stata contestata ampiamente e sul web era stata lanciata la petizione “il ciclo non è un lusso” per far riconoscere che il ciclo mestruale riguarda più di metà della popolazione, anche se quella con in mano le maggiori leve del potere, anche legislativo. Che questo sia il mese buono per cambiare le cose?
BOLDRINI: «PROPOSTA BIPARTISAN»
«Insieme ad altre 32 deputate di vari gruppi politici, sia di maggioranza che di opposizione, ho sottoscritto un emendamento al decreto fiscale che riduce dal 22 al 10% l’Iva sui prodotti sanitari e igienici femminili. Perché non sono beni di lusso ma una necessità!», ha scritto in una nota Laura Boldrini aggiungendo l’hashtag “#NoTamponTax“.
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Nell’emendamento dem prevista un’aliquota del 10%. La misura era già stata bocciata dalla Camera dei deputati a maggio. Sarà questo il mese buono per le italiane?
Se questa volta la proposta fosse approvata, finalmente le donne non saranno più costrette a pagare a un’Iva al 22% sugli assorbenti. Con un emendamento al decreto legge sul fisco presentato in commissione Finanze alla Camera il Partito Democratico rilancia il taglio alla tassa sulle mestruazioni che la Camera dei deputati aveva già rigettato a maggio.
MILLE EMENDAMENTI, CONDONO PD E CRITICHE DA CONFINDUSTRIA
In realtà sono circa mille gli emendamenti al decreto fiscale presentati alla Camera. Il Pd chiede anche di estendere anche agli avvisi bonari la pace fiscale. Quanto alla manovra, si va verso la modifica della sugar tax e anche della plastic tax, che resta nel mirino di Confindustria. Secondo l’associazione degli imprenditori, la tassa sugli imballaggi costa 109 euro l’anno a famiglia, mentre l’aumento della tassa sulle auto aziendali sarebbe ‘una stangata per 2 milioni di lavoratori’.
LA NUOVA VERSIONE PREVEDE L’IVA AL 10%
La nuova formulazione dell’emendamento contro la cosiddetta “tampon tax” prevede che «ai prodotti sanitari e igienici femminili, quali tamponi interni, assorbenti igienici esterni, coppe e spugne mestruali, si applica l’aliquota del 10 per cento dell’imposta sul valore aggiunto (Iva)» contro l’attuale 22.
LA BOCCIATURA DI MAGGIO PER UN COSTO DI 212 MILIONI
A maggio dello scorso anno la stessa misura era stata respinta con 253 deputati contrari e appena 189 voti favorevoli. All’epoca il costo del taglio era stato calcolato dalla Ragioneria dello Stato in 212 milioni di euro. La bocciatura della misura era stata contestata ampiamente e sul web era stata lanciata la petizione “il ciclo non è un lusso” per far riconoscere che il ciclo mestruale riguarda più di metà della popolazione, anche se quella con in mano le maggiori leve del potere, anche legislativo. Che questo sia il mese buono per cambiare le cose?
BOLDRINI: «PROPOSTA BIPARTISAN»
«Insieme ad altre 32 deputate di vari gruppi politici, sia di maggioranza che di opposizione, ho sottoscritto un emendamento al decreto fiscale che riduce dal 22 al 10% l’Iva sui prodotti sanitari e igienici femminili. Perché non sono beni di lusso ma una necessità!», ha scritto in una nota Laura Boldrini aggiungendo l’hashtag “#NoTamponTax“.
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Il giudizio degli imprenditori: «È insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Nel mirino soprattutto le tasse sulla plastica e sulle auto aziendali.
Una manovra «insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Confindustria ha bocciato in parlamento la legge di bilancio presentata dal governo giallorosso. Gli imprenditori, rappresentati dal direttore generale dell’associazione Marcella Pannucci, non hanno usato mezzi termini: «Manca un disegno di politica economica capace di invertire la tendenza negativa. Anzi, in alcuni casi, si produce un effetto opposto».
Nel mirino ci sono soprattutto la tassa sulla plastica e l’aumento delle imposte sulle auto aziendali. La prima, pur comportando benefici ambientali, secondo Confindustria «penalizza i prodotti e non i comportamenti». Dunque «rappresenta unicamente una leva per rastrellare risorse», «danneggia pesantemente un intero settore produttivo» e «determina un aumento medio pari al 10% del prezzo di prodotti di larghissimo consumo, contribuendo a indebolire la domanda interna». L’impatto sulla spesa delle famiglie viene stimato in «circa 109 euro all’anno».
Ancora più dura la presa di posizione contro l’innalzamento della tassazione sulle auto aziendali: «Rappresenta una vera e propria stangata per circa due milioni di lavoratori, oltre a incidere su un settore economico, quello dell’automotive, già penalizzato su altri fronti. Di fatto si tassa un bene già tassato e lo si fa intervenendo sulla busta paga dei dipendenti e sugli oneri contributivi dei datori di lavoro». Una «contraddizione» anche rispetto al «condivisibile» taglio del cuneo fiscale, che costituisce al contrario uno dei pochi «interventi positivi» contenuti nella manovra.
In conclusione, se la disattivazione delle clausole di salvaguardia era «necessaria per non deprimere i consumi», l’inasprimento della tassazione «finisce comunque per ripercuotersi, con impronta settoriale, sul consumo di specifici beni e servizi: dalla plastica monouso alle bevande zuccherate, passando per i giochi, i servizi digitali, i tabacchi e i prodotti accessori, per finire alle auto aziendali». Un’azione di bilanciamento «irragionevole per il mondo produttivo».
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Il giudizio degli imprenditori: «È insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Nel mirino soprattutto le tasse sulla plastica e sulle auto aziendali.
Una manovra «insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Confindustria ha bocciato in parlamento la legge di bilancio presentata dal governo giallorosso. Gli imprenditori, rappresentati dal direttore generale dell’associazione Marcella Pannucci, non hanno usato mezzi termini: «Manca un disegno di politica economica capace di invertire la tendenza negativa. Anzi, in alcuni casi, si produce un effetto opposto».
Nel mirino ci sono soprattutto la tassa sulla plastica e l’aumento delle imposte sulle auto aziendali. La prima, pur comportando benefici ambientali, secondo Confindustria «penalizza i prodotti e non i comportamenti». Dunque «rappresenta unicamente una leva per rastrellare risorse», «danneggia pesantemente un intero settore produttivo» e «determina un aumento medio pari al 10% del prezzo di prodotti di larghissimo consumo, contribuendo a indebolire la domanda interna». L’impatto sulla spesa delle famiglie viene stimato in «circa 109 euro all’anno».
Ancora più dura la presa di posizione contro l’innalzamento della tassazione sulle auto aziendali: «Rappresenta una vera e propria stangata per circa due milioni di lavoratori, oltre a incidere su un settore economico, quello dell’automotive, già penalizzato su altri fronti. Di fatto si tassa un bene già tassato e lo si fa intervenendo sulla busta paga dei dipendenti e sugli oneri contributivi dei datori di lavoro». Una «contraddizione» anche rispetto al «condivisibile» taglio del cuneo fiscale, che costituisce al contrario uno dei pochi «interventi positivi» contenuti nella manovra.
In conclusione, se la disattivazione delle clausole di salvaguardia era «necessaria per non deprimere i consumi», l’inasprimento della tassazione «finisce comunque per ripercuotersi, con impronta settoriale, sul consumo di specifici beni e servizi: dalla plastica monouso alle bevande zuccherate, passando per i giochi, i servizi digitali, i tabacchi e i prodotti accessori, per finire alle auto aziendali». Un’azione di bilanciamento «irragionevole per il mondo produttivo».
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Il giudizio degli imprenditori: «È insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Nel mirino soprattutto le tasse sulla plastica e sulle auto aziendali.
Una manovra «insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Confindustria ha bocciato in parlamento la legge di bilancio presentata dal governo giallorosso. Gli imprenditori, rappresentati dal direttore generale dell’associazione Marcella Pannucci, non hanno usato mezzi termini: «Manca un disegno di politica economica capace di invertire la tendenza negativa. Anzi, in alcuni casi, si produce un effetto opposto».
Nel mirino ci sono soprattutto la tassa sulla plastica e l’aumento delle imposte sulle auto aziendali. La prima, pur comportando benefici ambientali, secondo Confindustria «penalizza i prodotti e non i comportamenti». Dunque «rappresenta unicamente una leva per rastrellare risorse», «danneggia pesantemente un intero settore produttivo» e «determina un aumento medio pari al 10% del prezzo di prodotti di larghissimo consumo, contribuendo a indebolire la domanda interna». L’impatto sulla spesa delle famiglie viene stimato in «circa 109 euro all’anno».
Ancora più dura la presa di posizione contro l’innalzamento della tassazione sulle auto aziendali: «Rappresenta una vera e propria stangata per circa due milioni di lavoratori, oltre a incidere su un settore economico, quello dell’automotive, già penalizzato su altri fronti. Di fatto si tassa un bene già tassato e lo si fa intervenendo sulla busta paga dei dipendenti e sugli oneri contributivi dei datori di lavoro». Una «contraddizione» anche rispetto al «condivisibile» taglio del cuneo fiscale, che costituisce al contrario uno dei pochi «interventi positivi» contenuti nella manovra.
In conclusione, se la disattivazione delle clausole di salvaguardia era «necessaria per non deprimere i consumi», l’inasprimento della tassazione «finisce comunque per ripercuotersi, con impronta settoriale, sul consumo di specifici beni e servizi: dalla plastica monouso alle bevande zuccherate, passando per i giochi, i servizi digitali, i tabacchi e i prodotti accessori, per finire alle auto aziendali». Un’azione di bilanciamento «irragionevole per il mondo produttivo».
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Il giudizio degli imprenditori: «È insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Nel mirino soprattutto le tasse sulla plastica e sulle auto aziendali.
Una manovra «insufficiente rispetto alle esigenze del Paese». Confindustria ha bocciato in parlamento la legge di bilancio presentata dal governo giallorosso. Gli imprenditori, rappresentati dal direttore generale dell’associazione Marcella Pannucci, non hanno usato mezzi termini: «Manca un disegno di politica economica capace di invertire la tendenza negativa. Anzi, in alcuni casi, si produce un effetto opposto».
Nel mirino ci sono soprattutto la tassa sulla plastica e l’aumento delle imposte sulle auto aziendali. La prima, pur comportando benefici ambientali, secondo Confindustria «penalizza i prodotti e non i comportamenti». Dunque «rappresenta unicamente una leva per rastrellare risorse», «danneggia pesantemente un intero settore produttivo» e «determina un aumento medio pari al 10% del prezzo di prodotti di larghissimo consumo, contribuendo a indebolire la domanda interna». L’impatto sulla spesa delle famiglie viene stimato in «circa 109 euro all’anno».
Ancora più dura la presa di posizione contro l’innalzamento della tassazione sulle auto aziendali: «Rappresenta una vera e propria stangata per circa due milioni di lavoratori, oltre a incidere su un settore economico, quello dell’automotive, già penalizzato su altri fronti. Di fatto si tassa un bene già tassato e lo si fa intervenendo sulla busta paga dei dipendenti e sugli oneri contributivi dei datori di lavoro». Una «contraddizione» anche rispetto al «condivisibile» taglio del cuneo fiscale, che costituisce al contrario uno dei pochi «interventi positivi» contenuti nella manovra.
In conclusione, se la disattivazione delle clausole di salvaguardia era «necessaria per non deprimere i consumi», l’inasprimento della tassazione «finisce comunque per ripercuotersi, con impronta settoriale, sul consumo di specifici beni e servizi: dalla plastica monouso alle bevande zuccherate, passando per i giochi, i servizi digitali, i tabacchi e i prodotti accessori, per finire alle auto aziendali». Un’azione di bilanciamento «irragionevole per il mondo produttivo».
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Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.
Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.
CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»
Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».
SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO
Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.
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Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.
Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.
CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»
Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».
SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO
Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.
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Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.
Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.
CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»
Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».
SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO
Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.
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Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.
Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.
CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»
Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».
SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO
Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.
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Il premier riceve la cancelliera a Roma. Dal dossier immigrazione alla necessità di rafforzare la governance europea: i temi sul tavolo.
Dalla crisi libica al dossier immigrazione, passando per il rafforzamento della governance europea. Sono i temi più importanti al centro dell’incontro in programma l’11 novembre a Roma tra il premier Giuseppe Conte e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Ma la cena di lavoro arriva anche in concomitanza con le battute finali della trattativa su Alitalia. Trattativa che coinvolge anche il colosso tedesco Lufthansa. Ed è dunque probabile che finisca sul tavolo dell’incontro. Prima a due, e poi allargato alle delegazioni al completo.
Il dossier libico e quello sui migranti saranno tra i temi principali, a una settimana dal summit di Berlino “Compact with Africa“, che avrà la Libia come tema chiave e vedrà anche la partecipazione di Conte. Sulla questione, Italia e Germania sono in sintonia: entrambe contrarie a qualsiasi soluzione diversa da quella politica, entrambe convinti della necessità di un meccanismo europeo di redistribuzione dei migranti. Non a caso, il 10 novembre, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha ringraziato Berlino per la solidarietà mostrata in questi ultimi mesi per il ricollocamento di chi sbarca sulle coste italiane.
UNA RISPOSTA «COESA» CONTRO I DAZI USA
Ma Merkel e Conte parleranno anche di economia. La Germania è in recessione tecnica. L’Italia rallenta. Per Berlino e Roma, i dazi Usa impongono una risposta organica e «coesa» di tutta l’Ue. Un’Ue che – e questo sarà la posizione di Conte – è chiamata ad allargare le maglie su investimenti per crescita e occupazione. In questo contesto s’inserisce la necessità, caldeggiata dall’Italia e sostenuta dalla Germania, di un rafforzamento della “governance” economica europea, da mettere in atto sfruttando l’inizio della nuova legislatura Ue.
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In occasione della caduta del Muro di Berlino in molti ex si sono affannati a prendere le distanze con il loro passato. Ed è questo sentimento di vergogna una delle cause delle sconfitte della sinistra di oggi.
L’anniversario della caduta del Muro di Berlino è stato ricordato con articoli, interviste, speciali televisivi (ottimo quello di Ezio Mauro), confessioni di dirigenti del Pci e testimonianze varie. Tutti protagonisti, todos caballeros.
Accade, non so se solo in Italia, che i grandi fatti storici abbiamo ormai numerosi personaggi che rivelano di aver svolto ruoli che nell’anniversario dell’evento nessuno aveva preso in considerazione. Capita così di leggere che moltissimi italiani, e fra questi moltissimi comunisti, abbiano abbattuto il Muro assieme a quei poveri disgraziati di Berlino Est.
Mi capita spesso anche di ascoltare racconti sulla politica del Pci e su l’Unità di chi sostiene di aver vissuto da protagonista quelle pagine ed io (che c’ero) non mi ricordo della loro esistenza o soprattutto del loro ruolo. Stranezze!
C’È ANCORA CHI CONFONDE IL PCI CON IL COMUNISMO DELL’EST
Due cose mi colpiscono di questi racconti. Una è la prosopopea di intellettuali e giornalisti di destra, spesso con un netto profilo fascista, che sono saliti in cattedra come maestri di libertà. L’altro è l’imbarazzo dei comunisti, ex o post. Mi interessano questi ultimi.
Molti oggi sembrano non capire perché sono stati comunisti e si affannano o a negare di esserlo stati ovvero a pentirsi di aver fatto questa scelta di vita
Si coglie, leggendo interviste e memorie, che tutti loro (tranne ovviamente quelli che non hanno cambiato idea) non capiscono perché sono stati comunisti e si affannano o a negare di esserlo stati ovvero a pentirsi di aver fatto questa scelta di vita, talvolta giovanile. Ci sono pezzi di verità in queste imbarazzanti ricostruzioni autobiografiche. Una delle verità è che il comunismo italiano non era la fotocopia di quello dell’Est, cosa che sanno tutti tranne Matteo Salvini, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Ce ne siamo fatti una ragione. Tuttavia resta il buco nell’anima di chi si ritrova con una biografia di cui oggi si imbarazza. A me non è capitato.
IL PCI È STATA UNO SCUOLA POLITICA E DI VITA
Io sono stato comunista e comunista nel Pci. Ho anche avuto un breve trascorso nel Psiup, militando in una segreteria nazionale dei giovani in cui c’erano Mauro Rostagno, Luigi Bobbio e Pietro Marcenaro, e da quel partito ne sono uscito dopo i carri armati di Praga che i dirigenti pisuppini non criticavano abbastanza. L’intera mia vita di cittadino ha coinciso con quella del mio partito, quando decisi, adolescente, che era arrivato il momento di schierarmi con la sinistra e formarmi, da solo, alla cultura marxista e leninista. Metto la “e” e non il trattino.
Alcuni momenti della ‘Festa de l’Unità’ di Firenze nell’edizione del 1948.
Nessuno mi ha ingannato, come sembrano dire molti comunisti pentiti di oggi, e tornassi indietro farei le stesse cose, più o meno. Diventai comunista perché al Sud l’alternativa era la destra neofascista, aggressivissima, e l’altra alternativa era la “clientela” democristiana, ma soprattutto perché il comunismo e il suo partito sembravano il luogo e il mezzo del riscatto. Mi/ci muoveva l’ansia per una società diversa, egualitaria, solidale e internazionalista.
Nel Pci ho imparato a essere un cittadino rispettoso della Costituzione e delle legalità
Non c’è una sola battaglia, un solo sciopero, un solo corteo che non rifarei. Nessuno dei miei compagni e compagne dell’epoca è stato un incontro inutile. Nel Pci ho imparato a essere un cittadino rispettoso della Costituzione e delle legalità. Ho imparato anche che per lasciare libere le ambizioni bisognava anche disciplinarsi e tener conto degli altri. Ho imparato a obbedire e comandare. A provare la gioia della promozione e l’amarezza della caduta. Ho imparato che in questa gara per diventare dirigente era fondamentale studiare molto e non aver paura, fisicamente, di niente.
I COMUNISTI ITALIANI NON SI SENTIVANO STRANIERI IN PATRIA
Non butto via niente di quel passato. Tutto ciò non è avvenuto per una “fede”. Non siamo stati un gruppo neo-catacumenale. La fidelizzazione verso il partito era molto laica. Lo rispettavamo, era casa nostra e questo partito, a differenza di quello che accadeva ai ragazzi di destra, non ci spingeva a considerarci estranei alla nostra patria rinata con la Liberazione e la Costituzione. Quando il partito ci impose di mettere sempre accanto alla bandiera rossa quella italiana, pochissimi di noi recalcitrono.
Enrico Berlinguer nel 1984 durante una manifestazione del Pci.
Siamo cresciuti, noi che fummo poi quelli del ’68, avendo di fronte un gruppo dirigente comunista ineguagliabile, con intellettuali-politici di straordinaria cultura (ascoltare Paolo Bufalini,Alessandro Natta: che vi siete persi!), persone che stavano in mezzo al popolo e ti giudicavano in base al fatto che anche tu sapevi stare lì. E poi il carisma inspiegabile di Enrico Berlinguer, che era forse un gradino al di sotto di Giorgio Amendola e Pietro Ingrao sul piano della profondità culturale, ma rappresentava i valori di tenacia, generosità, onestà che volevamo fossero le nostre bandiere.
LE SCONFITTE DELLA SINISTRA PARTONO DALLA VERGOGNA VERSO IL PASSATO
Ecco io sono stato comunista. Di che mi dovrei pentire? Posso elencare gli errori del partito (dal legame con l’Urss fino ai pessimi rapporti con Bettino Craxi) ma che cosa c’è oggi che sia superiore a quel che eravamo? La nostra fine è stata una malattia autoprodotta.
Massimo D’Alema con Achille Occhetto e Piero Fassino in un’immagine d’archivio del 3 febbraio 1991 a Rimini, durante il 20/mo e ultimo congresso del Pci, che sarebbe diventato Pds.
Non abbiamo visto che il mondo accelerava, molte cose non le abbiamo percepite, siamo arrivati alla scelta della Bolognina tardi e male. Ma noi ci siamo arrivati. Tanti saccenti di oggi, comunisti pentiti, intellettuali liberali, addirittura “destri” che ci governeranno nel prossimo futuro non hanno mai messo in discussione le proprie certezze, la propria storia come abbiamo fatto noi.
Il popolo comunista non c’è più, il Pdnon è la sua ultima ridotta,
Oggi persino dire “noi” è esagerato. Il popolo comunista non c’è più, il Pd non è la sua ultima ridotta, siamo sparsi nella società ma, a modo nostro, ci siamo. Ecco perché ogni volta che vedo un compagno (spesso si tratta solo di maschi) che si ri-pente, che si vergogna di quel che è stato, che raffigura la sua/nostra storia secondo categorie ridicole (una chiesa, una struttura autoritaria, un mondo di conservatori) capisco le ragioni delle sconfitte di oggi e domani. Mi chiedo solo come sia potuto succedere che un partito che ha avuto alcuni milioni di iscritti e oltre una decina di milioni di voti sia stato così affollato di idioti che erano capitati lì per caso.
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Prima la svolta europeista (fuori tempo massimo), poi l’apertura a Draghi come futuro presidente della Repubblica. Il segretario della Lega, per convenienza, sembra aver cambiato registro. Sempre che non si tratti solo di un bluff per rassicurare i mercati e gli elettori.
Stare un poco all’opposizione ha qualche vantaggio per un politico perché aiuta a riflettere. Matteo Salvini sta riflettendo? Alcuni segnali recenti lo indicano, ma tuttavia sono al momento insufficienti per chi ritiene che la Legasalviniana abbia causato seri danni al Paese con le sue stentoree e spesso futili polemicheanti-Ue e anti-euro.
LA CONVERSIONE EUROPEISTA NELL’INTERVISTA AL FOGLIO
Il primo segnale è arrivato a metà ottobre con un’intervista a Il Foglio dove Salvini sottoscriveva in modo esplicito sia il carattere irreversibile dell’euro sia l’interesse dell’Italia a restare nella Ue non «per passione ideale» ma perché «nel mondo di oggi l’Italia, fuori dall’Europa, è destinata a non contare nulla, a essere una provincia del mondo». Era facile rilevare, e Lettera43.it lo ha fatto, come parlando così Salvini si allineasse ma con 70 anni circa di ritardo a quanto i cosiddetti padri dell’Europa, da Robert Schuman a Jean Monnet ad Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, più molti altri di quella generazione e delle successive, avevano sempre pensato e capito ben prima di lui. Per loro il progetto europeo poteva anche essere un sogno, ma era soprattutto e in modo urgente una necessità.
AFFAMATA E INERME: ECCO L’EUROPA DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Bisognerebbe masticare un po’ di storia ogni tanto, e avere un’idea di che cos’era l’Europa dopo la Seconda Guerra mondiale: poco più di un nulla, affamata, inerme e smarrita, compresa alla fine anche la rovinata finanziariamente Gran Bretagna. A questo si era ridotto in 30 anni, dal 1914 al 1945, il piccolo continente che aveva dominato il mondo. Nell’universo del 1945-50, con la preminenza di una superpotenza a tutto tondo come gli Stati Uniti e di una potenza militare come l’Unione Sovietica, gli Stati nazionali europei a parte le loro miserevoli circostanze avevano una precisa caratteristica valida per tutti, quanto a dimensioni: erano obsoleti.
LA “RESISTENZA” DI BORGHI & CO
Salvini ci ha messo il suo tempo per arrivarci, ma chissà, forse – speriamo – ci sta arrivando. Subito dopo il riconoscimento implicito da parte del segretario della Lega delle buone ragioni storiche del progetto europeo, il fidatissimo Gian Marco Centinaio, ex ministro dell’Agricoltura e a un certo punto fra i papabili come candidato italiano alla Commissione Ue, lo confermava: su euro e Ue «la parentesi è del tutto chiusa». Claudio Borghi e pochi altri protestavano e ricordavano che l’opposizione alla perfida Ue e la sfiducia, a dir poco, nell’euro erano nell’anima e nelle carte leghiste, e immarcescibili; e invitavano a non dare peso a «manovre giornalistiche» di basso rango.
Salvini potrebbe aprire per finta a Draghi per non spaventare i mercati in caso di voto anticipato, per esempio dopo una sperata smagliante vittoria in Emilia-Romagna
L’APERTURA NEI CONFRONTI DI DRAGHI
Parlare di manovre giornalistiche diventa però impossibile dopo che il Capitano in persona, Matteo Salvini, ha sdoganato in tivù (Fuori dal coro di Mario Giordano del 6 novembre) con il suo why not, perché no, l’ipotesi di Mario Draghi presidente della Repubblica, alla scadenza fra due anni del mandato di Sergio Mattarella.
Mario Draghi, ex presidente della Bce.
Potrebbe anche essere una mossa solo tattica, “aprire” per finta a Draghi per non spaventare i mercati nel caso di voto anticipato, per esempio dopo una sperata smagliante vittoria in Emilia-Romagna il prossimo 26 gennaio. Ma intanto Draghi, la “bestia nera” che ci ha affamato con il suo stramaledetto euro “moneta sbagliata”, Draghi nemico del popolo e simbolo delle élite anti-democratiche del denaro, Draghi il peggio dei peggio insomma, ora sembra un buon candidato a simbolo e garante dell’unità nazionale. E, date le opinioni e il curriculum, certamente della piena appartenenza dell’Italia a euro e Unione europea.
UN DURO COLPO PER GIORGIA MELONI
Spiazzata, l’alleata Giorgia Meloni non ha potuto solo ribadire quanto già detto da Salvini, sull’ipotesi però di Draghi non al Quirinale ma a Palazzo Chigi, e cioè che per diventare capo politico occorre farsi eleggere dal popolo. Per Meloni chi va al Quirinale «deve avere alle spalle una storia di difesa dell’economia reale e dei nostri interessi nazionali» e Draghi, proveniente dice lei «dal mondo della grande finanza internazionale», non ce l’ha. Meloni, a differenza della Lega, discende da una precisa filiera nazionalista e mussoliniana per lei mai obsoleta, e non potrà mai digerire il crescente passaggio di sovranità a Bruxelles e a Strasburgo, in una dimensione europea che a suo avviso non esiste, è una truffa. Meloni vive in un mondo di sacri confini. Draghi non avrà mai i voti di Fratelli d’Italia, ha ribadito.
Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
ADDIO ALLE BATTAGLIE ELETTORALI
Il colpo per Giorgia Meloni è stato doloroso perché più che di una parentesi, come l’ha definita Centinaio benevolmente, il duro no all’euro, le infinite dichiarazioni di morte imminente della Ue nella campagna per il voto europeo del maggio scorso e gli attacchi allo stesso Draghi presidente Bce sono stati una precisa linea non strettamente leghista ma certamente molto salviniana, e codificata nei documenti congressuali. Su questo fronte anti-europeo Salvini ha costruito il 40% almeno della sua campagna elettorale del 2017-2018 e di quella campagna elettorale bis che sono stati i suoi 14 mesi di governo; il restante 60% è stato giocato sull’immigrazione.
L’ANTI-EUROPEISMO NON CONVINCE LA BASE STORICA DELLA LEGA
L’anti-europeismo spinto e soprattutto le polemiche anti-euro, campione Claudio Borghi portato da Salvini a un ruolo importante alla Camera dei deputati, non hanno però mai convinto, tanto per cominciare, la base storica leghista, quella imprenditoriale del Nord in particolare. Sono aziende e aziendine che spesso hanno un mercato europeo importante e non vogliono intoppi su quel fronte. L’euro poi anche in Italia è più popolare che impopolare. E il voto europeo ha mostrato i limiti del sovranismo, sempre forza di tutto rispetto ma che non ha sfondato. È comprensibile che Salvini, e soprattutto persone più attente a questi aspetti e di cui lui si fida, abbiano cominciato a trarne le conseguenze. Se la linea verrà confermata ben oltre qualche rapida dichiarazione che potrebbe anche essere insincera e strumentale, si tratta di un passaggio molto significativo. E Meloni non può farci molto perché non romperà su questo l’asse con Salvini che potrebbe portarla al governo.
Claudio Borghi.
IL TRUCE CAPITANO SI STA RAFFINANDO?
Il “truce” Salvini, come viene spesso definito, si sta affinando un po’? L’ipotesi di Draghi al Quirinale, un ruolo che forse l’ex presidente Bce non rifiuterebbe a differenza di Palazzo Chigi, avrebbe numerose e grosse implicazioni per lo più positive, soprattutto se Salvini tornasse al governo. Draghi sarebbe una grossa copertura sul fronte Ue e dei mercati e sarebbe, ancor più importante, il chiaro segnale che le due anime dell’Italia, quella più sovranista e quella più europea, si parlano, collaborano e scendono a ragionevoli compromessi, sulla linea del «cambiamo l’Europa, ma teniamocela ben stretta». Sarebbe una mossa giusta sul terreno migliore della politica, che è quello pragmatico del possibile. Avrebbe tuttavia delle chiare implicazioni per qualsiasi governo, poiché difficilmente Draghi accetterebbe senza l’impegno politico ad affrontare finalmente il debito pubblico, cominciando a farlo scendere non solo sul Pil, ma in cifra assoluta. Un’impresa da far tremare i polsi ma che paradossalmente, stando così come oggi i rapporti di forza, solo un esecutivo a sfondo sovranista, o neo sovranista, potrebbe affrontare.
L’ANNUNCIATO DIETROFRONT SOVRANISTA
Comunque, in attesa di conferme sul nuovo corso europeo di Salvini e soprattutto della conferma che non si tratta di bugie per cercare di tranquillizzare i mercati e più della metà degli elettori, si può aggiungere un’annotazione: c’era da aspettarselo. Era prevedibile e previsto (si veda su Lettera43.it del 24 febbraio I sovranisti italiani faranno presto dietrofront su ue, debito ed euro). Chi non vince la partita, se lungimirante, in genere scende a patti. Se dovrà ammettere che Salvini è lungimirante, mezza Italia lo farà certamente volentieri.
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L’appello del leader della Lega agli elettori durante un comizio a Carpi.
“Datemi una mano a far sì che qui in Emilia possa cadere il secondo Muro di Berlino, tutti insieme ce la faremo”. E’ il passaggio più applaudito dell’intervento di Matteo Salvini, a Carpi, nel modenese, davanti a qualche centinaio di sostenitori.
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L’ex ministra per le Pari opportunità: «Se dichiarasse di non voler sostenere più il governo di sinistra, Forza Italia Viva potrebbe essere una suggestione». Gelo di Silvio Berlusconi.
Per ora è solo una «suggestione», ma i segnali di avvicinamento tra Matteo Renzi e una parte di Forza Italia sembrano farsi sempre più fitti, evocando una possibile collaborazione per arginare la “salvinizzazione” del centrodestra. «Se Renzi dichiarasse di non voler sostenere più il governo di sinistra, Forza Italia Viva potrebbe essere una suggestione», è il sasso che Mara Carfagna lancia nello stagno dell’offerta politica italiana. Parole che non sono piaciute a Silvio Berlusconi: «Mara decida se restare o andare via».
Allo stato quella dell’esponente azzurra è solo una provocazione che tuttavia fa il paio con la preoccupazione per la nascita del nuovo “competitor” che l’aveva colta all’epoca della scissione di Italia Viva. Quando già dovette smentire di essere tentata dalla sirena renziana. “Oggi io e Renzi siamo in due metà campo diverse” mette in chiaro l’esponente azzurra che tuttavia rinnova la sua preoccupazione per la sorte dei riformisti azzurri: “Non so cosa accadrà nei prossimi giorni, ma molti dopo 25 anni non si sentono a proprio agio in Fi”.
Un appello che la deputata ha rinnovato ieri sera durante una cena con Silvio Berlusconi, occasione in cui è tornata ad esprimere la sua contrarietà alla “sudditanza psicologica” nei confronti della Lega, emersa anche in occasione del voto sulla Commissione Segre: “un errore” che mette in ombra i valori della rivoluzione liberale lanciata dal Cav. nel ’94.
Matteo Renzi tuttavia gongola: “Porte aperte a chi vorrà venire non come ospite ma come dirigente, vale per Mara Carfagna e altri, ma non tiriamo la giacchetta. Italia Viva è l’approdo naturale per tutti, è questione di tempo”. Il suo ragionamento è consequenziale: “Italia Viva sta provocando scossoni più profondi di quello che sembra. Quando sarà chiaro cosa accadrà a febbraio e marzo, sarà sempre più evidente che è in corso un riposizionamento anche nella destra. Noi cresceremo molto, ed è il motivo per cui sono molto preoccupati”.
Intanto però ci sono le regionali e se Renzi non intende tirare nessuno per la giacchetta a farlo ci pensa il centrodestra. Il profilo di Mara Carfagna torna ad essere indicato per la presidenza della Campania – che per accordo spetta a FI – e su di lei arriva il via libera di Lega e FdI nonostante il sarcasmo di Salvini che si augura “non vada a sinistra per amore di poltrone”. “E’ molto brava” dicono di lei Lucia Borgonzoni e Giorgia Meloni. Molto utile, aggiunge FdI, per rispondere a chi come Renzi, “lancia l’amo nel campo del centrodestra”.
Ma Carfagna non si sbilancia anche per non dare agio a chi l’accusa di cercare “poltrone”. La candidatura in Campania è ancora un discorso “prematuro”. Il leader di Iv intanto non scommette sulle elezioni: “andare a votare ora significa consegnare il Paese a Salvini, si chiama masochismo” e questi sono conti che conosce “perfettamente” il leader della Lega. Meno, dice, il Pd. Che replica piccato: “Caro Renzi, la destra si sconfigge governando bene non occupando solo poltrone per paura degli elettori”.
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La maggioranza sta pensando a una moratoria per dare tempo alle famiglie di adeguarsi fino a marzo o giugno 2020.
Niente multe per chi non installa subito i seggiolini antiabbandonoper i bimbi fino a 4 anni. O meglio, è previsto uno slittamento e, forse, anche la possibilità di vedersi restituire quanto pagato per chi, nel frattempo, incappa nella sanzione. Come promesso dal ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli, la maggioranza si prepara a varare una moratoria per consentire alle famiglie di adeguarsi al nuovo obbligo sottoforma di emendamento al decreto fiscale collegato alla manovra. Il Pd pensa infatti a mettere in stand by le sanzioni almeno fino a marzo del 2020, mentre il Movimento 5 Stelle propone uno slittamento fino a giugno e, appunto, la possibilità di richiedere indietro i soldi pagati per le multe prese dal 7 novembre fino alla conversione del decreto, quando la moratoria diventerà effettivamente operativa.
EMENDAMENTI FINO ALL’11 NOVEMBRE
Ma quella sui seggiolini anti-abbandono non è l’unica modifica proposta dalla stessa maggioranza al decreto fiscale: per gli emendamenti c’è tempo fino a lunedì 11 novembre 2019 e sul fronte fisco dovrebbero arrivare le correzioni alla stretta sulle ritenute negli appalti, dopo l’allarme lanciato dalle imprese, e qualche ritocco sulle compensazioni (si potrebbero escludere i soggetti in credito d’imposta ‘strutturale’, come ad esempio i professionisti).
SCUDO PENALE PER L’EX ILVA
Ma in ballo, per la parte non strettamente fiscale del provvedimento, c’è anche lo scudo penale per l’ex Ilva, legato però all’evolversi della trattativa con Arcelor Mittal. Per venire incontro ai problemi dell’acciaieria di Taranto il governo sta peraltro pensando a un fondo, da inserire questa volta in manovra, per il sostegno dei lavoratori già in Cassa integrazione (oltre 1.500) e per le opere di bonifica dall’amianto.
VERSO LA CONFERMA DELLA CEDOLARE AL 21% SUGLI AFFITTI
Per avere la lista delle richieste di modifica alla legge di Bilancio bisogna comunque attendere almeno fino a sabato 16 novembre. Salgono, intanto, le chance di una conferma della cedolare secca al 21% sugli affitti commerciali, come negozi e capannoni. La tassazione agevolata è stata introdotta con l’ultima manovra ma vale solo per gli immobili affittati nel 2019 e al momento la legge di Bilancio non prevede una proroga. Ma «ci stiamo lavorando, penso che si farà», ha detto il presidente della commissione Bilancio del Senato, Daniele Pesco, che sta esaminando in prima lettura la manovra, raccogliendo il plauso di Confedilizia che preme per una riconferma della misura.
LA PLASTIC TAX SEMBRA INEVITABILE
Resta aperta, intanto, la partita sulle micro-tasse, dal prelievo di un euro al chilo sulla plastica, all’aumento della tassazione sulle auto aziendali: per azzerare le due misure servirebbe almeno un miliardo e mezzo che sale a 1,7-1,8 miliardi se si volesse eliminare anche la sugar tax, come chiede Italia Viva. I renziani ipotizzano per le coperture un rinvio del taglio del cuneo fiscale a settembre o un intervento su quota 100, entrambi finora esclusi dal resto della maggioranza. Difficile, quindi, che queste tasse possano essere cancellate: si lavora piuttosto a una revisione che potrebbe portare, ad esempio, a uno slittamento a luglio per sugar e plastic tax, che ora scatterebbero a partire da aprile.
NON CI SONO FONDI PER FINCANTIERI
Scoppia intanto anche un ‘caso Fincantieri‘: in manovra ci si aspettava lo stanziamento dei circa 500 milioni necessari per avviare i lavori per ampliare il cantiere navale di Sestri Ponente (il ribaltamento in mare di Fincantieri), e consentire la costruzione di grandi navi da crociera. Fondi che al momento non ci sarebbero ma, assicura il sottosegretario al Mit Roberto Traversi, «c’è un emendamento governativo già pronto».
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