Dopo grandi tira e molla, fatti di vani tentativi di trovare qualche banca che se lo comprasse, lo Stato vende poco meno della metà della sua quota nel Monte dei Paschi. Lo ha deciso per il disperato bisogno di fare cassa, anche se i proventi dalla cessione di asset pubblici dovrebbero andare a riduzione del debito e non a ingrossare la spesa corrente. Ma anche per battere un colpo dopo aver annunciato un ambizioso piano di privatizzazioni che sulla carta dovrebbe fruttargli una ventina di miliardi. Ovviamente saranno molti di meno.
Lo Stato non porterà a casa i 9 miliardi investiti
Alla fine però la sua uscita dalla banca senese sarà comunque in perdita, nel senso che mai il Mef, titolare delle azioni, porterà a casa i 9 miliardi e passa che vi aveva investito per tenerla in piedi. Ma chi si accontenta gode, anche se ci sarebbe da fare un ragionamento sul come mai all’estero, soprattutto in America, i salvataggi dei grandi istituti di credito da parte dei governi si sono spesso trasformati in un lucroso affare.
Ita giace spersa nella terra di nessuno
Il Mef ha rotto gli indugi quando ha capito, nonostante le numerose proroghe generosamente concesse da Bruxelles, che un’altra banca italiana che si prendesse sulle spalle Mps non la avrebbe mai trovata. E l’idea del terzo polo da affiancare a Intesa e Unicredit sarebbe rimasta al palo. La banca guidata da Andrea Orcel, per lungo tempo l’indiziato numero uno all’acquisto, aveva giustamente preteso una dote importate, specie dopo quella che era stata data a Intesa quando rilevò le popolari venete sull’orlo della bancarotta. Significava un esborso di altri 4/5 miliardi da aggiungere ai capitali già profusi. Troppo anche per chi non vedeva l’ora di togliersi la grana senese e dedicarsi alle altre, ossia la privatizzazione di Ita, che al momento giace spersa nella terra di nessuno (in realtà un protettorato francese) dell’Antitrust europeo.
Su Tim il Mef dovrà scucire altri 2 miliardi
E infine Tim, perché la pubblicizzazione della rete dell’ex monopolista dei telefoni era un caposaldo del programma del centrodestra una volta entrato a Palazzo Chigi. Solo che per fare l’operazione, su cui dopo la decisione di vendere a Kkr pesa l’incognita dei soci francesi, il Mef dovrà scucire altri 2 miliardi. Insomma, soldi che entrano e soldi che escono, con il saldo ahinoi pesantemente negativo (si pensi solo alla quantità di denaro pubblico pompato nelle casse della spompatissima Alitalia/Ita).
Nelle mani dei fondi stranieri di private equity
Sono tutte operazioni che celano grandi ambizioni, ma che si devono scontrare con l’endemica penuria di risorse che un debito pubblico destinato a sfondare la soglia dei 3 mila miliardi brucia con voracità. Tradotto: il governo vorrebbe essere parte attiva nella creazione di campioni industriali nazionali, ma per farlo deve mettersi nelle mani dei fondi stranieri di private equity che i soldi sì ce li mettono, ma se li fanno pagare cari. La vicenda Autostrade, ma anche quella di Open Fiber che ha appena chiesto alle banche altri 2 miliardi, e quella di Tim sono lì a mostrare che i fondi sono tutt’altro che enti benefici felici di compiacere Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e compagnia cantante. Infatti sul capitale investito impongono rendimenti che sfiorano le due cifre. Quindi i governi, e non solo questo così fieramente sovranista, sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco. Del resto nella sua lungimiranza il vecchio Enrico Cuccia lo aveva profetizzato che meglio non si poteva: per il fondatore di Mediobanca l’Italia era un Paese pieno di capitalisti e di aziende senza capitali. Che è esattamente la situazione con cui Palazzo Chigi deve fare in conti adesso.
Una marcia quasi inarrestabile. Dove vuol arrivare Fabrizio Palenzona? Il neopresidente della Fondazione Crt sarà alla guida anche della Consulta delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte e della Liguria. L’elezione è avvenuta nei giorni scorsi all’unanimità dall’assemblea dei soci che riunisce: la Fondazione Compagnia di San Paolo, le Fondazioni Cr Torino, Cuneo, Alessandria, Asti, Biella, Fossano, Saluzzo, Savigliano, Tortona, Vercelli per il Piemonte; le Fondazioni Carige, Carispezia e Agostino De Mari-Savona per la Liguria. «Uniamo le forze, perché abbiamo tutti lo stesso obiettivo e lo stesso dovere di offrire il miglior servizio ai territori, valorizzando le risorse che derivano dalla fatica, dal lavoro e dai risparmi delle comunità che ci hanno preceduto», ha detto il presidente Palenzona, ringraziando i colleghi presidenti delle Fondazioni piemontesi e liguri. «Un tema che ci unisce», ha proseguito Palenzona, «è certamente il disagio giovanile, la povertà educativa e di prospettiva di molti bambini e ragazzi in età scolastica e delle loro famiglie: abbiamo l’esigenza di dare risposte immediate alle disuguaglianze per riattivare l’ascensore sociale e offrire opportunità a chi non ne ha». Parole sagge.
Il camionista di Tortona sta esercitando tutta la sua influenza
C’è dunque chi si interroga su che cosa farà adesso Palenzona. Essere presidente della Consulta delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte e della Liguria vuol dire esercitare un potere reale sia su Unicredit sia su Intesa, oltre a governare l’Acri che nomina il presidente di Cassa depositi e prestiti. Da quando è arrivato alla presidenza di Fondazione Crt, il camionista di Tortona sta esercitando tutta la sua influenza per muovere le tessere del risiko bancario. «Le banche in cui siamo azionisti hanno dei manager che devono decidere e fare delle proposte», ha detto a margine di un convegno di Bain sul sistema bancario. «Io parlo da cittadino e dico che nel sistema ci sono ancora possibilità di aggregazione».
Il pensiero sulle tante possibilità di aggregazione
Quello che dice Palenzona è importante perché in pancia a Crt ci sono, oltre alla quota in Generali (1,61 per cento), anche quelle in Unicredit (1,9 per cento) e Banco Bpm (1,8 per cento), dove ha siglato un patto con altri enti e casse previdenziali, a cui si aggiunge una piccolissima quota in Monte dei Paschi, derivante dal salvagente gettato a Siena in occasione dell’aumento di ottobre. Adesso, con la nuova nomina, al puzzle si aggiunge la quota della Fondazione San Paolo, primo azionista di Intesa SanPaolo. Il risiko bancario non dorme mai e il pensiero di Palenzona è chiaro: nel sistema ci sono ancora possibilità di aggregazione.
Bpm vuole sfuggire alle mire dell’Unicredit di Orcel
Secondo varie indiscrezioni, il ceo di Banco Bpm Giuseppe Castagna sta trattando l’acquisto di Mps, risanato dal Tesoro. L’obiettivo di Castagna è duplice: da un lato, rilevando il Monte dei Paschi, fa un favore al governo; dall’altro l’acquisizione darebbe una mano a Bpm per ingrossarsi e sfuggire alle mire espansionistiche dell’Unicredit di Andrea Orcel, di cui Palenzona è grande amico. Con l’acquisizione di Mps, Bpm diventerebbe un boccone più costoso per la banca milanese. Un’operazione gradita anche a Carlo Messina. Intesa Sanpaolo, con il mancato matrimonio Unicredit-Bpm, resterebbe la prima banca italiana e potrebbe dedicarsi a qualche importante acquisizione all’estero.
Arrivederci ai lettori e grazie per l’autonomia e la libertà offerte a chi è arrivato da dentro il mondo delle banche per raccontarlo a chi è fuori.
È solo un arrivederci. Con tutti voi della redazione e con il direttore Paolo Madron.
Vi sono riconoscente ( o devo maledirvi? ) per avermi introdotto in questo mondo. Siete stati i primi a credere che avrei potuto fornire un contributo sui temi della finanza (o malafinanza).
Argomenti che, fino a quel momento, nessuno aveva avuto il coraggio di affrontare con la voce di un ex insider. Ricordo ancora la telefonata: «…abbiamo letto il tuo libro e vorremmo che tu scrivessi per il nostro giornale…». E dal 19 dicembre 2014 ogni settimana, ogni venerdì dell’anno, #LoSportello apriva le sue porte per fare informazione, denuncia, analisi. Sono stati 6 anni di assoluta autonomia e indipendenza. Ho scritto 230 articoli, alcuni dei quali hanno creato anche qualche problema , ma mi sono sentito sempre tutelato e protetto.
Mai una censura. E bastava guardare gli inserzionisti del giornale per capire che forse per voi, qualche volta, non è stato facile pubblicare un mio articolo sulla stessa pagina dove compariva la pubblicità di una grande banca.
Ringrazio tutta la redazione (Andrea, Marcello, Sergio, Giovanna) cui auguro nuove e brillanti avventure. Ringrazio il direttore il cui cv non lascia adito a dubbi: ne vedremo ancora delle belle. Come ha scritto su Twitter «le storie iniziano, finiscono, si riprendono. Si vedrà».
E io sarò sempre a tua e vostra disposizione, riconoscente a vita. Nel frattempo Vi rendo onore su altre testate.
#LoSportello non chiude, si sposta semplicemente per un po’.
Ma
vi aspetto
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Francoforte è pronta ad acquistare i bond «in maniera flessibile nel corso del tempo» e «ribadisce il massimo impegno» a sostegno dei cittadini. Ma le previsioni sull’Eurozona fanno tremare le borse: nel secondo trimestre il Pil può crollare tra il -5 e il -12%.
La Bce continuerà ad acquistare i bond «in maniera flessibile nel corso del tempo» e finché non sarà ritenuta «conclusa la fase critica legata al coronavirus». Il Consiglio «ribadisce il massimo impegno» a fare il necessario «per sostenere tutti i cittadini dell’area dell’euro in questo momento di estrema difficoltà».
NEL SECONDO TRIMESTRE PIL DELL’EUROZONA TRA -5 E -12%
Ma l’Eurotower avverte che nel secondo trimestre dell’anno la situazione potrebbe rivelarsi ancora più grave del primo quando il Pil dell’Eurozona ha segnato -3,8%. Ci si attende infatti una caduta del Pil dell’Eurozona compresa fra il -5 e -12%
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Se volete evitare il fallimento di una banca aumentate le quote di partecipazione degli istituti al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi. Perché stare sul mercato è una cosa seria e richiede correttezza, professionalità e onestà.
La Divina Commedia è sempre attuale. Ma gli ultimi capitoli non sono stati scritti da Dante ma dalla storia (e dalla cronaca) e riguardano i nostri banchieri, peccatori condannati, in base alla legge del contrappasso, a scontare una pena simile alla colpa. È quanto sta avvenendo negli ultimi anni per le banche che hanno dovuto aderire obbligatoriamente al Fondo interbancario di Tutela dei Depositi.
Ricordiamo che il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd) è un consorzio di diritto privato, disciplinato dal Decreto Legislativo 24 marzo 2011, n.49, che ha recepito la Direttiva 2009/14/CE, supervisionato dalla Banca d’Italia, cui devono obbligatoriamente aderire tutte le banche italiane aventi come forma societaria la Società per Azioni, e le banche extracomunitarie (che hanno filiali in Italia) che non aderiscano a sistemi di garanzia equivalenti. Non vi devono aderire le banche di Credito Cooperativo, che devono però al Fondo di Garanzia dei Depositanti del Credito Cooperativo, regolato dalla stessa normativa e con funzioni analoghe.
La finalità del Fondo è di tutelare i risparmi (non gli investimenti) dei clienti di banche che dovessero trovarsi in situazioni di insolvenza, quindi depositi in conto corrente, conti di deposito, certificati di deposito nominativi, libretti di risparmio nominativo e assegni circolari, garantiti in caso di fallimento dell’istituto di credito fino a 100 mila euro. Azioni, obbligazioni, pronti conto termine emessi dalla banca in liquidazione coatta, non rientrano nell’oggetto della tutela offerta dal Fitd. Nessuna scelta, nessuna opzione. Se un tuo collega, caro banchiere, ha gestito male (eufemismo) la sua banca, tu sei costretto a pagare le sue inefficienze! Il meccanismo del consorzio prevede infatti che le banche versino i loro contributi soltanto in caso di necessità (“ex post”) a chiamata entro 48 ore. L’impegno oscilla tra lo 0,4% e lo 0,8% dei fondi rimborsabili (la massa totale dei depositi presenti nelle filiali degli istituti italiani) di tutte le consorziate.
IL MERCATO NON DEVE PRIVATIZZARE GLI UTILI E SOCIALIZZARE LE PERDITE
In questi giorni ho sentito i direttori generali di due piccole banche che smadonnavano per dover assicurare la sopravvivenza di Banca Popolare di Bari con un contributo di circa 100 mila euro ciascuno. E si tratta di due piccole banche sane ed efficienti. Immaginate quanto possa pesare nel conto economico di grandi banche in difficoltà il salvataggio di una consorella in default? Milioni di euro che mettono in pericolo la vita della stessa banca soccorrente! E se, tra le varie misure più volte proposte su queste colonne, si pensasse di regolamentare un settore praticamente devastato anche aumentando la quota di partecipazione delle banche al Fondo e riducendo al minimo l’intervento dello Stato?
Se una banca è fuori mercato, allora fatela salvare dalle altre banche. Altrimenti che fallisca!
In tal modo aumenterebbero le pene all’interno del girone dantesco. La legge del contrappasso rappresenterebbe una sorta di “mano invisibile”, grazie alla quale, in una economia liberista, la ricerca egoistica del proprio interesse gioverebbe a se stessi e all’interesse dell’intero settore tentando di riequilibrarlo attraverso organi di controllo ricettivi agli input che vengono da quei manager che oggi bestemmiano turco perché efficienti, liberi, indipendenti e creditori nei confronti di Bankitalia che ha, invece, chiuso più di un occhio, ad esempio nella individuazione dei requisiti di onorabilità, nei confronti della mala gestione della maggior parte dei banchieri.
Ribadiamo che il mercato non deve più essere il luogo dove si privatizzano gli utili e si socializzano le perdite. Se una banca è fuori mercato, allora fatela salvare dalle altre banche. Altrimenti che fallisca! La prossima volta si eviterà di gestirla in maniera scorretta, spavalda e clientelare. Lo Stato non può fare tutto, né può continuare a essere il padre generoso che salva i suoi figli spericolati e scapestrati. È arrivato il momento di far capire che stare sul mercato è una cosa seria e richiede correttezza, professionalità e onestà. Perché poi lo Stato siamo noi che pagheremo le tasse per salvare quelle catapecchie che sono ormai diventate le banche del nostro Paese.
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Partenza negativa per Piazza Affari e mercati Europei. Lo spread apre stabile.
Apertura negativa per la Borsa di
Milano e i mercati europei il 6 gennaio. Sull’onda lunga delle
perdite registrate a Tokyo e in Asia nel primo giorno di
contrattazioni dell’anno per il Giappone, anche Piazza Affari cede
pesantemente. Apertura stabile, invece, per lo Spread Apertura
stabile per lo spread Btp-Bund: il differenziale tra il decennale
italiano e quello tedesco segna 163 punti base, sul livello della
chiusura di venerdì. Il rendimento del Btp decennale scende
all’1,32%.
9:39 – ANCORA CALI IN EUROPA. Dopo
una partenza debole ma senza scosse, corrente di vendite sulle Borse
europee: Francoforte è la peggiore e cede l’1,6%, Milano l’1,3% con
l’indice Ftse Mib e Parigi l’1,1%, mentre Londra prova a contenere le
perdite con un calo dello 0,7%. In Piazza Affari scivolano Unicredit
e Banco Bpm che cedono oltre il tre per cento, deboli tutti gli
industriali (Pirelli -2,9%), bene sempre Eni che sale dell’1,6% sulla
corsa del prezzo del petrolio.
9:06 – TUTTA EUROPA NEGATIVA. Mercati azionari del Vecchio continente tutti negativi in avvio:
Londra ha aperto in ribasso dello 0,5%, Francoforte dell’1% e Parigi
dello 0,7%.
9:02 – MILANO PARTE MALE. Avvio
negativo per Piazza Affari: il primo indice Ftse Mib segna una
perdita dello 0,55%, l’Ftse It All-Share un calo dello 0,50%.
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Il governatore di Bankitalia non dice bugie, ma omette. Palesando problemi nella distinzione tra malafinanza e finanza inefficiente.
In un paese che non cresce e che non crescerà nei prossimi anni, la funzione del sistema bancario diventa ancor più determinante. Semplicisticamente, nelle fasi di stagnazione, per sostenere l’economia produttiva si ha bisogno di credito. La Bce ha rivisto al ribasso la crescita del Pil nell’eurozona nel 2020 (solo +1,1%) e uno studio del Pardee Center della Università di Denver afferma che nel 2100 il Pil dell’Italia sarà al 23esimo posto nel mondo. Altro che G8. Il nostro Pil varrà un misero 0,82% di quello mondiale, contro il 2,55% di oggi. Davanti all’Italia in rapporto al PIL ci saranno anche paesi come l’Indonesia, la Nigeria, l’Iraq, il Pakistan, l’Etiopia, la Tanzania, e l’Uganda. La decrescita europea non crea benessere ma povertà, i flussi di ricchezza si spostano verso oriente ed il nostro Pil perde slancio. Poca innovazione, poca flessibilità e troppa burocrazia. La ricerca di un nuovo benessere può passare anche da una decrescita ma solo con una sana politica del credito. In questo scenario cosa fa il governatore della Banca d’Italia? Lo struzzo. Facendo finta di non capire.
L’ARCHETIPO DEL BANCHIERE ITALIANO
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è l’archetipo del banchiere e bancario italiano: non dice bugie ma omette. L’omissione è la regola. Anche in occasione della intervista rilasciata al Corsera il numero uno di palazzo Koch ha ribadito che «queste banche (quelle in crisi) rappresentavano, nel complesso, il 10% degli attivi totali, il che vuol dire che il restante 90% ha fatto fronte alle gravissime conseguenze della crisi dell’economia reale». L’arte del minimizzare è spesso l’unica arma che hanno tra le mani i perdenti. È l’ atteggiamento che ha avuto Visco (e alcune penne di sistema) che difende un mondo che presenta ormai più buchi di una fetta di formaggio svizzero. È vero che solo le banche che rappresentavano il 10% degli attivi totali ha manifestato pubblicamente lo stato di crisi. Visco non ha detto una bugia. Ma ha dimenticato di aggiungere, ecco la strategica omissione, che il sistema bancario nella sua interezza ha evidenziato una palese inefficienza più volte ribadita ed analizzata su queste colonne.
LA DIFFERENZA TRA MALAFINANZA E INEFFICIENZA
Ancora oggi si fa fatica a capire la differenza tra malafinanza (bilanci falsi, politiche commerciali violente, abusi sui clienti, corruzione, collusione, ecc.) dalla finanza inefficiente. Quella finanza che non riesce più a fare ricavi e che produce utili (pochi) solo attraverso il contenimento dei costi, quella che continua a fare credito con modelli di analisi superati, quella che non si è ancora accorta dell’arrivo della fintech e dei mostri (Yahoo, Amazon, Google, Facebook, ecc) , quella che ha perso completamente il capitale di fiducia dei clienti, quella con un management obsoleto e vecchio (che non è la stessa cosa). Basta guardare l’andamento del Ftse Italia All Share Banks, l’indice settoriale delle banche italiane quotate, per capire quanto le politiche gestionali dei banchieri nostrani hanno inciso sulla capitalizzazione (il valore di mercato delle azioni in circolazione) complessiva del sistema. A fine 2009 l’indice valeva circa 21.640 punti, oggi vale 9.440 punti. Il 56% di riduzione di valore. E di chi è la responsabilità? Il regolatore dovrebbe ripensare forse ad un modello di sistema bancario più coerente con la nostra economia? Ne riparleremo presto.
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Tanti personaggi di cultura, spettacolo e sport sono chiamati a fare spot per brand finanziari. Senza pensare agli effetti della cattiva reputazione di alcuni istituti di credito coinvolti in scandali e default o di certi prodotti. Questione di etica, troppo spesso trascurata.
Mi sono sempre chiesto, guardando gli spot pubblicitari di banche e società finanziarie, quanto e cosa sapessero di quell’azienda o di quel prodotto i personaggi del mondo della cultura, informazione, spettacolo e sport chiamati a fare i testimonial. Probabilmente nulla. Come la maggior degli italiani, tra l’altro, che in termini di informazione e cultura finanziaria sono tra i meno preparati rispetto ai cittadini dell’Unione europea e in generale di altri Paesi avanzati.
SPESSO AVVIENE UNA SIMBIOSI TRA BRAND E PERSONAGGIO
Una cosa è certa: il testimonial viene scelto per rappresentare un brand. Il marchio, a cui si associa il personaggio-persona fisica che lo pubblicizza, deve rispecchiarsi nel testimonial e viceversa. Si assiste, molto spesso, a una simbiosi tra brand e persona. Talmente forte che i contratti che di solito regolano questo tipo di pubblicità possono prevedere clausole e obblighi comportamentali che devono essere rispettati dal testimonial anche nella vita privata. Perché il personaggio famoso ha delle responsabilità ben precise che riguardano anche la vita privata, nei confronti dei suoi fan e del brand che pubblicizza.
NEI CONTRATTI CI SONO PURE CLAUSOLE MORALI
All’interno dei contratti ci sono molto spesso anche le cosiddette clausole morali. In altri termini la celebrity ha l’obbligo, per esempio, di mantenere nella vita privata comportamenti eticamente corretti oppure di non rilasciare dichiarazioni che in un certo qual modo possano incidere negativamente sulla reputazione dell’azienda.
I TESTIMONIAL SI TUTELANO DALLA BAD REPUTATION DI UNA BANCA?
Ma, in termini di responsabilità, è garantita la reciprocità? Cioè i vip si sono mai preoccupati di tutelarsi dai rischi derivanti dalla bad reputation del brand bancario o del prodotto finanziario? Sono convinto che il simpaticissimo Nino Frassica non sia assolutamente consapevole del fatto che, pubblicizzando una carta di credito revolving (carta Easy di Compass) stia spingendo i cittadini ignari verso un certo tipo di prodotto (tasso medio circa 16%; soglia usura del 24%) e in una spirale di pagamenti imposti prima di poter sancire la chiusura del debito.
PROPAGANDA CHE ARRIVA PERSINO DALL’INFORMAZIONE
Non solo, ma nei miei 22 anni di permanenza in quel sistema mi sono spesso imbattuto in famosi e gloriosi personaggi del mondo dell’informazione che partecipavano, retribuiti profumatamente, a convention aziendali dove si magnificavano i comportamenti virtuosi del management (di banche poi coinvolte in scandali e default). Ho ascoltato peana che la propaganda della Romania di Ceausescu al confronto sembrava ridicola.
NON BASTA L’ONESTÀ, SERVE PURE L’ETICA
Quello che stona, però, è che poi molti personaggi spesso vanno in televisione a fare i moralizzatori del sistema-Paese nel rispetto di una etica dei comportamenti che riguarda però… sempre gli altri. Etica, che parolone. E soprattutto che abuso improprio nel nostro Paese. Spesso confusa con il concetto di onestà. Senza voler scomodare filosofi e sacre scritture, forse è il caso di ricordare semplicisticamente che una persona onesta è «quella che non ruba» mentre una persona orientata a vivere secondo principi etici è «quella che non solo non ruba, ma che se vede un altro rubare lo denuncia». Intendendo come denuncia anche la capacità di dire no a un’agenzia pubblicitaria.
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Sappiamo che nei momenti peggiori si colgono le migliori opportunità. Peccato però che quando poi ci si trova a tu per tu con un calo del 50%, le teorie crollano e le emozioni (negative) dominano. Ecco come e perché tenerle a bada.
Nel processo di controllo (e autocontrollo) dei propri investimenti visto nelle ultime settimane occorre analizzare l’ultimo passaggio fondamentale per il risparmiatore alle prime armi: inserire il pilota automatico. Che i mercati non possano solo salire lo sappiamo tutti. Così come tutti, nei momenti peggiori, ci diciamo: «Nelle discese più profonde si colgono le migliori opportunità». Peccato però che quando poi ci si trova a tu per tu con un calo del 50%, le teorie crollano e le emozioni (negative) dominano. La verità, infatti, è che appena i mercati iniziano a scendere riaffiorano i comportamenti irrazionali, e con questi la voglia di entrare e uscire dai mercati, anticipare i crolli, investire nei minimi per uscire sui massimi: comportamenti che nel 99,99999999% dei casi non riescono mai a produrre l’effetto desiderato.
LE VOSTRE SCELTE FORMANO I PREZZI DEI PRODOTTI FINANZIARI
I mercati (azionari, obbligazionari o di qualunque altro tipo) semplicisticamente non sono che la somma di tutte le scelte di acquisto e di vendita di tutti i partecipanti ai mercati stessi. Le scelte formano i prezzi dei singoli prodotti finanziari e determinano i rialzi e i ribassi di un determinato mercato. Può essere interessante osservare come negli ultimi 11 anni, a partire dalla pesantissima crisi del 2008, l’indice della paura, il cosiddetto «VIX» (Volatility Index), utilizzato dalla maggioranza degli analisti per «prevedere» l’imminente crollo dei mercati, abbia dato a più riprese una serie di falsi segnali spiazzando completamente chi, più furbo degli altri, aveva pensato di uscire dal mercato per poi rientrarci a prezzi più convenienti. Bene, in quest’ultimo decennio i «furbetti del mercatino» sono più volte rimasti a bocca asciutta, proprio perché, a dispetto delle previsioni, il mercato ha continuato a salire senza soluzione di continuità. Il singolo investitore, in pratica, può essere paragonato alla classica goccia in un oceano formato da tantissime goccioline che oscillano, scivolano le une sulle altre, creano onde, si mischiano e fluttuano, ma in cui nessuna può condizionare il movimento complessivo del mare. Tutte ne fanno parte, ma nessuna può avere la forza di andare contro corrente, può solo accettare l’evoluzione delle onde.
LA CONSAPEVOLEZZA FINANZIARIA PRIMA DI TUTTO
Per questo per investire bene bisogna maturare buone abitudini finanziarie, quelle piu volte suggerite in questa rubrica, inserire il pilota automatico (magari aiutati da un fedele e professionale consulente-copilota) e lasciarsi trasportare dalla propria consapevolezza (finanziaria). Quella consapevolezza che è stata sempre il vero e unico motivo per cui scrivo. Questa rubrica compie oggi cinque anni e negli oltre 250 articoli scritti per questo giornale non vi ho mai parlato di marche di prodotti. Non vi ho mai consigliato uno specifico strumento. Non ho mai magnificato una determinata griffe. Perché non era e non è l’obiettivo di questa rubrica, che tenta solo di farvi maturare più consapevolezza e sicurezza quando entrate in un negozio e il commesso vi accoglie con la classica frase: «Prego, di cosa ha bisogno? Posso esserle d’aiuto?».
BISOGNA SAPERE SCHIVARE CERTE PRESSIONI
Ma, come già sapete, nei «negozi finanziari» i prodotti non si acquistano, si vendono. I commessi-consulenti vi accolgono con la frase: «Ho questo prodotto per lei, lo deve acquistare», senza nemmeno chiedervi se soddisfa i vostri bisogni. Ecco: spero, mi auguro che in questi cinque anni abbiate avuto quasi tutti gli elementi per acquistare un prodotto e schivare certe pressioni. Un po’ come avviene quando entrate in un negozio per acquistare una cravatta avendo già bene in mente che: • dovete abbinarla a un abito formale scuro e scarpe classiche nere; • dovete indossarla per una cerimonia in un ambiente molto chic; • dovete indossarla in piena estate. Consapevoli di tutto questo, non credo che riuscirete a farvi convincere dal commesso-venditore ad acquistare una cravatta di lana a motivi floreali di colori sgargianti. Buon Natale a voi tutti.
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Come (e perché) sfruttare il calo di titoli prestigiosi. Gettando lo sguardo oltre i dubbi di breve periodo. Rapida introduzione al “mix in caduta”.
Nel processo di controllo dei propri investimenti, anche il risparmiatore alle prime armi deve approfittare del “mix in caduta”. Di cosa si tratta? Il monitoraggio dei portafogli va fatto cogliendo le opportunità che il mercato offre lungo il percorso di investimento. Se applicate il constant mix in automatico a determinate scadenze (almeno ogni 12 mesi, come già visto la settimana scorsa), il mix in caduta si attiva ogni qualvolta un vostro asset subisce un calo importante (nel caso dell’azionario, superiore al 30%; nel caso dell’obbligazionario, superiore al 10%). Riequilibrando il portafoglio secondo la regola del constant mix di cui sopra, o in alternativa investendo nuove risorse (nel rispetto dei vostri obiettivi e del profilo di rischio, naturalmente). Spieghiamo il perché.
UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA
Abbiamo detto a più riprese che l’economia globale cresce sempre e che noi, investendo in strumenti efficienti, siamo in grado di incorporare questa crescita. Ma abbiamo anche sottolineato che i mercati finanziari non crescono in modo costante e lineare, perché nel breve periodo sono condizionati da fattori emotivi e speculativi che generano oscillazioni incontrollabili. Pertanto, ogni volta che il mercato crolla abbiamo un’opportunità unica di acquisto. È un po’ come durante i saldi, ma su prodotti di lusso: chi si farebbe sfuggire l’occasione di acquistare a metà prezzo una Mercedes, un iPhone, una borsa di Louis Vuitton o un Rolex? Ebbene sì: quando crolla la Borsa abbiamo l’occasione unica di comprare a metà prezzo le azioni di tutte queste aziende, quindi perché non farlo? Se non lo fate è perché il vostro sguardo non è rivolto lontano, all’orizzonte temporale giusto, ma è concentrato sul breve periodo, sulla piccola tragedia che state vivendo in quel momento. Vi impantanate a rimuginare che state momentaneamente perdendo il 30-40%. È solo questione di prospettiva.
Se per almeno una settimana sentite al telegiornale commenti del tipo «La Borsa sta crollando», allora è il momento di sedersi al tavolo con il vostro consulente
Mi direte: «E come faccio a seguire i mercati in caduta? Non ho tempo e competenze per poterlo fare!» Non lo accetto più. Si tratta dei vostri soldi e un minimo di attenzione dovere averlo. Ma la soluzione smart c’è. In questo i media contribuiscono parecchio a spaventarvi. Se per almeno una settimana sentite al telegiornale o nei talk televisivi o leggete sul giornale commenti del tipo: «La Borsa sta crollando», «I mercati non reagiscono» e altre frasi a effetto negativo, allora è il momento di sedersi al tavolo con il vostro consulente e verificare se è il caso di approfittare del mix in caduta. E comunque è venuto il momento di non fare l’italiano figlio di Guicciardini perché dietro quelle notizie ci potrebbe essere anche l’opportunità per il vostro investimento.
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Stime di crescita al ribasso: +1,1% per il 2020. La presidente dell’Eurotower: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva». E poi precisa: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».
La prima riunione di politica monetaria della Banca Centrale Europea guidata da Christine Lagarde si è conclusa lasciando i tassi d’interesse invariati: il tasso principale resta fermo a zero, quello sui prestiti marginali allo 0,25% e quello sui depositi a -0,50%.
«NÉ FALCO NÉ COLOMBA, SARÒ GUFO»
La Bce ha «leggermente rivisto» al ribasso le stime di crescita per il 2020, a 1,1%. Le stime sono ora di una crescita dell’1,2% quest’anno, dell’1,1% il prossimo, e dell’1,4% nel 2021 e 2022. Nella conferenza stampa al termine del board Lagarde ha spiegato: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».
«CHI HA SPAZIO DI BILANCIO, AGISCA IN MANIERA TEMPESTIVA»
Poi Lagarde è tornata in pressing sulla Germania e gli altri Paesi che hanno surplus di bilancio: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva» per stimolare la crescita.
«L’EUROPA NON VA VERSO LA JAPANIFICATION»
Infine, riferendosi al rischio, evocato da alcuni economisti, di una spirale di deflazione e bassa crescita come quella del ‘decennio perduto’ giapponese, ha commentato: «Una ‘Japanification’? non credo affatto che siamo a questo punto, il credito alle imprese europee presenta un quadro completamente diverso da quello giapponese. Non credo affatto che una ‘Japanification’ sia fra le ipotesi sul tavolo»
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Stime di crescita al ribasso: +1,1% per il 2020. La presidente dell’Eurotower: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva». E poi precisa: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».
La prima riunione di politica monetaria della Banca Centrale Europea guidata da Christine Lagarde si è conclusa lasciando i tassi d’interesse invariati: il tasso principale resta fermo a zero, quello sui prestiti marginali allo 0,25% e quello sui depositi a -0,50%.
«NÉ FALCO NÉ COLOMBA, SARÒ GUFO»
La Bce ha «leggermente rivisto» al ribasso le stime di crescita per il 2020, a 1,1%. Le stime sono ora di una crescita dell’1,2% quest’anno, dell’1,1% il prossimo, e dell’1,4% nel 2021 e 2022. Nella conferenza stampa al termine del board Lagarde ha spiegato: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».
«CHI HA SPAZIO DI BILANCIO, AGISCA IN MANIERA TEMPESTIVA»
Poi Lagarde è tornata in pressing sulla Germania e gli altri Paesi che hanno surplus di bilancio: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva» per stimolare la crescita.
«L’EUROPA NON VA VERSO LA JAPANIFICATION»
Infine, riferendosi al rischio, evocato da alcuni economisti, di una spirale di deflazione e bassa crescita come quella del ‘decennio perduto’ giapponese, ha commentato: «Una ‘Japanification’? non credo affatto che siamo a questo punto, il credito alle imprese europee presenta un quadro completamente diverso da quello giapponese. Non credo affatto che una ‘Japanification’ sia fra le ipotesi sul tavolo»
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La riforma del fondo salva-Stati crea un’Eurozona a due velocità. E il nostro Paese, il secondo più indebitato dell’Ue dopo la Grecia, è fuori dai parametri di sostenibilità. Così i Btp finiscono nel mirino delle speculazioni. Anche per i vincoli dei tedeschi sull’unione bancaria. I no degli esperti.
Riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità per finanziare gli Stati dell’euro in gravi difficoltà in base alla sostenibilità dei loro debiti. Poi un’unione bancaria a patto che si valuti il tasso di rischio dei titoli sovrani (Btp) o con tetti alla loro detenzione. Su entrambe le manovre di politica monetaria dell’Unione europea l’Italia è esposta significativamente per il debito pubblico al 135% del Pil – molto oltre la soglia massima del 60% del Fiscal compact – e per i circa 400 miliardi di euro in Btp custoditi nelle banche del Paese, circa un quinto delle emissioni totali.
RISOLUZIONE APPROVATA DALLE CAMERE
Non a caso prima del Consiglio europeo del 12 e del 13 dicembre 2019, sulle modifiche al Fondo salva-Stati, il governo giallorosso ha messo all’approvazione di Camera e Senato una risoluzione per escludere in particolare «interventi di carattere restrittivo sulla dotazione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei titoli di Stato».
L’APPELLO PER IL NO SU MICROMEGA
La lente del Mes sull’indebitamento (l’Italia è il secondo Paese nell’Ue per debito pubblico dopo la Grecia), e di conseguenza sui suoi mattoni dei Btp, ha fatto sobbalzare anche economisti come il governatore di BankitaliaIgnazio Visco o come Carlo Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici. Allarmati dalla possibilità, scongiurata all’ultimo vertice dell’Eurogruppo, che per accedere al nuovo Fondo salva-Stati i Paesi con un debito insostenibile (in Italia per il 70% in mano agli italiani) dovessero necessariamente ristrutturarlo. La prospettiva getterebbe le banche del Paese in pasto alle speculazioni dei mercati ben prima dell’ipotesi di salvataggio di uno Stato, incentivandolo. Scrivono 32 economisti nel loro appello su Micromega “No al Mes se non cambia la logica europea”, di non voler pensare che la «strada individuata dai nostri partner europei per forzare una riduzione del debito pubblico italiano sia quella di provocare una crisi».
PIÙ VULNERABILI AI MERCATI
Il pericolo di una spirale per l’Italia era noto agli ultimi governi e al mondo finanziario ben prima che il dibattito sul Mes si infiammasse, visto che i capitoli sulla riforma sono all’esame dei Paesi membri dell’eurozona dal 2018. Ma che alla fine siano spariti i passaggi sulla ristrutturazione automatica del debito non ripara dal rischio di avvitamento. Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche, dice a Lettera43.it: «Basta che resti la divisione tra i Paesi con i requisiti per una fast line sui finanziamenti e quelli senza, perché la vulnerabilità sia da subito molto chiara ai mercati». Un rating targato Ue istituzionalizzerebbe un’Europa a due, tre velocità. E le banche, anche quelle francesi con in pancia il 16% dei Btp, inizierebbero a disfarsi dei titoli di Stato con minori garanzie. A maggior ragione se nell’Ue prendesse corpo la proposta sull’unione bancaria del ministro alle Finanze tedesco Olaf Scholz, con garanzie e limitazioni sui titoli dei debiti sovrani.
CRISI INTERNE MA CONTAGI LIMITATI
Gli economisti della lettera sul “No al Mes” ammoniscono: «Uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». Il paradosso della riforma è che se anche «i giudizi sul debito» facessero «precipitare tutto il sistema creditizio» della terza economia dell’eurozona, cioè dell’Italia, sempre grazie al Mes le altre economie dell’euro sarebbero più protette rispetto, per esempio, agli effetti della crisi del debito sovrano della Grecia nel 2010. Il Fondo Ue salva-Stati è stato istituito nel 2012 proprio per ridurre i danni del contagio, e allo stesso scopo viene perfezionato. Giovanni Dosi dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, tra i firmatari dell’appello, spiega a L43: «È un meccanismo per isolare i mercati finanziari del Nord. Con questa riforma le probabilità di crisi interne in alcuni Stati dell’Ue aumenteranno, mentre diminuirà ancora il rischio sistemico per l’Europa».
I CRITERI DEL FISCAL COMPACT NEL MES
Anche uno studio del Centro Europa ricerche mette in guardia sui «nuovi strumenti di sostegno finanziario dell’Eurozona» che «si baserebbero ab origine su una distinzione fra buoni e cattivi». Le economie al momento più sensibili al monitoraggio del Mes sono nell’ordine la Grecia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo. «Ed è evidente che il nostro Paese, al contrario di altri, non possa soddisfare a priori alcuni dei criteri inseriti per definire la sostenibilità», precisa Dosi, «oltre al tetto del debito sotto il 60% del Pil, a nostro svantaggio c’è il calcolo del saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. In questo modo non si esce dalla logica dell’austerity, tanto più che con la riforma si rafforza il peso sulla politica del Mes, un organo tecnico con ai vertici economisti e banchieri centrali tedeschi e francesi». La combinazione del nuovo Fondo salva-Stati e dell’unione bancaria alla tedesca, aggiunge, sarebbe poi «esplosiva» per la tenuta dei Btp italiani.
CONVERGENZA SULL’UNIONE BANCARIA
Va detto che mentre sul Mes si accelera per chiudere all’inizio del nuovo anno, sull’unione bancaria l’intesa è più lontana e resta problematica. Proprio la Germania – alle prese con una serie crescente di problemi bancari (di istituti nazionali e locali) sia a causa del peso dei derivati sia per la frenata dell’economia reale nel 2019 – quest’autunno ha aperto il dibattito nell’Ue per creare un’assicurazione comune che sia di aiuto nelle crisi bancarie dell’eurozona. Proponendo però valutazioni di rischio per i titoli di Stato, piuttosto che per prodotti opachi come i derivati. Di nuovo, un concept ritagliato sulle esigenze finanziarie di Stati come la Germania, piuttosto che come l’Italia. «C’è una convergenza in una direzione. Con la riforma del Mes, la proposta di completamento dell’unione bancaria, e anche con le pressioni per lo stop al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli dalle banche da parte della Bce per stimolare la crescita, si accende un faro sul debito pubblico».
Sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes
Vladimiro Giacché, Centro Europa Ricerche
I COEFFICIENTI DI RISCHIO SUI BTP
Segnali chiari per i mercati e di impatto per i risparmiatori, come lo fu nel 2016 in Italia l’introduzione del bail-in: il «salvataggio interno» alle banche imposto dalla direttiva Ue che sgrava gli Stati dai salvataggi con fondi pubblici, scaricando i dissesti sugli azionisti e sugli investitori privati. Prima del bail-inobbligazionisti e correntisti non correvano rischi particolari, perché le banche non potevano fallire: il solo via libera alla nuova legge costò al sistema bancario italiano una perdita di capitalizzazione di 46 miliardi. Lo stesso scossone si avrebbe con i coefficienti di rischio sui titoli di Stato, premessa per la loro svalutazione. «Oltretutto, anche con una cornice ideale per le banche tedesche, i salvataggi resteranno complicati anche per i tedeschi a causa delle rigidità sulle norme del bail-in» conclude il presidente del Centro Europa ricerche, «sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes».
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Dopo 72 ore di ininterrotta trattativa, sabato è arrivata la firma con Unicredit. Ora, senza Luca Parnasi, il progetto ha la strada spianata.
Nel pomeriggio di sabato 7 dicembre, dopo 72 ore di ininterrotta trattativa, l’imprenditore ceco Radovan Vitek ha acquistato da Unicredit i crediti ipotecari che pesavano su Eurnova. Sarà dunque lui ora a decidere sullo stadio della Roma. E senza LucaParnasi sarà più facile per la Giunta Raggi dare il via libera al progetto. Come ricordato dal Sole24Ore, che aveva anticipato la trattativa, Eurnova aveva debiti con la banca di Jean Pierre Mustier per 50-60 milioni di euro. Mentre gli altri debiti del gruppo Parnasi sono in capo a Parsitalia e Capital Dev. La realizzazione dello stadio della Roma dunque ora ha la strada spianata. Insieme con il business park da 140 mila metri quadri, il progetto ha un valore di 1,3 miliardi. Un tesoro su cui Vitek vuole mettere le mani per poi rivenderlo.
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Comportamenti irrazionali talvolta rischiano di compromettere non solo i risparmi degli investitori, ma anche i loro obiettivi di vita. Garantire un «constant mix» può aiutare: ecco come funziona.
L’ultimo passo del processo di investimentoanalizzato su queste colonne nelle ultime settimane è di sicuro quello più difficile da rispettare per un investitore inesperto: controllare e controllarsi. È semplice da spiegare ma complicato da seguire, perché a determinare le scelte, ormai lo sapete, non è la ragione ma l’istinto, la paura, l’euforia. Sapete anche che i comportamenti irrazionali talvolta rischiano di compromettere non solo i risparmi degli investitori, ma anche i loro obiettivi di vita.
Per evitare di cadere nei soliti errori, proviamo a ragionare su alcuni comportamenti da adottare per migliorare la gestione del portafoglio e dare vita a un’efficace politica di controllo (o monitoraggio).
In particolare, dovreste osservare tre semplici regole:
Garantire un «constant mix» o peso costante.
Approfittare del mix in caduta.
Inserire il pilota automatico.
IL CONSTANT MIX, VIA PER MONITORARE GLI INVESTIMENTI
Questa settimana ci concentreremo sul «constant mix», una regola semplice ma utilissima e molto efficace per monitorare un investimento nel lungo periodo. In pratica, a intervalli di tempo definiti (almeno di 12 mesi) si può intervenire sul portafoglio per mantenere costante il peso dei differenti asset all’interno del portafoglio.
Il constant mix presenta due vantaggi:
Mantiene inalterati i livelli di rischio;
Consente di avere un approccio razionale: applicato con costanza, infatti, permette di alleggerire (vendere) asset rischiosi dopo fasi di elevata crescita e di investire (acquistare) negli stessi quando scendono pesantemente. Cosa non da poco, se consideriamo che tutte le ricerche dimostrano come l’emotività degli investitori li porti a scappare quando i mercati scendono, e a investire solo dopo avere osservato con lo specchietto retrovisore che da alcuni anni quell’asset è cresciuto. Per esempio, se investite il 50% dei vostri risparmi in azioni e l’altro 50% in obbligazioni, nel tempo questi due asset avranno un rendimento diverso (data la loro differente natura) che potrebbe portare a sbilanciare il portafoglio verso rischi che non volevate assumervi. Nel caso rappresentato nella prossima tabella, l’azionario passa da 50% a 90%, con un’incidenza sul nuovo portafoglio complessivo del 60% (90/150%) e non più del 50%. Pertanto è opportuno riequilibrare il portafoglio nel rispetto dei rischi che ci si era ripromessi di assumere, trasferendo il 15% dalle azioni (che diventano 75%) alle obbligazioni (che si riducono a 75%), in modo da riavere la composizione originaria 50%-50%.
La stessa regola vale anche in caso di performance negativa. Come si nota dalla tabella successiva, un calo importante dell’azionario (da 50% a 30%) e un aumento dell’obbligazionario (da 50% a 56%) alterano pesantemente la struttura di portafoglio: l’azionario in questo caso peserà solo per il 34% (30/86%) e non come da intenzione iniziale per il 50%.
In questa ipotesi è bene aumentare la quota azionaria da 30% a 43% attingendo dall’asset obbligazionario, che scenderà da 56% a 43%, in modo da ritornare alla composizione originaria 50%-50%.
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Lo storico dirigente della banca d’affari pronto a lasciare per sottrarsi alla guerra – che lui ritiene sbagliata – tra Nagel e Del Vecchio, in lotta per controllare l’istituto fondato da Enrico Cuccia e con esso Generali.
Impegnato nella guerra con Leonardo Del Vecchio, che punta a controllare Mediobanca per arrivare a comandare in Generali, Alberto Nagel sta facendo la conta degli amici e dei nemici. E non solo tra i soci esistenti, ma anche tra i dirigenti.
L’amministratore delegato della banca d’affari creata da Enrico Cuccia, infatti, teme defezioni proprio tra coloro che lo circondano ogni giorno. Per questo si è sfogato in modo accorato con alcuni interlocutori, raccontando loro che il presidente Renato Pagliaro gli ha confessato di avere l’intenzione di lasciarlo solo.
Nagel si è lamentato di una scelta fatta in una fase cruciale della battaglia per il controllo dell’istituto situato alle spalle della Scala, senza capire che Pagliaro lo fa per sottrarsi a una guerra che non solo sente non sua ma ritiene profondamente sbagliata.
PAGLIARO, UNA VITA IN MEDIOBANCA
Pagliaro, che è presidente del consiglio di amministrazione di Mediobanca dal maggio 2010, era entrato in piazzetta Cuccia nel 1981, subito dopo essersi laureato in Bocconi. E lì ha sempre lavorato, ricoprendo diversi ruoli tra cui quello di vice direttore generale a partire dall’aprile del 2002, di condirettore generale e segretario del Consiglio di amministrazione dall’aprile 2003, di direttore generale dall’ottobre 2008 al maggio 2010, quando ha preso il posto che fu di Cuccia e di Vincenzo Maranghi.
Si libera un posto di prestigio, merce di scambio pregiata che può tornar buona all’attuale amministratore delegato
E proprio per questo percorso professionale tutto per linee interne, oltre per la stima che gli è unanimemente riconosciuta, la sua uscita – ragionevolmente non per andare in pensione, visto che ha appena 62 anni – diventerebbe un caso traumatico, destinato a incidere sulle vicende in corso.
Tuttavia, a Nagel un amico malizioso ha fatto notare che non tutto il male viene per nuocere, e che c’è l’altra faccia della medaglia di cui deve essere contento: si libera un posto di prestigio, merce di scambio pregiata che può tornar buona all’attuale ad deciso a difendere con i denti Mediobanca dalle mire del paperone di Agordo.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
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Visco contro il tetto ai titoli di Stato in pancia alle banche dice al quotidiano tedesco Handelsblatt:. «Quello di cui c’è bisogno è un titolo sicuro, emesso da un’organizzazione unica, che acquisisca automaticamente le entrate fiscali dagli Stati dell’euro»,
Il governatore Ignazio Visco in un’intervista all’Handelsblatt, quotidiano economico conservatore tedesco, di fatto la voce di quella classe dirigente che si è quasi sempre opposta alla linea di Mario Draghi all’interno della Bce e a quella italiana, in Europa, ha toccato tutti i temi caldi: il governo dell’Eurotower e anche la proposta tedesca di ponderare i titoli di Stato, definita dall’ex ministro Pier Carlo Padoan, il vero problema, altro che Mes.
IL RISCHIO DI DEFLAZIONE GIUSTIFICA LE SCELTE BCE
Sulle politiche espansive della Bce e in particolare sulla loro recente estensione, con le decisioni prese a settembre dalla Bce, ha detto: «C’è un dissenso sul fatto se queste mosse fossero necessarie. Io penso che lo fossero. E così anche il consiglio della Bce. Il ciclo economico non è favorevole. Il rischio di una deflazione, e dunque di prezzi in calo, sussiste». Ma ha anche aggiunto che «i tassi negativi, nel lungo periodo, possono provocare danni collaterali».
IL GOVERNATORE CHIEDE UN TITOLO SICURO SULL’EUROZONA
Poi ha discusso anche dei titoli di Stato. «In Italia le banche hanno funzionato da fattore stabilizzante durante le tensioni sui mercati finanziari. Io temo che questo vada perso se si dotano i bond di un fattore di ponderazione del rischio, senza che le banche abbiano un’alternativa», ha spiegato il governatore della Banca d’Italia. Anche la proposta di mettere un tetto all‘acquisto dei titoli di uno stato, aggiunge,«limiterebbe la funzione di stabilizzatore del sistema finanziario». Si potrebbe valutare se ci fosse un’alternativa. In Italia le banche hanno funzionato da fattore stabilizzante durante le tensioni sui mercati finanziari. Io temo che questo vada perso se si dotano i bond di un fattore di ponderazione del rischio, senza che le banche abbiano un’alternativa». «Quello di cui c’è bisogno è un titolo sicuro, emesso da un’organizzazione unica, che acquisisca automaticamente le entrate fiscali dagli Stati dell’euro», aggiunge Visco. «Questo potrebbe essere la base della costruzione di una capacità fiscale comune nell’eurozona», conclude.
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Il Pd sugli 8 mila esuberi: «Inaccettabile, faremo di tutto per ridurli». La Cisl parla di «schiaffo» e annuncia una lotta «durissima» contro la «linea irresponsabile» dell’ad Mustier. Le reazioni.
In Borsa il piano lacrime e sangue di Unicreditè stato accolto bene. Politicamente molto meno. Il Partito democratico se l’è presa direttamente con l’amministratore delegato Jean Pierre Mustier che aveva promesso di agire in modo socialmente responsabile: «Ma quale responsabilità sociale? Il piano che Unicredit ha annunciato è una mannaia orientata alla maggiore creazione di valore per gli azionisti, senza alcun riguardo al capitale umano dei lavoratori», ha scritto in una nota Pietro Bussolati della segreteria nazionale Pd.
IL PD SI SCHIERA «AL FIANCO DEI LAVORATORI»
Secondo i dem «non è accettabile che il nostro Paese sia destinato a sostenere la parte più consistente degli esuberi: gli 8 mila tagli del personale Unicredit si concentreranno soprattutto in Italia, Germania e Austria. Numeri da capogiro che Mustier ha snocciolato giustificando l’obiettivo da perseguire: 16 miliardi di valore per i soci. Siamo al fianco dei sindacati e dei lavoratori e faremo tutto il possibile affinché gli esuberi previsti per l’Italia siano ridotti il più possibile».
LA MINISTRA CATALFO: «CAPIAMO COSA STA ACCADENDO»
Nunzia Catalfo, ministra del Lavoro, a differenza dei mercati è stata sorpresa dalla notizia: «Vediamo di capire cosa sta avvenendo e di intervenire nel caso in cui ci dovessero essere esuberi, ma speriamo che non ce ne siano». Il problema è che il piano li prevede, nero su bianco, per il triennio 2020-2023. La ministra ha detto che preferirebbe «evitare di intervenire in emergenza, ma prevenire le crisi. Questo attraverso un osservatorio sul mercato del lavoro che inizi a studiare i settori in Italia sui quali si investe e quelli che sono in sofferenza e quindi anticipare le crisi».
I SINDACATI: «MUSTIER PENSA SOLO AI COSTI E NON AI RICAVI»
Anche i sindacati sono pronti a mobilitarsi. Il segretario generale di First Cisl Riccardo Colombani ha parlato di «schiaffo ai lavoratori che con i loro sacrifici hanno consentito alla banca di superare i momenti difficili che si sono succeduti negli ultimi anni». Si delinea dunque «un colpo durissimo al lavoro a esclusivo vantaggio del capitale». Per Colombani è la dimostrazione che «l’unica logica che muove il gruppo è quella del taglio dei costi. Lo avevamo già capito quando sono state cedute Pekao, Pioneer e Fineco: per Mustier fare ricavi è secondario. Unicredit non pensi che i sindacati accettino una nuova ondata di esuberi: faremo una battaglia durissima».
Non si possono scaricare ancora una volta sui lavoratori i costi di una ristrutturazione aziendale
Annamaria Furlan della Cisl
Anche la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, ha attaccato la «linea irresponsabile» della banca: «Non si possono scaricare ancora una volta sui lavoratori i costi di una ristrutturazione aziendale come prevede il nuovo piano industriale di Unicredit, una fredda operazione contabile che il sindacato non può accettare».
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La banca di Piazza Gae Aulenti prevede per il piano 2020-2023 una riduzione di 8 mila dipendenti. E la chiusura di 500 sportelli. Mentre punta a creare 16 miliardi per gli azionisti nel triennio aumentando al 40% la distribuzione di capitale per il 2019.
Grandi tagli in arrivo per Unicredit. La banca in una nota ha annunciato la riduzione del personale di circa 8 mila unità nell’arco del piano 2020-2023 mentre l’ottimizzazione della rete di filiali porta alla chiusura di circa 500 sportelli.
LA SFORBICIATA PIÙ CONSISTENTE IN ITALIA
In particolare la sforbiciata si concentra soprattutto in Italia, Germania e Austria, dove il personale deve essere ridotto complessivamente del 21% e verrà chiuso il 25% delle filiali. Il nostro Paese appare destinato a sostenere la parte più consistente degli esuberi: degli 1,4 miliardi di euro di costi di integrazione stimati per la loro gestione, infatti, 1,1 miliardi riguarderanno l’Italia (pari al 78% del totale) e solo 0,3 miliardi l’Austria e la Germania.
PER GLI AZIONISTI 16 MILIARDI DI VALORI
Unicredit punta poi a creare 16 miliardi di valore per gli azionisti in quel triennio e aumentare al 40% la distribuzione di capitale per il 2019.
UTILE A 5 MILIARDI NEL 2023
Il piano strategico prevede di realizzare un utile di 5 miliardi di euro nel 2023, con una crescita aggregata dell’utile per azione di circa il 12% nel periodo 2018-2023. Il ritorno sul capitale tangibile (rote) sarà «pari o al di sopra dell’8%» per tutto il piano, si legge nella nota.
AI SOCI 8 MILIARDI TRA CEDOLE E BUY-BACK
La banca ha intenzione di distribuire ai propri azionisti circa 8 miliardi di euro, tra cedole e riacquisto di azioni, tra il 2020 e il 2023, di cui 6 miliardi rappresentati da dividendi in contanti e 2 miliardi da riacquisto di azioni proprie.
NEL 2019 DISTRIBUZIONE DEL CAPITALE RADDOPPIATA
Per il 2019 il gruppo di Piazza Gae Aulenti ha deciso di raddoppiare la distribuzione di capitale prevista dal precedente piano al 40%, di cui il 10% attraverso buy-back e il 30% con dividendi.
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Un indice azionario efficiente incorpora sempre la crescita, ha tanti operatori così da impedire che pochi attori possano condizionarne l’andamento ed è in grado di assorbire subito i cambiamenti dell’economia.
Proseguendo nel percorso relativo al comportamento che un investitore alle prime armi deve tenere nei processi di investimento dei propri risparmi, affrontiamo questa settimana la seconda delle tre regole da seguire: investire con strumenti efficienti
Oltre a investire in modo globale, dovete assicurarvi che lo strumento su cui investite sia efficiente. Dovete puntare sulla crescita economica del pianeta, non su singoli titoli (per esempio Telecom, Enel eccetera) o mode del momento (come settori particolari tipo biotecnologie, farmaceutici, energetici e così via), e nemmeno su singoli Paesi (per esempio, esclusivamente su titoli o indici italiani).
Ma cosa s’intende per «efficiente»? Un indice, un mercato o uno strumento finanziario è efficiente quando è in grado di incorporare appieno l’economia reale che rappresenta. Tecnicamente, gli economisti parlano di capacità di incorporare tutte le informazioni che derivano dal mercato. Inoltre, un mercato è efficiente quando ci sono tanti operatori, così da impedire che pochi attori possano condizionarne l’andamento, e anche quando è molto liquido e reattivo, in grado cioè di incorporare immediatamente i cambiamenti che avvengono al suo interno.
IL MERCATO AZIONARIO ITALIANO NON È EFFICIENTE
Un mercato azionario efficiente, dunque, incorpora sempre la crescita economica, che però avviene esclusivamente nel lungo periodo. Come abbiamo visto due settimane fa, nel breve periodo i fattori emotivi e speculativi incidono sulle oscillazioni delle azioni. Per questo è fondamentale saper aspettare che i frutti maturino e non farsi prendere dalla logica di breve periodo: anche se i mercati crollano, bisogna vedere un’eventuale perdita momentanea del 30-40% come un’importante opportunità, più che una tragica fatalità.
Il mercato italiano non non è in grado di incorporare la crescita economica del Paese
Il mercato finanziario italiano, per esempio, non è efficiente. Al di là della nostra economia, che ormai è al palo da decenni, il mercato non presenta le caratteristiche dell’efficienza, e non è in grado di incorporare la crescita economica del Paese, perché condizionato da pochi attori che fanno il bello e il cattivo tempo.
Chi non ricorda le scorribande del finanziere Soros & compagni tra il 2011 e il 2013 sui nostri titoli di Stato, che rischiarono di mettere in ginocchio il Paese? O tutte quelle attività ultra-speculative fatte su singoli titoli azionari che nel tempo hanno affossato anche il mercato nel suo complesso? Questo spiega in parte anche perché dal 2011 a oggi mercati più efficienti come quello americano ed europeo abbiano più che raddoppiato il loro valore, mentre il mercato italiano è ancora in negativo rispetto ai massimi del 2008!
ATTENZIONE AI COSTI E AI GESTORI DEL VOSTRO RISPARMIO
Oltre all’efficienza in senso stretto, la selezione degli strumenti da inserire nel portafoglio deve considerare anche l’efficienza in termini di costi (commissioni e spese varie). Ipotizziamo un investimento di 1.000 euro e un rendimento annuo del 6% per 30 anni. Un prodotto con un costo dell’1% genera in questo arco di tempo, per effetto dell’interesse composto, un capitale finale di 4.248 euro, mentre lo stesso prodotto ma con un costo del 2,5% (quindi 1,5% in più) frutta un capitale finale di soli 2.687 euro. L’incidenza dei costi, dunque, in questo caso quasi dimezza il capitale finale.
È fondamentale avviare un’attività di selezione dei migliori strumenti globali del risparmio gestito
La sintesi di tutto quanto detto finora si chiama «risparmio gestito», ovvero quando il risparmio di un investitore viene gestito da un intermediario finanziario specializzato, sia questo una Sgr o una banca. L’intermediario esegue tutte le operazioni di acquisto e vendita di attività finanziarie per costruire un portafoglio caratterizzato da un livello di rischio e da una modalità di gestione (attiva o passiva). Agli operatori, ovviamente, viene riconosciuta una commissione su tali attività. Forse starete pensando: ma che fa Imperatore, ci ributta di nuovo tra le fauci di quegli squali delle banche?
A questo punto, infatti, è fondamentale avviare un’attività di selezione non più della banca, che abbiamo già scelto secondo i criteri che abbiamo già consigliato su queste colonne, ma dei migliori strumenti globali del risparmio gestito, capaci non solo di incorporare la crescita di aree economiche importanti, ma anche di ridurre al minimo i costi. È la combinazione di questi due fattori a incidere sui rendimenti di portafoglio.
LA DIFFERENZA TRA FONDI ATTIVI E FONDI PASSIVI
Gli strumenti da prendere in considerazione si potrebbero dividere in due grandi categorie: fondi attivi e fondi passivi. I fondi gestiti in maniera attiva cercano di «battere» il mercato selezionando solo alcuni titoli, convinti che questi saliranno più degli altri. Il gestore di un fondo attivo costruisce dunque il portafoglio con un costante lavoro di ricerca, analisi e selezione. Questa complessa attività ha un costo a volte anche elevato che ricade sul fondo, e dunque sull’investitore. I gestori attivi possono applicare differenti strategie d’investimento (stili di gestione) selezionando alcuni titoli piuttosto che altri, aumentando o diminuendo la posizione in un’area geografica piuttosto che in un’altra e così via.
L’esperienza ha dimostrato che pochissimi gestori riescono sistematicamente a battere il mercato
In sintesi, il gestore attivo è libero di operare a livello globale con l’unico obiettivo di guadagnare più del mercato. Questo, però, solo sulla carta. L’esperienza, invece, ha dimostrato che pochissimi gestori riescono sistematicamente a battere il mercato. Meno del 15% è in grado di farlo in maniera costante, e non solo per le enormi difficoltà tecniche di prevedere(e quindi indovinare) quale titolo andrà meglio di altri, ma anche perché sulle performance di questi fondi incidono molto le spese di gestione.
Un fondo passivo (per esempio gli Etf, Exchange Traded Fund) ha invece come obiettivo principale la replica del mercato. Si prefigge di comprare tutti i titoli presenti in un mercato attribuendogli anche lo stesso peso, in modo da avere un andamento identico al mercato stesso. Per questo i fondi passivi, una volta implementati, non hanno bisogno di analisi, strategie o altro e possono ridurre al minimo i costi di gestione.
SERVE DIVERSIFICARE I PROPRI INVESTIMENTI
Quindi, quali fondi scegliere tra attivi e passivi? Dipende. Se siamo in grado di selezionare tra i fondi attivi quei pochi che riescono costantemente a «performare» più del mercato, allora possiamo inserire in portafoglio una buona dose di fondi attivi, consapevoli che il loro andamento non dipenderà solo dal mercato, ma anche dalle scelte del gestore (ci sono molti gestori attivi che da anni ottengono performance eccezionali, come pure gestori attivi che non sono mai riusciti a battere il mercato).
Consiglio di utilizzare come strumenti di base i fondi passivi e come strumenti satellite i fondi attivi
Di solito i fondi attivi sono più efficienti nelle fasi in cui sul mercato c’è maggiore oscillazione (che tecnicamente si chiama «volatilità»), perché nelle situazioni di incertezza riescono a esprimere meglio la loro bravura nel selezionare i titoli vincenti. I fondi passivi, al contrario, sono imbattibili quando l’oscillazione è molto contenuta, anche se avendo costi molto ridotti (come gli Etf, appunto) nel lungo periodo riescono sempre a generare performance positive.
Per questo motivo, e anche per rendervi la vita un po’ più semplice, nel processo di investimento vi consiglio di utilizzare come strumenti di base i fondi passivi, che sono più affidabili e meno costosi, e come strumenti satellite i fondi attivi (ma selezionando quei pochi gestori capaci), che nei momenti di alta volatilità dei mercati potrebbero dare una mano al rendimento del portafoglio.
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