La Chiesa cattolica può sopravvivere allo scandalo degli abusi sessuali?

Mentre Francesco continua la sua battaglia per i poveri, continuano i casi di violenze sui minori da parte di sacerdoti. Il Vaticano prova a rispondere sul lato della formazione, ma mancano i presupposti per riforme vere.

Mentre Francesco prosegue instancabile la sua predicazione in favore dei poveri, dei più vulnerabili, contro le ingiustizie che colpiscono tante realtà del Sud e del Nord del mondo, schierandosi in favore dell’educazione al dialogo, alla costruzione di ponti fra civiltà e popoli, la Chiesa da un punto all’altro del globo continua a essere scossa dallo scandalo degli abusi sessuali.

Apparentemente c’è una scarsa relazione fra questi due eventi, in realtà il tratto unificante – e alla lunga schizofrenico – è che entrambi sono fra gli elementi più fortemente rappresentativi della Chiesa cattolica in questo tempo.

A BUFFALO LO SCANDALO DEI 24 PRETI SOSPESI MA STIPENDIATI

Negli Stati Uniti i casi e le denunce si susseguono come una pioggia ininterrotta nonostante l’impegno della conferenza episcopale che ha cercato in ogni modo, nell’arco di due decenni, di porre rimedio allo scandalo. Fra pochi giorni, per altro, i vescovi degli States si riuniranno in assemblea per decidere come perseguire le eventuali coperture e gli insabbiamenti operati dai vescovi nei confronti di sacerdoti colpevoli o indagati come richiesto dal Vaticano.

Manca, in molti casi, la parola conclusiva del Vaticano che può procedere alla dimissione dallo stato clericale di un sacerdote

Ma a colpire l’opinione pubblica sono anche altri particolari, come nel caso della diocesi di Buffalo, Stato di New York, dove circa 24 sacerdoti, sospesi da ogni funzione a causa del loro coinvolgimento in casi di violenze su minori, continuano a ricevere il sostentamento economico dalla diocesi locale, sono cioè regolarmente stipendiati. Di fatto finché non vengono ‘spretati’ e allontanati dalla Chiesa è compito della diocesi provvedere al loro mantenimento, almeno questo dicono i legali esperti di diritto canonico.

Papa Francesco.

Manca, in molti casi, la parola conclusiva del Vaticano che può procedere alla dimissione dallo stato clericale di un sacerdote; ma le carte dei vari procedimenti, denunciano i media d’Oltreoceano, non sono mai state mandate a Roma nonostante gli annunci fatti. Secondo la diocesi a ritardare il procedimento sono state anche le ulteriori indagini del procuratore generale dello Stato di New York sullo scandalo; c’è invece chi pensa a ritardi dovuti a burocrazie interne. La storia di Buffalo, in ogni caso, dimostra come l’opinione pubblica americana non molli la presa e anzi consideri sempre di più le responsabilità della Chiesa.

IN ITALIA IL CASO DI DON MICHELE MOTTOLA A TRENTOLA DUCENTA

Anche in Italia, Paese in cui i media, con qualche eccezione, sono piuttosto restii a lanciare campagne stampa su un argomento che resta scabroso, proprio in questi giorni ha fatto invece scalpore un fatto di cronaca nel quale è coinvolto un prete: è il caso di don Michele Mottola, parroco a Trentola Ducenta (diocesi di Aversa) in attività fino al maggio scorso. Contro di lui è in corso un procedimento canonico, ma intanto è stato arrestato dalla polizia dopo essere stato denunciato grazie all’aiuto decisivo di una bambina di 12 anni, una sua vittima molestata già da diverso tempo. Interessante nel caso di don Mottola è il fatto che gli abusi sono proseguiti fino a tempi recentissimi, vale a dire dopo i tanti pronunciamenti degli ultimi pontefici, i provvedimenti presi dal Vaticano, i casi perseguiti, i primi passi compiuti dalla Cei per arginare il fenomeno. È il segno che il problema tende a perpetrarsi nonostante tutto.

LA CHIESA REAGISCE PUNTANDO SULLA FORMAZIONE DEI SACERDOTI

Altre iniziative, anche in positivo si susseguono. Per esempio il prossimo 14 novembre il cardinale Ricardo Blazquez, arcivescovo di Valladolid e presidente dei vescovi spagnoli, inaugurerà un corso sulla protezione dei minori nella Chiesa all’università di Navarra (Opus Dei). Del resto il Vaticano sta investendo molto sull’aspetto formativo attraverso un’educazione costante dei seminaristi e del clero in generale. In questa direzione guida le operazioni l’università Gregoriana a Roma, storico ateneo dei gesuiti che coordina le attività della Chiesa per la protezione dell’infanzia in tutto il mondo. Gestire la sfera affettiva e la sessualità in modo responsabile e maturo, affrontare i casi che emergono mettendo al primo posto le vittime e non la tutela dell’immagine dell’istituzione, capire i segnali di una crisi, imparare a comunicarla con trasparenza, sono alcuni degli obiettivi di questo sforzo. Basterà? Difficile dirlo.

IL CELIBATO RESTA UN TABÙ INTOCCABILE

Nonostante le buone intenzioni infatti in troppe chiese locali il clericalismo, l’abuso di potere, restano il vero nemico da battere mentre laici e donne restano ai margini del governo delle parrocchie e delle diocesi. Non solo. Sul piano istituzionale il celibato resta un tabù intoccabile: non vi è nessun nesso automatico fra la disciplina della castità e le violenze sessuali ripetono come un mantra, snocciolando dati, gli uomini di Bergoglio impegnati nella battaglia contro la pedofilia nella Chiesa, a cominciare da padre Hans Zollner, gesuita, presidente della Pontificia commissione per la protezione dei minori. L’esperienza direbbe altro, ma il dibattito è aperto.

Secondo il teologo Hubert Wolf, storico della Chiesa e teologo, a partire dagli Anni 60 il 20% dei preti ha rinunciato al sacerdozio a causa del celibato

Resta comunque il dubbio che il rapporto fra chiesa e sessualità, celibato compreso, sia un fattore costante di tensione irrisolto nella vita della Chiesa da tempo fuori controllo. Secondo il teologo Hubert Wolf, storico della Chiesa e teologo, autore di un volume appena pubblicato dal titolo Contro il celibato (Donzelli) a partire dagli Anni 60 circa il 20% dei preti ha rinunciato al sacerdozio a causa del celibato, i «seminari tendono regolarmente a scomparire», mentre ci sono diocesi che non hanno registrato una sola ordinazione per «diversi anni consecutivi».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

La Chiesa cattolica può sopravvivere allo scandalo degli abusi sessuali?

Mentre Francesco continua la sua battaglia per i poveri, continuano i casi di violenze sui minori da parte di sacerdoti. Il Vaticano prova a rispondere sul lato della formazione, ma mancano i presupposti per riforme vere.

Mentre Francesco prosegue instancabile la sua predicazione in favore dei poveri, dei più vulnerabili, contro le ingiustizie che colpiscono tante realtà del Sud e del Nord del mondo, schierandosi in favore dell’educazione al dialogo, alla costruzione di ponti fra civiltà e popoli, la Chiesa da un punto all’altro del globo continua a essere scossa dallo scandalo degli abusi sessuali.

Apparentemente c’è una scarsa relazione fra questi due eventi, in realtà il tratto unificante – e alla lunga schizofrenico – è che entrambi sono fra gli elementi più fortemente rappresentativi della Chiesa cattolica in questo tempo.

A BUFFALO LO SCANDALO DEI 24 PRETI SOSPESI MA STIPENDIATI

Negli Stati Uniti i casi e le denunce si susseguono come una pioggia ininterrotta nonostante l’impegno della conferenza episcopale che ha cercato in ogni modo, nell’arco di due decenni, di porre rimedio allo scandalo. Fra pochi giorni, per altro, i vescovi degli States si riuniranno in assemblea per decidere come perseguire le eventuali coperture e gli insabbiamenti operati dai vescovi nei confronti di sacerdoti colpevoli o indagati come richiesto dal Vaticano.

Manca, in molti casi, la parola conclusiva del Vaticano che può procedere alla dimissione dallo stato clericale di un sacerdote

Ma a colpire l’opinione pubblica sono anche altri particolari, come nel caso della diocesi di Buffalo, Stato di New York, dove circa 24 sacerdoti, sospesi da ogni funzione a causa del loro coinvolgimento in casi di violenze su minori, continuano a ricevere il sostentamento economico dalla diocesi locale, sono cioè regolarmente stipendiati. Di fatto finché non vengono ‘spretati’ e allontanati dalla Chiesa è compito della diocesi provvedere al loro mantenimento, almeno questo dicono i legali esperti di diritto canonico.

Papa Francesco.

Manca, in molti casi, la parola conclusiva del Vaticano che può procedere alla dimissione dallo stato clericale di un sacerdote; ma le carte dei vari procedimenti, denunciano i media d’Oltreoceano, non sono mai state mandate a Roma nonostante gli annunci fatti. Secondo la diocesi a ritardare il procedimento sono state anche le ulteriori indagini del procuratore generale dello Stato di New York sullo scandalo; c’è invece chi pensa a ritardi dovuti a burocrazie interne. La storia di Buffalo, in ogni caso, dimostra come l’opinione pubblica americana non molli la presa e anzi consideri sempre di più le responsabilità della Chiesa.

IN ITALIA IL CASO DI DON MICHELE MOTTOLA A TRENTOLA DUCENTA

Anche in Italia, Paese in cui i media, con qualche eccezione, sono piuttosto restii a lanciare campagne stampa su un argomento che resta scabroso, proprio in questi giorni ha fatto invece scalpore un fatto di cronaca nel quale è coinvolto un prete: è il caso di don Michele Mottola, parroco a Trentola Ducenta (diocesi di Aversa) in attività fino al maggio scorso. Contro di lui è in corso un procedimento canonico, ma intanto è stato arrestato dalla polizia dopo essere stato denunciato grazie all’aiuto decisivo di una bambina di 12 anni, una sua vittima molestata già da diverso tempo. Interessante nel caso di don Mottola è il fatto che gli abusi sono proseguiti fino a tempi recentissimi, vale a dire dopo i tanti pronunciamenti degli ultimi pontefici, i provvedimenti presi dal Vaticano, i casi perseguiti, i primi passi compiuti dalla Cei per arginare il fenomeno. È il segno che il problema tende a perpetrarsi nonostante tutto.

LA CHIESA REAGISCE PUNTANDO SULLA FORMAZIONE DEI SACERDOTI

Altre iniziative, anche in positivo si susseguono. Per esempio il prossimo 14 novembre il cardinale Ricardo Blazquez, arcivescovo di Valladolid e presidente dei vescovi spagnoli, inaugurerà un corso sulla protezione dei minori nella Chiesa all’università di Navarra (Opus Dei). Del resto il Vaticano sta investendo molto sull’aspetto formativo attraverso un’educazione costante dei seminaristi e del clero in generale. In questa direzione guida le operazioni l’università Gregoriana a Roma, storico ateneo dei gesuiti che coordina le attività della Chiesa per la protezione dell’infanzia in tutto il mondo. Gestire la sfera affettiva e la sessualità in modo responsabile e maturo, affrontare i casi che emergono mettendo al primo posto le vittime e non la tutela dell’immagine dell’istituzione, capire i segnali di una crisi, imparare a comunicarla con trasparenza, sono alcuni degli obiettivi di questo sforzo. Basterà? Difficile dirlo.

IL CELIBATO RESTA UN TABÙ INTOCCABILE

Nonostante le buone intenzioni infatti in troppe chiese locali il clericalismo, l’abuso di potere, restano il vero nemico da battere mentre laici e donne restano ai margini del governo delle parrocchie e delle diocesi. Non solo. Sul piano istituzionale il celibato resta un tabù intoccabile: non vi è nessun nesso automatico fra la disciplina della castità e le violenze sessuali ripetono come un mantra, snocciolando dati, gli uomini di Bergoglio impegnati nella battaglia contro la pedofilia nella Chiesa, a cominciare da padre Hans Zollner, gesuita, presidente della Pontificia commissione per la protezione dei minori. L’esperienza direbbe altro, ma il dibattito è aperto.

Secondo il teologo Hubert Wolf, storico della Chiesa e teologo, a partire dagli Anni 60 il 20% dei preti ha rinunciato al sacerdozio a causa del celibato

Resta comunque il dubbio che il rapporto fra chiesa e sessualità, celibato compreso, sia un fattore costante di tensione irrisolto nella vita della Chiesa da tempo fuori controllo. Secondo il teologo Hubert Wolf, storico della Chiesa e teologo, autore di un volume appena pubblicato dal titolo Contro il celibato (Donzelli) a partire dagli Anni 60 circa il 20% dei preti ha rinunciato al sacerdozio a causa del celibato, i «seminari tendono regolarmente a scomparire», mentre ci sono diocesi che non hanno registrato una sola ordinazione per «diversi anni consecutivi».

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Condanna di 2 anni e 8 mesi alla foreign fighter italiana Lara Bombonati

La donna si era convertita all’Islam radicale e aveva sposato un combattente italiano in Siria. Per il suo legale soffre di disturbo di personalità dipendente e deve essere curata.

Una condanna destinata a fare discutere. Lara Bombonati, la foreign fighter italiana accusata di associazione con finalità di terrorismo, è stata condannata a 2 anni e 8 mesi. La donna è stata ritenuta colpevole di aver fiancheggiato associazioni terroristiche di matrice islamica mentre era in Siria. Arrestata nel giugno 2017, aveva abbracciato la fede islamica e sposato Francesco Cascio, un combattente italiano che risulterebbe morto in ‘battaglia’.

IL LEGALE: «LARA VA CURATA»

Dopo il carcere, Bombonati dovrà scontare anche un anno in comunità. «Sono convinto che a breve verrà scarcerata, perché no ci sono più le esigenze cautelari», ha commentato il suo difensore l’avvocato Lorenzo Repetti, osservando che la sua assistita ha già scontato 2 anni e 5 mesi di carcere. «Lara va curata – aggiunge il legale – È stato accertato dai periti che ha disturbi di personalità tali, per cui il posto ideale per essere curata è una comunità idonea. Lara è molto delusa perché la corte non ha creduto al fatto, sempre ribadito, di essersi recata in Siria per seguire il marito, cui era legata e non poteva dire no per il disturbo di personalità dipendente».

PENA GIÀ SCONTATA QUASI INTERAMENTE

«La constatazione amara è che ha quasi integralmente scontato la pena prima della sentenza di condanna», ha aggiunto l’avvocato. In aula in tribunale ad Alessandria erano presenti la sorella, i genitori e la suocera. «Non sono la persona adatta per esprimere un giudizio»”, le poche parole del padre, incalzato dai giornalisti. Tra 90 giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Condanna di 2 anni e 8 mesi alla foreign fighter italiana Lara Bombonati

La donna si era convertita all’Islam radicale e aveva sposato un combattente italiano in Siria. Per il suo legale soffre di disturbo di personalità dipendente e deve essere curata.

Una condanna destinata a fare discutere. Lara Bombonati, la foreign fighter italiana accusata di associazione con finalità di terrorismo, è stata condannata a 2 anni e 8 mesi. La donna è stata ritenuta colpevole di aver fiancheggiato associazioni terroristiche di matrice islamica mentre era in Siria. Arrestata nel giugno 2017, aveva abbracciato la fede islamica e sposato Francesco Cascio, un combattente italiano che risulterebbe morto in ‘battaglia’.

IL LEGALE: «LARA VA CURATA»

Dopo il carcere, Bombonati dovrà scontare anche un anno in comunità. «Sono convinto che a breve verrà scarcerata, perché no ci sono più le esigenze cautelari», ha commentato il suo difensore l’avvocato Lorenzo Repetti, osservando che la sua assistita ha già scontato 2 anni e 5 mesi di carcere. «Lara va curata – aggiunge il legale – È stato accertato dai periti che ha disturbi di personalità tali, per cui il posto ideale per essere curata è una comunità idonea. Lara è molto delusa perché la corte non ha creduto al fatto, sempre ribadito, di essersi recata in Siria per seguire il marito, cui era legata e non poteva dire no per il disturbo di personalità dipendente».

PENA GIÀ SCONTATA QUASI INTERAMENTE

«La constatazione amara è che ha quasi integralmente scontato la pena prima della sentenza di condanna», ha aggiunto l’avvocato. In aula in tribunale ad Alessandria erano presenti la sorella, i genitori e la suocera. «Non sono la persona adatta per esprimere un giudizio»”, le poche parole del padre, incalzato dai giornalisti. Tra 90 giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Condanna di 2 anni e 8 mesi alla foreign fighter italiana Lara Bombonati

La donna si era convertita all’Islam radicale e aveva sposato un combattente italiano in Siria. Per il suo legale soffre di disturbo di personalità dipendente e deve essere curata.

Una condanna destinata a fare discutere. Lara Bombonati, la foreign fighter italiana accusata di associazione con finalità di terrorismo, è stata condannata a 2 anni e 8 mesi. La donna è stata ritenuta colpevole di aver fiancheggiato associazioni terroristiche di matrice islamica mentre era in Siria. Arrestata nel giugno 2017, aveva abbracciato la fede islamica e sposato Francesco Cascio, un combattente italiano che risulterebbe morto in ‘battaglia’.

IL LEGALE: «LARA VA CURATA»

Dopo il carcere, Bombonati dovrà scontare anche un anno in comunità. «Sono convinto che a breve verrà scarcerata, perché no ci sono più le esigenze cautelari», ha commentato il suo difensore l’avvocato Lorenzo Repetti, osservando che la sua assistita ha già scontato 2 anni e 5 mesi di carcere. «Lara va curata – aggiunge il legale – È stato accertato dai periti che ha disturbi di personalità tali, per cui il posto ideale per essere curata è una comunità idonea. Lara è molto delusa perché la corte non ha creduto al fatto, sempre ribadito, di essersi recata in Siria per seguire il marito, cui era legata e non poteva dire no per il disturbo di personalità dipendente».

PENA GIÀ SCONTATA QUASI INTERAMENTE

«La constatazione amara è che ha quasi integralmente scontato la pena prima della sentenza di condanna», ha aggiunto l’avvocato. In aula in tribunale ad Alessandria erano presenti la sorella, i genitori e la suocera. «Non sono la persona adatta per esprimere un giudizio»”, le poche parole del padre, incalzato dai giornalisti. Tra 90 giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Ex 007 inglese trovato morto a Istanbul: addestrava i Caschi Bianchi

Il cadavere dell’ex agente britannico James Le Mesurier rinvenuto nel centro della capitale turca. Con la sua Ong appoggiava il famoso gruppo di soccorritori in Siria.

Un ex agente dei servizi segreti inglesi e fondatore di una Ong che addestrava i gruppi di soccorritori dei Caschi Bianchi in Siria, James Gustaw Edward Le Mesurier, è stato trovato morto stanotte vicino alla sua casa nel centro di Istanbul. Secondo l’Afp, sarebbe precipitato dal balcone del suo appartamento: il suo corpo aveva fratture alle gambe e alla testa. Le autorità turche hanno fatto sapere di aver aperto un’inchiesta sulla sua morte. Ex ufficiale dell’esercito britannico, Le Mesurier aveva fondato la Mayday Rescue, con sedi a Istanbul e Amsterdam e finanziamenti dall’Onu e da vari governi. Nei giorni scorsi, la Russia lo aveva accusato di essere una spia camuffata da operatore umanitario.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Ex 007 inglese trovato morto a Istanbul: addestrava i Caschi Bianchi

Il cadavere dell’ex agente britannico James Le Mesurier rinvenuto nel centro della capitale turca. Con la sua Ong appoggiava il famoso gruppo di soccorritori in Siria.

Un ex agente dei servizi segreti inglesi e fondatore di una Ong che addestrava i gruppi di soccorritori dei Caschi Bianchi in Siria, James Gustaw Edward Le Mesurier, è stato trovato morto stanotte vicino alla sua casa nel centro di Istanbul. Secondo l’Afp, sarebbe precipitato dal balcone del suo appartamento: il suo corpo aveva fratture alle gambe e alla testa. Le autorità turche hanno fatto sapere di aver aperto un’inchiesta sulla sua morte. Ex ufficiale dell’esercito britannico, Le Mesurier aveva fondato la Mayday Rescue, con sedi a Istanbul e Amsterdam e finanziamenti dall’Onu e da vari governi. Nei giorni scorsi, la Russia lo aveva accusato di essere una spia camuffata da operatore umanitario.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Ex 007 inglese trovato morto a Istanbul: addestrava i Caschi Bianchi

Il cadavere dell’ex agente britannico James Le Mesurier rinvenuto nel centro della capitale turca. Con la sua Ong appoggiava il famoso gruppo di soccorritori in Siria.

Un ex agente dei servizi segreti inglesi e fondatore di una Ong che addestrava i gruppi di soccorritori dei Caschi Bianchi in Siria, James Gustaw Edward Le Mesurier, è stato trovato morto stanotte vicino alla sua casa nel centro di Istanbul. Secondo l’Afp, sarebbe precipitato dal balcone del suo appartamento: il suo corpo aveva fratture alle gambe e alla testa. Le autorità turche hanno fatto sapere di aver aperto un’inchiesta sulla sua morte. Ex ufficiale dell’esercito britannico, Le Mesurier aveva fondato la Mayday Rescue, con sedi a Istanbul e Amsterdam e finanziamenti dall’Onu e da vari governi. Nei giorni scorsi, la Russia lo aveva accusato di essere una spia camuffata da operatore umanitario.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Ex 007 inglese trovato morto a Istanbul: addestrava i Caschi Bianchi

Il cadavere dell’ex agente britannico James Le Mesurier rinvenuto nel centro della capitale turca. Con la sua Ong appoggiava il famoso gruppo di soccorritori in Siria.

Un ex agente dei servizi segreti inglesi e fondatore di una Ong che addestrava i gruppi di soccorritori dei Caschi Bianchi in Siria, James Gustaw Edward Le Mesurier, è stato trovato morto stanotte vicino alla sua casa nel centro di Istanbul. Secondo l’Afp, sarebbe precipitato dal balcone del suo appartamento: il suo corpo aveva fratture alle gambe e alla testa. Le autorità turche hanno fatto sapere di aver aperto un’inchiesta sulla sua morte. Ex ufficiale dell’esercito britannico, Le Mesurier aveva fondato la Mayday Rescue, con sedi a Istanbul e Amsterdam e finanziamenti dall’Onu e da vari governi. Nei giorni scorsi, la Russia lo aveva accusato di essere una spia camuffata da operatore umanitario.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell’Europa, in particolare dell’Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell’Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell’Europa, in particolare dell’Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell’Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell’Europa, in particolare dell’Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell’Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Nordstream 2 e la geopolitica del gas russo

Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell’Europa, in particolare dell’Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell’Artico.

Con il via libera della Danimarca a Nordstream 2, bloccato temporaneamente per questioni ambientali, si è chiusa, salvo imprevisti, la telenovela del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico.

Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.

Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.

UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL

Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante la crisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.

KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO

Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.

Alcune tubazioni di gas in Ucraina (foto ©AP/Lapresse).

Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.

ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA

Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.

Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale

In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.

Xi Jingping e Vladimir Putin (foto LaPresse).

Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Italia viva propone di ripristinare lo scudo penale sull’Ilva

Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.

Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.

CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»

Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».

SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO

Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Italia viva propone di ripristinare lo scudo penale sull’Ilva

Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.

Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.

CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»

Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».

SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO

Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Italia viva propone di ripristinare lo scudo penale sull’Ilva

Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.

Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.

CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»

Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».

SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO

Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Italia viva propone di ripristinare lo scudo penale sull’Ilva

Presentato un doppio emendamento al decreto fiscale. Ma Conte precisa: «Prima la garanzia che Mittal rispetterà gli impegni». E i commissari straordinari preparano un ricorso contro il recesso del colosso indiano.

Italia viva ha presentato un doppio emendamento al decreto fiscale per ripristinare lo scudo penale per ArcelorMittal. Si tratta della norma che metteva al riparo i manager dai processi per quel che concerne l’attività di esecuzione del piano ambientale dell’ex Ilva. Con gli emendamenti di Italia viva si introdurrebbero due ‘scudi’, uno generale che vale per tutte le aziende e uno specifico per l’Ilva, che copre la società dal 3 novembre (data di decadenza del precedente scudo penale) fino alla fine del risanamento.

CONTE: «MITTAL RISPETTI GLI IMPEGNI, POI PENSIAMO ALLO SCUDO»

Sulla questione, il premier Giuseppe Conte in un’intervista dell’11 novembre al Fatto Quotidiano ha spiegato: «Soltanto se Mittal venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo». Il premier, però, ha aggiunto: «Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gli ho offerto subito lo scudo: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perché il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi».

SLITTA IL DEPOSITO DELL’ATTO DI RECESSO

Nel frattempo, è slittato al 12 novembre il deposito in Tribunale a Milano dell’atto con cui ArcelorMittal chiede di recedere dal contratto di affitto dell’ex Ilva. Il procedimento, una volta presentato l’atto, dovrà essere iscritto a ruolo dalla cancelleria centrale che poi trasmetterà la causa al presidente del tribunale il quale la assegnerà alla Sezione specializzata imprese. Sempre al Tribunale di Milano sarà presentato nei prossimi giorni un ricorso dai legali dei commissari straordinari, secondo cui non ci sono le condizioni giuridiche per un recesso.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Ruby ter, una teste: «Pagò più di 50 mila euro per una vacanza alle Maldive»

Secondo la titolare di un’agenzia viaggi Karima El Mahrough versò la cifra in contanti chiedendo tutti i comfort. Per il suo compleanno in un locale di Milano «spesi 6 mila euro».

Vacanze extra lusso alle Maldive e spese faraoniche in ristoranti. Tutto pagato da Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, «in contanti». Denaro che, secondo i pm, sarebbe stato fornito alla donna da Silvio Berlusconi, tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari nel processo Ruby ter. È quello che emerge dalle ultime testimonianze della titolare di un’agenzia di viaggi e di una ristoratrice.

QUEI «50 MILA EURO PAGATI IN CONTANTI»

«È stata sicuramente una situazione unica per me, ha pagato tutto in contanti, era un viaggio che costava molto, oltre 50 mila euro, mi pare», ha detto la prima testimone parlando di una vacanza fatta cinque anni fa da El Mahroug. Già a verbale nelle indagini nel 2015 la testimone aveva raccontato del viaggio organizzato per Ruby, sua figlia, la baby sitter e il compagno dell’epoca Luca Risso e pagato «tra i 55 mila e i 60 mila euro». Lunedì 11 novembre ha aggiunto: «Volevano avere tutti i comfort». «Voleva una bella struttura alle Maldive, le ho proposte soluzioni decisamente costose, lei mi ha chiesto di viaggiare in business assieme al compagno e l’economy per la tata e la bimba». Di certo, ha proseguito, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano in aula col collega Luca Gaglio, non era una «modalità normale pagare in contanti, io ho portato la busta coi soldi al tour operator».

LA FESTA DI COMPLEANNO DA 6 MILA EURO

Un’altra teste, titolare di un ristorante a Milano, ha raccontato che la giovane marocchina pagò «6 mila euro in contanti» per la sua festa di compleanno nel locale. Il preventivo per «75 coperti, una torta da 750 euro» era di 8.800 euro, ma poi Ruby alla fine verso in tutto «6 mila euro in contanti». La ristoratrice, poi, ha raccontato di essere diventata all’epoca «amica» di Ruby che frequentava spesso il suo locale in centro. Ai pm che le hanno chiesto se le risultasse che Karima «facesse qualche lavoro», la teste ha risposto: «No, mai saputo. Si occupava della bimba. Diceva che le sarebbe piaciuto aprire un ristorante».

SECONDO I PM RUBY AVREBBE INCASSATO DA BERLUSCONI TRA I 5 E I 7 MILIONI

Dalle indagini, sempre sul capitolo ‘spese’, erano emersi già diversi dettagli, tra cui i casi delle «banconote da 500 euro» tirate fuori in discoteca da Ruby e date a un dj «per fargli mettere una canzone a fine serata», degli «abiti su misura» per Daniele Leo, altro suo compagno, fino al «personale di servizio» per sbrigare le faccende domestiche in casa e al «noleggio auto con conducente». Ruby, secondo le indagini dei pm, avrebbe incassato tra i 5 e i 7 milioni di euro da Berlusconi, parte dei quali sarebbero serviti anche per l’acquisto di un ristorante con annesso pastificio e due edifici con mini-alloggi per operatori del settore turistico a Playa del Carmen, in Messico.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Ruby ter, una teste: «Pagò più di 50 mila euro per una vacanza alle Maldive»

Secondo la titolare di un’agenzia viaggi Karima El Mahrough versò la cifra in contanti chiedendo tutti i comfort. Per il suo compleanno in un locale di Milano «spesi 6 mila euro».

Vacanze extra lusso alle Maldive e spese faraoniche in ristoranti. Tutto pagato da Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, «in contanti». Denaro che, secondo i pm, sarebbe stato fornito alla donna da Silvio Berlusconi, tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari nel processo Ruby ter. È quello che emerge dalle ultime testimonianze della titolare di un’agenzia di viaggi e di una ristoratrice.

QUEI «50 MILA EURO PAGATI IN CONTANTI»

«È stata sicuramente una situazione unica per me, ha pagato tutto in contanti, era un viaggio che costava molto, oltre 50 mila euro, mi pare», ha detto la prima testimone parlando di una vacanza fatta cinque anni fa da El Mahroug. Già a verbale nelle indagini nel 2015 la testimone aveva raccontato del viaggio organizzato per Ruby, sua figlia, la baby sitter e il compagno dell’epoca Luca Risso e pagato «tra i 55 mila e i 60 mila euro». Lunedì 11 novembre ha aggiunto: «Volevano avere tutti i comfort». «Voleva una bella struttura alle Maldive, le ho proposte soluzioni decisamente costose, lei mi ha chiesto di viaggiare in business assieme al compagno e l’economy per la tata e la bimba». Di certo, ha proseguito, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano in aula col collega Luca Gaglio, non era una «modalità normale pagare in contanti, io ho portato la busta coi soldi al tour operator».

LA FESTA DI COMPLEANNO DA 6 MILA EURO

Un’altra teste, titolare di un ristorante a Milano, ha raccontato che la giovane marocchina pagò «6 mila euro in contanti» per la sua festa di compleanno nel locale. Il preventivo per «75 coperti, una torta da 750 euro» era di 8.800 euro, ma poi Ruby alla fine verso in tutto «6 mila euro in contanti». La ristoratrice, poi, ha raccontato di essere diventata all’epoca «amica» di Ruby che frequentava spesso il suo locale in centro. Ai pm che le hanno chiesto se le risultasse che Karima «facesse qualche lavoro», la teste ha risposto: «No, mai saputo. Si occupava della bimba. Diceva che le sarebbe piaciuto aprire un ristorante».

SECONDO I PM RUBY AVREBBE INCASSATO DA BERLUSCONI TRA I 5 E I 7 MILIONI

Dalle indagini, sempre sul capitolo ‘spese’, erano emersi già diversi dettagli, tra cui i casi delle «banconote da 500 euro» tirate fuori in discoteca da Ruby e date a un dj «per fargli mettere una canzone a fine serata», degli «abiti su misura» per Daniele Leo, altro suo compagno, fino al «personale di servizio» per sbrigare le faccende domestiche in casa e al «noleggio auto con conducente». Ruby, secondo le indagini dei pm, avrebbe incassato tra i 5 e i 7 milioni di euro da Berlusconi, parte dei quali sarebbero serviti anche per l’acquisto di un ristorante con annesso pastificio e due edifici con mini-alloggi per operatori del settore turistico a Playa del Carmen, in Messico.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay

Ruby ter, una teste: «Pagò più di 50 mila euro per una vacanza alle Maldive»

Secondo la titolare di un’agenzia viaggi Karima El Mahrough versò la cifra in contanti chiedendo tutti i comfort. Per il suo compleanno in un locale di Milano «spesi 6 mila euro».

Vacanze extra lusso alle Maldive e spese faraoniche in ristoranti. Tutto pagato da Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, «in contanti». Denaro che, secondo i pm, sarebbe stato fornito alla donna da Silvio Berlusconi, tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari nel processo Ruby ter. È quello che emerge dalle ultime testimonianze della titolare di un’agenzia di viaggi e di una ristoratrice.

QUEI «50 MILA EURO PAGATI IN CONTANTI»

«È stata sicuramente una situazione unica per me, ha pagato tutto in contanti, era un viaggio che costava molto, oltre 50 mila euro, mi pare», ha detto la prima testimone parlando di una vacanza fatta cinque anni fa da El Mahroug. Già a verbale nelle indagini nel 2015 la testimone aveva raccontato del viaggio organizzato per Ruby, sua figlia, la baby sitter e il compagno dell’epoca Luca Risso e pagato «tra i 55 mila e i 60 mila euro». Lunedì 11 novembre ha aggiunto: «Volevano avere tutti i comfort». «Voleva una bella struttura alle Maldive, le ho proposte soluzioni decisamente costose, lei mi ha chiesto di viaggiare in business assieme al compagno e l’economy per la tata e la bimba». Di certo, ha proseguito, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano in aula col collega Luca Gaglio, non era una «modalità normale pagare in contanti, io ho portato la busta coi soldi al tour operator».

LA FESTA DI COMPLEANNO DA 6 MILA EURO

Un’altra teste, titolare di un ristorante a Milano, ha raccontato che la giovane marocchina pagò «6 mila euro in contanti» per la sua festa di compleanno nel locale. Il preventivo per «75 coperti, una torta da 750 euro» era di 8.800 euro, ma poi Ruby alla fine verso in tutto «6 mila euro in contanti». La ristoratrice, poi, ha raccontato di essere diventata all’epoca «amica» di Ruby che frequentava spesso il suo locale in centro. Ai pm che le hanno chiesto se le risultasse che Karima «facesse qualche lavoro», la teste ha risposto: «No, mai saputo. Si occupava della bimba. Diceva che le sarebbe piaciuto aprire un ristorante».

SECONDO I PM RUBY AVREBBE INCASSATO DA BERLUSCONI TRA I 5 E I 7 MILIONI

Dalle indagini, sempre sul capitolo ‘spese’, erano emersi già diversi dettagli, tra cui i casi delle «banconote da 500 euro» tirate fuori in discoteca da Ruby e date a un dj «per fargli mettere una canzone a fine serata», degli «abiti su misura» per Daniele Leo, altro suo compagno, fino al «personale di servizio» per sbrigare le faccende domestiche in casa e al «noleggio auto con conducente». Ruby, secondo le indagini dei pm, avrebbe incassato tra i 5 e i 7 milioni di euro da Berlusconi, parte dei quali sarebbero serviti anche per l’acquisto di un ristorante con annesso pastificio e due edifici con mini-alloggi per operatori del settore turistico a Playa del Carmen, in Messico.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

PlayPlay