David Grossman sul suo nuovo romanzo e il potere della parola

L’ultimo libro dell’autore israeliano, La vita gioca con me, è una genealogia della colpa: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. Ma non è sempre il perdono a interrompere la catena dell’odio.

Vale anche per i personaggi di David Grossman quello che Nietzsche sosteneva nella sua introduzione alla Genealogia della morale: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?».

L’ultimo romanzo di Grossman, La vita gioca con me (Mondadori, pagg. 300, euro 21) nella efficace traduzione di Alessandra Shmoroni, è una genealogia della «colpa», più che della morale: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, nodi che non si sono ancora sciolti, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. E questo male, Grossman lo sa molto bene avendo vissuto quasi dagli inizi l’epopea del neo-Stato ebraico, si trasmette di generazione in generazione, fino a che non si arriva, talvolta, alla possibilità di un chiarimento. Ed ecco, allora, il corto circuito improvviso che scatena a terra la forza distruttrice del passato e ricrea nuovi spazi per la libertà e l’amore. Non sempre per il perdono, ma quello che possiamo fare è interrompere la catena dell’odio e riprendere in mano le nostre vite. Può sembrare poco, ma è già tantissimo.

L’ultimo romanzo di Grossman, a differenza dei precedenti, è costruito su una storia reale, quella di Eva Nahir-Panic, un’ebrea-croata trasferitasi in Israele dopo la morte del marito, ufficiale serbo. Dal punto di vista narrativo il romanzo ha una struttura a più livelli che intreccia microcosmo e macrocosmo, vita privata e frammenti di storia del Novecento, in un continuo elastico tra presente, passato e perfino futuro. Ci sono tre donne di generazioni successive che si incontrano in un kibbutz in Israele per la festa di compleanno della più anziana, Vera, che festeggia novant’anni con la figlia Nina, la nipote Ghili, che è anche l’io narrante del libro, e il figliastro e padre di Ghili, Rafael. Tre donne segnate dalla perdita devastante di un amore.

Quando il marito di Vera, Miloš Novak, muore suicida in Croazia per sfuggire alle torture della polizia di Tito, Vera rifiuta di infangarne la memoria e per questo viene condannata alla prigionia nel terribile campo di rieducazione di Goli Otok, una piccola isola selvaggia di fronte a Zara convertita a luogo di prigionia per dissidenti politici e criminali comuni. Ma la decisione di Vera ha un prezzo: l’abbandono al suo destino della figlia di sei anni e mezzo. Ecco il secondo amore infranto. Nina vivrà l’allontanamento dalla madre come un rifiuto e inizierà una vita infelice e raminga, incapace di costruire relazioni solide, neppure con il marito Rafael che continuerà ad amarla devotamente nelle sue fughe dalla famiglia e da Israele. Così, anche Ghili, la figlia di Nina, vive la stessa esperienza di dolore e abbandono, i medesimi rancori riversati sulla madre, generazione dopo generazione. Quando avviene l’incontro per il compleanno di Vera, il «quadrilatero degli affetti» sembra ritrovare una sua geometria, o almeno un tentativo di realizzarla. Ma la ricomposizione richiede un’ulteriore catarsi, un pellegrinaggio dei quattro personaggi nel passato di Vera in Croazia, fino al campo di Goli Otok.

Nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria

Il pretesto narrativo è il documentario che Ghili propone di girare sulla storia della nonna, un modo per provare a rileggere il passato da un altro punto di vista, con la mediazione dell’obiettivo di una telecamera, come se le ferite, così profonde, rendessero impossibile alle tre donne raccontare il proprio destino direttamente alle altre. E, a Goli Otok, la genealogia della colpa si risolve finalmente nella catarsi, con le tre protagoniste che riemergono dolorosamente dal proprio passato con la prospettiva di una riconciliazione di nuovo possibile. Alla fine, la telecamera e il documentario famigliare diventano inutili, la parola, che per Grossman, come tutti gli ebrei, ha echi ben più profondi di quelli comuni, compie il miracolo: nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria. Lettera43 ha incontrato lo scrittore israeliano in Italia per la presentazione del libro.

David Grossman (foto di Roberto Monaldo/LaPresse).

DOMANDA. Sono la parola, il racconto che guariscono dall’odio. Nel caso dell’ebraico è una “parola” che ha radici antichissime: quanto pesa questa eredità su uno scrittore?
RISPOSTA. C’è certamente un peso nella lingua ebraica: ha 4 mila anni di storia. È la lingua del ricordo, dell’identità nazionale che è costitutiva dell’universo mentale dei parlanti ebraico. Ma ha anche molti strati: il Talmud, la lingua medievale, quella attuale, di cui l’io narrante Ghili è espressione. Questo non lo vedo come un fardello, ma come un privilegio, perché nella mia scrittura c’è l’eco di tutto questo passato.
 
Questo è un libro sulla memoria, quella del passato che aiuta le tre donne a trovare una riconciliazione, e quella che andrà a perdersi nella mente di Nina, afflitta demenza senile.
È vero, questo è un libro sulla memoria: dolorosa, ma allo stesso tempo piena di freschezza, di verità. La memoria costa moltissimo sforzo, perché ti richiede di ricordare tutto in modo esatto, individuando il momento in cui sei diventato dipendente dal ricordo e come questo ti ha cambiato la vita. Ci sono popoli e persone che diventano prigionieri della memoria. Scelgono di aggrapparsi a essa e non vogliono muoversi su nuovi territori dove sarebbero molto più liberi di guardare al futuro. Soffrono dalla loro infanzia e questi sentimenti di dolore se li portano come un fardello per tutta la vita. Solo facendo posto a qualcosa d’altro possiamo riprendere a muoverci senza essere influenzati dal passato, ritornando a respirare a pieni polmoni. In questo modo possiamo riporre il dolore al suo posto, gli assegniamo un confine.

Le donne, tra cui l’io narrante, sono le protagoniste del racconto. Com’è possibile per uno scrittore identificarsi completamente nell’animo femminile?
Ho voluto scrivere questo romanzo come se non sapessi di essere io a scriverlo. Volevo capire innanzittutto chi erano queste tre donne. Ci sono tanti modi di essere donna, tanti quanto sono le donne al mondo. Non è un processo facile perché la tua anima ha una comfort zone da cui non vuole uscire. Il personaggio principale di A un cerbiatto somiglia il mio amore è Ora (in ebraico luce), una donna, appunto. Non riuscivo a impersonarlo pienamente, era come se io stessi mettendo delle parole che mancavano di un filamento. Quindi, preso dallo sconforto le scrissi una lettera: perché non ti arrendi a me, perché non ti lasci capire? Dopo compresi che non era Ora a doversi arrendere a me, ma io a lei. Solo dopo aver superato questi meccanismi di difesa ed essermi completamente esposto ho capito che cosa Ora rappresentava per me e per il romanzo.

Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere

In questo caso non si è trattato solo di costruire un personaggio femminile, ma di mettere in scena una relazione molto problematica tra tre donne forti e complesse.
Nel libro c’è un forte conflitto tra di loro, si vede come sono vicine e poi si allontanano. Ma, se ci pensiamo, solo nelle famiglie troviamo questo dramma dell’essere vicini e dell’allontanarsi. È come una danza la cui intensità si sviluppa dentro ogni famiglia ed è determinata dagli eventi più o meno difficili che vi avvengono. Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere.

Perche il narratore è Ghili, la donna più giovane delle tre?
Io volevo che fosse una delle tre donne a essere il narratore del romanzo, ma non poteva essere Vera troppo suscettibile di essere caricaturizzata per il forte accento della sua lingua croata d’origine. Nina, poi, è così lontana dagli altri, chiusa in sé stessa, non poteva essere la storyteller. Ghili m’ispirava un’aria di maggiore leggerezza, non era vittima dello scontro tremendo tra madre e figlia. E poi è ironica e mi permetteva di usare un ebraico più moderno.

C’è un unico protagonista maschio, Rafael, non certamente il punto forte del quadrilatero.
Rafael è dipendente dalle tre donne, ma serve a rendere stabile il rapporto tra di loro: è figlio di Vera anche se non biologico, è marito di Nina anche se non vivono insieme ed è un buon padre di Ghila. Rafel è apparentemente un carattere debole, è diventato un semplice assistente sociale e non un regista cinematografico come anelava a essere, ma è il luogo in cui le tre donne possono riposare prima di ripartire per le loro battaglie.

La conclusione del suo libro apre uno spiraglio alla speranza: possiamo davvero perdonare chi ci ha fatto del male?
Non so se è sempre possibile. Ma, se guardo indietro alla mia vita, devo riconoscere che sono stato condizionato dal voler tenere vivo il fuoco della vendetta, ed è come se una parte di me fosse rimasta sospesa. La sensazione che provo oggi è che forse non riesco a perdonare, ma ho preso una distanza da questo dolore. Non voglio più dipendere da esso.

La scrittura aiuta in questo?
L’arte, e quindi anche la scrittura, è sentirsi simultaneamente parte sia del nulla, di tutto quello che non conosciamo, il vuoto e il baratro che attende ciascuno di noi rappresentato dalla morte, e, al tempo, stesso della vita nella sua pienezza. Io, che non sono credente in senso religioso, nell’arte credo fortemente.

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Come è andato il 2019 per la narrativa italiana

Da Veronesi alla Starnone, passando per Tuena, Zaccuri fino a Tokarczuk e Franzobel: quali sono gli autori salvati dai critici letterari. Che denunciano: sono venute meno le gerarchie basate sulla qualità. Oramai è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori di un’opera.

Che anno è stato il 2019 per la narrativa italiana? Di continuità, di rottura? Certamente, un solo anno non può determinare una «tendenza», caso mai confermare o contraddire degli orientamenti emersi nel tempo. Ma qualche novità c’è sempre, e forse conviene partire dalle discontinuità. Guardando ai numeri, sulla base dell’ultimo rapporto Nielsen realizzato per conto dell’Aie (Associazione Italiana Editori), il mercato editoriale ha registrato nei primi 11 mesi del 2019 quota 1,131 miliardi di euro (+3,7% sullo stesso periodo dell’anno precedente), con una crescita – erano molti anni che non accadeva – anche del numero di copie, +2,3%, con 77,4 milioni di nuovi libri (cartacei) venduti. A pesare di più, dopo la manualistica, sono la fiction straniera (18,4%), la saggistica (17,3%) e al quarto posto bambini e ragazzi (16,3%).

Per quanto riguarda temi e contenuti – gli orientamenti di cui si diceva all’inizio – novità interessanti ci sono state. Alessandro Zaccuri, scrittore e giornalista culturale, fa una riflessione sul mondo dei bestseller. «Penso che sia un anno di avvicendamento», dice a Lettera43, «con la morte di Andrea Camilleri si conclude una stagione irripetibile, che aveva portato alla luce un lettore disponibile a confrontarsi con un linguaggio meno accessibile e più laborioso rispetto alla media dei romanzi italiani». A raccogliere il testimone di Camilleri è stata un’altra autrice siciliana, Stefania Auci: «con I leoni di Sicilia», prosegue Zaccuri, «è tornata a suscitare interesse per il romanzo di impianto più tradizionale, quasi ottocentesco nella sua struttura».

Romanzi con una forte vocazione narrativa, tradizionali, di pura fiction, come quelli che hanno visto la luce nello scorcio finale dell’anno: Il colibrì di Sandro Veronesi, La vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante e Confidenza di Domenico Starnone. «Passiamo dal nuovo libro della Ferrante, semplice, ma non banale» osserva Gianluigi Simonetti, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila, «all’ultimo di Veronesi, più complicato nella struttura e nel montaggio, con un passaggio a vuoto, a parer mio, nel finale, troppo obbediente al dover essere dell’impegno civile». E poi c’è il libro di Starnone», spiega Simonetti, «che conclude brillantemente una trilogia di romanzi brevi di grande artigianato narrativo e di notevole cattiveria psicologica». 

RESISTE UN FILONE DI LETTERATURA CHE MESCOLA GENERI E FORME NARRATIVE

Sull’altro fronte, persiste una letteratura debole, che esplora terreni meno praticati e cerca vie nuove, mescolando generi e forme narrative. Una letteratura «ibrida» che si colloca al crocevia fra romanzo, autobiografia e biografia, saggio personalediario intimo, taccuino di viaggio. «In questo,» prosegue Simonetti «Emanuele Trevi, con Sogni e favole, si conferma il più bravo – con Franchini, che però tace da un po’. È una letteratura a volte anche elegante e profonda, ma sempre volutamente ‘minore’, disposta a rinunciare alle grandi strutture del romanzo per muoversi con maggior libertà e leggerezza all’incrocio fra diverse scritture».

Non sono mancati libri singolari: penso a Necropolis di Giordano Tedoldi, a Lo stradone di Francesco Pecoraro, alla raccolta dei romanzi di Carlo Bordini

Gianluigi Simonetti, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università dell’Aquila

Una tendenza che non sempre porta risultati eccellenti e che talvolta può diventare una scorciatoia, a seconda della qualità intellettuali degli interpreti. E poi, nel 2019, vi sono stati libri nei quali la ricerca di nuove forme espressive è risultata ancora più marcata. «È vero, non sono mancati libri singolari», conclude Simonetti, «che fanno storia a sé, fuori da qualsiasi tendenza e preoccupazione seduttiva: penso a Necropolis di Giordano Tedoldi, a Lo stradone di Francesco Pecoraro, alla raccolta dei romanzi di Carlo Bordini».

LEGGI ANCHE: I numeri del mercato italiano del libro nel 2019

Che il 2019 abbia confermato la salute di un filone narrativo attratto dalle ibridazioni lo pensa anche un protagonista e osservatore attento del nostro panorama letterario come lo scrittore Andrea Tarabbia, che nel 2019 ha pubblicato Madrigale senza suono con il quale ha vinto il premio Campiello. «Mi sono piaciute molte cose ibride: in Italia Le galanti di Filippo Tuena – un autore che considero tra i miei maestri – e Nel nome di Alessandro Zaccuri». Tarabbia segnala anche I vagabondi di Olga Tokarczuk «un libro che lascia insoddisfatti, ma in cui si vede un’idea forte e originale di letteratura. E poi vorrei segnalare un romanzo puro, La zattera della Medusa di Franzobel, un’opera per me straordinaria, e un saggio anch’esso puro: Dialettica del mostro di Sylvain Piron».

LA CRITICA MILITANTE NON CONTA PIÙ

E per quanto riguarda il pubblico? Come si pone questa narrativa d’autore rispetto a lettori che consumano prodotti editoriali da media diversi, con la crescita di servizi come Audible, che consentono l’ascolto di libri appena pubblicati in libreria, e che si informano non solo sulle pagine culturali dei quotidiani, ma nel mondo variegato dei blog, dei gruppi di Facebook, dei siti di recensioni online? «La parola chiave mi sembra “confusione”: tutto equivale a tutto e l’indistinzione è la caratteristica del nostro tempo», osserva Paolo Di Stefano, scrittore e giornalista culturale. «La critica militante è tramontata e quando c’è rimane una voce nel deserto, senza ascolto. Ciò che fa testo sono le classifiche visibilmente dilatate sui giornali».

Sembrano venute meno le gerarchie basate sulla qualità: è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori

Paolo Di Stefano

È esemplare al riguardo quella basata sulle preferenze dei lettori pubblicata sul supplemento culturale La lettura del Corriere della sera che accosta nelle prime 10 posizioni autori complessi, esponenti di una letteratura cosiddetta «forte», con nomi di successo più commerciali. «Sembrano venute meno le gerarchie basate sulla qualità: è il mercato che stabilisce, con i suoi numeri di vendita, i valori. Un libro di Fabio Volo, con tutto il rispetto, naturalmente, è messo sullo stesso piano dell’ultimo romanzo di Ian Russell McEwan». Per Di Stefano i giornali hanno abolito la delega di una responsabilità critica, «distribuendo le recensioni in modo indiscriminato, venendo meno al compito di scegliere e indirizzare, che oggi sarebbe più urgente che in passato proprio per ridare una “personalità” alla stampa rispetto alla rete».      

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Perché nessuno riesce a sfuggire al kitsch di Instagram

Quello che era stigmatizzato come una corruzione dell’arte e del gusto, sul social network delle foto diventa un’estetica e uno stato d’animo. L’estratto del libro di Paolo Landi “Instagram al tramonto”.

All’imbrunire Instagram ha un’impennata di “like”: perché milioni di persone, in tutto il mondo, sentono il bisogno di condividere l’immagine del sole che cala? Consultiamo Instagram in modo talmente compulsivo ormai da trascurare di interrogarci sul perché lo facciamo. Paolo Landi, con la sua lunga esperienza nel mondo della comunicazione, crede di aver compreso come mai postiamo le foto del cane, di un tramonto e di una pizza.

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CON 16 IMMAGINI DI OLIVIERO TOSCANI

Con puntigliosità pedagogica vuole condividere queste scoperte: avrebbe voluto farlo in modo ironico e leggero, poi l’enormità dell’ipermercato sempre aperto che si nasconde dietro Instagram lo ha impressionato e il resoconto ha preso un tono qua e là apocalittico. Ma si è divertito a scriverlo, rivelando prima di tutto a se stesso le molte facce di questo social, che seduce e coinvolge, portandoci a condividere pezzi della nostra vita, senza mai farci sospettare che le merci in vendita sui suoi scaffali planetari siamo noi. Nel libro, 16 immagini di Oliviero Toscani sintetizzano i punti salienti del testo, quasi un piccolo reperto di archeologia del presente.

  • Le 16 immagini di Toscani

L’AUTORE: UNA CARRIERA TRA MARKETING E COMUNICAZIONE

Paolo Landi, advisor di marketing e comunicazione per grandi aziende, ha pubblicato Lo snobismo di massa (1991), Il cinismo di massa (1994), Manuale per l’allevamento del piccolo consumatore (2000), Volevo dirti che è lei che guarda te. La televisione spiegata a un bambino (2006), Impigliati nella Rete (2008), La pubblicità non è una cosa da bambini (2009).

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L’autore Paolo Landi. (foto Maki Galimberti)

Lettera43.it pubblica un estratto del libro Instagram al tramonto (La nave di Teseo editore, 112 pagine, 12 euro, Milano 2019).

IL KITSCH

Si sfugge al kitsch di Instagram solo uscendo da Instagram. Si può essere animati dalle migliori intenzioni, sostenuti da una cultura solida e da un gusto impeccabile, ma tutti i mosaici di Instagram sono irrimediabilmente kitsch. Non solo i tramonti, i fiori, i piatti di cibi prelibati, il mare e la prima comunione del figlio: anche gli interni di case altoborghesi, il quadro fotografato al Louvre, la “conchiglia” del Guggenheim, la copertina di un libro Adelphi su Instagram si ammantano della melassa tipica del cattivo gusto.

Quando postiamo una foto su Instagram sembriamo preoccupati di rivelarne insieme la verità e la bellezza. Ci interessa dire: “Ecco, questo tramonto è meraviglioso, lo vedete? Io lo sto guardando realmente, ora, infatti lo fotografo, per dimostrarvi che è vero, che io sono qui e che lo sto guardando”

Ciò che prima era visibile da un occhio intelligente – e in un contesto preciso – ora lo può vedere chiunque, fuori contesto. I milioni di foto che si riversano su Instagram ogni giorno provocano un logoramento insieme morale e sensoriale. Quando postiamo una foto su Instagram sembriamo preoccupati di rivelarne insieme la verità e la bellezza. Ci interessa dire: “Ecco, questo tramonto è meraviglioso, lo vedete? Io lo sto guardando realmente, ora, infatti lo fotografo, per dimostrarvi che è vero, che io sono qui e che lo sto guardando”. E spesso ci intestardiamo di trovare il bello nell’umile o nel banale, cercando di riscattarli con il pathos della realtà. Instagram offre l’esperienza fugace di un mondo senza conflitti, senza sofferenza, senza odio né tragedie, una realtà continuamente abbellita che finisce per presentarsi come una iperrealtà falsa.

Non ci sono più scale gerarchiche e se un fotografo famoso posta le sue foto su Instagram, queste non riusciranno ad emergere nell’appiattimento dei criteri formali che la democratizzazione dell’idea di bellezza di Instagram ha prodotto. Il kitsch, che in epoca moderna era stigmatizzato come una corruzione dell’arte e del gusto, su Instagram diventa un’estetica e uno stato d’animo – il più delle volte inconsapevoli e involontari – legittimi e ampiamente diffusi. Tradizionalmente associata a modelli esemplari – nella Grecia classica, per esempio, l’arte mostrava solo corpi giovani, nella loro perfezione – la bellezza secondo Instagram esiste dappertutto, col risultato di azzerarla ovunque.

Per Instagram non c’è nessuna differenza tra lo sforzo di abbellire il mondo e quello di rivelarne la verità. Instagram reagisce all’idea convenzionale di bellezza dilatando enormemente la nostra idea di ciò che è interessante o piacevole guardare. E lo fa in nome della verità e della convinzione che i suoi mosaici forniscano informazioni reali e importanti sul mondo, inteso come globo ma più spesso e più prosaicamente ridotto a un ambito domestico. La foto famosa e anonima del cadavere del bambino migrante restituito sulla spiaggia dal mare ci ha commossi e indignati perché documenta una sofferenza che Instagram rende vicina, verificabile nella sua verità ma segnandone, nello stesso tempo, la distanza.

Chi ha usato il “repost” per quella foto ha piuttosto voluto comunicare il suo grado di partecipazione e di commozione a quell’evento tragico ma, poiché ogni foto su Instagram è solo un frammento, il suo peso morale ed emotivo varia, dipendendo dal contesto in cui quella foto viene mostrata. Un conto è il profilo di Save The Children, dove l’immagine del cadavere del bambino risulterebbe contestualizzata, un conto il nostro profilo, tra selfie, piatti gourmet e gite fuori porta. Come per ogni altro medium, le fotografie postate su Instagram cambiano a seconda dei contesti in cui vengono inserite: ogni profilo suggerisce un modo diverso di usare una foto, senza riuscire a fissarne il significato.

Instagram riesce a trasformare in oggetto di godimento qualunque cosa, dai condomini concentrazionari di Hong Kong – dove deve essere spaventoso abitare, ma che fotografati sembrano belli e simmetrici – alle favelas colorate di Rio, agli ultimi ritocchi mostrati sul profilo di un chirurgo estetico. Si resta affascinati da quasi tutte le fotografie di Instagram e nello stesso tempo turbati dall’inesorabilità con cui vengono appiattite. È talmente forte la tendenza estetizzante delle foto di Instagram – sia che siano eseguite da gente colta e informata, sia da persone semplici e non acculturate – che nessuna sfugge al kitsch, risultando tutte, anche il tramonto più spettacolare, anche il volto di un bambino, triviali.

Instagram propone un mondo trasformato in un ipermercato dell’immagine, dove ogni soggetto è degradato ad articolo di consumo e promosso a oggetto di ammirazione estetica. Grazie a Instagram diventiamo tutti clienti della realtà, o delle realtà, perché i mondi di Instagram sono tutti arraffabili, nella loro confusione, come la merce in un negozio low cost nel primo giorno di saldi. Kitsch è anche l’impulso indiscriminato a fotografare: Instagram istiga tutti a riprendere qualunque cosa, facendo credere a tutti che qualunque cosa oggetto delle loro foto sia interessante. Ma solo Instagram sa che questa invasione fotografica del mondo, con questa produzione illimitata di appunti sulla realtà, omologa tutto: lo sa perché da questa proliferazione di immagini ci guadagna.

La forza di Instagram è nel far credere che si possano conservare momenti che il normale fluire del tempo sostituisce velocemente, che si possano condividere emozioni che la condivisione rende irrimediabilmente fasulle, che mettere “Mi piace” su una foto sia un modo di accreditarsi verso persone e ambienti che nella realtà restano chiusi e impenetrabili. La debolezza di noi utenti è di non sapere, o di sottovalutare, che ogni social network è un’impresa che fa profitti e che la merce in vendita sugli schermi dei nostri smartphone siamo noi.

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Perché la lotta all’evasione fiscale non è una missione così impossibile

Imposte troppo alte? Il sistema andrebbe riformato in modo sostenibile. E non con singole norme scoordinate. Partendo dalla riduzione del “nero”: limite del contante, tracciabilità dei pagamenti, fatturazione elettronica, split payment e altro: i consigli del libro “Giù le tasse, ma con stile!”.

Facile dire «abbassiamo la pressione fiscale». Però come? Di quanto? Giù le tasse, ma con stile! è un libro si propone di offrire un piccolo contributo di idee per delineare un sistema fiscale che si possa realmente qualificare come un insieme coordinato di norme, che sia più equilibrato tra l’imposizione diretta e quella indiretta, più garante dell’equità tra i contribuenti e più giusto, visto che una “giusta imposta” non solo costituisce il collante di una società bene ordinata, ma rappresenta lo strumento per garantire sia il sostegno delle spese pubbliche necessarie alla collettività sia lo sviluppo economico.

NORME DISPARATE CHE GENERANO INIQUITÀ

Anche perché ormai abbiamo superato il più esasperato limite di sopportabilità e sostenibilità. Ma ciò di cui necessitiamo in Italia non sono singole misure scoordinate tra loro che generano inique disparità di trattamento, come è stato fatto finora, bensì di una radicale riforma che lo ricostruisca secondo i principi e l’assetto voluto e imposto dalla Costituzione.

L’AUTORE: ESPERTO DI DIRITTO TRIBUTARIO

L’autore del libro è Fabio Ghiselli, dottore commercialista e revisore legale, specializzato in diritto tributario. Ha svolto la sua carriera professionale come Tax director di primarie aziende industriali e finanziarie. Studioso ed esperto di politiche fiscali e del lavoro, è stato docente ai Master tributari di Ipsoa – Wolters Kluwer, dell’Università Bocconi, e relatore in conferenze e convegni specialistici. Autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di alcuni volumi su temi di diritto tributario, scrive sulle riviste del settore e sui quotidiani specializzati.

Lettera43.it pubblica un estratto di Giù le tasse, ma con stile! (Editore Franco Angeli, 2019, 25 euro, 232 pagine).

LOTTA ALL’EVASIONE: UNA MISSIONE IMPOSSIBILE?

È possibile che non si riesca a ridurre l’evasione fiscale? Nonostante gli interventi di contrasto messi in atto in questi ultimi tempi, come lo split payment e la lotta alle frodi “carosello” da sempre condotta dalla Guardia di finanza con risultati positivi, sembra che la risposta a questa domanda sia negativa. Questo è un tema fondamentale perché l’evasione alimenta e perpetua lo stato di iniquità del sistema con evidenti ripercussioni sulla stabilità e sulla coesione sociale, e rappresenta una componente che distorce la concorrenza tra le imprese a danno di quelle che scelgono di comportarsi correttamente o di quelle che non si trovano nelle condizioni di poter evadere. Quest’ultimo aspetto dovrebbe destare un particolare interesse nelle organizzazioni imprenditoriali, posto che il loro obiettivo dovrebbe essere quello di tutelare gli interessi di tutti i propri iscritti, che potrebbero accentuare il loro impegno sia nei confronti del governo, per spingerlo ad adottare adeguati provvedimenti di contrasto all’evasione, sia nei confronti dei propri associati attraverso la diffusione, come moral suasion, di best practices comportamentali. […]

Ci sarebbero alcuni interventi concreti che potrebbero dare un contributo al contrasto all’evasione (alcuni hanno già iniziato a darlo), come, per esempio:

  1. Limitare l’uso del contante nelle transazioni: l’attuale valore di 2.999 euro – innalzato a decorrere dal primo gennaio 2016 dalla legge di stabilità 2016 rispetto al precedente limite di 1.000 euro – appare sproporzionato rispetto alle necessità correnti, che dovrebbero limitarsi ai piccoli acquisti. Non è ammissibile che in Italia l’86% delle transazioni avvenga in contanti (come la Spagna e la Grecia). Abbiamo la rete più estesa, come numero, di Pos ma il tasso di utilizzo di “strisciate” più basso (da 1,5 a 10 volte inferiore). […]
  2. Prevedere l’effettiva tracciabilità dei pagamenti: soprattutto per determinate transazioni, come gli acquisti di servizi professionali, i canoni di locazione, le spese che danno luogo a oneri deducibili o detraibili. La tecnologia in uso è già perfettamente in grado di supportare tale sviluppo, mentre ciò che manca è la conoscibilità delle transazioni da parte dell’AF che potrebbe avvenire, almeno nella fase iniziale, utilizzando adeguati criteri di sicurezza e di anonimato nell’elaborazione e nell’accesso ai dati;
  3. La fatturazione elettronica: ormai l’obbligo riguarda sia i rapporti commerciali B2B sia quelli con i privati B2C (dal 2019 con la legge di bilancio 2018). Sono note le critiche sollevate nei primi mesi dell’anno dagli operatori, imprese e consulenti, sulla rigidità dello strumento informatico sia nella fase di formazione del documento, sia in quella della sua trasmissione telematica. Se in parte, l’atteggiamento negativo può essere stato indotto da un naturale blocco psicologico verso ogni rivoluzione che sconvolge le nostre abitudini, in larga misura è stato determinato da ragioni tecniche che avrebbero potuto essere risolte se la fase di realizzazione del sistema fosse stata effettivamente condivisa con le organizzazioni imprenditoriali e professionali, imparando dalle esperienze vissute da quei Paesi che prima di noi l’hanno adottata. Anche se relativamente al primo blocco di invii avvenuti entro il 18 febbraio il sistema ha scartato solo il 4,4% delle fatture emesse, su 228 milioni, si tratta sempre di oltre 10 milioni di problemi tecnici che prima gli operatori non avevano. Se l’uso ripetuto dello strumento lo renderà più gestibile, sarebbe importante realizzare comunque interventi migliorativi e semplificativi affinché gli operatori percepiscano la fattura elettronica come uno strumento in grado di produrre vantaggi nella gestione del tempo e delle procedure, ossia minori costi di stampa, di spedizione e archiviazione, di integrazione dei processi e una più efficace gestione dei pagamenti. Una duplice funzione, insomma: garantire la conoscenza dei dati e delle operazioni in tempo reale da parte dell’AF al fine di effettuare controlli tempestivi, e consentire un risparmio di costi per gli emittenti. Per tali ragioni, la fatturazione elettronica dovrebbe essere considerata come metodologia standard di emissione delle fatture: non è pensabile che alcune di esse (per es. quelle verso soggetti non residenti) siano emesse con metodologie differenti e parallele. Questo complica la gestione amministrativa delle imprese innalzando i relativi costi. Altro aspetto è quello della funzione anti-evasiva della fattura elettronica. Per questo fine la legge istitutiva ha previsto maggiori incassi per il 2019 pari a 2 miliardi di euro che, però, non è detto che saranno raggiunti. Perché l’aumento delle entrate tributarie registrato nei primi sei mesi del 2019 (pari a 2,475 mld di euro) sarebbe dovuto solo per 300 milioni al maggior gettito Iva sugli scambi interni, in particolare grazie alla fatturazione elettronica (Audizione del DG Finanze F. Lapecorella dinanzi le Commissioni congiunte V Bilancio del Senato e della Camera dei deputati, del 16.7.2019). Ma fatta salva la validità dello strumento, non basta la sua presenza per contrastare l’evasione.
  4. Split payment e reverse charge si sono dimostrati un valido strumento per contrastare il mancato versamento dell’Iva e ben potrebbero essere estesi ad altri settori economici e tipologie di transazioni. Invece l’Italia si è impegnata con l’Unione europea a non chiedere una proroga dello split payment oltre il 30 giugno 2020, una volta attuata la e-fattura. Quello che occorrerebbe evitare è l’insorgere di un danno a carico delle imprese e dei professionisti, implicito nella mancata disponibilità di denaro per il periodo intercorrente tra la data del pagamento della fattura e quello della liquidazione periodica e del relativo versamento dell’imposta. Premesso che sarebbe il caso di uscire dalla logica che vede l’imposta incassata, di competenza dell’erario, come una fonte di finanziamento dell’attività, il problema potrebbe essere risolto, almeno in gran parte, estendendo ai soggetti interessati dalla procedura la possibilità di chiedere il rimborso mensile o trimestrale del credito Iva maturato e garantendo tempi di erogazione del medesimo più “europei”, ossia in termini di giorni o poche settimane, e non di mesi come avviene oggi. Va tenuto presente, tuttavia, che esiste la possibilità di utilizzare la procedura di compensazione (del credito Iva con i debiti per altre imposte e contributi) prevista dall’art. 34, co. 1, l. n. 388/2001, per la quale potrebbe essere elevato o addirittura eliminato il limite massimo pari a 700 mila euro, ma non i controlli introdotti dal Dl n. 50/2017. Se lo split payment ha una funzione specifica, come abbiamo visto, qualche dubbio fa sorgere l’estensione dello strumento alle società quotate (nei confronti dei rispettivi fornitori), perché si pongono due soggetti privati in concorrenza tra loro avvantaggiando, dal punto di vista finanziario, le società quotate, che non ne avrebbero bisogno, avendo una struttura finanziaria più solida;
  5. Estendere l’applicazione della ritenuta d’acconto – oggi prevista a carico solo dei lavoratori autonomi nella misura del 20%, ex art. 25, Dpr n. 600/73 – anche alle operazioni economiche (cessioni di beni e prestazioni di servizi) effettuate da e tra tutti i soggetti Iva. L’aliquota potrebbe essere inferiore a quella del 20%, allo scopo di evitare la trappola della liquidità a danno delle imprese, dovuta al fatto che, per queste ultime, l’incidenza dei costi sul fatturato e le variazioni in aumento e in diminuzione dell’utile di bilancio, sono maggiori, rispetto ai lavoratori autonomi. Anche se le imprese avrebbero comunque la possibilità di operare non solo la compensazione verticale (nell’ambito della stessa imposta), ma anche quella orizzontale (con imposte diverse e contributi). La titolarità di un credito nei confronti dell’erario per ritenute d’acconto subite, indurrebbe il contribuente a dichiarare il reddito correlato al fine di utilizzare il credito. È vero che un contribuente potrebbe scomputare le ritenute senza dichiarare il reddito, ma questa operazione genererebbe un’incoerenza contabile che potrebbe essere abbastanza semplicemente verificata in sede di controllo da parte dell’AF, tanto che l’analisi del Nens citata in nota, prevede che sia «ragionevole ritenere che l’evasione intermedia dovrebbe scomparire del tutto». Questa misura non inciderebbe sull’evasione perpetrata dai soggetti che operano sul mercato finale di consumo, ma potrebbe essere contrastata dall’introduzione dell’obbligo di tracciabilità dei pagamenti (almeno di quelli superiori a un determinato ammontare minimo);
  6. Abrogazione della disciplina sulle c.d. “società di comodo” e utilizzo dei dati dichiarativi in possesso dell’AF per avviare una campagna di verifiche sistematiche allo scopo di contrastare fenomeni di evasione (e non di elusione, come qualcuno ancora pensa si tratti), generati dall’interposizione reale di soggetti giuridici. […]

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Francesca Cavallo spiega perché disobbedire è necessario

Da Greta ai ragazzi di Hong Kong fino alle Sardine, si respira nelle nuove generazioni la voglia di modificare il sistema. E di mettere in discussione il pregiudizio. Una chiacchierata con la co-autrice di Bambine ribelli ora in libreria con Elfi al quinto piano.

Nel 2017 era salita agli onori delle cronache per aver scritto insieme a Elena Favilli Storie della buonanotte per bambine ribelli, un libro per ragazzi da 470 mila copie, una vera rarità in tempi in cui un italiano su quattro afferma di non leggere.

Lei è Francesca Cavallo, nata in Italia, a Taranto, ma da anni residente negli Stati Uniti, con una vita dedicata alla scrittura. Oggi in libreria arriva il suo nuovo libro, Elfi al quinto piano, per i tipi Feltrinelli.

«A gennaio», racconta Francesca a Lettera43.it, «si è conclusa la mia avventura con le Bambine ribelli e così ho deciso di passare un periodo in Italia. Ho dovuto capire cosa volessi da me stessa».

La scrittrice Francesca Cavallo.

DOMANDA. Come è nato Elfi al quinto piano?
RISPOSTA. Un po’ per caso, a Roma, durante la scorsa primavera. Dopo aver fatto ritorno in Italia, ho deciso di prendere in affitto un appartamento a Trastevere e si trattava effettivamente di una casa al quinto piano, senza ascensore, in cima a 104 gradini. A dire il vero non avevo in mente di scrivere questa storia e menchemeno di scriverne una di finzione o di argomento natalizio. Ma la primavera non ne voleva proprio sapere di arrivare, anzi, era maggio ma era grigio e freddo. E così mi sono ritrovata in questa mansarda e sono stata ‘visitata’ da questa storia.

Un racconto natalizio un po’ atipico però…
Sì. Mi sono voluta confrontare con un genere classico, inserendo molti dei miei temi dentro un genere letterario decisamente tradizionale: protagonisti della storia sono i componenti di una famiglia omosessuale e birazziale. Ma il motore della storia non è questo…

Qual è?
La leadership morale dei bambini. In quest’ultimo periodo sta infatti accadendo un qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo fa: dei ragazzini riescono a far sentire la propria voce influenzando l’agenda dei governi. Penso per esempio a Greta Thunberg.

A parte Greta, che a 16 anni ha parlato addirittura alle Nazioni Unite, in questo momento si respira un certo fermento tra giovani e giovanissimi. Cosa sta accadendo?
C’è una enorme pressione a livello globale legata alla profonda insoddisfazione nei confronti delle risposte del sistema in cui viviamo: il capitalismo patriarcale. Credo che sia Greta sia i vari movimenti, dai Gilet gialli alle Sardine nate in questi giorni, al movimento di Hong-Kong premano per la ricerca e l’identificazione di una alternativa, per mettere sul campo un modo diverso di pensare il sistema in cui viviamo.

Nel suo libro si assiste a una ribellione da parte dei bambini. Cosa significa ribellarsi, disobbidire?
Disobbidienza è non dare per scontate le lezioni che ci vengono passate dai genitori, dai media, dal sistema in generale: problematizzarle, essere svegli, essere attivi e non ricettori passivi. Riflettere su quello che ascoltiamo. Problematizzare, non avere paura di fare domande. Questo significa essere disobbedienti.

Eppure Greta è stata aspramente criticata – se non sminuita – per il suo impegno. Diversi politici, giornalisti e analisti hanno contestato il presunto business di immagine nato attorno a lei.
Se non generassero questo desiderio compulsivo di riportarle alla regola, la disobbidienza e la protesta – quella profonda – non avrebbero il valore dirompente che hanno. Quando mette in crisi lo status quo la disobbidienza stimola una serie di riflessi che il sistema mette in campo per difendersi. Se una rivoluzione non incontra alcuna risposta è una rivoluzione inutile.

L’ultimo libro di Francesca Cavallo, già co-autrice di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”.

Come disobbidiscono e come si ribellano i bambini di Elfi al quinto piano?
La storia è ambientata in una città immaginaria dove convivono famiglie di ogni tipo e dove, per tutelare la dimensione ottimale di un quieto vivere, gli abitanti si impegnano perché non succeda mai niente: hanno smesso di parlare agli estranei, le persone stanno per conto loro e questa è la ricetta per la pace sociale. In questa città si trasferisce la famiglia di Isabella e Dominic, tre giorni prima di Natale. Scelgono questa città ma quando arrivano sono stranieri, nessuno rivolge loro la parola. Eppure proprio qui incontrano una bambina disobbidiente, Olivia, una piccola inventrice che fa loro capire come sia in atto una vera e propria ribellione da parte dei bambini nei confronti del sistema. Dato che nessuno tra gli adulti comunica con il prossimo, loro aprono una radio clandestina con la quale si parlano.

Sembra una metafora dei tempi che stiamo vivendo.
Spero che il libro venga accolto non come una provocazione ma come un tentativo di raccontare a bambini e nuove generazioni una storia come un’altra che ha come protagonista una famiglia birazziale e omosessuale. Credo sia fondamentale che i più piccoli inizino a essere esposti a storie con protagonisti il più diversi possibile, anche per contrastare un domani quella retorica intrisa di odio che oggi porta molte persone in piazza. 

Insomma di strada ne resta molta da fare…
Oggi si ha paura dell’omosessualità perché è qualcosa che non si conosce: spesso le persone non essendo state esposte a storie e a vicende di questo tipo, creano e vedono nel prossimo mostri senza alcuna correlazione con la realtà.

Lei è nata a Taranto che in questo periodo è tornata sotto i riflettori per il caso Ilva. Come vede il futuro della sua città?
Taranto sarà il centro del mio tour, farò diverse presentazioni in città. È un simbolo a livello nazionale ed europeo di un modo di pensare allo sviluppo che deve essere definitvamente archiviato: qualsiasi forma di sviluppo fondato sullo sfruttamento deve essere relegata nel passato. E purtroppo nel dibattito attuale non vedo soluzioni capaci di cambiare questo stato di cose. Al centro c’è ancora il ricatto: la salute o il lavoro. Taranto è uno scandalo a livello europeo. 

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Francesca Cavallo spiega perché disobbedire è necessario

Da Greta ai ragazzi di Hong Kong fino alle Sardine, si respira nelle nuove generazioni la voglia di modificare il sistema. E di mettere in discussione il pregiudizio. Una chiacchierata con la co-autrice di Bambine ribelli ora in libreria con Elfi al quinto piano.

Nel 2017 era salita agli onori delle cronache per aver scritto insieme a Elena Favilli Storie della buonanotte per bambine ribelli, un libro per ragazzi da 470 mila copie, una vera rarità in tempi in cui un italiano su quattro afferma di non leggere.

Lei è Francesca Cavallo, nata in Italia, a Taranto, ma da anni residente negli Stati Uniti, con una vita dedicata alla scrittura. Oggi in libreria arriva il suo nuovo libro, Elfi al quinto piano, per i tipi Feltrinelli.

«A gennaio», racconta Francesca a Lettera43.it, «si è conclusa la mia avventura con le Bambine ribelli e così ho deciso di passare un periodo in Italia. Ho dovuto capire cosa volessi da me stessa».

La scrittrice Francesca Cavallo.

DOMANDA. Come è nato Elfi al quinto piano?
RISPOSTA. Un po’ per caso, a Roma, durante la scorsa primavera. Dopo aver fatto ritorno in Italia, ho deciso di prendere in affitto un appartamento a Trastevere e si trattava effettivamente di una casa al quinto piano, senza ascensore, in cima a 104 gradini. A dire il vero non avevo in mente di scrivere questa storia e menchemeno di scriverne una di finzione o di argomento natalizio. Ma la primavera non ne voleva proprio sapere di arrivare, anzi, era maggio ma era grigio e freddo. E così mi sono ritrovata in questa mansarda e sono stata ‘visitata’ da questa storia.

Un racconto natalizio un po’ atipico però…
Sì. Mi sono voluta confrontare con un genere classico, inserendo molti dei miei temi dentro un genere letterario decisamente tradizionale: protagonisti della storia sono i componenti di una famiglia omosessuale e birazziale. Ma il motore della storia non è questo…

Qual è?
La leadership morale dei bambini. In quest’ultimo periodo sta infatti accadendo un qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo fa: dei ragazzini riescono a far sentire la propria voce influenzando l’agenda dei governi. Penso per esempio a Greta Thunberg.

A parte Greta, che a 16 anni ha parlato addirittura alle Nazioni Unite, in questo momento si respira un certo fermento tra giovani e giovanissimi. Cosa sta accadendo?
C’è una enorme pressione a livello globale legata alla profonda insoddisfazione nei confronti delle risposte del sistema in cui viviamo: il capitalismo patriarcale. Credo che sia Greta sia i vari movimenti, dai Gilet gialli alle Sardine nate in questi giorni, al movimento di Hong-Kong premano per la ricerca e l’identificazione di una alternativa, per mettere sul campo un modo diverso di pensare il sistema in cui viviamo.

Nel suo libro si assiste a una ribellione da parte dei bambini. Cosa significa ribellarsi, disobbidire?
Disobbidienza è non dare per scontate le lezioni che ci vengono passate dai genitori, dai media, dal sistema in generale: problematizzarle, essere svegli, essere attivi e non ricettori passivi. Riflettere su quello che ascoltiamo. Problematizzare, non avere paura di fare domande. Questo significa essere disobbedienti.

Eppure Greta è stata aspramente criticata – se non sminuita – per il suo impegno. Diversi politici, giornalisti e analisti hanno contestato il presunto business di immagine nato attorno a lei.
Se non generassero questo desiderio compulsivo di riportarle alla regola, la disobbidienza e la protesta – quella profonda – non avrebbero il valore dirompente che hanno. Quando mette in crisi lo status quo la disobbidienza stimola una serie di riflessi che il sistema mette in campo per difendersi. Se una rivoluzione non incontra alcuna risposta è una rivoluzione inutile.

L’ultimo libro di Francesca Cavallo, già co-autrice di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”.

Come disobbidiscono e come si ribellano i bambini di Elfi al quinto piano?
La storia è ambientata in una città immaginaria dove convivono famiglie di ogni tipo e dove, per tutelare la dimensione ottimale di un quieto vivere, gli abitanti si impegnano perché non succeda mai niente: hanno smesso di parlare agli estranei, le persone stanno per conto loro e questa è la ricetta per la pace sociale. In questa città si trasferisce la famiglia di Isabella e Dominic, tre giorni prima di Natale. Scelgono questa città ma quando arrivano sono stranieri, nessuno rivolge loro la parola. Eppure proprio qui incontrano una bambina disobbidiente, Olivia, una piccola inventrice che fa loro capire come sia in atto una vera e propria ribellione da parte dei bambini nei confronti del sistema. Dato che nessuno tra gli adulti comunica con il prossimo, loro aprono una radio clandestina con la quale si parlano.

Sembra una metafora dei tempi che stiamo vivendo.
Spero che il libro venga accolto non come una provocazione ma come un tentativo di raccontare a bambini e nuove generazioni una storia come un’altra che ha come protagonista una famiglia birazziale e omosessuale. Credo sia fondamentale che i più piccoli inizino a essere esposti a storie con protagonisti il più diversi possibile, anche per contrastare un domani quella retorica intrisa di odio che oggi porta molte persone in piazza. 

Insomma di strada ne resta molta da fare…
Oggi si ha paura dell’omosessualità perché è qualcosa che non si conosce: spesso le persone non essendo state esposte a storie e a vicende di questo tipo, creano e vedono nel prossimo mostri senza alcuna correlazione con la realtà.

Lei è nata a Taranto che in questo periodo è tornata sotto i riflettori per il caso Ilva. Come vede il futuro della sua città?
Taranto sarà il centro del mio tour, farò diverse presentazioni in città. È un simbolo a livello nazionale ed europeo di un modo di pensare allo sviluppo che deve essere definitvamente archiviato: qualsiasi forma di sviluppo fondato sullo sfruttamento deve essere relegata nel passato. E purtroppo nel dibattito attuale non vedo soluzioni capaci di cambiare questo stato di cose. Al centro c’è ancora il ricatto: la salute o il lavoro. Taranto è uno scandalo a livello europeo. 

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L’Italia e quell’eccellenza nascosta nella filiera del libro

Carte, font e rilegature tra le più raffinate. Nel confezionare un oggetto che torna ad affascinare anche i più giovani siamo tra i migliori al mondo. Eppure sono in pochi a rivendicarlo.

Lo scorso 14 novembre, mentre presentava le novità e le (molte) partecipazioni dell’edizione di gennaio 2020, il direttore generale di Pitti Immagine, Agostino Poletto, ha annunciato, semi-ufficialmente perché il primo comunicato uscirà il 17, il lancio di “Testo. Come si diventa libro”, primo salone dedicato alla filiera di quel magico oggetto a cui, complice il progressivo e ormai irreversibile spostamento della lettura dei giornali su tablet e in generale il calo della stampa periodica, stanno lentamente tornando, affascinati, anche i giovani.

TRE GIORNI DI APPUNTAMENTI ALLA LEOPOLDA

Carte, inchiostri, penne, caratteri di stampa, soluzioni di alta tecnologia e di altissima manualità, lastre e ogni altra meraviglia di composizione: tre giorni dal 22 marzo, presumibilmente alla Leopolda. Non stiamo nella pelle, fosse pure il cuoio marocchino delle belle rilegature, quelle con le filettature e le incisioni in oro che certi cafoni comprano ancora al metro per adornarne la libreria e non aprono mai. Malissimo per loro perché il libro, come da radice etimologica, rende liberi (sia noi latini sia gli anglosassoni abbiamo alle origini dei sostantivi che indicano il libro la corteccia degli alberi su cui è presumibile venissero tracciati i primi segni e le prime comunicazioni scritte: la radice germanica è bok, faggio. Noi abbiamo esteso il concetto di liber alla libertà e ci piace molto) e in genere anche molto creativi.

IN ITALIA UNA TRADIZIONE SECOLARE NEL CONFEZIONAMENTO DEI LIBRI

Poche ore fa ci siamo trovati fra le mani il nuovo diario dell’anno realizzato da Christian Lacroix con inserti 3D, figure pop up, passaggi diversi di colore metallizzato sulle pagine e non lo avremmo mai riposto sullo scaffale se il costo (70 euro) non ci fosse sembrato davvero proibitivo per l’uso zero che ne avremmo fatto. Al nostro posto l’ha preso una ragazzina e ci siamo rallegrate per lei, che avrà tutte quelle pagine libere per scrivere e sognare. Noi italiani, sull’oggetto libro, siamo davvero bravissimi: quando possiamo, insistiamo sempre con la casa editrice che va pubblicandoci perché usi carte italiane, trattate come si conviene e senza sbiancatori o additivi inquinanti come avviene in Oriente, in principal modo la Cina, da dove giungono certe carte bianchissime e a grammatura 250 che alcune maison di moda – loro massima colpa – prediligono per i propri volumi perché le fotografie vi risaltano come non avverrebbe mai senza tutti quegli sbiancamenti e quelle lacche. Ormai sappiamo pochissimo sulla nostra abilità nella confezione di un libro, eppure siamo da secoli fra i migliori, insieme con i cinesi.

ALL’ORIGINE DEI FONT E DELLE STAMPE PIÙ RAFFINATE

Bibbia di Gutenberg a parte, l’Italia del Nord e del Centro (principalmente le Marche) hanno sviluppato l’oggetto-libro e la sua infinita seduzione come nessuno mai. Siamo all’origine dei font e delle stampe più raffinate, per oltre tre secoli patrimonio quasi esclusivo di Venezia, meravigliosa città martoriata dall’insipienza corrotta e il pensiero ci corre a quella meravigliosa prima edizione del Book of Snobs di William Thackeray che abbiamo sfogliato qualche settimana fa prendendolo dalla piccola biblioteca del Gritti e che speriamo non sia finito sott’acqua insieme con gli arredi e con mezza città.

IL LIBRO NON CORRE IL RISCHIO DELLA “STAMPA SESSUALIZZATA”

Venezia, città cosmopolita, dunque e ancora libera, colta e trasversale, ha dato i natali ad alcuni fra i grandissimi editori e stampatori, come Aldo Manuzio si intende, ma anche alle prime grandi scrittrici e alle prime giornaliste-direttrici di femminili, e qui arriviamo al secondo punto di queste riflessioni sulla carta stampata. Dicono le ultime classifiche sulla vendita dei magazine patinati che le testate femminili vecchia maniera, con gli argomenti “da femmine” piacciano sempre di meno. Siamo alla fine della “stampa sessualizzata”, titolava l’altro giorno la più rilevante delle testate business to business della moda, The Business of Fashion, e a guardare gli ultimi numeri di GQ Us o di testate come Vice sembra proprio che sia così. A restare attaccati al concetto del calendario maschile con la femmina nuda in allegato al numero di novembre sono rimasti solo certi personaggi residuali e un po’ macchiettistici, mentre la stragrande maggioranza delle donne cerca anche su riviste ufficialmente femminili argomenti trasversali. Noi stesse abbiamo faticato a definirci autrici, o per un lungo periodo direttrici, di testate femminili: ci sembrava, già 10 anni fa, che sessualizzare una testata fosse riduttivo, che il tal servizio di cucina potesse apparire su una rivista maschile (conosciamo un numero più elevato di bravi cuochi anche fra i nostri amici che di cuoche eccellenti) o che l’inchiesta sul razzismo potesse interessare un pubblico generale. Adesso, dicono gli osservatori che le società di ricerca di mercato stiano rivedendo i propri criteri di valutazione sull’efficacia o meno di una testata. Questo, in generale ed escludendo certi romanzetti, con il libro non succede mai.  Il libro nasce genderless. Basta che sia scritto bene.

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Lilli Gruber su machismo, politica, Salvini e Südtirol

La conduttrice di Otto e mezzo, autrice di Basta!, punta il dito contro l’Internazionale del testosterone. E sul leader della Lega dice: «Chi non è in grado di passare dallo stile sbracato a quello istituzionale ha un problema nel gestire certi ruoli». L’intervista.

La «recrudescenza del machismo è la spia di una paura diffusa, quella di perdere il controllo e il potere». Così Lilli Gruber spiega Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino), l’ultimo libro scritto per rispondere a quella che la giornalista definisce «l’Internazionale del testosterone». 

Lilli Gruber alla presentazione del suo libro ‘Basta’.

DOMANDA. L’ondata di leader “testosteronici” è una sorta di autodifesa del potere maschile davanti alla richiesta sempre più insistente di politiche femminili?
RISPOSTA. Attenzione, il problema non è il potere maschile ma il potere machista che si perpetua per cooptazione. Che trova nell’insulto, nella legge del branco e nella violenza il collante per generare lealtà. E che è pericoloso perché è privo di ideali, persino di ideologie: ha solo lo scopo distruggere le strutture della convivenza democratica, che tutelano la libertà dei cittadini.

L’opinionista francese Éric Zemmour sostiene che il vero problema sta nella femminilizzazione eccessiva della società. Cosa ne pensa?
Zemmour ha diritto alle sue opinioni, io sono andata a cercare i fatti. Mi sembra difficile definire “femminilizzata” una società in cui parlamenti, governi, palazzi presidenziali, consigli d’amministrazione, redazioni di grandi media sono ancora in larghissima maggioranza gestiti da dirigenti uomini. I numeri parlano, il resto sono appunto opinioni che non ci portano granché lontano.

Se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi

Non sono esistite e non esistono anche leader donne “testoteroniche”?
Il punto non sta nell’opporre femminile e maschile: discussioni come quella sull’essenza della leadership saranno interessanti per la filosofia ma sono piuttosto sterili. Più interessante, invece, analizzare la struttura del potere e le regole su cui si basa. Si vede che questa struttura è stata creata da maschi e oggi è gestita da maschi. Lo dicono i dati e lo dicono millenni di storia. A quante condottiere, cape di stato, scienziate e artiste riusciamo a ricordare? Ebbene, se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi. Non hanno ancora avuto il potere di cambiare le regole. Ma se al potere ci fosse un numero di donne pari a quello degli uomini, questa struttura cambierebbe. 

Dai cda alla strada: qualche esempio nella vita quotidiana?
I farmaci verrebbero sperimentati anche sul corpo femminile invece che quasi esclusivamente su quello maschile e avremmo un diverso sistema sanitario. Le città verrebbero riprogettate per le esigenze di chi da sempre deve muoversi per commissioni multiple nel corso della giornata – scuole, genitori anziani – e avremmo un diverso sistema di mobilità urbana. Il lavoro domestico e di cura, oggi svolto al 75% dalle donne, verrebbe redistribuito generando un diverso modello di lavoro e di convivenza. E così via. Io desidero vedere questo cambiamento strutturale. Perché sarà un mondo più giusto.

Lei si è occupata del machismo di leader come Donald Trump, Matteo Salvini, Recep Tayyp Erdoğan, Vladimir Putin. Perché non ha approfondito anche casi che coinvolgono personaggi più vicini alla sinistra come Strauss-Kahn, Assange, Chávez?
Perché non sono più al potere, e Julian Assange non lo è mai stato. In un pamphlet che si occupa dell’attualità avrebbero avuto un interesse piuttosto limitato. Per ragioni di spazio, se è per quello, non ho parlato nemmeno di Viktor Orbán o del primo ministro indiano Nanendra Modi, che pure sono al potere e piuttosto pericolosi. Ma soprattutto, nulla lega fra loro tutti gli uomini citati: è un semplice elenco. Invece a fare da collante alla lega l’internazionale machista è una rete tessuta con interessi ben precisi e che minaccia la tenuta delle nostre democrazie. È molto evidente se guardiamo in modo sistemico alla loro azione politica e alle forze che li finanziano. È questo che trovo pericoloso e che dovrebbe spaventare tutti noi.

I toni delle paginate di critiche che mi hanno riservato i quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa

Lei ha raccontato che l’idea del libro è nata dopo la polemica con Salvini. Più recentemente ha battibeccato anche con Vittorio Feltri a causa di un articolo che la riguardava…
L’articolo polemico è del tutto legittimo. Quella che io notavo, con interesse, era la levata di scudi di tutta la stampa di destra il giorno dopo l’uscita del mio libro. Paginate di critiche su quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, i cui toni sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa. Ma fa piacere vedere che quando assumono una dose della loro medicina sessista il livore di questi opinionisti si trasforma in un singhiozzo politicamente corretto: forse possono essere redenti.

Restando alla comunicazione: come è cambiata in questi decenni quella dei politici?
La comunicazione è cambiata per tutti, è diventata più veloce, molti dicono che ormai non ci sono più contenuti ma solo slogan. In realtà non credo che la comunicazione del passato mancasse di slogan: quante parole d’ordine democristiane o comuniste abbiamo sentito ripetere a pappagallo? Però noto che la comunicazione tra politico ed elettore oggi tende a rifugiarsi in un’idea di mimesi: votami perché io sono come te. Ma io non voglio che chi mi rappresenta sia “come me”, voglio che sappia fare cose che io non so fare, per esempio gestire l’economia di un sistema complesso come l’Italia. Voglio la competenza. Ecco, il difetto della comunicazione politica oggi è la pigrizia di sostituire all’idea della competenza l’ideologia dell’identificazione.

La peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale

Salvini è “campione” nella comunicazione, sovraesposto sia sui social sia sui media tradizionali.
La sovraesposizione è di tutti, i social hanno sdoganato un certo modo di autorappresentarsi, di mettere in piazza la propria vita privata. È evidente che tutti abbiamo spazi di relax, di déshabillé e di relazione, ma oggi questi spazi sono diventati strumento di azione politica. Non si può tornare indietro ed è stupido ripetere: «Si stava meglio quando si stava peggio», ormai è così. Però la forma è sostanza: la peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale.

E quali sono i problemi della comunicazione della sinistra, visto che continua a perdere?
La sinistra non perde per mancanza di comunicazione, ma per mancanza di coraggio. E perché non ha saputo valorizzare i talenti femminili al proprio interno, lasciandosi incredibilmente superare a destra nella corsa alla parità dato che oggi il partito che guadagna più consensi è guidato da una donna: Giorgia Meloni.

Ma esistono poi ancora destra e sinistra, o sono categorie superate?Come molte altre categorie, nel postmoderno destra e sinistra sono diventate più liquide, per dirla nei termini di Zygmunt Bauman. Ma destra e sinistra esistono ed esisteranno sempre: guardiamo la campagna elettorale negli Stati Uniti dove una delle candidate al top, Elizabeth Warren, è portatrice di una proposta politica che viene definita “socialista”. Se capiamo ancora cosa significa questo aggettivo, è perché la distinzione tra destra e sinistra è ancora chiara e pregnante.

Lei è probabilmente la sudtirolese più famosa d’Italia, e alla sua terra ha dedicato una intensa trilogia. Che pensa dell’ultima polemica sul nome Südtirol/Alto Adige?
Ho scritto tre libri per cercare di far capire meglio anche a chi non conosce la storia del Sud Tirolo quali ferite storiche si porti addosso quel fazzoletto di terra. Dalle reazioni e dalle lettere dei lettori, credo di esserci in parte riuscita. Le polemiche sulla toponomastica sono un portato di quella storia, la storia di un popolo che ha visto il fascismo cancellare i nomi dei propri padri dalle tombe di famiglia e non è ancora riuscito a dimenticare. Per superare questi traumi è stato fatto molto, ma una parte e dall’altra occorrono ancora buonsenso e generosità.

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Lilli Gruber su machismo, politica, Salvini e Südtirol

La conduttrice di Otto e mezzo, autrice di Basta!, punta il dito contro l’Internazionale del testosterone. E sul leader della Lega dice: «Chi non è in grado di passare dallo stile sbracato a quello istituzionale ha un problema nel gestire certi ruoli». L’intervista.

La «recrudescenza del machismo è la spia di una paura diffusa, quella di perdere il controllo e il potere». Così Lilli Gruber spiega Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino), l’ultimo libro scritto per rispondere a quella che la giornalista definisce «l’Internazionale del testosterone». 

Lilli Gruber alla presentazione del suo libro ‘Basta’.

DOMANDA. L’ondata di leader “testosteronici” è una sorta di autodifesa del potere maschile davanti alla richiesta sempre più insistente di politiche femminili?
RISPOSTA. Attenzione, il problema non è il potere maschile ma il potere machista che si perpetua per cooptazione. Che trova nell’insulto, nella legge del branco e nella violenza il collante per generare lealtà. E che è pericoloso perché è privo di ideali, persino di ideologie: ha solo lo scopo distruggere le strutture della convivenza democratica, che tutelano la libertà dei cittadini.

L’opinionista francese Éric Zemmour sostiene che il vero problema sta nella femminilizzazione eccessiva della società. Cosa ne pensa?
Zemmour ha diritto alle sue opinioni, io sono andata a cercare i fatti. Mi sembra difficile definire “femminilizzata” una società in cui parlamenti, governi, palazzi presidenziali, consigli d’amministrazione, redazioni di grandi media sono ancora in larghissima maggioranza gestiti da dirigenti uomini. I numeri parlano, il resto sono appunto opinioni che non ci portano granché lontano.

Se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi

Non sono esistite e non esistono anche leader donne “testoteroniche”?
Il punto non sta nell’opporre femminile e maschile: discussioni come quella sull’essenza della leadership saranno interessanti per la filosofia ma sono piuttosto sterili. Più interessante, invece, analizzare la struttura del potere e le regole su cui si basa. Si vede che questa struttura è stata creata da maschi e oggi è gestita da maschi. Lo dicono i dati e lo dicono millenni di storia. A quante condottiere, cape di stato, scienziate e artiste riusciamo a ricordare? Ebbene, se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi. Non hanno ancora avuto il potere di cambiare le regole. Ma se al potere ci fosse un numero di donne pari a quello degli uomini, questa struttura cambierebbe. 

Dai cda alla strada: qualche esempio nella vita quotidiana?
I farmaci verrebbero sperimentati anche sul corpo femminile invece che quasi esclusivamente su quello maschile e avremmo un diverso sistema sanitario. Le città verrebbero riprogettate per le esigenze di chi da sempre deve muoversi per commissioni multiple nel corso della giornata – scuole, genitori anziani – e avremmo un diverso sistema di mobilità urbana. Il lavoro domestico e di cura, oggi svolto al 75% dalle donne, verrebbe redistribuito generando un diverso modello di lavoro e di convivenza. E così via. Io desidero vedere questo cambiamento strutturale. Perché sarà un mondo più giusto.

Lei si è occupata del machismo di leader come Donald Trump, Matteo Salvini, Recep Tayyp Erdoğan, Vladimir Putin. Perché non ha approfondito anche casi che coinvolgono personaggi più vicini alla sinistra come Strauss-Kahn, Assange, Chávez?
Perché non sono più al potere, e Julian Assange non lo è mai stato. In un pamphlet che si occupa dell’attualità avrebbero avuto un interesse piuttosto limitato. Per ragioni di spazio, se è per quello, non ho parlato nemmeno di Viktor Orbán o del primo ministro indiano Nanendra Modi, che pure sono al potere e piuttosto pericolosi. Ma soprattutto, nulla lega fra loro tutti gli uomini citati: è un semplice elenco. Invece a fare da collante alla lega l’internazionale machista è una rete tessuta con interessi ben precisi e che minaccia la tenuta delle nostre democrazie. È molto evidente se guardiamo in modo sistemico alla loro azione politica e alle forze che li finanziano. È questo che trovo pericoloso e che dovrebbe spaventare tutti noi.

I toni delle paginate di critiche che mi hanno riservato i quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa

Lei ha raccontato che l’idea del libro è nata dopo la polemica con Salvini. Più recentemente ha battibeccato anche con Vittorio Feltri a causa di un articolo che la riguardava…
L’articolo polemico è del tutto legittimo. Quella che io notavo, con interesse, era la levata di scudi di tutta la stampa di destra il giorno dopo l’uscita del mio libro. Paginate di critiche su quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, i cui toni sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa. Ma fa piacere vedere che quando assumono una dose della loro medicina sessista il livore di questi opinionisti si trasforma in un singhiozzo politicamente corretto: forse possono essere redenti.

Restando alla comunicazione: come è cambiata in questi decenni quella dei politici?
La comunicazione è cambiata per tutti, è diventata più veloce, molti dicono che ormai non ci sono più contenuti ma solo slogan. In realtà non credo che la comunicazione del passato mancasse di slogan: quante parole d’ordine democristiane o comuniste abbiamo sentito ripetere a pappagallo? Però noto che la comunicazione tra politico ed elettore oggi tende a rifugiarsi in un’idea di mimesi: votami perché io sono come te. Ma io non voglio che chi mi rappresenta sia “come me”, voglio che sappia fare cose che io non so fare, per esempio gestire l’economia di un sistema complesso come l’Italia. Voglio la competenza. Ecco, il difetto della comunicazione politica oggi è la pigrizia di sostituire all’idea della competenza l’ideologia dell’identificazione.

La peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale

Salvini è “campione” nella comunicazione, sovraesposto sia sui social sia sui media tradizionali.
La sovraesposizione è di tutti, i social hanno sdoganato un certo modo di autorappresentarsi, di mettere in piazza la propria vita privata. È evidente che tutti abbiamo spazi di relax, di déshabillé e di relazione, ma oggi questi spazi sono diventati strumento di azione politica. Non si può tornare indietro ed è stupido ripetere: «Si stava meglio quando si stava peggio», ormai è così. Però la forma è sostanza: la peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale.

E quali sono i problemi della comunicazione della sinistra, visto che continua a perdere?
La sinistra non perde per mancanza di comunicazione, ma per mancanza di coraggio. E perché non ha saputo valorizzare i talenti femminili al proprio interno, lasciandosi incredibilmente superare a destra nella corsa alla parità dato che oggi il partito che guadagna più consensi è guidato da una donna: Giorgia Meloni.

Ma esistono poi ancora destra e sinistra, o sono categorie superate?Come molte altre categorie, nel postmoderno destra e sinistra sono diventate più liquide, per dirla nei termini di Zygmunt Bauman. Ma destra e sinistra esistono ed esisteranno sempre: guardiamo la campagna elettorale negli Stati Uniti dove una delle candidate al top, Elizabeth Warren, è portatrice di una proposta politica che viene definita “socialista”. Se capiamo ancora cosa significa questo aggettivo, è perché la distinzione tra destra e sinistra è ancora chiara e pregnante.

Lei è probabilmente la sudtirolese più famosa d’Italia, e alla sua terra ha dedicato una intensa trilogia. Che pensa dell’ultima polemica sul nome Südtirol/Alto Adige?
Ho scritto tre libri per cercare di far capire meglio anche a chi non conosce la storia del Sud Tirolo quali ferite storiche si porti addosso quel fazzoletto di terra. Dalle reazioni e dalle lettere dei lettori, credo di esserci in parte riuscita. Le polemiche sulla toponomastica sono un portato di quella storia, la storia di un popolo che ha visto il fascismo cancellare i nomi dei propri padri dalle tombe di famiglia e non è ancora riuscito a dimenticare. Per superare questi traumi è stato fatto molto, ma una parte e dall’altra occorrono ancora buonsenso e generosità.

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Perché investire nelle biblioteche è un vero atto rivoluzionario

Questi luoghi sono da sempre infrastrutture sociali fondamentali. Ma sono le prime vittime dei cronici e bipartisan tagli alla Cultura. Eppure formare cittadini consapevoli non dovrebbe avere prezzo.

Cinque miliardi in più ci vorrebbero. Ma si accontenterebbe di 3, il ministro dell’Istruzione e Università Lorenzo Fioramonti. Finirà, dopo il confronto parlamentare sulla legge di Bilancio, per avere niente. Se gli andrà bene, anzi di lusso, manterrà il bilancio che ha. Senza tagli.

L’ALLERGIA BIPARTISAN PER GLI INVESTIMENTI IN CULTURA

È da 20 anni, infatti, da quando l’allora governo Berlusconi lanciò il famoso proclama «non metteremo le mani in tasca agli italiani» che le vittime sacrificali del malgoverno nazionale, di destra, sinistra e centro più o meno allo stesso modo, sono la scuola, l’università e la cultura. L’unica differenza è che i governi di sinistra lo hanno fatto con un po’ di magone e leggero atto di contrizione, mentre quelli di destra con una dichiarata soddisfazione e un malcelato senso di liberazione.

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Se infatti Paolo Gentiloni, come premier dichiarò timidamente, fra il disappunto dell’editore Giuseppe Laterza, di essere troppo impegnato per leggere libri, Lucia Borgonzoni, allora sottosegretaria leghista ai Beni culturali del governo gialloverde, ammise candidamente di non avere letto un libro negli ultimi tre anni. In linea, peraltro, con il suo elettorato e il suo leader. Se è vero che Matteo Salvini ha fatto selfie ovunque, si è esibito sulla ruspa e più recentemente alla Fiera dei cavalli di Verona e al November Porc di Polesine Parmense, non lo si è mai visto in una biblioteca, in un museo e con un libro in mano.

Le biblioteche sono infatti infrastrutture sociali, ovvero luoghi e occasioni di incontro, fra persone di diversa estrazione sociale, ma anche di sesso, età, orientamenti ideali e convinzioni politiche

Ma aggiunto che Borgonzoni è ora candidata per la prossima sfida elettorale in Emilia-Romagna, segnaleremo che in questa regione c’è un’efficiente rete di biblioteche pubbliche. Arriviamo così al tema di oggi: le biblioteche, appunto, una delle espressioni delle istituzioni culturali più importanti, anche dal punto di vista sociale, ma fra le più colpite dai tagli economici. Perché, evidentemente fra le meno considerate come fattore essenziale di formazione della persona, del cittadino e per estensione di una comunità aperta, consapevole, solidale.

La nuova biblioteca di Helsinki costata 98 milioni.

UN DEGRADO DIMENTICATO

Le biblioteche sono infatti “infrastrutture sociali”, ovvero luoghi e occasioni di incontro, fra persone di diversa estrazione sociale, ma anche di sesso, età, orientamenti ideali e convinzioni politiche. Che per ragioni contingenti entrano in relazione, dunque imparano a conoscersi, dovendo condividere uno spazio comune secondo precise regole: minime e banali, ma da tutti rispettate. Come stare in silenzio e concentrarsi, aspettare che si liberi un posto di lettura o una postazione internet, mettersi in fila per richiedere un libro. Ce lo ricorda uno splendido articolo del sociologo Eric Klinenberg della New York University, recentemente riproposto dall’aggregatore civico City Lab: «Preoccupati di meno delle buche nelle strade e di più del degrado delle biblioteche». 

VIVERE SENZA LIBRI: I NUMERI DELL’ITALIA

Certo il titolo è paradossale nel momento in cui Venezia va sott’acqua, a Napoli s’aprono voragini nelle strade e le buche di Roma continuano a fare notizia. Ma che nulla toglie, anzi sottolinea i danni sociali generati dalla trascuratezza dei luoghi fisici deputati alla formazione culturale e allo sviluppo di legami e relazioni sociali. Certo il degrado di ponti, viadotti e scuole pubbliche è visibile, i danni cognitivi e formativi di chi vive in assenza di libri no. Solo in apparenza però e se lo sguardo è distratto. Perché la povertà educativa, che è effetto ma anche causa della povertà economica e lavorativa, è figlia diretta di chi non legge e di chi, pur essendo gratuite, non frequenta biblioteche. Nel 2016, il 52,8% dei ragazzi italiani non aveva letto nemmeno un libro nell’anno precedente. Solo il 15% delle persone con più di 6 anni ne ha frequentata una nell’ultimo anno.

La povertà educativa, effetto ma anche causa della povertà economica e lavorativa, è figlia diretta di chi non legge e di chi, pur essendo gratuite, non frequenta biblioteche

La riflessione di Klinenberg ci sollecita a riconsiderare il ruolo fondamentale che hanno avuto e che non hanno più da 20-30 anni le biblioteche. Negli Usa come nel nostro Paese e un po’ in tutt’Europa si è addirittura disinvestito lasciando deperire la rete e le strutture bibliotecarie. E forse non è casuale che questo abbandono si sia accompagnato al crollo delle vendite di libri e giornali, di contro all’ascesa del consumo televisivo e di una programmazione sempre più commerciale. Con esito ulteriore di un ancor più drammatico ridursi della partecipazione politica e civica e del contatto, anche fisico, fra persone di età, condizione sociale e professionale diverse.

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Le biblioteche sono infrastrutture sociali allo stesso modo di numerosi altri luoghi in cui avviene questo fondamentale scambio relazionale. Come scuole e campi da gioco e sportivi. Anche le chiese e le associazioni culturali fungono da infrastruttura sociale, quando sono aperte. Allo stesso modo dei mercati e degli esercizi commerciali (caffè e bar) che però consentano alle persone di stare insieme indipendentemente da ciò che devono comperare o consumare. Sono cioè “spazi terzi”, secondo la definizione del sociologo Ray Oldenburg, che favoriscono i legami sociali, offrono spazio di interazioni, incoraggiano relazioni più durature.  Innumerevoli amicizie strette tra genitori, e poi intere famiglie, iniziano perché due bambini usano la stessa altalena… Praticare regolarmente uno sport di squadra favorisce, scrive Klinenberg, «l’amicizia fra persone con diverse preferenze politiche o diverso status etnico, religioso o di classe, esponendole a idee che probabilmente non incontrerebbero fuori dal campo».

LE LIBRERIE ITINERANTI E L’ALFABETIZZAZIONE

Tuttavia le biblioteche hanno un di più, un valore aggiunto, rispetto alle altre infrastrutture sociali. Promuovono la voglia di sapere, conoscere e dunque comprendere altri mondi, altre vite, altre storie. E questo è ciò che le rende cruciali per la formazione di cittadini consapevoli e responsabili. Sono strumenti di promozione ma anche sistemi di sicurezza.

Questi luoghi promuovono la voglia di sapere, conoscere, comprendere altri mondi, altre vite, altre storie. E questo è ciò che le rende cruciali per la formazione di cittadini consapevoli e responsabili

Eppure un gran numero di cittadini, con in testa politici e governanti, non ne ha consapevolezza. Ignari e ignoranti, ignorano che la democrazia, l’emancipazione delle classi lavoratrici, lo sviluppo dei partiti di massa hanno avuto nelle biblioteche e nelle librerie popolari itineranti uno strumento fondamentale di alfabetizzazione culturale e consapevolezza politica.

SEGUIAMO L’ESEMPIO DI HELSINKI

È quasi incredibile – ma vero – che ci sia stato un tempo, fra 800 e 900 in Inghilterra, dove capi sindacali ed educatori della working class, nel momento in cui promuovevano scuole domenicali e cattedre ambulanti, auspicavano la lettura dei classici per le masse. Ma ancor più incredibile però altrettanto vero è che ci sia oggi un città europea, Helsinki, dove è stata inaugurata l’anno scorso una biblioteca costata 98 milioni di euro. Un paradiso del libro, ma anche una “fabbrica di cittadinanza”, perché nei suoi tre piani e in un contesto di raffinato design, oltre a 100 mila libri, ci sono caffè, teatro, sale per la musica e i videogiochi, postazioni internet e stampanti 3D, laboratori e spazi per riunioni ed eventi. Un luogo come ha detto il suo direttore Tommi Laitio, rispondendo anche alle critiche sul costo eccessivo della struttura, dove «puoi essere la tua persona migliore…e costruire il tuo futuro». E questo è impagabile.

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