Sinisa Mihajlovic ha raccontato i mesi della sua malattia

L’allenatore del Bologna commosso in conferenza stampa: «Quattro mesi duri, ma i medici sono stati straordinari». Il primario: «Siamo ancora in una fase precoce. Abbiamo bisogno di tempo per cercare di capire la risposta finale».

Lacrime e tanta commozione per le prime parole pubbliche di Sinisa Mihajlovic dal giorno dell’annuncio della malattia. «In questi quattro mesi difficili ho conosciuto medici straordinari, infermieri che mi hanno curato, sopportato e supportato. So che ho un carattere forte, anche difficile», ha esordito l’allenatore del Bologna in conferenza stampa al Dall’Ara, fermandosi più volte con la voce rotta dal pianto. «Chi meglio di loro» – ha aggiunto facendo i nomi – «può capire quanto sia difficile fisicamente e psicologicamente affrontare una cosa del genere. Voglio ringraziare tutti di cuore. Ho capito subito che ero nelle mani giuste».

«NON HO PIÙ LACRIME, MI SONO ROTTO LE PALLE DI PIANGERE»

«In questi quattro mesi ho pianto e non ho più le lacrime. Mi sono rotto le palle di piangere», ha confessato Mihajlovic dopo che il primario di Ematologia, Michele Cavo, aveva detto che «le lacrime sono catartiche», commentando il momento di commozione vissuto dal tecnico. Cavo ha spiegato che «siamo ancora in una fase precoce. Abbiamo bisogno di tempo per cercare di capire la risposta finale» del paziente, «per monitorare Sinisa, le possibili complicanze». «Sinisa mi ha chiesto di chiudere un cerchio aperto da quattro mesi. Legittimo dal suo punto di vista, ma per noi», medici, «il cerchio non è ancora chiuso». «Per ora» – ha aggiunto Cavo – «siamo felici di averlo restituito in questa ottima forma a tutta la comunità, sia quella laica sia quella sportiva», ma il monitoraggio delle condizioni del paziente continuerà».

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Dodici nomi per raccontare 120 anni di Barcellona

Dal fondatore Gamper alla Pulce Lionel Messi, passando per Cruijff e Guardiola: i personaggi e i fatti che hanno segnato la storia del “més que un club”.

Centoventi anni di storia, di trofei, di gol e di bandiere sventolate al vento. Quelle blaugrana e quelle gialle e rosse della Catalogna. Sul collo dei giocatori del Barcellona è impressa una frase, “més que un club”, più che un club. Perché il Barça non è solo una squadra di calcio, non è solo un diversivo per i mercoledì di coppa e le domeniche di campionato. Il Barça è storia, una storia lunga 120 anni, segnata dai volti e dai nomi che l’hanno scritta. Ne abbiamo scelti 12, uno per ogni decennio di vita del club.

1899-1909: JOAN GAMPER

Il Barcellona nasce ufficialmente il 29 novembre del 1989, con una riunione dei primi soci al Gimnasio Sole. Nasce grazie a un annuncio pubblicato poco più di un mese prima, il 22 ottobre, sul settimanale Los Deportes: «Il nostro amico e compagno Sig. Kans Kamper, della sezione Calcio della “Sociedad Los Deportes” e già campione svizzero, volendo organizzare alcune partite a Barcellona, chiede che chiunque ami questo sport lo contatti recandosi nel suo ufficio il martedì o il venerdì sera dalle 9 alle 11». Kans Kamper ha 21 anni, è nato in Svizzera, opera nel commercio e ha già girato mezza Europa prima di fermarsi a Barcellona. Ha una grande passione per il calcio e la voglia di fondare un club. Nel giro di un mese arrivano le prime adesioni, con Kamper, che negli anni successivi cambierà nome e cognome catalanizzandoli in Joan Gamper, ci sono Walter Wil (che sarà nominato primo presidente), Lluís d’Ossó, Bartomeu Terradas, Otto Kunzle, Otto Maier, Enric Ducal, Pere Cabot, Carles Pujol, Josep Llobet, John Parsons e William Parsons. Una squadra e un club che fin dall’inizio mostrano la loro vocazione internazionale e internazionalista.

1910-1919: JUAN DE GARCHITORENA

Nel suo primo decennio di vita, il Barcellona vince una Copa Macaya, una Copa Barcelona e due volte il Campionato di Catalogna. I soci continuano ad aumentare e nel 1908, quando il club si trova davanti al bivio tra il salto di qualità definitivo (con importanti investimenti finanziari) e la scomparsa, Gamper prende in mano le redini diventando per la prima volta presidente. Lo sarà per 25 anni complessivi, a periodo alterni, facendosi da parte e tornando 1uasi sempre per guidare il club nei suoi momenti più turbolenti. Come nel 1917, quando il presidente Gaspar Rosés si dimette a seguito del caso Garchitorena. Juan de Garchitorena è un giovane attaccante di 18 anni quando arriva al Barcellona. Il club lo tessera come spagnolo, dal momento che nessuno straniero può giocare entro i confini nazionali, ma lui è nato nelle Filippine. Quando l’Espanyol lo scopre, fa ricorso alla Federazione, presieduta dallo stesso uomo che guida il Barcellona, Gaspar Rosés. Rosés cerca una mediazione, propone la ripetizione delle partite in cui è stato schierato Garchitorena, ma a ribellarsi è il direttivo del Barcellona, che preferisce perdere a tavolino gli incontri e il campionato di Catalogna piuttosto che piegare la testa a un principio che ritiene ingiusto, quello che vieta ai giocatori stranieri di disputare il campionato. Rosés, umiliato e isolato, si dimette da entrambi gli incarichi.

Diego Armando Maradona con la maglia del Barcellona nel 1984.

1920-1929: PAULINO ÁLCANTARA

A proposito di filippini… Il Barça ne ha avuto un altro nella sua storia, di origini catalana e quindi naturalizzato. Nessun rischio Garchitorena, dunque. Il suo nome era Paulino Álcantara, cominciò a giocare nel Barcellona appena 15enne, nel 1912, poi nel 1916 fu costretto a lasciare la Spagna per seguire la famiglia nelle Filippine. Dopo due anni e dopo aver contratto la malaria, riuscì a convincere i genitori a lasciarlo tornare in Catalogna, per giocare di nuovo col Barcellona, dove restò fino al 1927, segnando 200 gol in 177 partite. Al suo esordio, a 15 anni, segnò una tripletta. Con 5 Coppe di Spagna e 10 campionati catalani, Álcantara segnò la storia del club a cavallo di due decenni, diventando grande protagonista soprattutto negli Anni ’20, gli stessi che videro la costruzione dello stadio di Les Corts, nel 1922, e la nascita del nomignolo culé per i tifosi blaugrana che si assiepavano sugli spalti e a cavalcioni sulla rete di recinzione mostrando le terga ai passanti. Il 24 giugno del 1925 il Barcellona organizzò a Les Corts una partita contro l’Fc Jupiter. La Spagna era da due anni sotto il regime del generale Primo de Rivera e decine di migliaia di tifosi si assieparono fuori dal campo in attesa che arrivasse il via libera alla partita da parte della dittatura. Quando i cancelli furono aperti e l’orchestra della Marina Militare Britannica attaccò a suonare gli inni, il pubblico catalano coprì con sonori fischi la Marcia Reale spagnola, accompagnando poi con gli applausi God Save the King. Fu l’inizio di un’usanza che prosegue ancora oggi. Ma durante il regime quel vilipendio fu pagato a carissimo prezzo, con l’espulsione di Gamper e di tutto il direttivo e la chiusura dell’attività del club per sei mesi.

1930-1939: JOSEP SUNYOL

Il Barça riprese a camminare, il regime cadde, Primo de Rivera morì e nel 1931 si instaurò la seconda Repubblica spagnola. I cambiamenti politici portarono alla guida del club un presidente convintamente repubblicano e di sinistra, Josep Sunyol. Un uomo di calcio che pagò con la vita il suo impegno politico. Nel 1936, all’inizio della guerra civile che avrebbe portato Francisco Franco al potere, Sunyol fu vittima di un’imboscata mentre si recava a Madrid in auto. La vettura fu fermata da una banda armata di franchisti in una strada di campagna e tutti gli occupanti, Sunyol compreso, vennero fucilati. A Barcellona, per giorni, non seppero nulla del presidente scomparso. L’annuncio della sua morte arrivò in ritardo. Fu l’inizio del durissimo conflitto tra il Barcellona e il potere politico franchista, che sarebbe durato fino alla morte del Caudillo, nel 1975.

1940-1949: ENRIQUE PINEIRO

Il Barcellona patì in particolar modo l’avvento del Franchismo. Il regime commissariò di fatto il club, gli tolse la sua identità cambiandone nome (che da Football Club Barcelona passò al più spagnolo Club de Futbol Barcelona), sigla e persino scudetto, con la rimozione di tre delle cinque bande rosse in sfondo giallo che rappresentavano la bandiera catalana. La squadra restò comunque competitiva, nonostante le intromissioni di Franco, e persino i più diligenti franchisti posti alla sua presidenza finirono per farsi rapire dal suo fascino. Accadde a Enrique Pineiro, marchese della Mesa de Asta, amico personale di Franco che con lui ingaggiò una personalissima sfida nella sfida tra il club catalano e il Real Madrid.

Nel 1943, dopo aver vinto per 3-0 l’andata della semifinale della Copa del Generalisimo, Pineiro inviò un telegramma a Franco per invitarlo come suo ospite alla finale

Nel 1943, dopo aver vinto per 3-0 l’andata della semifinale della Copa del Generalisimo (l’ex Copa del Rey), Pineiro inviò un telegramma a Franco per invitarlo come suo ospite alla finale. Il dittatore non la prese bene e mentre i giocatori si cambiavano negli spogliatoi per scendere in campo nella gara di ritorno, ricevettero la visita di un piccola squadriglia che li minacciò di gravi ritorsioni se non avessero ceduto il passaggio del turno al Madrid. Il Barcellona, la stessa squadra che all’andata aveva dominato vincendo 3-0, perse 11-1 una partita che ancora oggi rappresenta il Clásico col più ampio margine di scarto tra le due squadre. Pineiro non tollerò l’episodio e annunciò direttamente a Franco le proprie dimissioni da presidente del Barcellona.

1950-1959: LAZSLÓ KUBALA

Il Barcellona tornò comunque grande e prima della fine degli Anni 40 vinse tre volte il Campionato di Spagna, due volte la Copa Eva Duarte e il suo primo titolo internazionale, la Coppa Latina. Il club rilanciò le proprie ambizioni e nel 1951 ingaggiò un giocatore che ne avrebbe segnato la storia. Lazsló Kubala era fuggito dall’Ungheria comunista nel 1949, dopo essersi fatto reclutare nei reparti di confine. Era passato dall’Italia, dove la Pro Patria lo aveva tesserato senza poterlo schierare per via della squalifica internazionale legata al ricorso presentato dall’Ungheria dopo la sua fuga, aveva sfiorato la tragedia di Superga dopo aver rinunciato, per impegni familiari, a indossare la maglia del Grande Torino nell’amichevole di Lisbona contro il Benfica, ed era arrivato in Spagna. Il Real Madrid di Santiago Bernabéu gli aveva messo gli occhi addosso, strappando anche un accordo di massima per il suo ingaggio, ma Pep Samitier, ex attaccante, ex allenatore e ora dirigente del Barcellona, riuscì a strapparlo alla concorrenza con un’abile mossa. Kubala giocò a Barcellona tra il 1951 e il 1961, segnando 131 gol in 186 partite e ingaggiando una sfida personale e di squadra con Alfredo Di Stefano, che il Barça fu sul punto di affiancargli ma che si sarebbe accasato al Real Madrid dopo una lunga ed estenuante battaglia legale tra i due club. Vinse quattro volte il Campionato spagnolo, cinque la Copa del Generalisimo, due la Copa Eva Duarte.

1960-1969: CARLES REXACH

Gli Anni 60 cominciarono con il grande sacrificio di Luis Suarez, ceduto all’Inter per ottenere i fondi per completare il Camp Nou, e proseguirono con una serie di vittorie in Coppa (due del Generalisimo e una delle Fiere) ma senza nemmeno un titolo di campione di Spagna. Nel 1961 i blaugrana disputarono e persero contro il Benfica anche la loro prima finale di Coppa dei Campioni. Nell’ottica di un decennio tutto sommato negativo, il Barça trovò nuovo slancio sul finale della decade, con l’approdo in prima squadra di Carles Rexach. Prodotto del vivaio, Rexach sarebbe stato protagonista col Barça prima in campo, fino al 1981, poi in panchina, quindi da dirigente. Sarebbe stato lui, più di 30 anni dopo, a far firmare a Lionel Messi il famoso tovagliolo su cui fu redatta la prima bozza di contratto tra il calciatore argentino e la squadra catalana.

1970-1979: JOHAN CRUIJFF

Il Barcellona tornò a vincere il campionato di Spagna 14 anni dopo l’ultima volta, poco prima della metà degli Anni 70. E ci riuscì grazie all’arrivo in Catalogna di uno dei più grandi fuoriclasse della sua storia. Johan Cruijff firmò per il Barça nel 1973, dopo tre Coppe dei Campioni di fila vinte con l’Ajax. Accolse la sfida di un club che desiderava tornare grande e di una città in perenne lotta contro la dittatura di Franco, che di lì a due anni sarebbe caduta con la morte del Caudillo. Nella prima stagione di Cruijff, i blaugrana conquistarono il titolo dopo aver battuto il Real Madrid a domicilio per 5-0 e sempre contro i Blancos persero per 4-0 la finale di Copa del Generarlisimo, nella quale non potevano essere schierati stranieri. Cruijff segnò 86 gol nelle sue 5 stagioni in Catalogna, vinse un campionato e una Copa del Rey, ma soprattutto divenne simbolo di un club a cui si legò così tanto da tornarci poi, per cambiarlo e riportarlo a vincere, da allenatore, e di una terra che amò così profondamente da chiamare il proprio figlio Jordi, come il santo patrono di Barcellona, in un’epoca in cui i nomi catalani erano ancora vietati dalla legge della dittatura.

1980-1989: DIEGO ARMANDO MARADONA

Passarono altri 11 anni prima che il Barcellona, che continuava a fare incetta di coppe nazionali, potesse festeggiare un nuovo titolo di campione di Spagna. Dieci anni nei quali, tra le altre cose, al Camp Nou trovò casa per due stagioni colui che presto avrebbe lasciato lo status di uomo per trasformarsi in leggenda. Diego Armando Maradona arrivò in Europa nell’estate del 1982, quella dopo i Mondiali, non ancora 21enne. Giocò in Catalogna due stagioni, vincendo soltanto una Coppa di Spagna, giocando 58 partite e segnando 38 gol. Mostrò tutta la sua classe ma non riuscì mai ad ambientarsi, frenato anche dagli infortuni.

Gli Anni 90 furono quelli della seconda era Cruijff, quella da allenatore, e dell’avvio di un ciclo vincente che, con alti e bassi, continua fino a oggi

Il più grave fu quello procuratogli alla quinta giornata del campionato 1983-84 da un’entrataccia di Andoni Goikoetxea, difensore dell’Athletic Bilbao. Maradona fu operato alla caviglia e rientrò all’inizio del 1984. La partita di ritorno contro l’Athletic è ricordata per una delle più violente risse nella storia del calcio, avviata proprio dalla vendetta personale di Maradona, che si avventò su Goikoetxea al termine della finale di Copa del Rey vinta dai baschi per 1-0. Calci, pugni, schiaffi e spintoni coinvolsero tutte le rose delle due squadre. A fine stagione Maradona lasciò il Barcellona per firmare col Napoli.

1990-1999: RONALD KOEMAN

Gli Anni 90 furono quelli della seconda era Cruijff, quella da allenatore, e dell’avvio di un ciclo vincente che, con alti e bassi, continua fino a oggi. Il Barça uscì dal complesso di inferiorità nei confronti del Madrid e cominciò a proporre una sua personale evoluzione del calcio totale. Nel 1992 conquistò la sua prima Coppa dei Campioni battendo in finale la Sampdoria di Mancini e Vialli. Protagonista della partita fu Ronald Koeman, autore su punizione del gol decisivo. È ufficialmente iniziata l’era del Dream Team.

Pep Guardiola in una foto del 2000.

2000-2009: PEP GUARDIOLA

Il nuovo millennio ha portato il momento più ricco e felice della storia blaugrana. E a segnarlo è stato senza dubbio Pep Guardiola. Mentre si avvicina la primavera del 2008, con la consapevolezza che l’era Rijkaard, che ha portato la seconda Champions League nella storia del club, si è ormai chiusa, il presidente Joan Laporta è alle prese con la scelta del nuovo allenatore. Sono giorni convulsi, una parte del club vorrebbe il ritorno di José Mourinho, già visto al Camp Nou prima da traduttore di Robson e poi da assistente di van Gaal. Ma il profilo del portoghese non è il migliore secondo il direttore sportivo Txiki Begiristain, che sponsorizza un ex compagno di squadra ai tempi del Dream Team di Cruijff. Pep Guardiola sta conducendo la squadra B alla vittoria del gruppo catalano della Tercera División. Non ha esperienza ma ha un’idea di calcio già piuttosto chiara, definita, accattivante. È la stessa di Cruijff, solo aggiornata ai tempi che cambiano, riproposta con una difesa a quattro e non a tre, ma comunque destinata a passare attraverso il dominio del pallone e il pressing. Laporta lo convoca nel suo ufficio e gli chiede se si senta pronto per allenare la prima squadra, lui fissa i suoi occhi in quelli del presidente e gli risponde: «Io sì, sei tu che non hai le palle». È la frase che convince definitivamente Laporta. Il calcio di Guardiola riempie le pagine dei quotidiani sportivi di tutto il mondo, lo chiamano tiqui-taca, anche se anni dopo il tecnico rivelerà di non amare particolarmente quel nome. Al primo anno arriva il triplete. Il Barcellona che aveva chiuso la stagione precedente a 18 punti di distanza dal Real Madrid vince Liga, Copa del Rey e Champions League. In quattro anni arriveranno altri due campionati, un’altra coppa nazionali, un’altra Champions League, tre Supercoppe di Spagna, due Supercoppe europee e due Mondiali per club.

2010-2019: LIONEL MESSI

L’ascesa di Guardiola coincide con quella di Lionel Messi, il cui talento già evidente esplode definitivamente sotto la guida del tecnico catalano. La Pulce si sposta verso il centro dell’attacco, comincia a segnare a ripetizione, nei quattro anni di Guardiola monopolizza letteralmente il Pallone d’Oro, vincendone quattro di fila. L’addio di Pep rende ancora più evidente la sua leadership sulla squadra. Messi comincia ad avere voce in capitolo sull’allenatore da scegliere e sui compagni di squadra. Fa fuori Ibrahomovic e salva Villa, promuove Neymar e più volte ottiene la conferma di Mascherano. Nel frattempo gli altri grandi del ciclo, Xavi e Iniesta, lasciano il Barcellona. Persino Neymar se ne va e Messi rimane da solo a guidare una squadra che è sempre più dipendente da lui. Nel 2012 realizza il record del maggior numero di gol segnati in un anno solare (91). Nel 2015, dopo il secondo triplete sotto la guida di Luis Enrique, arriva anche il quinto Pallone d’Oro, quest’anno potrebbe essere la volta del sesto. Supera Cesar Sanchez e diventa il giocatore con più gol nella storia del Barcellona, è il bomber del Clásico e il giocatore che ha vinto più trofei, l’unico ad aver segnato almeno 40 gol per 10 stagioni consecutive. E la lista dei record è ancora lunga e in continuo aggiornamento. Come la storia del Barcellona.

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Perché Messi potrebbe vincere ancora il Pallone d’Oro

Secondo i rumor della stampa spagnola, il premio andrà all’argentino per la sesta volta. Sarebbe la dimostrazione che nel calcio di oggi i gol contano più dei trofei.

Il Pallone d’oro viaggia ancora verso Barcellona, per la sesta volta in 11 anni.

Il rumor secondo cui il prestigioso (sempre meno?) riconoscimento attribuito da France Football al miglior giocatore dell’anno sarebbe già stato spedito per raccomandata a Lionel Messi Cuccittini ha già generato un’ondata di polemiche.

Perché lui, proprio lui, che non ha vinto niente se non una Liga, che è uscito male dalle semifinali di Champions, che ha perso anche la semifinale di Copa America. Perché lui e non un altro? La risposta, in realtà, potrebbe essere molto semplice: se davvero Messi avesse già vinto, lo avrebbe fatto soprattutto per assenza di concorrenza.

IL PALLONE D’ORO SEMPRE PIÙ LEGATO AL MARKETING

Parliamoci chiaro, nell’ultima dozzina di anni il Pallone d’oro si è trasformato in una gigantesca occasione di marketing per il mondo del calcio. Sì, certo, a vincere è sempre il migliore (o uno dei migliori), ma le logiche attraverso cui il premio viene attribuito sono cambiate nel corso del tempo. Oggi sarebbe impensabile vedere premiato un Matthias Sammer o un Fabio Cannavaro. Sarebbe difficile persino che il premio finisse nelle mani di un Michael Owen. Oggi la macchina del pallone esige volti da copertina, e i follower sui social contano giusto poco meno dei trofei conquistati e dei gol segnati. I gol segnati, in particolare, sono fondamentali, forse ancora più delle coppe vinte.

Il Pallone d’oro ha vissuto da sempre nel paradosso di un premio individuale nel contesto di uno sport di squadra

Perché, se il Pallone d’oro ha vissuto da sempre nel paradosso di un premio individuale nel contesto di uno sport di squadra, ultimamente ha deciso di sciogliere questa dicotomia a favore del primo dei due aspetti. Conta più ciò che fai da solo, soprattutto se i numeri sono eclatanti. Nell’era degli attaccanti da 50 gol a stagione non c’è più spazio per i difensori, a malapena riescono a infilarcisi i centrocampisti offensivi, e solo se riescono a far coincidere l’anno sabbatico dei fenomeni con quello in cui loro compiono imprese mirabolanti come far sfiorare la vittoria della Coppa del Mondo a una nazione di poco più che 4 milioni di abitanti, come nel caso del croato Luka Modrić.

Il Pallone d’Oro (foto LaPresse-Xinhua/Zhang Fan).

Messi di gol ne ha fatti 51, in 50 partite. Nell’anno solare è a quota 39, sei in meno di quelli di Robert Lewandowski (che andando avanti di questo passo rischia seriamente di prenotare in anticipo il prossimo, di Pallone d’oro). Ha vinto la Scarpa d’oro e il titolo di capocannoniere della Champions League (per la sesta volta, entrambi). Ha vissuto una stagione contraddittoria sotto l’aspetto delle competizioni disputate. Si è fermato in semifinale di Champions, dove contro il Liverpool, futuro vincitore della coppa, è stato straordinario protagonista nel 3-0 del Camp Nou e un fantasma nello 0-4 subito ad Anfield. Eppure la sua candidatura resta la più forte.

PER CRISTIANO RONALDO UNA STAGIONE DELUDENTE

Guardiamoci intorno, vagliamo gli altri potenziali candidati al Pallone d’oro 2019, cerchiamo di capire perché, probabilmente, lo vincerà ancora Messi. Partiamo da Cristiano Ronaldo, che nell’ultimo decennio abbondante è stato il suo più grande rivale, che ne ha vinti cinque, lo stesso numero che al momento può vantare Messi. Cristiano è penalizzato da una prima stagione alla Juve che è andata meno bene del previsto, ha vinto lo Scudetto con i bianconeri e la Nations League con il Portogallo, ma è uscito ai quarti di finale della Champions League. In Serie A ha segnato 21 gol, 28 complessivi in tutte le competizioni di club, ha messo a referto due triplette decisive agli ottavi di Champions con l’Atletico Madrid e nella semifinale di Nations League con la Svizzera, ma è rimasto sotto le 40 reti per la prima volta in nove anni.

IL LIVERPOOL NON HA UN GIOCATORE CHE SPICCA SUGLI ALTRI

Allora, forse, i veri rivali di Messi andrebbero cercati tra chi la Champions l’ha vinta. Il problema del Liverpool è che è la sublimazione del calcio come gioco di squadra, un collettivo che sopravanza di molto la somma delle individualità che lo compongono. Momo Salah ha segnato meno della stagione precedente (27 gol, poco più della metà di quelli di Messi), Sadio Mané e Roberto Firmino sembrano nomi non altrettanto forti.

Quest’anno ai portieri hanno dedicato una categoria a parte: il Pallone d’Oro dei portieri

I singoli che hanno spiccato maggiormente nella squadra di Jürgen Klopp, Virgil Van Dijk e Alisson, giocano troppo lontani dalla porta avversaria. Il primo fa il difensore centrale, e il fatto che non perda praticamente mai un uno-contro-uno sembra non bastare per prendersi il premio. Il secondo fa il portiere, e in tutta la storia del Pallone d’oro solo una sola volta il trofeo è stato vinto un giocatore in questo ruolo, nel 1963 da Lev Jašin, il Ragno nero russo della Dinamo Mosca. Non a caso da quest’anno agli estremi difensori hanno dedicato una categoria a parte: il Pallone d’Oro dei portieri.

Lionel Messi con la maglia dell’Argentina (foto LaPresse – Fabio Ferrari).

Ecco perché pare che France Football abbia mandato i suoi fotografi a Barcellona in una mattina di fine novembre. Ed ecco perché ancora una volta, a vincere, sarà Messi. Peraltro non sarà nemmeno il premio che la Pulce ha meritato meno nella sua carriera, considerando quello strappato nel 2010 ai campioni del mondo Andreas Iniesta e Xavi e a uno Wesley Sneijder reduce da triplete con l’Inter e finale mondial persa con l’Olanda. Sarà così ancora una volta, aspettando Kylian Mbappé più che Neymar. Perché chi non fa gol non può più essere considerato il migliore calciatore al mondo.

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L’ad del Catania Lo Monaco è stato aggredito dai suoi tifosi

Il dirigente è stato colpito sul traghetto che collega Messina a Villa San Giovanni, dove si trovava per seguire la squadra rossazzurra impegnata a Potenza. Ora il club non scenderà in campo.

L‘amministratore delegato dal Catania, Pietro Lo Monaco, è stato colpito da alcuni tifosi etnei, che contestano la gestione della società, mentre si trovava sul traghetto che collega Messina e Villa San Giovanni. Lo Monaco si stava recando a Potenza per seguire la gara valida per gli ottavi di finale della Coppia Italia di Serie C. Partita che il Catania non disputerà: la squadra è rientrata a Catania. «La vile e vergognosa aggressione subita oggi dall’ad Pietro Lo Monaco da parte di ultras catanesi a bordo della nave traghetto durante il viaggio per raggiungere Potenza», spiega una nota, «già prevedibile alla luce dello striscione intimidatorio esposto in città e di quanto denunciato dal nostro amministratore delegato in occasione della conferenza stampa di ieri, ci obbliga a fermarci».

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Gli ultrà della Dinamo Zagabria hanno bloccato il traffico a Milano

Circa 3 mila persone si sono dirette a piedi verso San Siro partendo dall’Arco della Pace. Tensione nei pressi dello stadio.

Il corteo è partito dall’Arco della Pace e ha bloccato il traffico di Milano. Cori e saluti romani, cappucci e fumogeni accesi. Gli ultrà della Dinamo Zagabria, squadra croata che nella serata del 26 novembre affronterà l’Atalanta a San Siro per il match di Champions League, si sono diretti a piedi verso lo stadio. Circa 3 mila persone hanno percorso via Pagano, poi via Giotto, via Monte Rosa, viale Pietro Tempesta e via Monreale. Le forze dell’ordine li hanno sorvegliati sia da terra, sia dal cielo, con l’ausilio degli elicotteri. All’arrivo a San Siro ci sono stati comunque dei momenti di tensione con i tifosi dell’Atalanta e la polizia è dovuta intervenire.

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Come si evolve la battaglia legale tra giocatori del Napoli e società

Linea dura del presidente De Laurentiis. Taglio del 25% dello stipendio per tutti, con punte del 50% per Allan e i capi della rivolta contro il ritiro. E il procedimento arbitrale è alle porte. La situazione.

Al Napoli le cose in campo non vanno bene. Settimo posto e -15 punti dalla Juventus capolista. Fuori, forse ancora peggio. Questioni calcistiche e giuridiche si sono intrecciate affossando la stagione degli azzurri. Tutto è iniziato col grande “ammutinamento, il rifiuto dei giocatori di andare in ritiro per gli scarsi risultati sportivi (soprattutto in campionato). E ora è arrivata la risposta ufficiale della società, che ha attaccato i calciatori infliggendo un taglio del 25% dello stipendio per tutti, ma punte del 50% nei confronti di Allan e di altri considerati dal club i “capi” della rivolta. Le richieste sono contenute nelle raccomandate inviate anche via pec.

DALLE SUPER MULTE AL CASO DEI FURTI

Il presidente Aurelio De Laurentiis ha inflitto così delle super multe. Gli ultrà avevano “scaricato” la squadra per il suo atteggiamento, mentre in città si è parlato anche molto della fuga” delle mogli dei calciatori dopo i diversi furti subiti che avevano addirittura fatto presupporre l’esistenza di un piano criminale dietro questi episodi.

LETTERE CONSEGNATE PRIMA DELLA CHAMPIONS

La notizia era nell’aria e, si è appreso oltre la cortina di silenzio ufficiale del club, si dovrebbe concretizzare con la ricezione delle lettere a poche ore dalla partita di Champions league contro il Liverpool. I due piani, ormai, sono completamente scollegati. Il Napoli ha deciso di separare le vicende sportive da quelle contrattuali: i tifosi giudicheranno le prestazioni in campo di capitan Lorenzo Insigne e compagni, il collegio arbitrale del tribunale deve decidere in merito alle sanzioni.

COME FUNZIONA IL PROCEDIMENTO ARBITRALE

Ogni calciatore nominerà un proprio arbitro, il club un altro e i due dovranno accordarsi per eleggere il presidente del collegio; ciascun calciatore avrà un proprio procedimento arbitrale.

ALLAN ACCUSATO DI AVER AGGREDITO IL VICEPRESIDENTE

La multa più salata è stata chiesta ad Allan che oltre alla ribellione paga anche l’accusa di aver tentato di aggredire il vicepresidente azzurro Edoardo De Laurentiis negli spogliatoi dopo il match con il Salisburgo.

CONTESTATA LA LESIONE DEI DIRITTI D’IMMAGINE

Oltre alle multe richieste per il mancato rispetto dell’ordine di andare in ritiro, il Napoli è pronto a infliggere anche multe individuali per una lesione dei diritti d’immagine: ogni calciatore quando firma con il club azzurro raggiunge anche un accordo per la cessione dei propri diritti d’immagine che, a parere del Napoli, è stata lesa dall’atteggiamento poco professionale della ribellione. In questo caso le multe saranno individuali e parametrate al contratto che è diverso per ognuno.

DE LAURENTIIS NON È ANDATO A LIVERPOOL

Al Napoli dunque continua il gelo tra lo spogliatoio e la dirigenza, che aspetta ora risultati sul campo, e testimoniato anche dal fatto che il presidente non è volato in Inghilterra per il match di Champions. In questo clima il Napoli parte per Liverpool dove mercoledì sera affronta i campioni d’Europa. L’allenatore Carlo Ancelotti sa che anche il suo futuro personale è legato alle prossime partite e già il pareggio di San Siro contro il Milan è stato considerato negativamente dal club.

GRANDE ATTESA PER LE PAROLE DI ANCELOTTI

Su questo, ma anche sul clima con cui lo spogliatoio sta vivendo il momento, il tecnico è chiamato a parlare martedì 26 novembre nel pomeriggio a Liverpool, durante la conferenza stampa pre-partita destinata a interrompere il silenzio stampa cominciato proprio nella notte dell’insubordinazione dopo il pari con il Salisburgo. Quella sera Ancelotti andò via senza parlare.

INSIGNE INFORTUNATO, ATTACCO DA INVENTARE

Parlò, prima di sapere della rivolta, Insigne, che rimane a Napoli a causa della contusione al gomito subita a Milano. L’attacco è quindi da inventare, la forza di reazione del gruppo da dimostrare in campo. I 2 mila tifosi azzurri a Liverpool aspettano risposte da Anfield. Poi arriveranno le sentenze del tribunale.

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Il razzismo di Cellino con Balotelli e i precedenti nel calcio

Per il presidente del Brescia «Mario è nero, sta lavorando per schiarirsi». Poi parla di battuta fraintesa. Un po’ come quelle di Passirani sulle banane a Lukaku, di Tavecchio e Opti Pobà, di Lotito che parlò di «pelle normale» dei bianchi. Il vizietto discriminatorio degli uomini nel pallone.

Il 25 novembre era la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ma mentre si parlava di femminicidi qualcuno è riuscito a esibirsi in dichiarazioni razziste. Nel mondo del calcio, tanto per cambiare. Troppo difficile portare avanti più di una sensibilizzazione alla volta: probabilmente il presidente del Brescia Massimo Cellino non è dotato di questa abilità di multitasking. Così si è fatto sfuggire un commento poco “tecnico”: «Cos’è successo a Mario Balotelli? Che è nero, cosa devo dire, che sta lavorando per schiarirsi, però c’ha molte difficoltà». Mario Balotelli sarebbe (è, in attesa di sviluppi dal mercato) un suo giocatore, il secondo più prezioso della rosa (valore 20 milioni, dietro solo a Sandro Tonali stando ai dati Transfermarkt). E per di più fresco bersaglio dei versi da scimmia che gli hanno riservato i tifosi delll’Hellas Verona il 3 novembre.

ENNESIMO TASSELLO NEL MOMENTO-NO DI SUPER MARIO

Ma Cellino non deve aver pensato a tutto questo e ha provato a motivare così l’attaccante dopo il periodo-no che, oltre a questioni extra campo, ha riguardato aspetti di gioco: prima la discussa sostituzione all’intervallo nella partita persa 4-0 in casa contro il Torino, poi la mancata convocazione in Nazionale – la qualificazione a Euro 2020 era già in tasca – nonostante il suggerimento del presidente della Figc, Gabriele Gravina, che voleva chiamare Super Mario come gesto simbolico anti-razzista. Infine, dopo la sosta del campionato, la cacciata dall’allenamento per scarso impegno e l’esclusione di Balo dalla trasferta di Roma.

IL RITORNELLO DELLA BATTUTA FRAINTESA

Dopo l’uscita di Cellino, il Brescia ha cercato di cancellare il guaio fatto: «Una battuta a titolo di paradosso, palesemente fraintesa, rilasciata nel tentativo di sdrammatizzare un’esposizione mediatica eccessiva e con l’intento di proteggere il giocatore stesso», è stato scritto in un comunicato.

Se scrivete tutte le cazzate che dico, non smettete più. Se chiarisco faccio ancora più danni. Le persone perbene mi conoscono


La “pezza” di Massimo Cellino

Poi Cellino è tornato sull’argomento: «Chi è che mi ha dato del razzista? Se scrivete tutte le cazzate che dico, non smettete più di scrivere. Io non mi devo mica discolpare di una cosa alla quale non credo. La cosa tragica sapete qual è? È che non sapete più che caz.. scrivere». Infine: «Se chiarisco faccio ancora più danni. Le persone perbene mi conoscono». E comunque Cellino si consoli: è solo l’ultimo di una lunga lista di esternazioni razziste che sono arrivate dai protagonisti del calcio italiano.

PASSIRANI E LE BANANE DA LANCIARE A LUKAKU

Luciano Passirani, ex dirigente di diversi club calcistici e opinionista nelle tivù locali, il 16 settembre 2019 parlando del centravanti dell’Inter Romelu Lukaku aveva detto: «Questo ti trascina la squadra. Questo nell’uno contro uno ti uccide, se gli vai contro cadi per terra. O c’hai 10 banane qui per mangiare che gliele dai, altrimenti…». Telelombardia ha deciso di non invitarlo più alle sue trasmissioni.

TAVECCHIO E IL FAMIGERATO OPTI POBÀ

Restando alla frutta, l’esternazione più famigerata è quella di Carlo Tavecchio del 2014: «L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Pobà (nome inventato, ndr) è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio». Concetto che non gli impedì di diventare presidente della Federazione italiana giuoco calcio.

LOTITO E I BIANCHI CON LA PELLE «NORMALE»

La Lazio un presidente vero e non inventato ce l’ha, si chiama Claudio Lotito e il 2 ottobre 2019 ha parlato di razzismo dicendo che «non sempre la vocazione “buuu” corrisponde effettivamente a un atto discriminatorio razzista» perché tra le vittime ci sono anche «persone di non colore, che avevano la pelle normale, bianca, e non di colore».

LE CALCIATRICI «LESBICHE» E «HANDICAPPATE»

Parentesi femminile, nel senso delle vittime delle offese. L’ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Felice Belloli, nel 2015 definì le giocatrici di calcio «queste quattro lesbiche», secondo quanto riportò il verbale di una riunione. Fu inibito per quattro mesi. Il già citato Tavecchio invece nel 2014, in un’intervista a Report, parlò così del movimento: «Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l’aspetto della resistenza, del tempo, dell’espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili».

MALAGÒ E I SIMULATORI PEGGIO DEI RAZZISTI

Tornando al razzismo, il 25 settembre 2019 il presidente del Coni Giovanni Malagò ha detto che «è sbagliato se qualcuno fa “buuu” a un giocatore di colore, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna 3 milioni di euro si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere un calcio di rigore». Poi si è corretto: «Non dico che il comportamento di chi simula sia peggiore di chi fa cori razzisti, ma ogni attore protagonista deve fare la sua parte nel modo eticamente migliore». Compreso il presidente del Coni.

malagò coni sport e salute sabelli
Giovanni Malagò. (Ansa)

SACCHI E L’ORGOGLIO ITALIANO ANTI-STRANIERI

Arrigo Sacchi, ex commissario della Nazionale e storico allenatore del Milan, nel 2015 dichiarò: «Io mi vergogno di essere italiano. Per avere successo siamo disposti a vendere l’anima al diavolo. Non abbiamo una dignità, non abbiamo un orgoglio italiano. Ci sono squadre con 15 stranieri. Oggi vedevo il torneo di Viareggio: io non sono un razzista, ho avuto Rijkaard, ma vedere così tanti giocatori di colore, vedere così tanti stranieri, è un’offesa per il calcio italiano».

ERANIO E I NERI NON CONCENTRATI QUANDO C’È DA PENSARE

Sacchi in rossonero incrociò Stefano Eranio, ex centrocampista. Una volta diventato commentatore televisivo, nel 2015 ai microfoni della tivù svizzera Rsi Eranio spiegò che «i giocatori di colore, quando sono sulla linea difensiva, spesso certi errori li fanno perché non sono concentrati. Sono potenti fisicamente però, quando c’è da pensare, spesso e volentieri fanno questi errori». Parlava dell’allora difensore della Roma Antonio Rüdiger. Fu licenziato.

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Cellino su Balotelli: «È nero, sta lavorando per schiarirsi»

Le parole – che definire infelici è dire poco – del presidente del Brescia sulla situazione dell’attacante.

Cosa succede con Mario Balotelli? «Che è nero, cosa devo dire, che sta lavorando per schiarirsi però c’ha molte difficoltà». È iniziata con questa frase – che definire infelice è un eufemismo – l’analisi fatta dal presidente del Brescia, Massimo Cellino, sulla situazione dell’attaccante. Al suo arrivo nella sede della Lega Serie A, Cellino ha poi aggiunto: «È successo che nel calcio ci sono squadre che combattono e vincono, se noi pensiamo che un giocatore da solo possa vincere la partita, offendiamo la squadra e il gioco del calcio».

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La Juventus tenta l’allungo, l’Inter tiene il passo

Negli anticipi di Serie A, bianconeri e nerazzurri vincenti con Atalanta e Torino. Mentre tra Milan e Napoli finisce 1-1.

La Juventus batte l’Atalanta e tenta l’allungo subito rintuzzato dall’Inter, dilagante in casa del Torino. Mentre la sfida tra le due malate illustri della Serie A, Napoli e Milan, finisce con un pareggio che serve a poco a entrambe.

HIGUAIN E DYBALA RIBALTANO L’ATALANTA

Nel sabato di anticipi di prestigio di questa 13esima giornata di Serie A, le prime big a scendere in campo sono Atalanta e Juventus, a Bergamo. Nerazzurri avanti con il gol di Robin Gosens su assist di Musa Barrow, che in precedenza aveva fallito un rigore. Nell’ultimo qarto d’ora la reazione della Juventus – orfana di un acciaccato Cristiano Ronaldo -, con la doppietta di Gonzalo Higuain (il secondo gol è viziato da un fallo di mano di Juan Cuadrado) e la rete del definitivo 1-3 di Paulo Dybala.

BONAVENTURA RIACCIUFFA IL NAPOLI

Nel match delle 18, a San Siro il Napoli del grande ex Carlo Ancelotti va avanti sul Milan con il gol di Hirving Lozano, che raccoglie la conclusione di Lorenzo Insigne sbattuta sulla traversa. Il vantaggio dei partenopei dura pochi minuti: il pareggio, con un gran destro, è firmato Giacomo Bonaventura, al gol dopo oltre 400 giorni segnati da una lunga sequela di infortuni.

LAUTARO E LUKAKU LANCIANO L’INTER

Nel match serale, l’Inter sbanca il campo del Torino grazie ai gol di Lautaro Martinez, Stefan De Vrij e Romelu Lukaku. Con questi risultati, la Juventus resta in vetta (35 punti) alla classifica con una lunghezza di vantaggio sull’Inter. Il Napoli, a 20 punti, rischia di vedersi allontanare ulteriormente la zona Champions, ora a 4 lunghezze, mentre il Milan resta impaludato nelle zone medio-basse della classifica, a 14 punti, cinque sopra la zona retrocessione.

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Le super multe di De Laurentiis per i “ribelli” del Napoli

In arrivo le raccomandate con le sanzioni per i giocatori che si sono ammutinati al termine del match col Salisburgo. Insigne e compagni dovranno riconoscere al club una cifra sui 2,5 milioni di euro.

Ha vinto la linea dura, quella del presidente Aurelio De Laurentiis. I giocatori del Napoli protagonisti dell’ammutinamento dopo il match di Champions League col Salisburgo pagheranno a caro prezzo la loro ribellione. Secondo quanto riportato dal Corriere dello Sport, le raccomandate con le multe per i calciatori partiranno lunedì 25 novembre.

IN ARRIVO SANZIONI TRA IL 25% E IL 50% DELLO STIPENDIO LORDO

Secondo la strategia messa a punto dal numero uno partenopeo e dagli avvocati della società, sono in arrivo sanzioni che oscilleranno fra il 25 e il 50% lordo dello stipendio mensile. Sanzioni diversificate per poter “tarare” la multa secondo responsabilità singole. Sempre stando alla ricostruzione del Corsport fra danni d’immagine e danni morali Insigne e compagni dovranno riconoscere al club una cifra che si aggira sui 2,5 milioni di euro, soldi che verranno detratti dalle buste paga del mese corrente.

ALCUNI CALCIATORI PRONTI A RIVOLGERSI AL COLLEGIO ARBITRALE

Alcuni calciatori si sarebbero già consultati e sarebbero pronti a rivolgersi, dopo l’arrivo delle raccomandate, al giudizio del collegio arbitrale. Altri come Allan starebbero provando a ricucire la frattura, porgendo le proprie scuse a Edoardo De Laurentiis e dimostrando voglia di ripartire. Di sicuro c’è che Aurelio De Laurentiis è irremovibile e non intende fare retromarce .

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Le super multe di De Laurentiis per i “ribelli” del Napoli

In arrivo le raccomandate con le sanzioni per i giocatori che si sono ammutinati al termine del match col Salisburgo. Insigne e compagni dovranno riconoscere al club una cifra sui 2,5 milioni di euro.

Ha vinto la linea dura, quella del presidente Aurelio De Laurentiis. I giocatori del Napoli protagonisti dell’ammutinamento dopo il match di Champions League col Salisburgo pagheranno a caro prezzo la loro ribellione. Secondo quanto riportato dal Corriere dello Sport, le raccomandate con le multe per i calciatori partiranno lunedì 25 novembre.

IN ARRIVO SANZIONI TRA IL 25% E IL 50% DELLO STIPENDIO LORDO

Secondo la strategia messa a punto dal numero uno partenopeo e dagli avvocati della società, sono in arrivo sanzioni che oscilleranno fra il 25 e il 50% lordo dello stipendio mensile. Sanzioni diversificate per poter “tarare” la multa secondo responsabilità singole. Sempre stando alla ricostruzione del Corsport fra danni d’immagine e danni morali Insigne e compagni dovranno riconoscere al club una cifra che si aggira sui 2,5 milioni di euro, soldi che verranno detratti dalle buste paga del mese corrente.

ALCUNI CALCIATORI PRONTI A RIVOLGERSI AL COLLEGIO ARBITRALE

Alcuni calciatori si sarebbero già consultati e sarebbero pronti a rivolgersi, dopo l’arrivo delle raccomandate, al giudizio del collegio arbitrale. Altri come Allan starebbero provando a ricucire la frattura, porgendo le proprie scuse a Edoardo De Laurentiis e dimostrando voglia di ripartire. Di sicuro c’è che Aurelio De Laurentiis è irremovibile e non intende fare retromarce .

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Per Mario Balotelli è stata una giornata da dimenticare

L’attaccante allontanato dall’allenamento dopo essere stato ripreso dal tecnico Grosso per lo scarso impegno. E poco dopo la Corte Figc sospende la chiusura della curva del Verona per i cori contro di lui.

Giornata da dimenticare in fretta, quella del 21 novembre, per Mario Balotelli. L’attaccante del Brescia è stato prima allontanato dal centro tecnico delle Rondinelle dopo essere stato redarguito per il mancato impegno dall’allenatore Fabio Grosso. Poi, seppure indirettamente, è stato protagonista della decisione della Corte d’Appello della Figc, che ha disposto la sospensione della chiusura del settore Poltrone est dello stadio Bentegodi di Verona, decisa dal giudice sportivo per cori razzisti proprio contro Super Mario.

VIA DAL CENTRO TECNICO DEL BRESCIA A TESTA BASSA

Dopo essere stato ripreso da Grosso, Balotelli a testa bassa si è diretto verso gli spogliatoi, da dove poco dopo è uscito per lasciare in auto il centro sportivo di Torbole Casaglia. Il tutto mentre la seduta era ancora in corso. Sul fronte della giustizia sportiva, invece, la Corte ha ritenuto necessario un supplemento istruttorio «per individuare con esattezza il settore di provenienza dei cori di discriminazione razziale nonché la loro percezione e dimensione» e ha invitato la procura federale a «espletarli entro il termine di 20 giorni per consentire di definire il procedimento nei tempi normalmente previsti».

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Il Tottenham è l’ultima occasione di José Mourinho

Quello tra lo Special One e gli Spurs è un matrimonio disseminato di incognite. Prima fra tutte, la capacità dell’allenatore portoghese di ergersi a guru di una squadra da risollevare. Pena la condanna a un inesorabile declino.

Stavolta è davvero l’ultima chiamata. José Mourinho lo sa e dopo un anno di inattività non poteva dire no al Tottenham. Pazienza se ha dovuto tradire (ancora una volta) la fiducia e l’amore dei suoi ex tifosi. Nel 2015 disse «mai agli Spurs per rispetto del Chelsea», quattro anni dopo si dice entusiasta di poter allenare un club con la storia e la tifoseria del Tottenham. Incoerenze che sono regola nel mondo del calcio e stupiscono relativamente. Così come sorprende poco che un club in caduta libera dopo aver raggiunto l’apice della sua storia con la finale di Champions League conquistata un anno fa abbia pensato a lui. Eppure che questo matrimonio funzioni è ancora tutto da vedere.

Mourinho non allena da un anno, da quando fu esonerato dal Manchester United dopo la sonora sconfitta per 3-1 contro il Liverpool. Per molti fu il segnale del declino del tecnico portoghese, non più Special One ma normalissimo, ingrigito e intristito come la sua proposta di calcio. Mourinho ha 56 anni, ha vinto 25 trofei, è stato campione nazionale in quattro campionati diversi, ha sollevato due volte la Champions League. Ma l’ultima coppa che si è portato a casa risale al 2017, negli ultimi due anni tutto ciò che ha ottenuto è stato un secondo posto a 19 punti dal Manchester City e un esonero, ha passato gli ultimi mesi a fare l’opinionista strapagato per Bein Sports, e anche lì non è che ci abbia preso più di tanto.

NON MOLTO SPECIAL ANCHE COME COMMENTATORE

L’estate scorsa profetizzava il Tottenham tra le quattro favorite per la vittoria del titolo con Liverpool, Manchester City e Manchester City B. Le due finaliste di Champions League e la squadra che l’anno scorso ha fatto treble, non proprio il più coraggioso e audace dei pronostici. Peraltro sostanzialmente sbagliato, dal momento che il City è lontano nove punti dalla vetta e il Tottenham è 14esimo. Perlomeno Mourinho non potrà lamentarsi del valore di una squadra che lui stesso riteneva essere tra le più forti d’Inghilterra, non potrà trincerarsi dietro l’alibi di una rosa inadeguata, non potrà replicare le perplessità di Mauricio Pochettino, che già dopo la finale di Champions League persa col Liverpool si era mostrato decisamente critico con una dirigenza poco propensa a spendere sul mercato. Quest’anno il Tottenham ha investito 114 milioni per ingaggiare Ndombélé, Sessegnon, Lo Celso e Clarke, ma l’anno scorso restò completamente inattiva.

Mauricio Pochettino e José Mourinho, vecchio e nuovo allenatore del Tottenham.

Mourinho, per contro, è uno che di soldi ne ha sempre fatti spendere tanti, soprattutto nell’ultima parte della sua carriera al Manchester United. Stavolta dovrà lavorare diversamente e non è così scontato che ci riesca. L’immagine che abbiamo di lui, ormai, è quella di un uomo chiuso in se stesso e nella sua autoreferenzialità, incastratosi nell’idea di dimostrare al mondo che non è vero che si vince giocando bene al calcio, ma che giocare male, volontariamente male, è la via giusta per conquistare trofei. Più realista del re, più integralista di Pep Guardiola, il grande rivale che sembrava non voler cedere mezzo centimetro sui suoi principi calcistici, Mourinho si è fermato mentre il resto del mondo (e della Premier in primis) andava avanti. Reazionario travolto da una rivoluzione, dovrà ora dimostrare di poter cavalcare anche lui l’onda o, in alternativa, imporre la sua personalissima versione calcistica del Congresso di Vienna, una restaurazione contro tutto e contro tutti, che passi ancora una volta dai nodi fondamentali del suo calcio.

UN TEST PER IL GURU PRIMA CHE PER L’ALLENATORE

La solidità difensiva, il cinismo, l’efficacia in contropiede, la cattiveria agonistica, la provocazione in campo e fuori dal rettangolo di gioco. E poi, soprattutto, la compattezza della squadra intorno al suo unico leader. Pochettino aveva completamente perso la fiducia dei suoi giocatori, fare meglio di lui non sarà difficile. Più complesso sarà tornare a esercitare quello charme da guru che permise a Mourinho di trasformare in grande squadra il Porto, di convincere Samuel Eto’o a fare il terzino, di allontanare il Real Madrid dalla sua storia e filosofia trasformandolo in una banda di briganti brutti, sporchi e cattivi costantemente disposti al fallo sistematico e alla protesta compulsiva. Quello che bisogna capire realmente è se Mourinho abbia davvero ancora questa capacità di trascinare un gruppo. Da lì passerà la chiave del suo successo o del suo fallimento. E se non dovesse farcela stavolta, per Mou sarà difficile risollevarsi e levarsi di dosso quell’etichetta di bollito che qualcuno ha già cominciato ad appiccicargli.

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Perché si parla dell’ingresso di nuovi soci nell’As Roma

La società di Trigoria ha confermato che sono in corso dei contatti per l’ingresso di nuovi soci, tra questi la possibile partecipazione del magnate Dan Friedkin.

L’assetto societario dell’As Roma potrebbe cambiare d nuovo. A confermarlo la stessa società giallorossa: «Sono in corso dei contatti preliminari con potenziali investitori al fine di permettere loro di valutare l’opportunità di un possibile investimento in a.s. ROMA Spv Llc», si legge in una nota pubblicata su richiesta della Consob, in riferimento ad alcune indiscrezioni apparse su alcuni quotidiani in relazione ad una possibile acquisizione delle partecipazioni di A.S. Roma S.p.A. da parte dello statunitense Dan Friedkin.

CONFERMATI I CONTATTI PER NUOVI INVESTITORI

«Su richiesta di Consob», ha informato il club di Trigoria, «con riferimento ad alcune indiscrezioni apparse in data odierna sugli organi di stampa in relazione ad una possibile acquisizione delle partecipazioni di A.S. Roma S.p.A. da parte di potenziali investitori, AS ROMA SPV LLC, società che detiene il controllo indiretto di A.S. ROMA S.p.A. tramite la sua controllata NEEP ROMA HOLDING S.p.A, informa che sono in corso dei contatti preliminari con potenziali investitori al fine di permettere loro di valutare l’opportunità di un possibile investimento in AS ROMA SPV LLC». «In caso di perfezionamento di accordi aventi ad oggetto il trasferimento delle partecipazioni detenute in A.S. Roma S.p.A., AS ROMA SPV LLC fornirà adeguata informativa al Mercato nei termini di legge».

E LA SOCIETÀ VOLA IN BORSA: +16,6%

Intanto per tutto il giorno il titolo in borsa ha fatto segnare rialzi da record. Il titolo, dopo una lunga sospensione in asta di volatilità, ha chiuso in rialzo del 16,6% a 0,59 euro.

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Mourinho al Tottenham e quel tradimento ai tifosi del Chelsea

Il tecnico portoghese prende il posto di Pochettino sulla panchina degli Spurs. A un anno di distanza dal licenziamento da parte dello Utd. Ma dall’Inghilterra riemergono le parole del 2015. Quando disse:«Mai con loro».

«Il Tottenham? Non potrei mai accettare di sedere su quella panchina, per rispetto verso i tifosi del Chelsea». Era il 2015 quando José Mourinho non ammetteva repliche di fronte all’opportunità di diventare, un giorno, la guida tecnica degli Spurs. Quel giorno è arrivato, col tecnico portoghese che il 20 novembre ha ufficialmente raccolto l’eredità di Mauricio Pichettino, licenziato appena 24 ore prima dal presidente Daniel Levy.

UNA GIRAVOLTA SULLA SCIA DI ALTRI GRANDI MISTER

Nulla di clamoroso, se si pensa che Mou è in buona compagna quando si parla di allenatori che hanno fatto il salto della staccionata, dopo aver promesso che mai avrebbero convolato a nozze col nemico. Basti pensare a Fabio Capello e al suo sbarco alla Juventus dopo aver giurato ai tifosi romanisti che mai sarebbe finito ad allenare gli odiati rivali. O a Sinisa Mihajlovic, che nel 2010 si spinse a dire che non sarebbe mai andato al Milan, sentendosi interista, salvo poi tornare sui suoi passi.

ANCORA PIÙ ODIATO DAI TIFOSI DEL CHELSEA

Resta da vedere come la prenderanno dalle parti di Stamford Bridge, dove i tifosi del Chelsea già mal digerirono l’approdo, poi rivelatosi fallimentare, al Manchester United. Nel 2015, di fronte alle domande dei cronisti, Mourinho lasciò intendere come un primo tentativo da parte del Tottenham per ottenere i suoi servigi fosse già andato in scena nel 2007, al tempo della sua prima avventura in Blues. Licenziato dallo United un anno fa, lo Special One riprende ora da Londra una carriera che l’ha visto sempre in prima fila, nel bene e nel male, da vincitore (quattro campionati in altrettanti Paesi, due Champions League con due squadre diverse e varie altre coppe) o al centro di aspre polemiche. Di recente, parlando del suo futuro, aveva detto: «Ho ancora 20 anni come allenatore, poi chiuderò sulla panchina del Portogallo». E che la voglia di tornare in pista fosse tanta non aveva esitato ad ammetterlo, solo pochi mesi fa: «Ho il fuoco dentro, il campo mi manca».

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Mihajlovic dimesso dall’ospedale dopo il terzo ciclo di cure

L’allenatore del Bologna è alle prese con la leucemia. Ad attenderlo fuori dal reparto di ematologia dell’Ospedale Sant’Orsola c’era la moglie.

Di solito la parola “dimissioni” associata a un allenatore non ha mai un’accezione positiva. Per Sinisa Mihajlovic sì: perché si intendono quelle dall’ospedale dove era ricoverato per curarsi dalla leucemia. Il tecnico del Bologna ha terminato il terzo ciclo della terapia.

TRE FOTO CON LA MOGLIE ALL’USCITA

Ad annunciarlo, attraverso Instagram, è stata la moglie Arianna, che intorno alle 13 ha pubblicato tre foto che la ritraevano abbracciata al marito all’uscita del padiglione 8 di ematologia del Sant’Orsola di Bologna. «Più bella cosa non c’è. Back Home», è stato il messaggio allegato alle immagini che annunciava il ritorno a casa del serbo.

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Il botta e risposta tra Salvini e Suso sui social network

Il leader della Lega: «Speriamo che Babbo Natale ti porti un po’ di grinta». La replica dell’attaccante del Milan: «A te la voglia di amministrare meglio».

Gli auguri di compleanno (polemici) di Matteo Salvini non li ha proprio digeriti. Suso, attaccante spagnolo del Milan che il 19 novembre ha compiuto 26 anni, ha risposto senza peli sulla lingua al leader della Lega, che sull’account Instagram del club rossonero gli aveva scritto: «Auguri! Nella speranza che Babbo Natale ti porti un po’ di velocità, di grinta e di voglia di giocare».

Ecco la replica del giocatore: «Grazie. Nella speranza che Babbo Natale ti porti un po’ di velocità, di grinta e di voglia di amministrare meglio, molto meglio, un Paese che amo».

IL LEGHISTA SI SCONTRÒ ANCHE CON GATTUSO

Non è la prima volta che Salvini, tifoso del Milan, mette becco pubblicamente nelle vicende della sua squadra del cuore, ricavandone ulteriore visibilità. Tutti ricordano il duro scambio di battute con Gennaro Gattuso nel 2018.

VECCHIE FRECCIATINE SUI CAMBI

Il leghista, in tribuna all’Olimpico per assistere a Lazio-Milan, aveva lanciato una frecciatina all’allora tecnico rossonero: «Fossi stato in lui avrei fatto qualche cambio, i giocatori erano stanchi, non capisco per quale motivo non abbia cambiato qualcosa nel secondo tempo. Comunque va bene così».

L’ALLENATORE: «PENSI ALLA POLITICA»

E Gattuso di rimando: «Salvini si lamenta perché non ho fatto cambi? Sentite, io non parlo di politica perché non capisco nulla. A lui dico di pensare alla politica perché con tutti i problemi che abbiamo nel nostro Paese, se il vicepremier parla di calcio significa che siamo messi male».

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Miccichè verso le dimissioni da presidente della Lega Serie A

Secondo un’anticipazione di Dagospia, il dirigente avrebbe deciso di lasciare in seguito alla chiusura delle indagini sulla sua elezione.

Il presidente della Lega di Serie A Gaetano Micciché sarebbe pronto a rassegnare le dimissioni. La decisione sarebbe stata presa in seguito alla chiusura delle indagini della Procura della Figc sulla sua elezione. Miccichè fu eletto il 19 marzo del 2018 al vertice della Lega Serie A, che era reduce da un doppio commissariamento, prima con Carlo Tavecchio e poi col presidente del Coni, Giovanni Malagò. Proprio quest’ultimo aveva risolto l’impasse indicando alle venti società il nome del banchiere, presidente di Banca Imi, e membro del cda di Rcs.

L’ELEZIONE PER ACCLAMAZIONE

Anziché la maggioranza qualificata a scrutinio segreto, Miccichè aveva bisogno dell’unanimità per essere eletto, come prevede lo statuto per evitare il conflitto di interessi di chi ha ricoperto incarichi in istituzioni private di rilevanza nazionale in rapporto con i club o loro gruppi di appartenenza. Lo scrutinio segreto fu accompagnato dalle dichiarazioni pubbliche di voto (tutte a favore di Miccichè), per insistenza in particolare dell’ad della Roma, Mauro Baldissoni, e del presidente della Juventus, Andrea Agnelli. Miccichè fu quindi eletto per acclamazione e non furono scrutinate le schede, che sono tuttora custodite nell’urna elettorale sigillata.

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Miccichè verso le dimissioni da presidente della Lega Serie A

Secondo un’anticipazione di Dagospia, il dirigente avrebbe deciso di lasciare in seguito alla chiusura delle indagini sulla sua elezione.

Il presidente della Lega di Serie A Gaetano Micciché sarebbe pronto a rassegnare le dimissioni. La decisione sarebbe stata presa in seguito alla chiusura delle indagini della Procura della Figc sulla sua elezione. Miccichè fu eletto il 19 marzo del 2018 al vertice della Lega Serie A, che era reduce da un doppio commissariamento, prima con Carlo Tavecchio e poi col presidente del Coni, Giovanni Malagò. Proprio quest’ultimo aveva risolto l’impasse indicando alle venti società il nome del banchiere, presidente di Banca Imi, e membro del cda di Rcs.

L’ELEZIONE PER ACCLAMAZIONE

Anziché la maggioranza qualificata a scrutinio segreto, Miccichè aveva bisogno dell’unanimità per essere eletto, come prevede lo statuto per evitare il conflitto di interessi di chi ha ricoperto incarichi in istituzioni private di rilevanza nazionale in rapporto con i club o loro gruppi di appartenenza. Lo scrutinio segreto fu accompagnato dalle dichiarazioni pubbliche di voto (tutte a favore di Miccichè), per insistenza in particolare dell’ad della Roma, Mauro Baldissoni, e del presidente della Juventus, Andrea Agnelli. Miccichè fu quindi eletto per acclamazione e non furono scrutinate le schede, che sono tuttora custodite nell’urna elettorale sigillata.

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L’Italia distrugge l’Armenia: a Palermo finisce 9-1

Sensazionale vittoria degli Azzurri nell’ultimo match del girone: a Palermo a segno due volte Immobile e Zaniolo. Completano il trionfo Barella, Romagnoli, Jorginho su rigore, Orsolini e Chiesa. Sono 10 successi su 10 nel girone.

Un’Italia mai vista prima inanella un record dopo e nell’ultimo match di qualificazione a Euro 2020 asfalta l’Armenia con un risultato mai visto in epoca moderna dalle nostre parti. A Palermo finisce 9-1 per gli Azzurri che, sicuri della qualificazione già da due turni, hanno addirittura innalzato il livello del loro gioco, sbarazzandosi agevolmente prima della Bosnia e poi dei malaugurati armeni, sommersi di reti allo stadio Renzo Barbera. Nella sua storia l’Italia aveva segnato nove gol in un singolo match soltanto in altre due occasioni, nel 1920 contro la Francia (9-4) e nel 1948 con gli Usa.

UNA DOPPIETTA CIASCUNO PER IMMOBILE E ZANIOLO

A firmare la decima vittoria su 10 incontri nel girone di qualificazione (anche questa una prima volta assoluta) sono stati Ciro Immobile e Nicolò Zaniolo con una doppietta ciascuno e, nell”ordine, Nicolò Barella, Alessio Romagnoli, Jorginho su calcio di rigore, Riccardo Orsolini e Federico Chiesa, entrambi alla prima rete in azzurro, col primo al debutto assoluto. Un risultato roboante che completa un percorso netto e forse irripetibile per il commissario tecnico Roberto Mancini. E che lascia ben sperare in vista dell’Europeo dell’anno prossimo.

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