Berlusconi tra canzoni denuncia, parodie e inni politici

Silvio Berlusconi è morto. Si dirà che con lui è morta un’epoca, come a voler dimenticare le tante ombre che lo hanno accompagnato in questi suoi 86 anni di transito terrestre, per dirla col maestro Battiato. Quel che è certo che almeno per gli anni nei quali il suo essere sul pianeta Terra ha coinciso anche con l’essere un leader politico, diciamo gli ultimi 30 anni, Silvio Berlusconi non è stato solo un tycoon visionario baciato dal plauso del pubblico votante – lui che si era già tolti parecchi sfizi in ambito imprenditoriale da Fininvest a Mediaset, passando per il Milan e la Mondadori – ma anche uno dei protagonisti indiscussi della cultura popolare, oggetto di imitazioni, parodie, attacchi più o meno feroci dentro i libri, i film, le canzoni.

Berlusconi tra canzoni denuncia, parodie e inni politici
Silvio Berlusconi nel 2010 (Getty Images).

Berlusconi oggetto di film e imitazioni grottesche

E se pensando a personaggi anche popolarissimi come Maurizio Crozza o Sabina Guzzanti è quasi naturale vederseli nei panni del Cavaliere, i suoi tic e le sue caratteristiche rese grottesche ma al tempo stesso simpatiche, se pensando a giornalisti e scrittori come Marco Travaglio o Gianni Barbacetto vien quasi impossibile non associare i loro nomi a quelli di Berlusconi, trattato e ritrattato in così tante loro opere, se anche pensando a un maestro del cinema come Nanni Moretti, volendo anche un premio Oscar come Paolo Sorrentino, risulta difficile non correre col pensiero a opere quali Aprile e Il Caimano, nel caso del regista e attore romano, Loro, parte uno e due, nel caso del regista partenopeo, è indubbio che il mondo della canzone, specie quello militante, che un tempo si sarebbe indicato come quello dei centri sociali, abbia dedicato tante canzoni e quindi tante energie a provare a contrastare quello che appariva, a ragione, come uno strapotere non solo politico, ma anche mediatico.

Ovviamente, parlando di canzoni, c’è chi ha usato la linea retta, colpendo in maniera forse anche troppo chiara colui che riconosceva come il proprio nemico. Penso a parte della produzione di artisti quali la Banda Bassotti, con brani quali Una storia italiana, che rifaceva il verso al libricino mandato nelle case di tutti gli italiani, o i Modena City Ramblers che con la loro El Presidente riprendevano invece alla famosa campagna “un presidente operaio”, nella quale Berlusconi si presentava interpretando tutta una serie di lavori umili, che mai aveva praticato in vita sua.

La critica poetica di Silvestri e Battiato

E chi invece, penso proprio al Daniele Silvestri del brano Il mio nemico, o al Franco Battiato di Inneres Auge, ha scelto la via della poesia, tratteggiando un uomo di potere. L’incipit del brano del maestro siciliano è in questo da antologia con quel «Uno dice, che male c’è a organizzare feste private con belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti, e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti», andando a colpire altrettanto a fondo, seppur richiedendo all’ascoltatore un minimo sforzo interpretativo.

Devi andartene, l’invito di Paola Turci poi convolata a nozze con l’ex del Cav Pascale

La lista continua con AAA Cercasi di Carmen Consoli, che parla di un 80enne miliardario affascinante che cerca cagne di strada per offrire loro un’opportunità di vita, sorta di metafora neanche troppo metaforica di quanto per anni si è imputato a Berlusconi, dal bunga bunga in poi e Devi andartene di Paola Turci, ironicamente poi convolata a nozze con l’ex di Berlusconi Francesca Pascale, nella quale si parla di un satrapo sempre indaffarato tra donnine e lusso. Passando per brani più tipicamente figli dei nostri tempi, come Swag Berlusconi del guascone Bello Figo, nel quale il rapper di Pasta con tonno si vanta di scopare parecchio perché le ragazze pensano che lui sia il presidente; Penisola che non c’è di Fedez, dove i riferimenti al Cavaliere sono diretti e troppi da essere riportati, arrivando a un vero gioiello come Legalize the premier, che vede un ispirato Caparezza, in compagnia del rasta Alborosie, ipotizzare un mondo nel quale il capo politico del centro-destra invece che legalizzare le droghe leggere legalizzi se stesso, una sorta di esplosione del fenomeno delle leggi ad personam che ha decisamente accompagnato tutta la carriera di Berlusconi, da ancora prima della sua discesa in campo fino a quando è rimasto sulla cresta dell’onda. Discorso a parte meriterebbe Il sosia di Antonello Venditti, cantautore romano che con Berlusconi ha avuto sempre un rapporto fatto di frecciatine neanche troppo velate. Nella canzone in questione, forse non conoscendo un fatto realmente avvenuto, l’autore di Roma capoccia ipotizza un premier che sia di sinistra e tifoso sfegatato dell’Inter, facendo chiaramente riferimento alla lunga storia che Berlusconi ha avuto col Milan, anche se, è noto, l’acquisto dei rossoneri da parte del tycoon è avvenuto perché non fu possibile acquistare l’Inter, squadra per la quale il Cavaliere ha sempre tifato sin da piccolo.

Caro Berlusconi di Malgioglio e Meno male che Silvio c’è di Andrea Vantini: letterine e inni

Per chiudere questa veloce carrellata, sicuramente non esaustiva – e che comunque potrebbe comprendere anche alcune delle canzoni che lo stesso Berlusconi, con un passato da cantante nelle navi da crociera e da contrabbassista nella stessa orchestrina nella quale suonava anche il suo antico sodale Fedele Confalonieri, recentemente autore per Michele Apicella quando ormai da tempo era sceso in campo – non si possono non citare brani come Caro Berlusconi, a firma Cristiano Malgioglio, il quale, riprendendo una sua vecchia canzone degli Anni 80, Caro direttore, scrive una lettera immaginaria al premier, chiedendo una spintarella a colui che di spintarelle, negli anni, ne ha dispensate decisamente tante, o Meno male che Silvio c’è che Andrea Vantini scrisse per il Cav nel 2010, quando la morsa della magistratura cominciava a chiudersi intorno a lui. Brano entrato nell’immaginario comune, non certo senza alcune ironie, e divenuto inno delle convention del Popolo delle Libertà, prima, e di Forza Italia, poi, e anche di tante gag e tanti meme che hanno avuto Berlusconi come protagonista. Anche questo, in fondo, è il segno di una pervasività che nessun altro politico italiano può a oggi vantare.

 

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok

Il curioso caso di Annalisa Scarrone. Un pezzo leggero su l’artista che in questo momento sta letteralmente impazzando con la hit Mon amour, dopo aver letteralmente impazzato con Bellissima si potrebbe serenamente intitolare così. Facendo riferimento al film di David Fincher con Brad Pitt, dove si narra la storia di Benjamin Button, uomo che invece di invecchiare ringiovanisce, ribaltando il normale corso delle cose.

Ormai si muove sulle scene da diversi anni: Amici, 2010

Annalisa Scarrone, per tutti semplicemente Annalisa, per i suoi tanti fa addirittura solo Nali, è un’artista che ormai si muove sulle scene da diversi anni: il suo passaggio per la scuola e quindi il programma di Amici di Maria De Filippi, nel 2010, fu il primo momento davvero rilevante. Un secondo posto che proprio in questi giorni è tornato di attualità quando un tweet di colui che quell’edizione, la decima, la vinse, Virginio – tweet nel quale sottolineava il ruolo dell’artista, evidenziando come a suo dire l’arte non fosse solo divertimento -, è da molti stato interpretato come un attacco proprio a lei, nel mentre lì a giocare, letteralmente e letterariamente, con un brano riempipista, si sarebbe detto un tempo, come Mon Amour, solo in apparenza partito come una Bellissima in scala ridotta e invece hit capace, se possibile, di far meglio di quanto già non abbia fatto la precedente.

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok
Annalisa detta Nali. (Getty)

Una bellezza elegante che ha a lungo relegato in secondo piano

Un secondo posto che però l’ha vista subito sbocciare, la sua canzone amiciana, Diamante lei e luce lui, a imporsi come una hit, dando il via a una carriera che la vedrà faticare un po’ a trovare una propria cifra precisa, lei con una voce importante, intonata come pochissime colleghe, anche dotata di una bellezza elegante che ha a lungo relegato in secondo piano, Benjamin Button, appunto, che punta su una classicità forse a lei poco contemporanea. Tanti i passaggi a Sanremo senza mai una vittoria – la posizione più alta nel 2018 -, un terzo posto più che meritato con il brano Il mondo prima di te, Annalisa è riconosciuta come talento ma alla costante ricerca di un repertorio che potesse in qualche modo farla esplodere. Una voce talmente pulita, la sua, e usata con gran stile, da farla forse risultare a tratti algida, tanto che quando nel 2015, in seguito a un altro passaggio sanremese, arriva l’album Se avessi un cuore, qualcuno ha pensato si trattasse di una una prima persona singolare, non di una seconda.

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Laurea in Fisica per poter poi provare a fare i conti con la musica

Poi la vita tende a dimostrarci sempre come le cose, a volte, arrivino quasi per caso, quando meno te lo aspetti, e lei che aveva esordito anche incidendo una versione strepitosa di Mi sei scoppiata dentro il cuore di Mina, classica quando sarebbe potuta assolutamente essere sbarazzina, quella laurea in Fisica ottenuta per poter poi provare a fare i conti con la musica a tenerla un po’ legata, ecco che quella famosa cifra comincia a farsi più nitida, grazie a un alleggerimento della stiva, direbbero dalle parti in cui è nata, Savona, o in una qualsiasi città di mare. Conscia di non dover necessariamente dimostrare sempre e comunque chi è e cosa sa fare, infatti, Annalisa ha cominciato a ringiovanirsi, iniziando a collaborare su canzoni in apparenza troppo leggere, in realtà semplicemente ottime per intrattenere – la musica è anche questo, mica solo esistenzialismo spinto -, e facendolo sempre come una spada.

Il brano della svolta leggera, Avocado toast

Ecco quindi i duetti con Benji e Fede, Tutto per una ragione, ecco quello che oggi potremmo leggere come il suo brano della svolta, Avocado toast, il primo di una serie di canzoni atte a alleggerirla, appunto, e soprattutto a mostrarcela per quello che è, una giovane donna che vive nel mondo di oggi, ecco altre collaborazioni, come quelle con Mr Rain, con J-Ax, rispettivamente con Un domani, a nome suo, e Supercalifragili, del rapper milanese, ecco Tropicana, tormentone dell’estate 2022 con i Boomdabash, giusto il tempo di arrivare in autunno e pubblicare quella Bellissima che ancora oggi imperversa su Spotify e sui social.

L’album Nuda ha indicato una presa di coscienza

Chiaramente questa è una carrellata veloce, perché fossimo andati con calma avremmo dovuto specificare come l’album Nuda, di settembre 2020, abbia segnato davvero un passo importante nella sua carriera, e come il tutto sia passato attraverso un serissimo lavoro di pacificazione col suo corpo. Nuda è un titolo metaforico, spero non serva dirlo, ma il vederla nuda in copertina – lei che ha a lungo tenuto il suo corpo nascosto, come se la sua bellezza fosse un problema da gestire, o qualcosa da non sbandierare per non passare per chi cerca scorciatoie, in barba a quanto il pop internazionale femminile ha nel mentre fatto – in qualche modo ha indicato una presa di coscienza, un volersi spogliare, anche qui metaforicamente, di una serie di sovrastrutture che in qualche modo l’avevano tenuta ferma fino a quel momento.

Annalisa si è spogliata, alleggerita e ha fatto boom (pure) su TikTok
Annalisa. (Getty)

Annalisa non è stata presa in ostaggio da TikTok

E come spesso capita, quando decidi di prendere le cose un po’ più alla leggera, ecco che le cose hanno iniziato a farsi davvero interessanti, perché il ringiovanimento di Annalisa – Bellissima, prima, e Mon Amour, ora, lo dimostrano – ha coinciso con un preciso momento storico della musica contemporanea, quello in cui la Rete ha definitivamente preso il posto dei supporti fisici, stabilendo, era già successo a tutti i passaggi nodali della storia della discografia, altri istante e altri canoni. Ora, leggo quanto ha detto Gino Castaldo col solito ritardo, lui che per altro è stato, organico al sistema quale è, parte di questa deriva: ci si accorge che la musica è diventata ostaggio di TikTok, e si usa proprio le ultime due hit di Annalisa, seppur specificandone il talento, come esempio e monito per le prossime generazioni, ma di fatto Annalisa mi sembra piuttosto l’unica, a oggi, o una delle poche, in Italia, ad aver capito come funziona la contemporaneità e averla forzata per fare quel che voleva, non viceversa.

Canzoni pensate per i contesti social e con riferimenti Anni 80-90

Mi spiego: se inizialmente la musica era stata composta per essere eseguita dal vivo e le prime incisioni con quello avevano dovuto fare i conti, salvo poi diventare primarie per la composizione, lì a ragionare su quanto durasse un lato di un long playing, prima, e un cd, poi, solo in un secondo momento a provare a replicare dal vivo quanto si era composto per essere inciso e veicolato, non viceversa, oggi è lo streaming a farla da padrona. Quindi si scrivono canzoni che stiano in un tempo assai basso, che non tocchino frequenze troppo alte o troppo basse, assenti o distorte sui device, e che quindi ruotino giocoforza su un numero limitato di possibilità armoniche e quindi melodiche, chi dice il contrario mente. TikTok, se possibile, ha reso il tutto ancora più estremo, riducendo a pochi secondi la replicabilità di un brano, quindi ritornelli veloci e che arrivino subito, entro i 40 secondi massimo, qualche gesto da ripetere nei video a beneficio di chi poi viralizza. In questo conteso arrivano Bellissima e Mon Amour di Annalisa. Canzoni sì pensate per funzionare in quei contesti, ma in realtà costruite facendo riferimento a un immaginario musicale che è quello dei tardi Anni 80, più che altro Anni 90, il medesimo a cui guardano artiste quali Dua Lipa.

Il pop può anche essere veicolo di girl empowerment

Se però un certo passatismo in ambito, Dio mi perdoni, rock ha fatto tanto esaltare firme come Gino Castaldo – parlo dei Maneskin -, sembra che in questo caso quel che rimane nel pettinino per le lendini con cui il collega ha provato a passare le hit di Annalisa sia solo quello che passa nei balletti del social cinese, come se il pop dovesse necessariamente ambizioni colte (parlo di cultura alta) e come se, piuttosto, l’intrattenimento fosse sempre da guardare con sospetto. Il tutto mentre legittimamente impazzano Paola e Chiara con Furore e mentre Elodie annuncia un sold out al Forum. Il pop, specie quello a firma di artiste donne, può essere veicolo di un girl empowerment che evidentemente per questioni anagrafiche Castaldo non coglie, mentre siamo arrivati alla liberazione di Annalisa, che letteralmente si è ringiovanita smettendo di aderire a una idea di chanteuse decisamente passatista, giocando sul e con il suo corpo che fino a ieri nascondeva, il tutto mentre crea brani destinati a farci ballare anche per tutta l’estate, che sia per i 15 secondi di un video virale su TikTok o più anticamente su una spiaggia.

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L’essere popolari o popolani non è più un’onta

Il gioco delle contrapposizioni tra alto e basso, in questo caso, non è utile, né necessario, perché altri sono gli spazi che chi fa musica di approfondimento e d’autore giustamente insegue, non certo perché il proprio posto è “rubato” da brani di tale guisa. Si dovrebbe, è quel che ha provato a fare Tosca sui social, finendo a sua volta sommersa da hater (oggi sembra funzionare solo così), provare a ipotizzare un mondo in cui c’è spazio per tutta la musica, e chi si occupa di critica, come chi scrive, ben lo sa e a lungo si è battuto per aprire nuovi spazi, non certo per evocare l’abbattimento, più o meno figurato, di chi porta avanti altri discorsi. Il pop perfetto di una Lady Gaga o di una Dua Lipa fa spesso balzare sulla sedia la critica anche nostrana, incapace magari di cogliere appieno il senso di una rilettura attualizzata di un passato che vedeva troppo spesso il pop relegato quasi in uno sgabuzzino, qualcosa di cui vergognarsi, come se l’essere popolari o popolani fosse un’onta. Ben venga allora un pop italiano ambizioso, ancor più se portato avanti anche da noi da donne fiere e consce. Annalisa è bellissima e bravissima.

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti

Secondo una mitologica statistica in Italia si pubblicano circa 70 mila libri l’anno, otto ogni ora per 365 giorni. Ciò nonostante, un recente sondaggio promosso da Bookseller racconta che più della metà degli autori (54 per cento) ammettono come la pubblicazione del libro d’esordio abbia influito negativamente sulla loro salute mentale. Infine lo scorso inverno Repubblica dedicò la copertina di un numero de Il Venerdì al precariato imperante del lavoro intellettuale, in occasione del centenario dalla nascita «del più precario di tutti, Luciano Bianciardi». Questo in sintesi il panorama del mondo culturale italiano che comprende editori, critici e naturalmente scrittori, seduti allo stesso tavolo e intenti a spartirsi la medesima torta.

Nonostante tutto, il mercato del libro tiene

Nonostante la situazione all’apparenza sembri più da psicanalisi che altro, il mercato del libro continua a crescere o per lo meno a tenere, sia in Europa, dove il settore vale 33 miliardi di euro (il 60 per cento del mercato globale), sia in Italia dove nel 2022 ha toccato i 3,5 miliardi. O perlomeno così dicono i dati dello studio dell’Associazione Italiana Editori (Aie), in collaborazione con Nielsen BookData smentendo il cliché che in Italia «tutti vogliono scrivere ma nessuno legge». Con queste cifre i libri qualcuno dovrà pur comprarli. Ma come funziona in Italia il mondo culturale? Tre testi arrivati da poco sugli scaffali delle librerie lo raccontano concentrandosi sulla storia dell’editoria italiana, sulla genesi della casa editrice più cool in circolazione, e il terzo sondando luci e ombre del premio letterario più importante d’Italia, lo Strega.

Bianciardi e l'arte di diventare intellettuale senza leggere
Luciano Bianciardi.

Alla scoperta della Storia confidenziale dell’editoria italiana

Gian Arturo Ferrari, per gli amici Gianni, per tutti gli altri semplicemente “il professore”, è stato per molto tempo l’uomo più potente, il Darth Vader, dell’editoria italiana. Per più di 10 anni a capo della Mondadori sotto il suo dominio sono stati scoperti autori come Roberto Saviano, Paolo Giordano, Antonio Pennacchi, Salman Rushdie, Dan Brown, Alessandro Piperno e Alessandro D’Avenia. Tanto per citarne alcuni. In Storia confidenziale dell’editoria italiana, edito da Marsilio, Ferrari racconta le avventure umane e culturali degli uomini e delle donne che si sono occupati di scegliere come, quando e quali libri pubblicare, e ricostruisce capitoli di storia editoriale spiegandoci come sono nate, morte e come sono state resuscitate le case editrici, o come, talvolta, si sono divorate tra loro. Seguiremo così le storie dei due grandi “fratelli” dell’editoria italiana, Arnaldo Mondadori e Angelo Rizzoli, nati entrambi poverissimi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e diventati due dei personaggi più importanti del panorama culturale del nostro Paese. Ci appassioneremo alle gesta del 20enne Giulio Einaudi che, prima dei tipi di Adelphi, diventò il simbolo di una certa letteratura di qualità e il punto di riferimento per un certo tipo di lettori. Seguiremo il 30enne Valentino Bompiani, lettore colto e curioso, ci immergeremo nel carattere tempestoso di Livio Garzanti e tiferemo per il progetto utopistico dell’editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli. Parteciperemo ad aste selvagge a fiere librarie e a dispute legali. «Il lavoro editoriale è un miraggio tremolante», scrive Ferrari, «l’editoria è nella sua essenza un fatto commerciale, comprare e vendere, ma di una specie superiore di commercio».

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Storia confidenziale dell’editoria italiana di Gian Arturo Ferrari, Marsilio.

Le origini di Adelphi e la seduzione del libro

Oltre che una casa editrice Adelphi è un brand, una filosofia in cui da tempo si riconoscono generazioni di lettori che hanno trasformato la creatura di Bobi Bazlen e Roberto Calasso quasi in una religione da venerare. La storia è narrata magistralmente fin dalle origini nel volume intitolato semplicemente Adelphi, scritto da Anna Ferrando ed edito da Carocci. I precetti sono validi ancora oggi: i libri devono essere innanzitutto belli fisicamente, seduttivi, perché in fondo sono oggetti materiali, non puri spiriti. Da qui le copertine color pastello, la grafica ricercata e la trasformazione del prodotto in una sorta di “limited edition” che si fa feticcio, oggetto di culto. Instagrammabili prima di Instagram, sono diventati, come scrive Andrea Minuz sul Foglio, «i Prada dei libri». Soprattutto grazie a Calasso. Il lavoro di Ferrando tuttavia risulta essere particolarmente interessante perché narra l’epopea adelphiana prima di Calasso, puntando la luce soprattutto su Luciano Foà e Bobi Bazlen: «Faremo solo i libri che ci piacciono». Anche oggi, che Calasso Bazlen e Foà non ci sono più, i principi di Adelphi sono rimasti immutati insieme al suo successo. Solo i tipi di Via S. Giovanni sul Muro possono mandare un fisico come Carlo Rovelli in testa alle classifiche di vendita per settimane, valorizzare autori come Emmanuel Carrère o rendere immortali personaggi sconosciuti come Bruce Chatwin o dimenticati come lo stesso Geoges Simenon. D’altronde, per chi aveva sfidato l’opinione pubblica iniziando la propria avventura pubblicando l’opera omnia di Nietzsche, calza a pennello la definizione che proprio Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale dell’editoria italiana sintetizza perfettamente l’intero spirito della casa editrice milanese: «La bussola adelphiana si sta trasformando nella bacchetta del rabdomante».

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Adelphi, di Anna Ferrando (Carocci).

Caccia allo Strega, anatomia di un premio letterario 

Istituito a Roma nel 1947 dalla scrittrice Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del Liquore Strega da cui prende il nome, il Premio Strega è unanimemente considerato il premio letterario più importante e ambito d’Italia. Capace di far decollare una carriera o di dopare sensibilmente le vendite di un titolo, sta alla letteratura come la Champions League sta al calcio. Gianluigi Simonetti, professore di letteratura contemporanea e critico letterario del Sole 24 Ore, nel suo Caccia allo Strega, sposta lo sguardo oltre le dinamiche elettorali e il marketing letterario concentrandosi su un aspetto decisivo: come sono fatti i libri vincitori o selezionati per la celeberrima cinquina? Perché il libro perfetto è stato M di Antonio Scurati? Quali sono i motivi che hanno portato al successo Resistere non serve a niente di Walter Siti? Come fa un’esordiente a vincere Strega e Campiello in un colpo solo e vendere un milione di copie nel suo primo anno di pubblicazione come ha fatto Paolo Giordano con La solitudine dei numeri primi? Esiste veramente una mafia delle case editrici? In cosa lo Strega si differenzia dall’altro prestigioso premio italiano, il Campiello? A tutte queste domande risponde il lavoro di Simonetti. Pur essendo un testo che sembra dedicato solamente agli addetti ai lavori è in grado di raccontare in maniera particolarmente efficace come si è evoluta la storia sociologica del clima culturale italiano.

Editoria italiana, tre libri per scoprirne la storia, i protagonisti e i segreti
Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti (Nottetempo).

LEGGI ANCHE: Giangiacomo Feltrinelli e Alberto Mondadori, l’avventura dell’editoria italiana

Nella società iper veloce anche una hit dura quanto un meme

La SPA – no, non quelle dove andiamo a rilassarci sbocconcellando sedani e tisane avvolti da accapatoi immacolati tra una sauna e un massaggio col sale – è la Sindrome da Pensiero Accelerato. Qualcosa di molto vicino alla cristallizzazione dell’oggi, quell’oggi in cui siamo talmente sommersi da continui input, spesso virtuali, frammentati, iperveloci, continui, da rimanere come intossicati dalle troppe informazioni, sul punto di entrare in overdrive e collassare, psicoticamente. Più in concreto la SPA è quella condizione per la quale possiamo passare qualche minuto, pochi, a leggere un articolo, una pagina di libro, a parlare distrattamente con qualcuno, a guardare una puntata di una serie tv, senza però trattenere nessun tipo di informazioni, tabula rasa, o per dirla coi CSI, tabula rasa elettrificata. Questo ovviamente nei casi più leggeri, perché la SPA è una patologia, quindi gli effetti sul nostro corpo, meglio sulla nostra mente, possono essere anche gravi, dagli attacchi di panico al disturbo dell’attenzione, passando per i burnout, altra caratteristica saliente dei nostri tempi, via via fino a disturbi cardiaci e veri e propri attacchi psicotici.

Il cretino giovane, che non ha paura di risultare idiota su TikTok
L’app TikTok (Getty)

Dai 15 minuti di Andy Warhol ai 15 secondo di un reel

Lasciando però da parte l’ambito sanitario, che non ci compete, è evidente che una certa accelerazione della comunicazione sia tratto saliente di questi malsani tempi. Niente a che vedere con la fretta che un tempo associavamo, quasi ingenuamente, a chi viveva nelle città industriali, specie quelle del Nord, contrapposta a una lentezza quasi marqueziana, tipica dei luoghi che nella vulgata sono associati al viversi la vita come viene. Piuttosto la vaporizzazione dei contenuti, estremizzazione della realtà liquida ipotizzata o fermata su carta da Bauman, le informazioni che si affastellano una sull’altra, disordinatamente, riempiendo velocemente la memoria, non solo quella digitale, e rendendo di conseguenza impossibili l’utilizzo di molte applicazioni, mi si passi la metafora. Siccome però viviamo in questi tempi qui – non dentro un romanzo di fantascienza, ma in una perenne connessione, come ipotizzato dai cattivi ragazzi del cyberpunk (cattivi ragazzi si fa per dire, William Gibson è un anziano signore di 75 anni) e nessuno vive su Marte: non siamo in guerra con gli alieni né i robot sono sul punto di soppiantarci dal dominio del pianeta Terra (bè, sì, forse questo sì, credo a giorni arriverà un nuovo Asimov a vergare le tre leggi dell’Intelligenza artificiale) – continuiamo a stare pragmaticamente coi piedi per terra. Questa frammentazione iperveloce la possiamo riscontrare non nel vivere fisicamente tutta una vita in poche settimane, quanto piuttosto in un processo di esposizione sotto i riflettori e relativa scomparsa che ha trasformato i famosi 15 minuti di andywarholiana memoria nei 15 secondi scarsi di un reel.

Damiano David e Giorgia Soleri si sono lasciati: il leader dei Maneskin ufficializza la rottura dopo un video. In una clip mostrato il cantante che bacia un'altra
La story di Damiano (Instagram)

Da Damiano che limona a Luis Sal fino al dito medio di Arisa: la trottola social-mediatica

Prendiamo i trending topic, un tempo oggetto di discussioni per giorni, a volte anche settimane. Oggi si susseguono alla velocità della luce, vecchio retaggio di un linguaggio che appunto a una fantascienza quasi verniana fa riferimento, spesso senza lasciare traccia dietro di sé, alla faccia della lunga memoria della Rete, quella per cui tutto tornerebbe a galla con una certa celerità. Succede quindi, ma magari è un caso limite, che un breve video nel quale Damiano David dei Maneskin limona con una tipa, tale Martina Taglienti, professione modella, non la sua Giorgia Soleri, scateni l’inferno di voci sulla fine della relazione tra i due, voci che lo stesso Damiano conferma, da una parte prendendosi colpe per aver incautamente spoilerato la notizia che i due avrebbero dovuto annunciare insieme, dall’altra chiedendo un rispetto e una discrezione che limonare in discoteca potrebbe non comprendere. Così Giorgia Soleri defollowa tutti i membri della band. Neanche il tempo di commentare che ecco che Luis Sal risponde alle stories con cui Fedez ci aveva, da parte sua, spiegato che fine avesse fatto il suo ex socio di Muschio Selvaggio, andando a creare il meme dei meme «Dillo alla mamma, dillo all’avvocato», scatenando a sua volta una serie di risposte del rapper di Rozzano, letteralmente seppellite da una sorta di plebiscito a favore di Luis. E via, ecco che Arisa sfancula Paola Iezzi, rea di aver cautamente risposto a esplicita domanda riguardo le uscite della prima su Giorgia Meloni, sede la conferenza stampa del Pride di Roma, una risposta assai scomposta, quella di Arisa, con tanto di dito medio finale, prontamente rinnegato dalla medesima, nel mentre divenuta ovvio oggetto a sua volta di meme e di critiche piuttosto feroci sui social. Una notizia via l’altra, senza modo di lasciare però traccia nella memoria, a meno che la memoria non sia quella cosa flebile che ci permette di fare di quel “dillo alla mamma…” o quel “dito medio” qualcosa di facilmente decodificabile, scorciatoia ulteriore verso una frammentazione che ha sempre più bisogno di essere stringati, veloci, sintetici.

Fedez svela i motivi della rottura con Luis Sal: «Tutto nato a Sanremo». L'addio dell'influencer spiegato su Youtube dal rapper
Luis Sal e Fedez (Getty)

Anche in musica si brucia velocemente per dirla alla Kurt Cobain

Tutto questo, atterrando sul pianeta musica, si traduce in un vero bombardamento di brani, tipo notte di Dresda, quasi sempre collaborazioni tra più artisti, spesso lì a scambiarsi ruoli di brano in brano con la certezza di rimanere impigliati nella memoria dell’ascoltatore, quindi nelle classifiche di vendita, ci si passi un termine decisamente fuori tempo massimo, tanto quanto il termine discografia, lo spazio di un meme, poco più. E lo spazio di un meme, poco più, sembra oggi il tempo medio di durata delle carriere di artisti, Dio ci perdoni, che danno il senso all’immagine del “bruciare velocemente” evocata da Kurt Cobain nella sua lettera d’addio, anno del Signore 1994, anche se in questo caso non è certo la volontà degli artisti in questione a rendere possibile il tutto. Pensiamo, che so?, a gente come Benji e Fede, che a lungo hanno dominato le classifiche coi loro singolini leggeri leggeri e oggi sono praticamente relegati al ruolo di comparse. E il resto che scorre velocemente in un piano inclinato che prevede un cestino dell’immondizia alla fine, come certi scivoli per i panni sporchi degli hotel nei quali personaggi in fuga trovano scampo dai propri inseguitori. Volendo lasciare da parte pensieri anche sensati come quello che vuole che ci si faccia molto male se quando si cade lo si fa dall’alto, indicando nel “sei un talento” o nei “dove eri nascosto fino a oggi” tipici dei complimenti che si ascoltano dai giudici dei talent una qualche aggravante, illudere è sempre qualcosa di abietto, resta che la carriera media di un artista, pregate per la mia anima, oggi dura davvero il tempo che un tempo si concedeva a un pari artista per capire che nome usare nel primo album, spesso anche meno. Certo, ascoltando le musiche che detti artisti producono si potrebbe chiosare che non tutti i mali vengono per nuocere; come diceva un vecchio inciso di quando non era ancora stato codificato il politicamente corretto, era meglio ammazzarli da piccoli, ma in questa continua accelerazione della realtà anche la colonna sonora sembra destinata a durare pochi secondi, giusto il tempo di arrivare a un inutile ritornello per scomparire dai radar, breve ma intenso, diremmo in un meme. È proprio vero, mai come oggi in cui siamo tutti sempre connessi, connettere sembra essere diventato un privilegio per pochi.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso

Il potenziale dualismo nel consiglio di amministrazione della Rai con la presidente Marinella Soldi si profila all’orizzonte. Ma dalle parti di Viale Mazzini non è un mistero che Simona Agnes, membro dell’organo di amministrazione in quota Forza Italia, ambisca a prendere il posto della numero uno nominata da Mario Draghi in quota Partito democratico (e molto ben inserita nella filiera Paolo GentiloniMatteo Renzi). Tra l’altro, qualora Soldi dovesse rassegnare anzitempo le dimissioni, l’interim potrebbe ricadere sul consigliere più anziano, che appunto è Agnes.

I “draghiani senza Draghi” continuano a comandarsela nella tivù pubblica

La giornalista e manager, classe 1967, esperta di marketing e relazioni esterne, con competenze poliedriche che spaziano dal turismo fino alla cultura e alla sanità, è protetta e promossa dal sempiterno Gianni Letta, in nome degli interessi di Forza Italia in Rai naturalmente, ma anche – con sguardo più ampio – a vantaggio di quel blocco “Ursula” che va da Fi fino ai dem non schleiniani: i cosiddetti “draghiani senza Draghi” che continuano a comandarsela nella tivù pubblica, a dispetto della nuova stagione meloniana. In quest’ottica, Soldi e Agnes apparterrebbero persino allo stesso milieu, ma poi, si sa, le rivalità si costruiscono pure sulle dinamiche personali e sulla tattica di breve respiro, come gli ultimi voti in cda hanno dimostrato.

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Simona Agnes.

La rappresentanza di genere? Questa volta ha chiuso un occhio

E così, mentre Soldi si mette (un po’) di traverso, Agnes esulta per il nuovo corso: «Le nomine che abbiamo approvato delineano una Rai equilibrata, dinamica e pluralista». Certo, poi magari c’è qualche problemino circa la rappresentanza di genere, visto che su 21 direzioni soltanto sei sono guidate da donne. E fa specie che la consigliera in quota azzurra non abbia alzato un sopracciglio quando invece in una vecchia intervista sul Premio internazionale di giornalismo intitolato a Biagio Agnes, il suo illustre papà, ebbe a dire: «Purtroppo ogni anno le donne sono in minoranza e dobbiamo ricordarci che ci sono tante brave donne giornaliste». Eh sì, «dobbiamo ricordarci»: peccato le amnesie nei momenti cruciali.

Il padre Biagio ex direttore generale a Viale Mazzini 

Nata a Roma, ma di origini paterne irpine, Simona ha studiato legge alla Luiss, però ha la Rai nel dna. Biagio fu direttore generale a Viale Mazzini negli Anni 80, oltre che fondatore e direttore del Tg3. Erano i fasti (effimeri) del pentapartito e lui scalò le gerarchie della tivù di Stato mentre il suo amico e conterraneo Ciriaco De Mita prendeva il potere nella Democrazia cristiana. Peraltro il fratello Mario, lo zio di Simona, è stato presidente nazionale dell’Azione cattolica e direttore dell’Osservatore romano, questo per raccontare il background della figlia d’arte, cui tocca adesso l’amorevole e gelosa custodia della memoria del padre attraverso la guida della fondazione e l’organizzazione del premio a lui dedicati. Ma anche grazie alla reviviscenza nei palinsesti di un programma storico della Rai, inventato da papà Biagio e dedicato ai temi della sanità, come Check-up, che peraltro oggi vanta una singolare convenzione con la sola Regione Campania (con tanto di polemiche a Napoli per i 600 mila euro sborsati a Rai Com da Scabec, la in house che si occupa di cultura, per valorizzare la dieta mediterranea).

Simona Agnes, il dualismo con Soldi in Rai e le sfide del nuovo corso
Biagio Agnes.

Piaggio, Telecom e una carriera nella comunicazione

Quasi fosse una predestinata, Simona si è sempre mossa nel settore della comunicazione, delle pr e delle relazioni istituzionali ad alti livelli. Piaggio e Telecom le esperienze aziendali preminenti riportate in curriculum prima di mamma Rai. Ma Agnes ha costantemente sposato con sorvegliato savoir-faire le iniziative benefiche alla frivolezza del jet set nostrano, le campagne medico-scientifiche ai velluti della miglior hotellerie, le riflessioni impegnate contro la mafia alle terrazze patinate del generone romano. Perché, in fondo, da Telethon ai Vanzina è un attimo.

Sensibile agli interessi di chi fa concorrenza alla Rai…

Componente, tra l’altro, dei cda dell’Istituto Treccani e della Treccani Scuola, Agnes è donna di comunicazione ma non ama molto i social. Non ha un profilo Facebook, mentre il suo account Twitter è una zattera abbandonata alle correnti, visto che l’ultimo aggiornamento risale al 2018. Va appena meglio su Instagram, con una pagina privata che conta meno di 700 follower. Del padre dice che egli «difese la tivù pubblica». Una missione che appare oggi difficile da perseguire per chi dentro Viale Mazzini è in qualche modo sensibile agli interessi del primo editore televisivo in concorrenza con la Rai. Ma tant’è. «Tutta l’azienda aspetta da noi risposte importanti», dice adesso Simona. Vedremo, però se il buongiorno si vede dal mattino…

L’Ucraina, le origini dell’antiamericanismo e la miopia sui piani di Mosca

L’Ucraina, le origini dell’antiamericanismo e la miopia sui piani di MoscaC’è chi spiega la guerra in Ucraina, dopo un breve cenno all’aggressione russa, anche come il frutto avvelenato della Nato e di Wall Street. Sarebbe meglio usare con più dimestichezza la Storia. Si scoprirebbe tra l’altro che l’antiamericanismo degli europei occidentali precede di gran lunga Nato e Wall Street ed è vecchio almeno di due secoli, e in realtà più vecchio ancora. È diverso da quello degli europei orientali che avendo sempre avuto il problema russo sono in genere meno anti-americani. È un sentimento diffuso e non di rado profondo, e fa il paio con l’antico ma persistente antieuropeismo di molti americani, basato una volta sul principio che l’Europa fosse tiranna, altezzosa con i suoi nobili, antidemocratica, papalina, oppure folle con gli eccessi rivoluzionari, mentre oggi ci guarda da tempo come terra déclassée, decaduta, ricca ma imbelle.

Le origini dell’antiamericanismo europeo: da Hegel al nazifascismo fino ai timori britannici 

Per l’antiamericanismo si può risalire come data di nascita, con approssimazione, agli Anni 20 dell’800, quando Georg W.H. Hegel elaborava a Berlino le sue Lezioni sulla filosofia della Storia, da cui emergeva tra l’altro un’immagine degli Stati Uniti destinati a un notevole ma imprecisato futuro, afflitti nel frattempo da un sistema sociopolitico e culturale “immaturo” e “caotico”, oltre che da una dominante ignoranza avendo rotto molti ponti con quel fulcro di civiltà che era l’Europa. Molti europei ripeteranno tutto ciò per l’intero l’800, anche dopo la Prima Guerra mondiale e il passaggio da Londra a New York della capitale finanziaria del globo, e lo ribadiranno con insistenza ancora fino agli Anni 40, con la lettura sdegnosa che nazismo e fascismo, e non solo, avevano della “inferiore” realtà americana, asserita personalmente da Mussolini in varie occasioni e imposta all’informazione e alla letteratura nostrane. Una parte del mondo cattolico, Giuseppe Dossetti in testa, era sulla stessa linea dal 1945 in poi. E non va dimenticato il profondo antiamericanismo che ha sempre contraddistinto parte notevole della cultura francese, basti pensare a un esperto di cose americane come André Siegfried (1875-1959) che tanto ha contribuito alla lettura critica degli Usa, a vari italiani per lo più modesti conoscitori dell’altra sponda, e a molti altri. Per non parlare degli inglesi, che da fine 800 temevano il sorpasso americano, e che si interrogavano ansiosi su quando sarebbe avvenuto (sir Edward Hamilton, Segretario generale del Tesoro, nel 1906, quando il sorpasso economico era da tempo concluso), o che scoppiavano in lacrime in pubblico (sir Edward Holden, presidente della London City and Midland Bank, nel 1916) di fronte all’inaudito e insostenibile attacco della finanza americana ormai più forte di Lombard Street. Il tutto veniva sintetizzato nel 1944-45 dagli inglesi che così commentavano la problematica presenza delle truppe americane pronte a passare oltremanica a combattere Hitler: overfed, oversexed, and over here, troppo nutriti, con troppe donne, e purtroppo qui. Insomma, tra Europa e Stati Uniti non è mai stata una semplice storia d’amore.

Andrea Purgatori torna con Atlantide. Stasera 9 novembre su La7 il rapporto fra Hitler e Mussolini. Ospite Antonio Scurati, autore di M.
Adolf Hitler e Benito Mussolini (Getty Images).

Le due visioni del futuro ordine mondiale e la scelta dell’Europa occidentale di accettare l’ombrello Nato e Usa

In più si era aggiunta, nel 1917-1918  una duplice e fortemente antagonistica visione del futuro mondiale a partire da quello dell’Europa: da parte russo-sovietica l’appello della rivoluzione bolscevica universale, la Germania postbellica prima candidata auspicata; da parte americana i 14 punti del presidente Woodrow Wilson, studiati per creare in particolare in Europa un sistema collettivo di pace capace di superare le guerre del passato e impedire il declino totale del continente. Il Congresso americano alla fine negò con l’isolazionisimo la partecipazione americana al sistema (Società delle Nazioni), Wall Street però condusse molto attivamente la sua diplomazia finanziaria con l’Europa, ormai legata ai capitali americani dopo il suicidio del 1914-1918. E nel 1942 l’America tornò per raccogliere, con varie titubanze, i cocci di quella che era stata l’Europa. L’idea di un massiccio impegno postbellico in Europa richiese un anno e mezzo per maturare, da fine 1945 ai primi del 1947. Gli Stati Uniti lo fecero nel proprio interesse, per non avere una potenza ostile dominante sull’altro lato dell’Atlantico, come già avevano fatto nel 1917 entrando nel primo conflitto mondiale, contro la Germania. Ora si trattava di fronteggiare la Russia, dall’agosto 1949 potenza atomica. L’Europa occidentale accettava che la sua difesa fosse garantita, come deterrente, dagli ordigni atomici americani, oltre che dalle truppe Nato. La maggioranza degli europei ha dimostrato con il voto, per vari decenni, di accettare questo assetto. Dura da 74 anni, un tempo troppo lungo. Il caso ucraino lo ha reimposto all’attenzione senza che appaiano sul fronte dell’Europa le capacità di trarne tutte le conseguenze, e cioè una vera unione strategica e militare dei Paesi ue, in ambito Nato o parzialmente Nato all’inizio, e fino a quando l’Alleanza esisterà. Ma più Europa. Richiederebbe coraggio e lungimiranza, merci rare in un’Unione il cui Paese leader, la Germania, aveva affidato il proprio futuro energetico a due gasdotti via Baltico che partono (o partivano) dalla Russia. Decisione logica quanto a geografia ed economia, sbagliata quanto a politica e strategia, perché la Russia non è quello che ci piacerebbe fosse.

L'Ucraina, le origini dell'antiamericanismo e la miopia sui piani di Mosca
Woodrow Wilson e il suo Gabinetto (Getty Images).

Il dito puntato contro gli Usa che danneggiano l’Europa e la miopia su ciò che Mosca vuole davvero

Non è più possibile, da 30 anni, reclamare l’esistenza di un campo della pace, quello sovietico-russo, contro il campo della guerra, quello dei capitalisti cioè Washington e dei loro accoliti. Quel campo della pace non è mai esistito, come Ucraina conferma e come alcuni illuminati giudizi sulla neonata Urss – uno del futuro ministro degli Esteri di Weimar Walther Rathenau nel 1919, e l’altro della rivoluzionaria Rosa Luxembourg a fine 1918 – già spiegavano chiaramente. Tuttavia, sono in molti ancora oggi ad avere qualche riflesso condizionato. Anche in Italia qualche analista e commentatore di indubbia qualità si abbandona ad analisi dalle quali filtra chiaramente l’idea che a danneggiare l’Europa sono gli Stati Uniti, attenti ai propri interessi e non ai nostri. È vero, sarebbe strano il contrario, occorre vedere però fino a che punto i due interessi sono più o meno paralleli, e quando divergono, com’è naturale fra due aree geografiche così lontane e con interessi commerciali spesso concorrenti, nonostante una integrazione economica via commerci e investimenti incrociati senza confronti al mondo. Lo stesso commentatore sostiene che ormai l’Ucraina è vista diversamente da Washington perché l’obiettivo americano, la fine dei gasdotti Russia-Germania, è stato raggiunto. Non una parola sulla saggezza o meno di quel legame via Baltico, alla luce dei fatti, e sul fatto se sia un male o un bene avervi posto per ora fine. E non una parola su che cosa vuole Mosca, oltre al Donbass.

8 marzo, il discorso di Putin alle donne russe: «Avete scelto la missione più alta: difendere la patria», ha detto in un videomessaggio.
Vladimir Putin (Getty Images).

I piani segreti di Stalin per la Russia e il Vecchio continente non si discostano molto da quelli di Putin

Fino all’apertura degli archivi ex sovietici, negli Anni 90, mancava un capitolo alla storia della strategia dell’Urss per l’Europa dal 1939 in poi, quello dei documenti segreti, che spiegano ciò che Mosca voleva con Stalin. Più o meno ciò che, partendo da una posizione ben più svantaggiata poiché ha perso la Guerra fredda, vuole con Putin. Adesso almeno in parte (gli archivi non sono più da tempo facilmente accessibili) conosciamo di più e sarebbe utile la lettura ad esempio di un saggio storico di 25 pagine reperibile via Google digitando: “Vladimir O. Pechatnov, The Big Three After World War II. New Documents… Wilson Center 1995″. Dice in sostanza che Mosca pensava di emergere dal conflitto come unica potenza militare di terra in Europa, e di avere quindi, direttamente dove arrivava l’Armata Rossa, indirettamente altrove, il controllo dell’Europa occidentale, Gran Bretagna esclusa. Da altre fonti emerge la volontà di impedire qualsiasi alleanza fra due o più Paesi europei, e tantomeno un organismo multilaterale a crescente integrazione come è oggi l’Unione europea, da sempre vista con sospetto e ostilità e ritenuta ufficialmente come la Nato uno strumento della Guerra fredda. Pochi ricordano queste posizioni, e pochi in Occidente, a partire dai tedeschi e da molti italiani, sono disposti ad ascoltare che opinioni hanno gli europei dell’Est, i baltici e gli scandinavi, convinti a grande maggioranza che l’Ucraina è solo una prima mossa per vedere se l’Occidente tiene.

Si può essere anti-Usa ma non si può rinnegare la storia
Stalin (Getty Images).

L’Ue e l’intera Europa non possono sperare in eterno nella copertura Usa

Finora ha tenuto, anche se gli uccelli di malaugurio abbondano. Il tempo però dice che l’Unione europea, e l’intera Europa, non possono sperare in eterno sulla copertura strategica americana, e non possono aspettare in eterno che la Russia diventi un Paese democratico dove sia l’opinione pubblica, alla fine, attraverso libere elezioni a decidere che politica estera seguire. Se da noi molti sono stanchi dell’America, forse da sempre, molti americani applicano da tempo all’intera Europa ciò che nel 1962 l’ex Segretario di Stato Dean Acheson disse della Gran Bretagna: «Ha perso un Impero e non ha ancora ritrovato un ruolo». Joe Biden è un vecchio democratico in politica da oltre mezzo secolo e allievo diretto degli uomini che fecero il Piano Marshall e la Nato e spinsero per l’Unione europea, e si è sempre occupato di Europa. Un’altra dirigenza americana, si è visto con Donald Trump, potrebbe pensarla diversamente. Sarebbe molto miope per Washington non cercare di avere amica l’altra sponda, ma nessuno può escluderlo. Quanto all’antiamericanismo, all’antipatia per l’America, chi ce l’ha dovrebbe cercare di non confonderla con gli interessi dell’Italia e dell’Europa, e farne buon uso. In fondo era un grande amico dell’America, Alexis de Tocqueville, che già nel 1835 osservava come «gli americani trattando con gli stranieri sembrano infastiditi dalla più piccola critica e insaziabili di elogi. Insistono per averli. E se non ottengono soddisfazione, alla fine si elogiano da soli». E aggiungeva: «Si direbbe che, dubbiosi circa i propri meriti, amino vederli costantemente esibiti di fronte ai propri occhi».

Così Berlusconi ha dimostrato l’inutilità politica della satira

«Cos’ha fatto di buono Berlusconi?». Se lo chiedevano, mi pare, Adriano Celentano e Roberto Benigni in un varietà Rai di qualche decennio fa, realizzato presumibilmente durante un governo Prodi. Al termine di un bilancio tra il serio e il faceto, i due showmen salvavano un solo provvedimento del collega che dal 1994 si divideva fra la professione di barzellettiere e quella di premier: la patente a punti, introdotta nel 2003 dal gabinetto Berlusconi II. La patente a punti è rimasta l’unica, solitaria benemerenza riconosciuta al Cavaliere fino a ieri, giorno della sua morte, quando il sito Escort Advisor lo ha omaggiato ricordando un altro risultato indiscutibilmente lodevole dell’era Berlu: lo sdoganamento del termine ‘escort’ come sinonimo di prostituta. «Una parola meno offensiva e più dignitosa per le operatrici del sesso,» spiega un comunicato del sito dedicato alle recensioni delle sex-worker, sottolineando che, attraverso la rilevanza mediatica dei processi legati al bunga-bunga, Berlusconi «ha contribuito a normalizzare, anche se a modo suo, un settore ancora oggi controverso».

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L’omaggio del sito Escort advisor a Berlusconi.

Nessuno come Berlusconi è stato ridicolizzato dalla satira e nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui

La patente a punti e la promozione lessicale della prostituzione: anch’io potrei fermarmi qui, come elogio funebre. Sono fuori tempo massimo sia per il servo encomio che per il codardo oltraggio e non appartengo alla generazione allevata da Sua Emittenza con Bim Bum Bam e Paperissima. Per onestà intellettuale, però, devo riconoscere che per noi autori di satira politica nessun personaggio dell’ultimo scorcio di ‘900 ci ha ispirato e reso reattivi e produttivi più di Silvio Berlusconi. I risultati non erano sempre di qualità eccelsa, spesso era satira involgarita da un body-shaming allora entusiasticamente praticato anche da penne e matite eccellenti. Ma c’era anche parecchia roba forte e buona, che dava ai suoi autori un brivido di grandezza: ecco la vignetta definitiva, ecco la risata che lo seppellirà. Ma col passar del tempo ci sentivamo come scultori che si ritrovano a dover scalpellare una montagna anziché il solito blocco di pietra: anche se si è geni dallo scalpello mirabolante e si sgobba giorno e notte per anni e anni e anni, la montagna rimane lì, uguale. Dài delle martellate clamorose, ti sembra di staccare grossi pezzi di roccia, senti il presagio di una frana, e magari qualche cascata di ciottoli arriva davvero, dài e dài credi di avere modificato il profilo del monte, e invece no: il monte è più o meno uguale a se stesso e sempre al suo posto. Quelli cambiati siamo noi: stanchi, invecchiati, con gli scalpelli fuori uso, che guardiamo impotenti le comitive di gitanti che fotografano la montagna e la trovano carina e pittoresca, senza apprezzare né notare le scalfitture che ci sono costate anni di fatiche: le decine di soprannomi, le centinaia di caricature, le campagne al vetriolo sui suoi processi, il caparbio tiro a segno sulle sue sfrenatezze, gli sfottò ai suoi reggicoda, anche loro tutti al loro posto, avanzati in carriera o beneficati, ma sempre grati e adoranti.

Ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live

Insomma, è vero nessuno come il Cav è stato ridicolizzato dalla satira, ma è altrettanto vero che nessuno l’ha ridicolizzata quanto lui, dimostrandone l’inutilità politica e dissipando l’illusione, di cui la sinistra si pasceva dai tempi di Dario Fo e del Male, che il ghigno e lo sberleffo possano davvero far paura al potere e aprire gli occhi al popolo. Quando qualcuno grida che il re è nudo e il re, anziché correre a nascondersi, sculetta e si mette in posa, il popolo ride ma alla fine passa dalla sua parte. E chi deve andare a nascondersi è quello che lo ha smascherato. Fatto sta che ormai da un quindicennio la satira politica italiana si è ridotta a comfort-food per mature anime belle: vignette comprensibili solo dai 40 anni in su, meme da condividere nella propria bolla, parodie così acute e raffinate da consacrare il parodiato anziché irriderlo. L’obiettivo non è più infastidire il potere, men che mai seppellirlo, ma finire nella top ten di Propaganda Live, a mezzanotte passata, l’ora dei vampiri.

Via Silvia, spianata dall’uomo di Arcore, è ora trafficatissima

Lo sguardo più lucido e preveggente sulla fine del Caimano non è venuto dalla satira, ma dalla canzone. Precisamente da Caparezza, che nel 2011, nella strepitosa Legalize the Premier, descriveva con largo anticipo gli ultimi giorni del patriarca del centrodestra: «E se capita che un giorno starai male, male/vedrai leccaculo al tuo capezzale/darai una buona parola per farli entrare/nel tuo paradiso fiscale». Il rapper di Molfetta chiariva che il pezzo non era dedicato solo a Berlusconi, ma anche a tutti i suoi successori, cui il Cavaliere ha mostrato che una volta arrivati al potere si possono modificare le leggi a proprio uso e consumo, «perché una volta che hai asfaltato una strada ci possono passare tutti». Una strada che, all’uso dell’antica Roma, potremmo chiamare via Silvia. Aperta e spianata dall’uomo di Arcore, e ora trafficatissima.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito

Forza Italia piange la morte di Silvio Berlusconi, con sincera commozione, e non potrebbe essere altrimenti. Ma oltre al dolore umano per la scomparsa del fondatore, dovrà arrivare il momento di fare i conti per capire come potrà andare avanti il partito, prima di tutto dal punto di vista economico. I soldi sono il principale punto debole degli azzurri, soprattutto ora che il Cav non c’è. Fino a quando è stato in vita, infatti, era lui a mettere le risorse a disposizione, senza andare per il sottile. L’ex presidente del Consiglio non si è mai tirato indietro, chiedendo una mano al fratello Paolo e ai cinque figli. A Silvio nessuno diceva di no.

I 700 mila euro donati coprono la maggior parte degli introiti

Tanto per rendere l’idea, nel 2023 il supporto finanziario della famiglia Berlusconi è stato fondamentale, altrimenti il piatto piangerebbe, eccome: le tabelle delle donazioni volontarie raccontano di 700 mila euro affluiti nelle casse degli azzurri grazie agli assegni staccati nella cerchia familiare e aziendale. Il fratello Paolo ha provveduto a sottoscrivere un’elargizione liberale, una delle forme di finanziamento consentite dalla legge, di 100 mila euro il 24 febbraio. Un esempio seguito dal figlio dell’ex premier, Luigi Berlusconi, con la medesima cifra e nello stesso giorno. Così tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, tutti gli altri figli, Barbara, Eleonora, Marina e Pier Silvio, hanno donato 100 mila euro alle casse di Forza Italia, come ha fatto successivamente la Fininvest, la società più nota della famiglia. Il totale è stato, appunto, di 700 mila euro che ha praticamente coperto tre quarti degli introiti degli azzurri legati alle donazioni.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Luigi e Paolo Berlusconi, figlio e fratello di Silvio. (Getty)

Finanziamento pubblico: arriva poco dal 2 per mille

Il dato complessivo supera di poco il milione di euro, senza i Berlusconi si parlerebbe di 250 mila euro. Roba da partitino. Ma la somma derivante dalla famiglia dell’ex presidente del Consiglio, è più alta anche rispetto ai 581 mila euro arrivati grazie al 2 per mille, destinato dai contribuenti e su cui i forzisti hanno sempre dimostrato dei limiti: tra i partiti della maggioranza è quello che ottiene meno dall’ultima forma di finanziamento pubblico. Non occorre l’indovino per comprendere il peso specifico economico del supporto dato da Berlusconi alla sua creatura. In un certo senso si trattava di un atto d’amore, un gesto dovuto per un progetto che ha coltivato dal 1994, con l’eccezione della parentesi del Popolo delle libertà. Per questo ora si addensano le nubi sul futuro, sulle reali intenzioni degli eredi.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Bandiere di Forza Italia. (Getty)

Forza Italia, debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di B

Di fatto per i figli del fondatore il partito rischia di trasformarsi in un buco nero in cui gettare risorse, senza considerare che – bilanci alla mano – Forza Italia, come soggetto giuridico, ha contratto un debito di 92 milioni di euro nei confronti dei figli di Berlusconi. Si tratta di una questione delicata, quanto intricata, che nelle prossime settimana andrà affrontata. Ma anche se gli eredi dell’ex presidente del Consiglio non vorranno pretendere gli arretrati, dovranno decidere se hanno voglia di mettere mano alla tasca per finanziare un partito, che allo stato attuale sarà gestito da altri. E che ha prospettive di consenso non proprio esaltanti. Nell’inner circle berlusconiano giurano che la vicenda non era stata discussa, nonostante la grave malattia dell’anziano leader.

Pier Silvio Berlusconi, dopo una visita al padre, ricoverato in terapia intensiva da mercoledì, si è lasciato andare ad alcune affermazioni
Pier Silvio Berlusconi. (Getty Images)

Quanti morosi tra i parlamentari: pure Bergamini e Cannizzaro

In mezzo c’è un’altra questione, non affatto secondaria: il recupero delle cifre dei “morosi”, un’operazione che era stata avviata da qualche settimana con discreti risultati. Ogni eletto, tra Camera e Senato, è chiamato a restituire 900 euro al mese. Una pratica che però non è seguita da tutti i parlamentari. Anzi, quasi la metà non rispetta i tempi. Nell’elenco dei donatori, da inizio 2023, non si ritrovano peraltro dei nomi parlamentari in vista di Forza Italia, come i due vicepresidenti del gruppo alla Camera, Deborah Bergamini e Francesco Cannizzaro, che tuttavia in passato hanno fatto dei versamenti più sostanziosi dei 900 euro mensili. Solo che di recente c’era stato un appello per recuperare le somme, a cui non risultano risposte.

Forza Italia senza i soldi di Berlusconi: il futuro economico del partito
Silvio Berlusconi e Deborah Bergamini.

Chi è disposto a foraggiare un progetto ormai morente?

Stessa situazione caratterizza il vice capogruppo al Senato, Adriano Paroli, e altri colleghi azzurri a Palazzo Madama, come Claudio Fazzone (l’ultimo versamento è di 20 mila e risale all’agosto del 2022, in piena campagna elettorale), Dario Damiani, Mario Occhiuto e Daniela Ternullo. In realtà non figura nell’elenco nemmeno il capogruppo a Montecitorio, Paolo Barelli, che però ha spiegato che si tratta di un errore della registrazione delle donazioni, a cui comunque non è stato posto rimedio. Sempre a Montecitorio non sono registrate sui documenti da parte dei deputati Tommaso Calderone e nemmeno di Annarita Patriarca. Per tutti l’arretrato è minimo, sebbene moltiplicata la quota mensile per in cinque mesi si arrivi a 4.500 euro, e può essere saldato con un’unica operazione, anche se l’azione di recupero per i morosi è più vasta e coinvolge molti ex parlamentari. Ma, al netto dell’assiduità dei versamenti, c’è un punto focale: chi è davvero intenzionato a foraggiare un partito con prospettive tutt’altro che rosee? Qui torna alla mente la frase di un parlamentare pronunciata negli ultimi giorni di vita del leader. «Forza Italia è Silvio Berlusconi, Silvio Berlusconi è Forza Italia». Che significa che senza di lui non esiste nemmeno più il partito.

Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena

Silvio Berlusconi non c’è più. E la notizia della morte, per altro anticipata dal continuo aggravamento delle sue condizioni di salute, è qualcosa cui si stenta a credere. Perché il Cavaliere aveva costruito una buona parte della sua narrazione sulla compiaciuta mitologia del suo essere immortale, perché comunque la si giudichi la sua figura ha condizionato gli ultimi cinquant’anni della vita pubblica. Prima come imprenditore rampante, poi come politico. Infine dal 1994, anno della sua discesa in campo, come politico-imprenditore.

Berlusconi è stato ispiratore, vittima, innovatore, narciso

Molto su di lui è già stato scritto, molto detto, e ancora se ne scriverà negli anni a venire. Perché la biografia di Silvio ha le prerogative dell’interminabilità. Perché l’uomo ha inciso non solo sull’economia e poi sulla politica, ma pure sull’immaginario collettivo di un Paese che a lui deve una mutazione antropologica. Dal quartiere modello di Milano due al partito azienda, nulla della vita pubblica di questo Paese è rimasto immune dalla sua impronta. Giocata con grandissima abilità su più registri: ispiratore, vittima, custode come nessuno mai del suo personale tornaconto, innovatore, narciso fino a rasentare la parodia di se stesso.

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Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi. (Getty)

Forza Italia morirà con lui al termine di una diaspora già iniziata

Che succederà ora? Berlusconi lascia un impero mediatico il cui futuro è denso di interrogativi. I figli, specie Marina e Pier Silvio, lo vorranno portare avanti. Ma avranno la forza di faro senza alle spalle un padre che ne ha sempre accompagnato le mosse, anche quando sembrava che la politica e poi la malattia allontanasse il suo interesse? E lascia anche un partito, Forza Italia, sui cui destini è più facile scommettere. Una sua personale creatura, una geniale invenzione che nel 1993 si affacciò sulla scena politica sorretta da un marketing senza precedenti, che non può avere eredi, e che quindi morirà con lui al termine di una diaspora per altro già da tempo iniziata. E sulla quale Giorgia Meloni potrà ultimare la sua Opa non ostile concordata con la figlia Marina nei suoi primi giorni di governo.

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Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi nel 1985. (Getty)

La mossa con Fini e lo sdoganamento della destra missina

Per chi ne ha seguito dall’inizio l’irresistibile ascesa, viene in mente anche con una certa nostalgia il Berlusconi del Mundialito, del sole in tasca con cui pretendeva si presentassero i suoi venditori, della capacità di sparigliare la scena politica sponsorizzando Gianfranco Fini come sindaco di Roma e di fatto dando il via allo sdoganamento della destra missina che proprio con l’ingresso di Meloni a Palazzo Chigi ha avuto il suo compimento.

Silvio Berlusconi morto, la trasformazione di un Paese e una mesta uscita di scena
Silvio Berlusconi dopo la vittoria nel 2001. (Getty)

Silvio un uomo di folgoranti inizi, ma di mesti finali

Il prima e il dopo nella vita di Berlusconi hanno segnato la biografia del personaggio. I successi imprenditoriali sono innegabili, così come la sua azione dirompente in politica. Se c’è un’osservazione da fare, a caldo, prima che di lui nei prossimi anni si scrivano fiumi di inchiostro, è che è stato un maestro nell’entrare in scena, ma non uno che alla fine è stato capace di uscirvi, quando avrebbe potuto ritirarsi forte della nomea di padre nobile che nessuno avrebbe messo in discussione. Silvio un uomo di folgoranti inizi, ma di mesti finali, impaurito forse dall’idea della morte che ha cercato di arginare non come l’accettazione di un destino che la vecchiaia serenamente impone, ma sciorinando il mito di una eterna giovinezza che il suo inesausto e a volte stonato slancio vitale non ha mai fatto venire meno.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi

«E ora che succede?». È questa la domanda che risuona già nei capannelli di Forza Italia e non solo. Sarà l’interrogativo principale anche a Palazzo Chigi. Sì, perché la morte del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi avrà ripercussioni non solo dentro i confini azzurri, ma anche sulla stabilità dello stesso governo. Lo sa benissimo Giorgia Meloni che con la virata verso FdI impressa nell’ultimo periodo dal coordinatore di Fi Antonio Tajani e dalla compagna di Silvio, Marta Fascina, naturalmente con la benedizione della primogenita del Cav Marina, aveva visto in qualche modo puntellata la sua maggioranza. Adesso senza il leader, lo scenario torna a essere fluido e la stessa Forza Italia corre il serio rischio di spaccarsi. O di scomparire.

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Marta Fascina e Silvio Berlusconi nel settembre 2022 (da Fb).

I nodi economici e quelli politici di Forza Italia

Il prezzo che giocoforza paga un partito personale che non ha mai avuto altro leader al di fuori di Silvio. Del resto, è lunga la teoria di delfini che il Cav prima ha osannato e poi messo da parte. Una fine che forse ha rischiato di fare lo stesso Tajani che, nella nuova geografia azzurra, si sarebbe trovato al fianco tre commissari (uno per il Nord, uno per il centro e uno per Sud). Una riorganizzazione che avrebbe dovuto cominciare a vedere la luce sabato ad Arcore, se non fosse sopraggiunto il ricovero improvviso del leader. A tal proposito, le parole di un ex azzurro e ora esponente di Azione come Osvaldo Napoli colgono nel segno: «È certo che lascia un’importante eredità politica, ma non lascia eredi da lui riconosciuti. Con la sua scomparsa si chiude davvero una stagione politica e l’Italia entra in una terra incognita tutta da esplorare». Una terra tutta da esplorare, appunto. Non subito, naturalmente. Adesso è il momento del cordoglio e dell’unità. Ma prima o poi i nodi verranno al pettine. A cominciare da quelli economici, visto che a foraggiare Forza Italia è sempre stato in larghissima parte Berlusconi. Dal 2014 il Cav ha iniettato quasi 100 milioni di euro nelle casse del partito, mentre i figli hanno versato  500 mila euro nel 2022. Una ‘donazione’ necessaria, visto che solo nel 2023 37 parlamentari su 62 hanno pagato la quota. Normale quindi che molti eletti comincino a chiedersi se la famiglia continuerà su questa linea oppure no. Ma sono i nodi politici quelli che scottano di più e che, come detto, rischiano di rendere Meloni meno salda in sella. Tant’è che la premier, nel suo videomessaggio di saluto al Cavaliere, ha provato subito a serrare le fila, toccando le corde dell’emotività: «Con lui l’Italia ha imparato che non doveva mai farsi porre dei limiti, ha imparato che non doveva mai darsi per vinta», ha detto. «Con lui noi abbiamo combattuto, vinto, perso, molte battaglie. E anche per lui porteremo a casa gli obiettivi che, insieme, ci eravamo dati».

Il destino di Forza Italia dopo la morte di Berlusconi
Giorgia Meloni e Matteo Salvini (Getty Images).

L’ala Tajani-Fascina teme il ritorno dei ronzulliani

Per adesso il timone è in mano all’ala Tajani-Fascina-Marina Berlusconi che ha depotenziato l’area vicina a Licia Ronzulli. Non è da escludere però che a breve inizi uno smottamento di azzurri verso la Lega, verso la stessa FdI, ma pure verso Azione e Italia viva. L’attuale capogruppo al Senato ha sempre intrattenuto buoni rapporti con Matteo Salvini. «Se è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo», azzarda una fonte di Fi con Tag43, «non è fantapolitica immaginare che presto Licia, dopo aver subito lo smacco di essere stata allontanata dal cerchio ristretto di Berlusconi, di esser stata defenestrata da coordinatore di Fi in Lombardia e di aver rischiato sabato scorso di perdere anche il ruolo di presidente dei senatori, sposti i suoi sempre più verso la Lega». E con i suoi si intende parlamentari come Alessandro Cattaneo, anche lui vittima dello spoils system targato Fascina, o di Paolo Emilio Russo, da poco sostituito con Danila Subranni a capo della comunicazione azzurra. Senza contare tutti quei forzisti che nel riassetto immaginato ad Arcore avrebbero dovuto rinunciare a ruoli nel partito, dal sottosegretario Giuseppe Mangialavori, coordinatore di Fi in Calabria, al presidente della commissione Affari sociali della Camera, Ugo Cappellacci, coordinatore in Sardegna. Si dirà che questo però non cambia nulla sul fronte della coalizione di maggioranza ed è vero. Ma è altrettanto vero che il peso specifico e di contrattazione di Salvini potrebbe aumentare su battaglie che, invece, non scaldano troppo i Fratelli d’Italia. Vale per l’autonomia, ma vale anche per Quota 100.

La mappa di Forza Italia: chi sta con Ronzulli e chi con Tajani
Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo (da Fb).

I governisti azzurri potrebbero bussare alle porte di FdI

Ben diverso il quadro, invece, se alcuni azzurri decidessero di fare le valigie e traslocare in Azione o Italia viva. Pure il partito di Calenda, in realtà, potrebbe avere un certo appeal dalle parti degli azzurri, potendo far leva sul peso di ex pezzi da novanta di Forza Italia come Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. Scenario che una fonte parlamentare di centrodestra tende però a escludere: «Se Renzi e Calenda parlassero dall’alto di un 10 per cento, questo discorso avrebbe un senso, ma con percentuali tra il 2 e il 3 per cento quale azzurro dovrebbe decidere di fare un salto nel buio?». Un effetto calamita, insomma, Renzi potrebbe suscitarlo solo in una prospettiva di breve periodo e cioè in un’ottica di sostegno all’attuale maggioranza, «ma siamo sicuri», continua la fonte, «che Meloni ci starebbe e non farebbe lei stessa saltare il tavolo per imporsi poi sì con il 30 per cento? Più probabile casomai che se Forza Italia nei prossimi mesi dovesse implodere, l’ala azzurra più governista bussi direttamente alla porta di FdI». Poco male per la tenuta complessiva della maggioranza, anche se suonerebbe come un fallimento dell’effettiva presa sul partito di Tajani…

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell’Ambiente

«La necessità, non più rinviabile, di predisporre una legge nazionale per il contenimento del consumo del suolo è prevista tra le riforme del Pnrr, ma è anche contemplata nel Piano per la transizione ecologica». Con queste parole, pronunciate alla Camera, Gilberto Pichetto Fratin iscrive il suo nome tra i ministri dell’Ambiente che sono intervenuti sul consumo del suolo, un tema che «va affrontato subito» (Gian Luca Galletti, 2015, governo Renzi) ed era giudicato «urgente» già nel 2013 (Andrea Orlando, governo Letta). Nel Paese delle catastrofi naturali (in Emilia-Romagna quello più recente, ma ancora prima Ischia, le Marche, solo per citare gli ultimi territori colpiti) non esiste una legge organica sul consumo di suolo. Al di là del merito della questione, che di per sé è assai complicata perché investe molti piani istituzionali – dal governo centrale alle Regioni e i Comuni – e tocca ancora più interessi, ci si chiede: come è possibile che la politica non riesca intervenire su un tema che da almeno un decennio essa stessa ritiene una priorità?

Ue, sì al regolamento sullo stop alle auto a benzina e diesel: l'Italia si astiene. Pichetto Fratin punta a reintrodurre i biocarburanti tra i combustibili neutri
Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. (Getty)

La «svolta» sul tema doveva esserci già nel 2014…

Questa carrellata dei ricordi, che non vuole essere per nulla esaustiva, potrebbe iniziare da Andrea Orlando, ministro Pd dell’Ambiente tra il 2013 e il 2014. Proprio a inizio 2014 Orlando portò in Consiglio dei ministri una legge sul tema che definì «una svolta per l’uso del suolo nel nostro Paese». Pochi mesi dopo – con la caduta del governo Letta e il passaggio di Orlando alla Giustizia – il dossier finì nelle mani di Maurizio Martina e Gian Luca Galletti, rispettivamente ministri dell’Agricoltura e dell’Ambiente dell’esecutivo Renzi. I due provarono a dare una spinta al disegno di legge che intanto avanzava più che lentamente alla Camera. A novembre 2014, infatti, inviarono una lettera all’allora ministra per i Rapporti con il parlamento, Maria Elena Boschi, chiedendo di accelerare l’esame parlamentare.

Andrea Orlando.

La tragedie recenti e il problema del dissesto idrogeologico

«Il disegno di legge in questione», si leggeva nella lettera congiunta, «rappresenta un passaggio importante e molto atteso al fine di introdurre norme per contenere il consumo del suolo, valorizzare il suolo non edificato, promuovere l’attività agricola che sullo stesso si svolge o potrebbe svolgersi, nonché per perseguire gli obiettivi del prioritario riuso del suolo edificato e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo del suolo inedificato, al fine complessivo di impedire che lo stesso venga eccessivamente “eroso” e “consumato” dall’urbanizzazione. Tali esigenze risultano particolarmente pressanti anche alla luce dei fenomeni di dissesto idrogeologico che sono alla base di numerose tragedie anche recenti». I ministri Martina e Galletti chiedevano, infine, «di voler sollecitare alla presidenza della Camera una rapida conclusione dell’esame del disegno di legge al fine di una sua calendarizzazione in assemblea auspicabilmente prima della fine dell’anno».

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell'Ambiente
L’ex ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. (Getty)

Ddl approvato alla Camera nel 2016, ma impantanato in Senato

Spinte che portarono, effettivamente, a un primo via libera parlamentare nel maggio 2016. «Il disegno di legge sul consumo del suolo è una vera urgenza nazionale: per questo ritengo l’approvazione del testo avvenuta oggi alla Camera un fatto politico di grande rilievo», aveva detto Galletti il giorno dell’ok, auspicando un’approvazione anche al Senato per «superare un problema italiano come il consumo del suolo e insieme aprire nuove opportunità di sviluppo sostenibile». Per il testo, però, Palazzo Madama si trasformò presto in una palude e il ddl finì impantanato.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sta visitando in queste ore l'Emilia-Romagna martoriata dalle alluvioni.
Conselice allagata dopo l’alluvione in Emilia-Romagna. (Getty)

La Meloni ha stanziato 160 milioni di euro dal 2023 al 2027: pochi

Nell’ultima legge di Bilancio, il governo Meloni ha inserito un articolo dal titolo “Fondo per il contrasto del consumo di suolo”. Lo stanziamento ammonta a 160 milioni di euro dal 2023 al 2027. Le risorse sono destinate la rinaturalizzazione di suoli degradati o in via di degrado in ambito urbano e periurbano. Secondo Per Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, si tratta di «nulla che contrasti il consumo di suolo, nulla che fermi la cementificazione che sta uccidendo il Paese. Stanno solo mettendo soldi (e pochi) per “rinaturalizzare” suoli (non si sa come: magari pure denaturalizzando altrove) che un attimo prima erano stati degradati, cosa che, diciamo pure, dovrebbe fare chi li ha inquinati e degradati». Un parere che è stato pubblicato su Altraeconomia.

Priorità a una legge sul consumo di suolo, le parole al vento dei ministri dell'Ambiente
Sergio Costa, ex ministro dell’Ambiente in quota M5s. (Getty)

Sergio Costa e il solito ritornello del «non c’è un pianeta B»

Insomma, in sette anni poco o nulla si è mosso. Tranne le dichiarazioni. Per dire, di nuovo Orlando qualche mese fa, all’indomani dell’alluvione che ha investito Ischia, è tornato a ripetere che «bisogna fare una legge sul consumo del suolo». E il titolare dell’Ambiente del Movimento 5 stelle Sergio Costa diceva solennemente a fine 2019: «È fondamentale agire ora per arrestare il consumo di suolo. Perché domani potrebbe essere troppo tardi. E non c’è un pianeta B. Mi appello, dunque, alle forze politiche di maggioranza affinché, parallelamente all’iter parlamentare del “Cantiere ambiente”, fondamentale per la messa in sicurezza del nostro Paese dal dissesto idrogeologico, si discuta e si approvi celermente la legge sul consumo di suolo». Ora si è iscritto anche l’attuale ministro. E il flusso delle dichiarazioni scorre.

Meloni, il rapporto col direttore del Corriere Fontana e la rete dei media

Pubblichiamo un estratto del libro I potenti al tempo di Giorgia, edito da Chiarelettere, uscito il 30 maggio e scritto proprio dal direttore di Tag43.it Paolo Madron e da Luigi Bisignani. Il capitolo in questione è quello su “Giorgia e la rete dei media”.

I potenti al tempo di Giorgia, arriva il libro di Paolo Madron e Luigi Bisignani
I potenti al tempo di Giorgia.

La7 procura a Cairo dei mal di pancia, può sempre contare su Luciano Fontana, che gli fa da pontiere come meglio non si può. Il rapporto tra uno dei più longevi direttori del «Corriere della Sera» e la premier è di lunga data e solidissimo. Tra i due messaggi ed emoticon, che lei ama usare à gogo.

Se n’è avuta prova anche di recente, in uno degli inciampi più spinosi che il governo ha dovuto affrontare, il caso dell’anarchico Cospito e le polemiche sul 41 bis. Meloni non è andata a rendere conto in Parlamento, ma ha scritto al «Corriere» per far sapere la sua posizione. Come ha fatto Rachele Silvestri per la fake sul figlio.

Se è per questo, Fontana ha anche dato un’intera pagina a Lollobrigida perché potesse giustificarsi dell’infelice uscita sulla sostituzione etnica, e ha dato ampio spazio ad Arianna per dire che non conosceva la nuova ad di Terna Giuseppina Di Foggia, e ancora alla premier per illustrare la sua posizione sul 25 aprile.

Selvaggia Lucarelli contro il ministro Lollobrigida: «Chiede di lavorare nei campi ma si è laureato dal divano». Il tweet si riferisce alle parole dell'uomo al Vinitaly
Giorgia Meloni e Francesco Lollobrigida. (Getty)

A questo punto Giorgia direbbe: «Noi a Quarto potere je famo ’na pippa».

Cortesia e disponibilità si ricambiano. Quando Berlusconi ha deciso di non candidare la brianzola Michela Vittoria Brambilla alle ultime elezioni, Fontana ha chiesto aiuto a Meloni e lei l’ha piazzata in un collegio sicuro in Sicilia. Nel feudo dove il Cavaliere ha fatto eleggere anche la sua finta moglie Marta Fascina.

Ad accomunarle, per usare un eufemismo, la scarsa frequentazione dell’isola e lo stupore dei locali elettori di trovarsele in lista.

E che c’entra Fontana con la più animalista dei parlamentari, conduttrice di una fortunata trasmissione tivù a difesa dei quattro zampe?

Si dice che sia stata proprio Brambilla, con la quale vanta un’antica amicizia, a portarlo la prima volta ad Arcore a conoscere Berlusconi. E che Fontana abbia ricambiato il favore presentandola a Bernardo Caprotti, il patron di Esselunga, perché la sua azienda ittica potesse trovare spazio tra gli ambiti scaffali dei suoi supermercati. Ma magari sono solo favole metropolitane.

Corsa alla candidatura nel centrodestra: tutti i nomi in lizza
Michela Vittoria Brambilla e Silvio Berlusconi nel 2009. (Getty)

Per Meloni avere il «Corriere della Sera» non pregiudizialmente contro mi pare cosa non da poco. Basterà a farla sentire meno isolata, a mitigare la sindrome di accerchiamento di cui lei e il suo entourage sembrano sempre più soffrire.

Mi verrebbe da dire «lo scopriremo solo vivendo», ma già qualche scenario lo si intuisce. Meloni dovrà stare attenta alle invasioni di campo. Non ti sarà sfuggito che Cairo non ha preso benissimo l’espansione a Milano della famiglia Angelucci, importanti imprenditori della sanità.

Paolo Berlusconi, Antonio Angelucci e il Giornale.

Ma se lo sapevano anche i muri che stavano trattando con Berlusconi l’acquisto del «Giornale»

Sì, ma considerando che la partita andava avanti da tempo in un lungo tira e molla, tutti erano convinti che alla fine il Cav non avrebbe venduto. E invece la costanza e il rapporto personale tra le due famiglie hanno favorito la conclusione dell’affare, suggellata con un pranzo milanese a casa di Marina.

Un segnale dell’indurimento di Cairo è arrivato anche dal rinnovo dei vertici della Fondazione Corriere, uno dei salottini buoni dell’intellighenzia meneghina. Poteva essere l’occasione per mettere dentro qualcuno che strizzasse l’occhio alla destra. Ha scelto De Bortoli, Mieli, Calabi e Mario Monti, che non sembrano meloniani sfegatati.

Milano è una enclave della sinistra, un editore non può non tenerne conto.

Tiriamo le somme. Tra i media su chi può contare Meloni? «Libero», «il Giornale», «Il Tempo», «La Verità», «La Gazzetta del Mezzogiorno», i quotidiani di Riffeser, Mediaset e due telegiornali Rai. E la non ostilità di via Solferino. Fossi in lei non mi lamenterei.

E i giornali di Caltagirone da che parte stanno?

L’ingegnere, col suo fiuto, da tempo ha puntato su Meloni.

Tra i direttori che più fanno opinione, Giorgia ha dalla sua Vittorio Feltri, che si è tra l’altro dimostrato un formidabile acchiappavoti, portandosi dietro un bacino di consensi importante, le due volte che si è candidato con lei. Al punto che nel 2015 Meloni e Salvini lo volevano pure portare al Quirinale.

Emilia-Romagna, il tweet choc di Feltri: «Prima piangono che non piove, poi perché qualcuno annega». Critiche sui social
Vittorio Feltri (Youtube)

Forse la premier deve cercare di essere più inclusiva, di non chiudersi a riccio bollando come reato di lesa maestà quando un giornale scrive un articolo critico nei suoi confronti. Non deve essere difficile, in fondo è giornalista anche lei. Ma ora sta seguendo la massima di Francesco Cossiga, suggerita da Margaret Thatcher: i giornali è meglio non leggerli.

La Romagna, l’acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi

«Eravate pesci!». Questo diceva ai padani della redazione di Cuore Roberto Perini, meraviglioso e indimenticabile vignettista e illustratore, autore, fra le altre cose, delle più belle copertine dei libri di Stefano Benni per Feltrinelli. Romano con lontane radici romagnole, Perini voleva rimarcare scherzosamente la superiorità di chi veniva dai Sette Colli rispetto a noi, oriundi di quello che in origine era un lembo di Adriatico, progressivamente riempito decine di migliaia di anni di fa dai sedimenti trascinati dai fiumi che vi sfociavano e dai detriti morenici portati a valle dalle masse d’acqua prodotte dal disgelo dei ghiacciai. Quanto mi aveva fatto ridere, l’iperbolica provocazione di Perini.

La Romagna, l'acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi
Sala di Cesenatico (da un video su Fb).

L’acqua che ci ha regalato, un’era dopo l’altra, la terra su cui camminiamo può portarcela via in una notte

Trent’anni dopo, mentre vedo la mia terra e i paesi dei miei antenati (Cesena, Sarsina, Mercato Saraceno) sommersi o assediati dall’acqua, rido un po’ meno. Mi suona sinistramente come «ricordati che pesce sei e pesce ritornerai»: l’acqua che ti ha regalato, un’era dopo l’altra, la terra su cui cammini e su cui sorgono le tue case, può portartela via in una notte. Perché non è più l’acqua lenta e costante del disgelo post Würm. Anche lei, come gli esseri umani contemporanei, è diventata più iraconda, aggressiva, esagerata. Vuole dare spettacolo, come se sapesse che finirà su TikTok e su Instagram e le sue gesta diventeranno virali su Internet. In un’ora trasforma un rigagnolo in un mostro torbido e possente e un borgo in Atlantide. Ma non ci darà il tempo di farci ritrovare pinne e branchie, anche se i tempi dell’evoluzione sono sicuramente più rapidi di quelli necessari a cacciarci nella zucca l’importanza della prevenzione, della manutenzione, della cura degli argini. Già è molto se ci farà sentire più vicini ai bengalesi e agli indiani, alle prese con monsoni incattiviti dai cambiamenti climatici.

La Romagna, l'acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi
Soccorsi a Massa Lombarda (Getty Images).

La Romagna oggi come l’Assam un anno fa, ma un’alluvione in Asia è una non-notizia

Le immagini che ci arrivano dalla Romagna – tetti che spuntano dall’acqua, campi trasformati in lagune, visi sbigottiti – somigliano molto a quelle che arrivavano un anno esatto fa dall’Assam e dalla regione di Sylhet e che guardavamo distrattamente quando passavano sui canali all-news (per i tiggì generalisti un’alluvione in Asia è una non-notizia). Le alluvioni eurasiatiche in genere sono catastrofi meno glamour degli uragani e dei cicloni americani, costruiti e gestiti come cattivi dell’universo Marvel: hanno un nome, una data e un luogo di nascita, si avvicinano alle città in un crescendo di suspence e di terrore scandita dalle raccomandazioni e dagli allarmi pressanti di tivù e radio. Quando la calamità si tinge di epopea, sopravvivere non è una fortuna, è una vittoria, anche se non hai più una casa e il ciclone non ti ha portato nel magico regno di Oz, ma su una brandina di fortuna in uno stadio con una dozzina di bagni per migliaia di senzatetto. Essere scampato alla furia di Katrina ti rende speciale, attiva la tua resilienza, crea legami con chi ha vissuto la tua esperienza, anche in luoghi e tempi diversi. Si erigono memoriali, si organizzano convention per ricordare ed elaborare, come fanno i veterani di guerra.

La Romagna, l'acqua che dà e toglie e la secolare arte di reinventarsi
Lugo, in provincia di Ravenna (Getty Images).

Risorgere dopo una guerra devastante come dieci alluvioni ci ha obbligato a tirare fuori le nostre risorse migliori 

Forse anche nel Vecchio continente dovremmo imparare a chiamare per nome gli eventi meteorologici estremi cui bisognerà fare l’abitudine, e a fronteggiarli, almeno psicologicamente, all’americana. E se c’è qualcuno che può provarci sono i romagnoli. E non solo perché la nostra riviera è stata ribattezzata “la Florida d’Italia“. La gente di qui ha qualcosa che sa di America. Si è reinventata, proprio come fanno gli emigranti, ma restando nella propria terra. Da razza misera e violenta di briganti con il grilletto facile e il pugnale in tasca anche quando diventavano presidenti del Consiglio (no, non mi riferisco a Mussolini, ma al ravennate Luigi Carlo Farini, che nel 1863, capo del governo, puntò un coltello alla gola di re Vittorio Emanuele per costringerlo a schierarsi con gli insorti polacchi contro la Russia), siamo riusciti a costruirci un’immagine completamente diversa e a diventare simpatici e apprezzati da tutti, in Italia e all’estero. Risorgere dopo una guerra devastante come dieci alluvioni ci ha obbligato a tirare fuori le nostre risorse migliori e a fare un oculato restyling di quelle peggiori. E così il nostro accento, che un secolo fa metteva in allarme i carabinieri, oggi mette di buonumore, evoca solo buon cibo, ospitalità e divertimento.

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Perfino i deprecati bagnini anti-Bolkenstein si riscattano mentre sgobbano h24 per ripulire l’arenile

Avere investito tanto sul fare star bene gli altri, anche solo per qualche settimana all’anno, in queste ore si sta traducendo in un’incredibile corrente di simpatia, solidarietà e affetto, anche da parte di chi non può esimersi dal ricordare il rovescio della medaglia del “modello romagnolo“, lo sfruttamento insensato del territorio e le manchevolezze dei politici locali. Non c’è articolo o servizio televisivo in cui non si sottolinei il carattere unico dei romagnoli. Twitter, una volta tanto, gronda di belle parole, di calore e di partecipazione. Perfino i deprecati bagnini anti-Bolkenstein si riscattano davanti all’opinione pubblica, mentre da Cesenatico a Cattolica sgobbano h24 per ripulire l’arenile dagli ammassi di legname accumulati dalle mareggiate e sistemare lettini dispersi e cabine allagate. Entro il weekend tutto sarà come prima, assicurano. Ehi, non commuovetevi troppo, io li conosco: nel caso peggiore erano pronti a trasformare la spiaggia in un parco acquatico a tema Spongebob. Anche quando diventeranno pesci si nutriranno di turismo.

L’effetto Palenzona sulla tregua nel Real Estate di Milano

LEGGI ANCHE: Palenzona ci scrive

A Milano, dopo le tensioni dei mesi passati, nell’immobiliare sembra essere arrivati a una pace per quanto, visti gli appetiti che si muovono nel settore, non si sa quanto possa essere duratura. Ma la odierna fotografia della situazione del Real Estate meneghino sembra aver consolidato i nuovi assetti e le strategie finanziarie che intorno a essi si muovono.

Immobiliare e banche, partita incrociata

L’ascesa di Fabrizio Palenzona alla guida di Fondazione Crt nonché dell’associazione che raggruppa tutte le fondazioni bancarie di Piemonte e Liguria ha prodotto effetti diversi a seconda che si parli di ambito bancario o immobiliare. Se sul primo, come si è dato conto su queste colonne, il dinamismo è notevole soprattutto sull’asse che vede Bpm perno di un possibile terzo polo nazionale, sul secondo la competizione tra grandi attori si è tramutata in cooperazione.

Le mosse di Palenzona verso Crt, tra Cirio e Lo Russo
Il banchiere Fabrizio Palenzona.

Le due cordate in campo

Banche, fondazioni e protagonisti del mattone sembrano far convergere i propri investimenti su un comune interesse di sistema, ovvero la crescita di Milano e dei suoi grandi progetti infrastrutturali ed edilizi. Nulla di ufficiale e labbra cucite tra gli operatori del mercato e della finanza, ma in quest’ottica è curiosa l’emersione di un “patto incrociato” che vincola reciprocamente le differenti cordate in campo. Tradizionalmente l’asse banche-fondazioni-real estate ne vedeva due competere per la supremazia cittadina. Da un lato, quella del sistema-Palenzona. Costituita da Unicredit, banca di cui è stato a lungo vicepresidente, dal fondo immobiliare italiano Prelios di cui l’ex politico e manager di Novi Ligure è presidente, in alleanza con Hines e Fondazione Crt. Dall’altro, l’impero Intesa San Paolo-Fondazione Cariplo affiancato da Coima, il fondo immobiliare del costruttore Manfredi Catella.

La tregua del real estate a Milano: quanto pesa l'effetto Palenzona?
Manfredi Catella (dal sito Coima).

Verso un nuovo equilibrio

Gli accordi sul terreno per la spartizione di progetti dall’alto impatto sistemico come MilanoSesto e il Villaggio Olimpico, accelerati dopo l’ascesa di Palenzona a Crt, sono il terreno su cui si sta costruendo la possibile intesa. A cui potrebbero contribuire i nuovi assetti in Fondazione Cariplo, in cui l’elezione a presidente dell’ex rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone è l’ultimo colpo del “grande vecchio” Giuseppe Guzzetti. Che, da buon democristiano, è uomo certamente abituato a smussare conflitti e tensioni più che a cimentarsi in aspre battaglie. Per ora il riassetto nelle fondazioni, polmone e centro di confronto tra interessi, è servito da deterrente. Lo si è visto con la fine della querelle su MilanoSesto, dove a Prelios e agli americani di Hines mirava a sostituirsi in toto Manfredi Catella con Coima. Il motivo? Il fatto che il principale sostenitore del più grande progetto europeo di rigenerazione urbana fosse Intesa San Paolo, il cui l’azionista Cariplo era, tramite Redo Sgr, alleata di Coima nel tentativo di acquisto dei diritti sul progetto detenuti da Prelios e Hines.

La tregua del real estate a Milano: quanto pesa l'effetto Palenzona?
Il render del Villaggio Olimpico (dal sito scaloportaromana).

MilanoSesto, laboratorio della tregua immobiliare milanese

«Toccherà agli storici dirimere il quesito se quella di Sesto San Giovanni», combattutasi ai primordi della primavera, «sia stata una vera guerra o solo una scaramuccia», ha scritto Dario Di Vico su Il Foglio. «Di sicuro la pace è stata raggiunta e, sembra, con reciproca soddisfazione di tutti i contendenti. Una pace imperniata, e non avrebbe potuto essere diversamente, sul ruolo di Intesa Sanpaolo che nell’operazione immobiliare aveva investito dall’inizio 900 milioni e, giustamente, voleva capire meglio in che direzione si stesse andando». Catella non ha conquistato l’intero pacchetto di MilanoSesto ma, in asse con Redo, ha ottenuto il social housing del nuovo progetto che da sempre fa molta gola a Cariplo, per un controvalore di 100 milioni di euro. A Hines e Prelios resta la parte di uffici e quella dell’edilizia a fini produttivi e economici ad alto valore aggiunto. Prelios a suo volta resta centrale nel progetto a guida Intesa di MilanoSesto. E Coima e Cariplo si muovono con attenzione su Porta Nuova, dove si trova il grattacielo sede di Unicredit, partecipata da Crt. Mentre Coima e Catella sono in prima fila in progetti come Pirelli 39 e la nuova skyline di Via Melchiorre Gioia.

La tregua del real estate a Milano: quanto pesa l'effetto Palenzona?
Il progetto MilanoSesto (dal sito Milanosesto).

Progetti complementari tra nord e sud della città

Del resto, la Milano verticale che cresce fa gola a tutti. I piani a guida Prelios-Hines di MilanoSesto per la riqualificazione dell’area delle acciaierie Falck sono destinati a essere complementari al grande progetto di Coima, il Villaggio Olimpico nell’ex Scalo di Porta Romana. Attorno a cui sorgeranno progetti legati agli studentati, all’housing sociale delle università pubbliche e ai nuovi alloggi della Bocconi, che a due passi dal futuro Villaggio Olimpico ha il suo nuovo campus.

C’è spazio per tutti, anche per Generali e Covivio

Insomma, dopo mesi di tensioni si è giunti all’idea che a Milano ci sia spazio per tutti. Anche per l’arrivo di nuovi attori. Oltre alle suddette due cordate, infatti, gli operatori seguono con interesse anche le mosse di Generali Real Estate e Covivio. La prima sta entrando in punta di piedi tra hotel e housing, forte del legame con un’azionista chiave come Mediobanca. Il secondo è il fondo legato all’eredità dell’impero di Leonardo Del Vecchio, che sembra giocare, per ora, all’ombra di Catella. Symbiosis, il distretto direzionale di Via Adamello vicino a Fondazione Prada, e le nuove torri del quartier generale di Snam sorgeranno con Covivio all’ombra del Villaggio Olimpico. Ma il gruppo Delfin, braccio finanziario della famiglia di Agordo, intende muoversi slegandosi dai grandi giochi finanziari. Il recente annuncio dell’imminente delisting da Piazza Affari di Covivio appare un ramoscello d’ulivo che lo svincola dalle grandi partite finanziarie e fa del real estate il business chiave del gruppo. E in un certo senso sembra favorire la distensione a cui tutti stanno lavorando. Quanto durerà lo scopriremo nei prossimi mesi.

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro

Dai benzinai a Mario Draghi passando per gli scafisti. Fino alla Corte dei conti, l’ultima protagonista di quella che potremmo definire la saga dal titolo È colpa di altri. In questi mesi di governo, infatti, non sono mancati scaricabarili e ‘nemici’ utili per allontanare responsabilità e colpe dal perimetro della maggioranza.

L’emendamento del governo per escludere la Corte dei conti dal controllo sul Pnrr

L’ultimo atto di questa strategia è l’emendamento presentato dal governo al dl Pa che esclude la Corte dei conti dal ‘controllo concomitante’ sul Pnrr, cioè il potere di verifica durante l’attuazione di un piano e non successivamente. In conferenza stampa il ministro per gli Affari Ue, Raffaele Fitto, ha più volte ribadito che non c’è nessuno scontro in atto con i giudici contabili, ma l’esecutivo ha applicato solo le norme e «il regolamento europeo indica chiaramente che la verifica del raggiungimento dell’obiettivo viene fatta tra Commissione Ue e Stato membro, quindi non è una competenza della Corte dei conti». Nonostante i toni felpati del ministro, difficile non leggere nella dinamica in atto una contrapposizione tra poteri dello Stato. Soprattutto dopo che la stessa Corte aveva evidenziato ritardi su alcuni progetti del Pnrr, come sulle colonnine di ricarica delle auto elettriche e sull’idrogeno. Anche perché, è sembrato il sottotesto di Fitto in alcuni passaggi della conferenza stampa, i rilievi della Corte stanno rendendo più difficile la trattativa del governo in Europa sulla revisione del Piano.

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro
Il ministro per gli Affari Ue Raffaele Fitto (da Fb).

I ritardi sul Pnrr? Colpa di decisioni di altri

E non solo. Il ministro è tornato su un altro cavallo di battaglia del governo per giustificare l’attuazione non proprio spedita del Pnrr. «Alcuni elementi di criticità» relativi al Piano «sono oggetto di decisioni precedenti sulle quali noi abbiamo avviato un adeguamento e una correzione degli interventi». Così l’esecutivo è tornato a indicare in Draghi il responsabile delle difficoltà che sta riscontrando il Piano. Non una novità. Già a marzo scorso, infatti, si era registrata tensione tra l’attuale esecutivo e quello precedente. «Molti progetti sono irrealizzabili, non ce la facciamo», aveva sentenziato Fitto. Parecchi osservatori lessero la dichiarazione come un atto d’accusa all’ex premier tanto che i retroscena parlarono di una telefonata riparatoria tra Giorgia Meloni e l’ex banchiere centrale (mai confermata). Vero è, però, che Francesco Giavazzi, consigliere economico di Draghi a Palazzo Chigi, accettò un invito in tv per dire che «chi dice oggi che il Piano è in ritardo non capisce come funziona».

La scelta dei tecnici di governo non sta portando a Draghi i risultati sperati: da Saipem Tim, tempi duri per le aziende strategiche del Paese
Francesco Giavazzi  (Getty Images).

Il dito puntato da Meloni contro i benzinai e gli scafisti, unici bersagli del governo

Normale scaricabarile, si dirà. Giusto. Eppure in questi mesi di scaribarili se ne sono visti parecchi. Come non dimenticare infatti l’accusa ai benzinai di speculare sul prezzo del carburante? Tutto nacque dalla decisione del governo Meloni di non rinnovare lo sconto sulle accise messo in campo da Draghi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina che aveva fatto lievitare, tra l’altro, il costo dei carburanti. Meloni, dopo un primo rinnovo, stoppò la misura, dirottando – legittimamente – quelle risorse ad altre voci di spesa. La conseguenza fu un aumento dei prezzi alla pompa. Una dinamica che portò, però, l’esecutivo ad accusare i distributori di speculare sul prezzo, tanto da spingere Palazzo Chigi a emanare un decreto legge per obbligarli a esporre cartelli con i prezzi medi nella zona di riferimento. Scelta mal digerita dai gestori che proclamarono uno sciopero, in parte poi revocato. Che dire poi dell’immigrazione? Grande cavallo di battaglia della destra pronta a blocchi navali (ricetta FdI) e chiusura di porti (Lega) all’opposizione. Gli ultimi dati disponibili parlano di quasi 50 mila sbarchi da gennaio. Nello stesso intervallo di tempo nel 2022 erano stati 19.550 e nel 2021 ancora meno, 14.700. Nel momento più critico dell’emergenza, segnato dalla tragedia di Cutro che costò la vita a 90 persone, Meloni scelse come bersagli gli scafisti. In un Cdm riunito proprio in Calabria per emanare norme durissime contro chi gestisce i viaggi illegali, la premier disse: «Noi siamo abituati a un’Italia che si occupa soprattutto di andare a cercare i migranti attraverso tutto il Mediterraneo, quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo, perché vogliamo rompere questa tratta».

Dalla Corte dei Conti a Draghi: per il governo Meloni la colpa è sempre di qualcun altro
Giorgia Meloni durante la conferenza stampa a Cutro (Getty Images).

La maggioranza sotto nel voto sul Def a causa del taglio dei parlamentari

E come dimenticare il brutto incidente parlamentare di fine aprile quando la maggioranza finì sotto alla Camera sul voto sul Def? In quel caso, le forze di maggioranza individuarono la responsabilità nel taglio dei parlamentari. «Quello che abbiamo visto è una conseguenza di quella furia iconoclasta che ha portato a un taglio lineare dei parlamentari, senza preoccuparsi del fatto che i ruoli apicali della Camera dei deputati, a differenza del Senato, sono rimasti esattamente gli stessi», attaccò il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. Simile posizione era stata espressa anche dal collega di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, secondo cui «alcuni quorum, funzionali per rendere efficaci le votazioni, che sono stati stabiliti quando questa camera era di 630 componenti, sono rimasti immutati, nonostante la Camera sia stata ridotta a 400 componenti». Non considerando che ovviamente con il taglio dei parlamentari anche i quorum sono stati visti al ribasso (alla Camera da 316 a 201). Di chi sarà la colpa del prossimo capitolo?

Fazio sul Nove, l’operazione di Caschetto e i link con La7

Il panorama editoriale televisivo italiano sembra una maionese impazzita. A livello di retroscena, più o meno smentiti, si rincorrono voci d’ogni sorta: Cairo-Rcs che secondo Dagospia sarebbe interessato ad acquistare Mediaset con una cordata di imprenditori, approfittando dell’inevitabile tramonto di Silvio Berlusconi; il gruppo Discovery che potrebbe a sua volta fiondarsi sul Biscione o che (in alternativa?) starebbe lavorando alla fusione tra Nove e La7. In ogni caso, il broadcaster che vanta 17 canali, oltre a Discovery+, tra cui Real Time, Food Network e soprattutto Nove, è sugli scudi in queste ore dopo il trasloco di Fabio Fazio e della squadra di Che Tempo Che Fa, “epurati” dalla nuova Rai targata Meloni.

Ufficiale, Fabio Fazio lascia la Rai e passa a Warner Bros. Discovery. Insieme a lui trasloca anche Luciana Littizzetto.
Fabio Fazio (Getty Images).

Il vero regista del trasloco di Fazio a Nove guidato da Araimo è Beppe Caschetto

Un passaggio che, secondo molti, accredita in prospettiva proprio Nove quale nuovo canale generalista in competizione con i principali che normalmente scorriamo sul nostro telecomando. Dopo la migrazione di Maurizio Crozza, l’accordo con Fazio è il secondo “colpo” che fa rumore per l’azienda della Warner Bros che in Italia è guidata da Alessandro Araimo, un passato in Fininvest nel suo ricco curriculum. Ma il vero demiurgo dietro le quinte dell’operazione, il nome che collega la satira non allineata all’intrattenimento dei “Belli ciao” sbeffeggiati da Matteo Salvini è quello di Beppe Caschetto, agente che non casualmente rappresenta gli interessi professionali sia di Crozza che di Fazio. E non solo. Basti pensare al gruppo di giornalisti che fa capo al Fatto Quotidiano: Marco Travaglio, Andrea Scanzi e Peter Gomez animano una piattaforma tv, Loft, i cui contenuti vanno proprio su Nove. E guarda caso si tratta di firme ospiti con regolarità nei vari talk de La7. Del gruppo faceva parte anche Francesca Fagnani con il suo Belve, prima di passare in Rai: la giornalista è anche compagna di Enrico Mentana, direttore del telegiornale della stessa emittente di Urbano Cairo.

Fazio sul Nove, l'operazione di Caschetto e i link con La7
Alessandro Araimo.

La scuderia del “Richelieu della tv” e i link tra Nove e La7

Dunque, i link che tengono insieme La7 e la Nove sono molto stretti. E Caschetto ne è protagonista di default, data la grande e capillare rete di artisti, giornalisti e autori tv che a lui fanno capo. Tutto iniziò 30 anni fa con Alba Parietti, ma oggi i nomi illustri in bouquet spaziano da Virginia Raffaele a Sabrina Ferilli, da Stefano De Martino ad Andrea Delogu, da Geppi Cucciari a Luca e Paolo, senza dimenticare Enrico Brignano, Maurizio Lastrico, Pif, Neri Marcorè, Brenda Lodigiani, Geppi Cucciari, Fabio Volo e Alessia Marcuzzi, quest’ultima ormai da 30 anni. Ma l’elenco potrebbe continuare: in portfolio c’è anche l’altro nome celebre di Che Tempo Che Fa, Luciana Littizzetto, oltre a Federico Russo, Enrico Bertolino, Maddalena Corvaglia o Miriam Leone per la sola carriera televisiva. E poi i giornalisti: Roberto Saviano, Lucia Annunziata, Giovanni Floris, Lilli Gruber, Corrado Formigli, Massimo Gramellini, Cristina Parodi, Salvo Sottile, Ilaria D’Amico, Daria Bignardi, Luca Telese, Enrico Lucci, Mia Ceran, Roberta Rei, Alice Martinelli, Domenico Iannaccone. E in passato anche Nicola Porro, che ora potrebbe sbarcare trionfante in Rai, magari proprio al posto di Fazio (ma Mediaset vuole tenerselo stretto). Non manca poi qualche autore tv di prestigio, come il braccio destro dello stesso Crozza, Andrea Zalone, e una delle “menti” sia di Crozza che di Fazio, Piero Guerrera che ha lavorato con gli stessi Luca e Paolo e Cucciari, oltre ad aver scritto per la coppia comica Ale e Franz che lo stesso Caschetto ha prodotto in teatro. Come si vede dai nomi, il talent scout emiliano, classe 1957, ha in mano un bel pezzo dei palinsesti Rai, ma forse è persino più “invasivo” nell’informazione de La7. Adesso sta lavorando dietro le quinte alla costruzione della Nove e l’arrivo di Fazio-Littizzetto (con i loro ospiti fissi della scuderia, da Saviano a Brignano) è un pezzo di questa strategia. Un tempo i fuoriusciti Rai erano tutti destinati ad approdare dalle parti di Cairo. Ora il vento potrebbe cambiare? Singolare coincidenza: la presidente della tv pubblica, Marinella Soldi, è stata in passato Ceo di Discovery. Oggi il suo voto è stato decisivo per il via libera al nuovo assetto meloniano in Rai e una fonte di Viale Mazzini chiosa: «Non farà resistenza perché tra l’altro è di area renziana e a Renzi non dispiace il nuovo vento che spira».

Perché la rai di Fuortes e Soldi parte in salita
Marinella Soldi, presidente Rai.

Il dominio di Caschetto, Presta, Ballandi e l’autoregolamentazione di Salini rimasta lettera morta

In tutti i casi c’è molto lavoro per la bolognese Itc 2000, azienda di famiglia Caschetto: una quindicina di dipendenti, appartiene a Beppe per il 70 per cento, mentre il restante 30 è diviso tra la moglie Rossana Mignani e la figlia Federica. Il fatturato 2021 è a quota 3,3 milioni di euro, in calo rispetto ai 4,6 milioni del 2019, ma i numeri non restituiscono il senso dell’influenza esercitata dal “Richelieu della tv”, come Caschetto viene definito. Un potere condiviso con l’altro grande curatore delle star, Lucio Presta, e con la società Ballandi che fu fondata dal celebre Bibi, scomparso cinque anni fa. Vedremo adesso a quali riassetti porterà il cambio di stagione in Rai. Certo, a Viale Mazzini ricordano come appaia lettera morta l’autoregolamentazione che risale ai tempi dell’ad Fabrizio Salini, secondo cui ciascun agente esterno non dovrebbe rappresentare più del 30 per cento degli artisti di una stessa produzione e non potrebbe curare gli interessi di personaggi tv impegnati in trasmissioni da lui prodotte. Insomma, Tele-Caschetto o Tele-Presta, c’è da giurarci, continueranno a farla da padroni.