Fino all’ultimo alcuni dei suoi manager hanno cercato di fargli cambiare idea. Ma non c’è stato niente da fare. E alla fine la lettera ai giornali in cui il patron del gruppo ha scaricato i vertici di Autostrade si è rivelata un enorme boomerang.
Fino all’ultimo alcuni dei suoi manager hanno cercato di fargli cambiare idea. «Aspettiamo, facciamolo più avanti», era l’argomento usato nel tentativo di dissuadere Luciano Benetton dal mandare ai giornali la letterapubblicata domenica primo dicembre in cui, prendendo le distanze dal management di Autostrade, denunciava una campagna di odio nei confronti della sua famiglia dopo i fatti del Ponte Morandi.
OLIVIERO TOSCANI, ASCOLTATISSIMO CONSIGLIERE
Ma è stato inutile. Il leader del gruppo non ha voluto sentire ragione. O meglio, ha dato ragione a quanti lo avevano incitato a prendere carta e penna. In primis Oliviero Toscani, l’artefice negli Anni 80 di famose e innovative campagne pubblicitarie che da quando Luciano ha ripreso le redini della United Colors è riapparso al suo fianco e gli fa da ascoltatissimo consigliere; la compagna Laura Pollini, e il figlio Alessandro.
UNA LETTERA TRASFORMATA IN BOOMERANG
Ma appena diffusa e ripresa dai giornali, quella lettera si è rivelata un boomerang come pochi. E il tentativo di scaricare su Castellucci,Cerchiai e gli altri top manager la totale responsabilità di quanto accaduto con la tragedia di Genova, con le pesanti negligenze di Autostrade che stanno emergendo dalleindagini della magistratura, salvaguardando l’azionista, ha avuto l’effetto contrario. In molti domenica nell’aprire i quotidiani si sono domandati come la famiglia potesse non sapere. Edizione, la holding che controlla Atlantia, nomina 12 consiglieri su 15, designa il presidente Fabio Cerchiai, che gode di stock option come tutti i manager di prima linea, e anche molti dei dirigenti più importanti hanno una carriera passata nelle aziende del gruppo di Ponzano. Forse Luciano se ne è sempre occupato poco, impegnato com’era a far tornare i conti della Benetton in rosso da anni. O forse ha voluto implicitamente addossare al fratello Gilberto, deceduto circa un anno fa e da sempre responsabile della diversificazione del business di Ponzano, il mancato controllo del lavoro dei manager?
L’IRRITAZIONE DELLA POLITICA
L’iniziativa ha destato subito sconcerto, perché non opportuna nei contenuti e nella tempistica. Ha fatto arrabbiare la politica, al punto da togliere argomenti al Pd, unica sponda che era rimasta al gruppo di Treviso per tentare di attenuare l’ostracismo dei 5 stelle che vogliono revocare le concessioni. Ed è suonata come uno schiaffo ai manager e dirigenti di Atlantia e Aspi, che tolto Castellucci sono per la gran parte gli stessi, che si sono sentiti accusati e non difesi. Il tutto a circa un mese dall’altra lettera del gruppo al governo nella quale chiedeva di mettere una pietra tombale sul tema concessione in cambio dell’impegno del gruppo su Alitalia. Anche allora la reazione politica fu dura al punto che anche la moderata Paola De Micheli, ministro Pd delle Infrastrutture, era intervenuta appoggiando la linea dura del M5s.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
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Per cinque secoli il disegno ha nascosto un inganno: è stato realizzato per dare forma in modo criptato alla formula aritmetica e geometrica della divina proporzione, che le botteghe tramandavano solo fra di loro. La scoperta di Roberto Concas.
Trent’anni di riflessione, sette di ricerche per capire che l’Uomo Vitruviano di Leonardo è l’immagine dell’algoritmo segreto che gli artisti hanno usato dal IV al XVIII Secolo per ”certificare” le proprie opere come ispirate dalla divina proporzione.
In altre parole, per cinque secoli il celebre disegno ha nascosto un inganno. È stato realizzato per dare forma in modo criptato alla formula aritmetica e geometrica che le botteghe usavano e tramandavano solo fra di loro, in osservanza dei parametri imposti dalla Chiesa.
Sono queste le conclusioni cui è giunta la ricerca di Roberto Concas, storico dell’arte già direttore dei Musei Nazionali di Cagliari. Il suo lavoro, anticipato in esclusiva all’agenzia di stampa Ansa, sarà oggetto di due volumi editi da Giunti e di una grande mostra che avrà luogo a Cagliari a maggio del 2020, organizzata dal Polo Museale Statale della Sardegna. Tutto con il titolo ”L’inganno dell’Uomo Vitruviano. L’algoritmo della divina proporzione”.
IL DISEGNO VA GUARDATO ALLO SPECCHIO
Ma non finisce qui. Concas si è infatti accorto che il disegno realizzato da Leonardo nel 1490 in realtà contiene due uomini in due diverse età della vita – forse addirittura tre – e va guardato allo specchio per riportare alla luce l’immagine vera del disegno e dare un senso a quelli che finora erano considerati dei semplici errori.
LA GENESI DELLA SCOPERTA DI CONCAS
Concas ha spiegato così la genesi della sua scoperta: «Tutto è iniziato dalle domande che mi sono posto sui Retabli della Sardegna, le caratteristiche pale d’altare. “Perché, mi chiedevo, hanno questa forma particolare a tre?”. Non c’erano risposte. Ho cercato per 30 anni. Poi a un certo punto trovo l’algoritmo che mi fa capire quale sia la parte centrale e quale quella laterale. Ma era solo l’inizio. Nel 2012, guardando il disegno dell’Uomo Vitruviano, noto una proporzione simile nella riga sotto: due parti più piccole, una centrale più grande. È faticoso spiegarlo, ma è stato come aprire una scatola dopo l’altra, ogni soluzione me ne apriva tre insieme, una casistica. Ho iniziato a capire che il disegno contiene due volti. L’occhio destro è di un uomo maturo,quello a sinistra di un volto più giovane. Mi è venuta un’intuizione. Leonardo ha sempre scritto a sinistra e ha imparato usando lo specchio. Anche qui usa lo specchio per ricostruire la figura completa. E le misure mi hanno dato ragione».
PERCHÉ LE MISURE DELLE BRACCIA SONO DIVERSE
Quindi due uomini, e con lo specchio si vede bene, di età diversa, ma disegnati per rappresentare quella che il frate matematico Luca Pacioli definiva come la scienza segretissima della divina proporzione. Un sistema d’insieme «rilevabile con misure micrometriche, regole della geometria piana, calcoli aritmetici e infine con l’uso di una banalissimo specchio», prosegue Concas. Ad esempio «le misure delle braccia, che sono diverse, vengono dal concetto di un numero generatore, 225,5 e 180,5. Facendo sottrazioni o divisioni si ottengono tutte le misure esatte delle due braccia».
LA REGOLA CHE NON DOVEVA ANDARE PERDUTA
Leonardo «temeva che potesse perdersi per stradaquella regola che era stata usata da architetti, artisti, letterati e poeti. Usata per la prima volta nell’Arco di Costantino, nel 315-325 dopo Cristo. Ma anche nella Pietà di Michelangelo e ovviamente nella Gioconda. Erano regole semplici in fondo, come quelle del gioco del calcio, 17 regole semplici. Così anche Raffaello faceva capolavori stando nelle regole. L’algoritmo, dal IV secolo fino al XVIII, serviva a diffondere e difendere le corporazioni. Per essere riconoscibili e certificarsi non bastava disegnare una Madonna, andava fatto secondo le regole segrete, che in modo semplificato si potrebbero definire della doppia spirale, che ha un significato filosofico molto antico». Se Leonardo avesse svelato che L’Uomo Vitruviano conteneva questo segreto, racconta ancora Concas, «lo avrebbero messo al rogo». Un mistero smarrito «quando con l’Illuminismo ha avuto termine il potere della Chiesa e il laicismo ha preso spazio. Ma se ci guardiamo intorno ne troviamo tracce, finora a noi incomprensibili, ovunque».
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Il governo potrebbe vararlo già nel Consiglio dei ministri del 2 dicembre. In 40 anni lo Stato ha speso 10 miliardi per tenere in piedi l’ex compagnia di bandiera.
Un decreto ad hoc per sbloccare il nuovo prestito da 400 milioni per Alitalia. Il governo potrebbe vararlo già nel Consiglio dei ministri del 2 dicembre. O, al più tardi, giovedì 5. L’obiettivo è consentire ai commissari l’utilizzo della nuova liquidità (stanziata col decreto fiscale) anche se non è stata ancora finalizzata la cordata per la cessione della ex compagnia di bandiera. Il prestito non dovrebbe però essere aumentato ma dovrebbe rimanere di 400 milioni.
Quando faremo pagare con il proprio patrimonio un po’ di ad che hanno utilizzato Alitalia come bancomat?
Luigi Di Maio
«Su Alitalia siamo tutti d’accordo che vada fatta una norma che permetta alla struttura commissariale di utilizzare il prestito ponte», ha dichiarato il leader del Movimento 5 stelle e ministro degli Esteri Luigi Di Maio, nella notte del 2 dicembre uscendo da Palazzo Chigi. «Tutti siamo d’accordo che dobbiamo dare una chance a questa compagnia ma è arrivato il momento anche di fare un’azione di responsabilità sugli amministratori. Quando è che decideremo con un’azione di responsabilità chi è che ha causato i danni ad Alitalia e facciamo pagare con il proprio patrimonio un po’ di ad che l’hanno utilizzata come bancomat?».
L’INDAGINE IN CORSO DELL’UNIONE EUROPEA
La nuova iniezione di capitali è necessaria per tenere in vita la compagnia visto che non è stato possibile trovare un acquirente sul mercato, nonostante le sette proroghe dei termini per presentare un’offerta. Dei 900 milioni del primo prestito ponte, sul quale l’indagine della Ue è ancora in corso, sono rimasti nelle casse di Alitalia al 31 ottobre solo 315 milioni. La compagnia perde circa 1 milione di euro al giorno. Il nuovo prestito deve essere rifinalizzato perché, come ha spiegato lo stesso ministro dello Sviluppo, Stefano Patuanelli, la cordata con Fs-Delta e Atlantia non c’è più. Su quest’altro prestito, la commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, ha fatto già sapere che «la Commissione è in contatto con le autorità italiane».
LO STATO HA SPESO 10 MILIARDI PER TENERE IN PIEDI ALITALIA
Alitalia continuerà quindi a volare con soldi pubblici in amministrazione straordinaria, come sta facendo dall’aprile del 2017 quando Etihad staccò la spina e i lavoratori bocciarono successivamente in un referendum un piano di ricapitalizzazione da 2 miliardi di euro e con circa 1.000 esuberi. Secondo le stime, la somma spesa dallo Stato negli ultimi 40 anni per tenere in piedi l’ex compagnia di bandiera è salita a circa 10 miliardi di euro.
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Il leader socialista era figlio del riformismo italiano e interprete della sua idea più aggressiva con una visione che tuttora è legittimo non condividere. Ma sarebbe un gesto esemplare chiedere rispetto per la sua figura. E se Davigo non è d’accordo, pazienza.
Fra qualche settimana, comunque all’inizio del nuovo anno, vedremo nelle sale il film di Gianni Amelio dedicato a Bettino Craxi.
Chi l’ha visto ne parla molto bene ed elogia l’interpretazione di Pierfrancesco Favino, già straordinario interprete di tanti film, fra cui Il Traditoredi Marco Bellocchio che racconta la storia di Masino Buscetta.
Fra qualche mese è anche l‘anniversario, 20 anni, della morte di Craxi quindi è normale e positivo che alcuni organi di stampa, in primo luogo il Corriere della Sera se ne occupino, diffusamente. Il Corriere lo ha fatto ieri con un articolo di Pigi Battista e un dibattito fra storici, Giovanni Scirocco, Silvio Pons e RobertoChiarini. Chi ha letto questi testi ha trovato sicuramente riflessioni di grande interesse.
IL DIBATTITO PIENO DI LUOGHI COMUNI SU CRAXI
C’è un doppio tema che accende la discussione sulla figura di Craxi ed è da un lato la sua demonizzazione criminale e dall’altro, non slegato da esso, il riproporsi delle ragioni della contrapposizione fra Craxi e il Pci e ancora oggi fra il socialismo che si richiama al suo leader e i post comunisti.
La riforma radicale di politica e istituzioni è l’unica salvezza contro la destra che dilaga sia nelle forme del sovranismo leghista sia nelle idee della destra tradizionale di Giorgia Meloni
È una discussione difficile, ancora piena di acrimonie, di luoghi comuni, di incapacità di guardare lontano, sia all’indietro, sia, soprattutto, davanti. Ovviamente non è possibile un giudizio definitivo che metta pace fra i contraddittori. Per tanti Craxi resta un innovatore vittima del giustizialismo, per altri il simbolo della corruzione della politica. Né è facile rasserenare gli animi fra la componente comunista e quella socialista che negli anni di Craxi e Berlinguer si divisero in modo irrevocabile.
PER LA SINISTRA LA SOCIALDEMOCRAZIA ERA L’UNICA PROSPETTIVA
La beffa della storia è che oggi molte di quelle ragioni di divisione sono irrilevanti. La socialdemocrazia, ancorché cadente, era l’unica prospettiva per la sinistra di fronte a un comunismo fallimentare e persino di fronte all’italo-comunismo. È chiaro a tutti che dopo il 2008 si è fatta strada l’idea socialista che non c’è salvezza fuori da una logica che porti la sinistra a fare a cazzotti con il capitalismo (idea di Lombardi) senza aspirare alla fuoriuscita.
È chiaro davanti a noi che la riforma radicale di politica e istituzioni è l’unica salvezza contro la destra che dilaga sia nelle forme del sovranismo leghista sia nelle idee della destra tradizionale di Giorgia Meloni che sembra destinata a grandi successi elettorali. Infine, come dato saliente e clamoroso, appare sempre più chiaro che nella lettura ex post delle vicende che portarono l’Italia al fascismo una responsabilità cade sulla testa dei comunisti che si scissero dal Psi. Quella scissione è storicamente spiegabile ma oggi nessuno che si dica comunista la farebbe.
CRAXI NON È UNA PAGINA DI STORIA CRIMINALE
Craxi in questo contesto che cosa è stato? Non è stato il malandrino politico che ha preso il potere. Prima e dopo di lui altre figure meritano questa definizione, soprattutto in questi anni recenti. Craxi è stato un grande leader della sinistra che ha intuito come pochi la crisi della politica e delle istituzioni, che ha capito il grado di sofferenza del sistema economico, che ha colto come il movimento sindacale dovesse rinnovarsi anche a prezzo di durissime lacerazioni. È stato un leader socialdemocratico occidentale, più encomiabile per aver accettato dal cancelliere Helmut Schmidt la proposta di mettere i missili di quando venne elogiato per aver consentito a Sigonella di impedire l’arresto di terroristi palestinesi. Comunque ognuno la pensi come vuole.
Craxi è stato un grande leader della sinistra che ha intuito la crisi della politica e delle istituzioni, che ha capito il grado di sofferenza del sistema economico, che ha colto come il movimento sindacale dovesse rinnovarsi anche a prezzo di durissime lacerazioni
Il tema di oggi non è la classifica dei meriti e dei demeriti. Il tema di oggi è che dobbiamo farla finita con questa discussione primordiale e primitiva. Craxi non è un pezzo di storia criminale. Questo giudizio non riguarda solo lui, riguarda l’intera Prima Repubblica. La vittoria del “mostri” che da anni invadono le stanze del potere nasce dall’aver accettato questa lettura della storia italiana.
IL GIUSTIZIALISMO NON HA GRANDI PADRI
I magistrati sono diventati storici, maestri di morale, leader di massa. Prevalentemente sono gli stessi che hanno tradito Giovanni Falcone quando aspirava a diventare, legittimamente, capo della Procura antimafia. Il giustizialismo non ha grandi padri. Non lo era Falcone, basta leggere tutti i suoi scritti, non lo era neppure Paolo Borsellino, uomo d’ordine ma non uomo da guerra civile strisciante.
LE DUE IDEE SBAGLIATE DEGLI EX COMUNISTI
Gli ex comunisti hanno pensato due idee sbagliate. Ne hanno, ne abbiamo avute tante, ma le prime due sono queste: l’idea che la fine del comunismo fosse anche merito nostro e fosse una gioia e che la fine di Craxi liberasse il campo dal nemico interno. Il comunismo è caduto malgrado i comunisti italiani, che erano cosa diversa ma che non avevano mai intaccato quel sistema.
Craxi era figlio del riformismo italiano e interprete della sua idea più aggressiva, con una visione che è legittimo tuttora non condividere. È per questo che io penso che che un gesto esemplare che riguardi la “riabilitazione” sia Craxi sia necessario. Immagino che alcuni dirigenti ex Pci scrivano un breve documento e dicano che Craxi era un nostro compagno da cui abbiamo dissentito ma che chiediamo a tutti di rispettare e ammirare per le sue idee. Se Davigo non è d’accordo, chissenefrega.
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Le modifiche al calendario fiscale. L’abrogazione delle multe ai negozianti senza Pos. I 180 milioni per polizia e vigili del fuoco. Gli interventi approvati dalla commissione Finanze.
Abrogazione delle multe per i negozianti che non hanno il Pos, calo dell’Iva sugli assorbenti, slittamento a settembre della scadenza per il 730. Sono alcuni degli interventi previsti dagli emendamenti al decreto fiscale, approvati dalla commissione Finanze della Camera in una seduta che ha superato le 14 ore. Il testo, in prima lettura a Montecitorio, è atteso in Aula per la discussione generale la sera del 2 dicembre ma non si esclude che l’avvio dell’esame da parte dell’Assemblea possa slittare di 24 ore. Ecco gli emendamenti più importanti, nel dettaglio.
ABROGATE LE MULTE PER I NEGOZIANTI SENZA POS
Vengono abrogate le sanzioni per i negozianti che non hanno il Pos per i pagamenti con carta di credito e debito. Ad annunciarlo è stato il sottosegretario al Mef, Alessio Villarosa: «Pensavate passasse la norma senza la riduzione delle commissioni… invece no. Come promesso, non c’è il protocollo per ridurre i costi delle transazioni alle imprese? E allora non ci saranno neanche le sanzioni a chi non ha il Pos. Ogni promessa è debito».
SLITTANO LE SANZIONI SUI SEGGIOLINI PER BAMBINI
Vengono rinviate al 6 marzo le multe per chi non si adegua alle nuove norme sui seggiolini auto per i bambini. Salgono inoltre da uno a 5 milioni gli stanziamenti previsti nel 2020 per le agevolazioni sotto forma di credito di imposta.
L’IVA SUGLI ASSORBENTI SCENDE AL 5%
L’Iva passa dal 22% al 5% per gli assorbenti compostabili o lavabili. Villarosa ha spiegato che «c’è un impegno del governo per intervenire totalmente» sulla questione, in modo da allargare lo spettro delle tipologie di prodotti igienici femminili per i quali sarà abbassata l’Iva.
LA SCADENZA PER IL 730 SLITTA AL 30 SETTEMBRE
Si riscrive il calendario fiscale, con la scadenza del 730 che passa dal 23 luglio al 30 settembre. Cresce anche la platea dei contribuenti che possono usare il 730: oltre ai dipendenti e ai pensionati, possono presentarlo anche i titolari di redditi assimilati a quello di lavoro dipendente e i titolari di redditi di lavoro autonomo occasionale.
IN ARRIVO 180 MILIONI PER POLIZIA E VIGILI DEL FUOCO
In arrivo 180 milioni di euro per gli straordinari delle forze di polizia e dei Vigili del fuoco. Il testo riguarda compensi non ancora liquidati e riferiti a prima del 2019. Per le forze di polizia vengono stanziati 175 milioni mentre cinque milioni vengono stanziati per i Vigili del fuoco.
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Sul fondo salva-Stati tutto viene rinviato all’11 dicembre. Dopo le comunicazioni di Conte in parlamento, la maggioranza sarà chiamata a varare una risoluzione comune. Strappo di Renzi. A Gualtieri il mandato di trattare.
Quattro ore lunghe e tese non hanno portato a un accordo, ma a una fumata grigia sul Mes. Il vertice di governo convocato dal premier Giuseppe Conte a poche ore dal nuovo redde rationem con Matteo Salvini in parlamento, non ha chiuso la partita del fondo salva-Stati all’interno della maggioranza. Le posizioni di M5s e Pd «sono diverse», ha ammesso Luigi Di Maio. E Conte ha scelto di affidare alle Camere la decisione definitiva sull’ok alla riforma del Meccanismo. La data da tenere d’occhio è l’11 dicembre: dopo le comunicazioni del premier al Senato in vista del Consiglio Ue, la maggioranza sarà chiamata a varare una risoluzione comune. Ed è lì che il governo rischia il baratro.
A Palazzo Chigi, presenti al vertice andato in scena nella notte tra l’1 e il 2 dicembre, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, i capi delegazione di Pd, M5s e Leu, Dario Franceschini, Luigi Di Maio e Roberto Speranza, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e il ministro per gli Affari Ue Enzo Amendola. C’era anche il titolare dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, visto che nella riunione si è parlato anche di un nuovo prestito-ponte per Alitalia.
A chiamarsi fuori è stata Italia viva. «Non abbiamo nulla su cui litigare, se la vedessero tra di loro. Gli italiani sono stanchi di questi vertici, vogliono risposte», ha spiegato Matteo Renzi. Ma una risposta definitiva, sul Mes, ancora non c’è. «In vista dell’Eurogruppo del 4 dicembre il governo affronterà il negoziato riguardante l’Unione economica e monetaria (completamento della riforma del Mes, strumento di bilancio per la competitività e la convergenza e definizione della roadmap sull’unione bancaria) seguendo una logica di “pacchetto”», hanno fatto sapere fonti di Palazzo Chigi. Specificando che, sulla riforma del fondo salva-Stati, «ogni decisione diventerà definitiva solo dopo che il parlamento si sarà pronunciato».
Ovvero, dopo le risoluzioni che seguiranno alle comunicazioni di Conte in Aula dell’11 dicembre, proprio in vista del Consiglio Ue. Palazzo Chigi, in realtà, non parla di rinvio. E, dopo la riunione, è questo il punto che tiene a sottolineare Franceschini. “Bene l’incontro di stasera sul Mes. Nessuna richiesta di rinvio all’Ue ma un mandato che rafforza il ministro Gualtieri a trattare al meglio l’accordo”, spiega il ministro della Cultura specificando, anche lui, come “ovviamente” sarà il Parlamento a pronunciarsi in modo definitivo. A tarda notte, da Palazzo Chigi, escono, uno dopo l’altro, Di Maio e Franceschini. Tirando ognuno acqua al proprio mulino. “Nessuna luce verde è stata data a Gualtieri finché il Parlamento non si esprimerà”, scandisce il titolare della Farnesina anticipando che l’11 dicembre il M5S presenterà una risoluzione in cui si chiederà a Conte di chiedere il miglioramento, al Consiglio Ue di dicembre, dell’intero pacchetto di riforme dell’Unione Economica e Monetaria. Pacchetto in cui, avverte Di Maio, “c’è tanto da cambiare”.
Dieci giorni, quindi, per trovare una quadro. Dando mandato a Gualtieri di anticipare all’Eurogruppo la trincea italiana. Dieci giorni, per il leader M5S, per trovare una quadra all’interno dei gruppi sul sì ad una riforma sulla quale, in tanti pentastellati, sono disposti a tutto. Con un rischio: che la risoluzione sul Mes diventi un doppione di quella che, sulla Tav, anticipò la fine del governo. “Mi auguro che su questa impostazione emergano le differenze macroscopiche che ci sono tra il M5S e il Pd e quindi si finisca con questo Governo”, sottolinea Gianluigi Paragone. In tanti, nel Movimento, gli rispondono via facebook. A testimonianza che, dietro il Mes, la partita che si gioca tra i pentastellati è un’altra: se andare avanti con il governo giallo-rosso.
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Piazza Affari si prepara all’apertura dopo una seduta in calo. Il differenziale Btp Bund a quota 159 punti. I mercati in diretta.
La Borsa italiana si prepara all’apertura dopo una seduta di fine settimana in calo per PiazzaAffari (-0,36%), nonostante i buoni dati sul Pil e sul lavoro. Tra le perdite maggiori quelle dei costruttori, con Buzzi(-3,1%) e Astaldi (-3,2%), mentre ha tenuto SaliniImpregilo (+0,1%).
Male i petroliferi, col prezzo del greggio in calo (wti -4,1%) con le incertezze sui dazi e la riunione Opec in vista. Giù Saipem (-2,7%), Tenaris (-1,2%) e Eni (-0,6%), insieme a Pirelli (-2,1%). Perdite per Juve (-1,5%), Campari (-1,3%), Leonardo (-1,1%), Atlantia (-1,8%) dopo le notizie sulla concessione autostradale di Aspi in bilico e Mediaset (-1,6%) fallito il tentativo di conciliazione con Vivendi.
LO SPREAD A 159 PUNTI BASE
In ordine sparso le banche, con lo spread che ha chiuso a 159. Giù Ubi (-0,7%), Intesa (-0,4%) e Banco Bpm (-0,2%), meglio Bper (+0,1%) e Unicredit (+0,2%). Sofferenti Mediobanca e Moncler (-0,9%), Fca (-0,5%) come il resto del comparto in Europa, e Poste. Bene Recordati (+2%) e Nexi (+1,3%). Bene alcune utility, come Terna (+1,1%), Snam (+0,6%) e Hera (+0,5%).
I MERCATI IN DIRETTA
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La manifestazione si è spostata da Piazza dei Mercanti per la folla troppo numerosa. Tra gli ospiti Saviano: «Voi impedite l’erosione della democrazia».
La pioggia non ferma le Sardine a Milano: Piazza del Duomo è gremita di persone che hanno deciso di prendere parte alla manifestazione lanciata dal movimento delle Sardine per la prima volta anche nel capoluogo lombardo. Sul palco si sono alternati momenti di musica e altri in cui attori hanno recitato alcuni articoli della Costituzione. Nel frattempo la folla cantava ‘Bella Ciao‘ o scandiva ‘Milano non si Lega‘, o ancora ‘Ora e sempre Resistenza‘.
SAVIANO PARLA ALLA FOLLA
«Queste piazza non deve essere una piazza solo contro, ma sta andando verso la difesa dei diritti che sono prima di ogni cosa. Le Sardine impediscono l’erosione della democrazia»: così RobertoSaviano ha salutato le Sardine. «Questa piazza è bellissima perché non c’è nessun leader, nessuna volontà di dire vaffa o di fare rottamazioni», ha aggiunto, «ma questa è l’Italia che ha voglia di incontrarsi e ragionare».
LA MANIFESTAZIONE SPOSTATA IN DUOMO
La manifestazione è stata spostata dalla più piccola piazza dei Mercanti alla centrale piazza del Duomo. Questo, come hanno spiegato gli organizzatori perché la partecipazione è stata più ampia del previsto..
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Dal dramma francese di Sardou al canovaccio di Illica e le liriche di Giacosa. La storia dell’opera di Puccini che apre la stagione della Scala. E che è una delle cinque più rappresentate al mondo.
È la prima volta che Tosca di Giacomo Puccini inaugura la stagione della Scala, il 7 dicembre. Sul podio Riccardo Chailly, regia di Davide Livermore, protagonisti il soprano Anna Netrebko (Floria Tosca), il tenore Francesco Meli (Cavaradossi) e il baritono Luca Salsi (Scarpia).
Il caso è singolare, perché si parla di una delle opere più applaudite di sempre, che infatti ha nel teatro del Piermarini una storia importante, scandita attraverso i grandi interpreti del XX secolo. E in fondo anche perché nelle intenzioni del compositore l’opera era destinata proprio alla Scala e al suo fido Arturo Toscanini che aveva allora poco più di 30 anni.
LA FORTUNA PLANETARIA DI UN’OPERA SENZA TEMPO
La prima assoluta si ebbe in realtà e non per caso al Teatro Costanzi di Roma (oggi Teatro dell’Opera), il 14 gennaio 1900: così volle l’editore Ricordi in considerazione della “romanità” del soggetto. E anche per ragioni promozionali. A MilanoTosca approdò due mesi più tardi, il 17 marzo, sull’onda di un grande successo. Nel giro di pochi anni sarebbe dilagata in Europa, quindi nelle Americhe e in Oriente. Era l’inizio di una fortuna planetaria, che non accenna a tramontare.
Negli ultimi 15 anni (dati di Operabase.com) è al quinto posto assoluto fra le opere più rappresentate, con 1.428 produzioni e 6.869 rappresentazioni. Vuol dire che dal 2004 in media è andata in scena un po’ più di una volta al giorno. E poi dicono che il melodramma è al tramonto. Dipende dal titolo, e dall’autore.
IL DRAMMA DI VICTORIEN SARDOU
L’idea di Tosca era venuta a Puccini nel 1889, dopo avere assistito a Milano alla rappresentazione dell’omonimo dramma di Victorien Sardou (scritto nel 1887) con la “mattatrice” Sarah Bernhardt nel ruolo principale. L’interesse del compositore fu immediato, la causa di questo interesse resta misteriosa, a meno di non voler fare ricorso a categorie poco estetiche e molto psicologiche (e spesso anche molto banalizzate) come l’intuito o l’istinto creativo.
Il compositore Giacomo Puccini (1858 – 1924) (Getty Images).
Lo spettacolo si teneva infatti in lingua originale francese e il musicista non capì granché del dialogo, anche se è vero che l’arte di Bernhardt era largamente affidata alle sfumature della voce e al gesto. Ma soprattutto, la pièce di Sardou era (ed è) un drammone di cornice storica, improntato dal gusto per il coup de théâtre sanguinoso, che si dipana per cinque lunghi atti fra innumerevoli divagazioni in molteplici ambientazioni sceniche, popolato da una folla di 23 personaggi. Qualcosa di sideralmente lontano dalla tagliente concentrazione drammatica che è carattere fondante dell’opera.
L’EFFICACE ADATTAMENTO DI ILLICA
Dato atto della rabdomantica capacità di Puccini di “sentire” le potenzialità melodrammatiche del testo di Sardou, bisogna aggiungere che all’iniziale clic scattato nella mente del compositore seguì una lunga fase di dubbi e d’incertezza, anch’essa del resto caratteristica dei suoi complessi percorsi creativi. Intanto, la Casa Ricordi – su richiesta del musicista – aveva acquisito i diritti del testo e Luigi Illica ne aveva realizzato rapidamente una straordinaria sintesi, una “tela” efficacissima (oggi potremmo dire un adattamento) che riduceva gli atti da cinque a tre, lasciando Tosca, Scarpia e Cavaradossi praticamente soli a delineare il plot, con solamente due altri personaggi di qualche significato nel contorno (il sagrestano e lo sbirro Spoletta). Il resto delle invenzioni di Sardou svaniva, salvo il grand-guignol (morti ammazzati o suicidi) e l’ambientazione romana che diventava però elemento ben diversamente caratteristico nella sua specificità anche topografica.
La chiesa di Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo: tutto si svolge in un triangolo di poche centinaia di metri nel cuore della Capitale. In questi luoghi, uno per atto, la storia inizia all’ora dell’Angelus (mezzogiorno) per concludersi all’alba successiva, fra il 17 e il 18 giugno 1800. I papisti credono che Napoleone sia stato sconfitto a Marengo e invece è accaduto il contrario; il feroce capo della polizia va a caccia di prigionieri politici evasi e cerca intanto di soddisfare la sua “foia libertina” nei confronti di una cantatrice famosa, con il condimento sadico di torture a un pittore volterriano, che di lei è l’amante.
L’AFFIDAMENTO DELL’OPERA A PUCCINI
Tornando alla genesi dell’opera, mentre Puccini si dedicava ad altro (e che altro: Manon Lescaut e Bohème), Tosca – soggetto che lo stesso Verdi apprezzava, avendolo conosciuto durante un incontro con Illica e Sardou a Parigi – fu affidata dall’editore Ricordi a un bravo compositore della sua scuderia, Alberto Franchetti. La prassi all’epoca non era infrequente. Semmai, era decisamente raro che poi un soggetto “tornasse a casa” come avvenne con Tosca, riaffidata dopo la spontanea (o forse “spintanea”) rinuncia di Franchetti a un Puccini stavolta entusiasta dell’impresa. Era l’estate del 1895, di lì a pochi mesi avrebbe debuttato LaBohème. A Illica venne affiancato Giuseppe Giacosa, per la rifinitura poetica di un libretto che è quasi tutto in versi. Il famoso letterato e drammaturgo doveva risultare uno dei più accesi critici del soggetto, ma i suoi tentativi di sfilarsi dall’impresa vennero sempre respinti, segno che la sua polemica collaborazione era ritenuta fondamentale.
Una foto di scena di Tosca a La Scala con la direzione di Lorin Mazel e la regia di Luca Ronconi (2006).
I DUBBI DI GIUSEPPE GIACOSA
Giacosa imputava alla trama di contenere troppi fatti e pochi sentimenti e di essere per questo inadatta a diventare melodramma. Contestava non senza qualche motivo il fatto che il finale del primo atto e l’inizio del secondo fossero entrambi caratterizzati da un monologo di Scarpia. Pensava che la successione di duetti mettesse a rischio l’equilibrio del melodramma. Cercava luoghi dove fare poesia e stimolare la musa lirica pucciniana, com’era avvenuto con risultati memorabili in Bohème. Non capiva la diversità di Tosca, né poteva immaginare che Puccini stesse preparando una virata radicale rispetto allo stile e al clima dell’opera ambientata a Parigi, ma alla fine si adattò. E facendolo ha consegnato alla letteratura italiana alcuni dei più seducenti versi per musica scritti fra Otto e Novecento.
Luciano Pavarotti nella Tosca (1979-1980).
Il libretto di Tosca è infatti un capolavoro per il capolavoro: nitido e tagliente, lirico e brutale, funzionale come meglio non si potrebbe alla drammaturgia musicale pucciniana. Una miniera di versi memorabili fra i quali il musicologo Mario Bortolotto amava spesso citare quello di Cavaradossi nel primo atto, nel quale proclamava esserci la più brillante avversativa della letteratura italiana: «È buona la mia Tosca, MA credente».
LA PASSIONE DI MONTALE PER TOSCA
Oltre la boutade colta, questo è però anche un libretto insospettabilmente denso proprio sul piano della poesia. Non a caso, è stato una sorta di riferimento non solo ideale ma molto pratico e preciso per uno dei maggiori poeti italiani del XX secolo, Eugenio Montale.
Il trionfo di Maria Callas nella Tosca al Covent Garden di Londra. Accanto a lei Tito Gobbi e Renato Cioni (LaPresse).
In numerosi passai dell’opera del Nobel per la Letteratura, soprattutto nella sua prima fase, gli studiosi hanno trovato agganci e vere e proprie citazioni del testo di Giacosa. Montale fu anche critico musicale, come è ben noto, e in gioventù aveva accarezzato l’idea di una carriera da cantante lirico. «Come baritono», raccontò una volta il poeta al suo biografo Giulio Nascimbeni, «mi attraeva la figura di Scarpia nella Tosca. Vedo che in genere lo fanno tutti male. Non gli danno il tono del gran signore, lo trasformano in una specie di sceriffo austriaco…». Ancora qualche giorno, e si potrà capire se questa Tosca sarebbe stata nelle corde di Eugenio Montale.
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Rischio di nuovi smottamenti per le forti piogge. Stop al traffico sull’autostrada in entrambe le direzioni.
È stata di nuovo chiusa in entrambe le direzioni l’autostrada A6 Torino-Savona nel tratto tra Altare e il Bivio con la A10, che era stata riaperta solo venerdì 29 nella carreggiata sud a doppio senso di marcia. E’ quanto si apprende da Autofiori. La chiusura è scattata dopo che si è attivato il piano sottoscritto in Prefettura, che prevede che qualora il monitoraggio della frana da parte della protezione civile evidenzi il superamento di alcune soglie di sicurezza l’autostrada sia nuovamente interdetta.
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Ora la Mecca grillina è Pechino. Ma prima di Xi Jinping i pentastellati si erano infatuati di Maduro, di Putin, considerato fino al 2014 un nemico, e pure di Trump. Prima della parentesi obamiana di Grillo.
I due incontri che Beppe Grillo ha avuto con l’ambasciatore cinese in Italia, la favola dello Xinjiang pacificato pubblicata sul Blog del comico mentre ilNew York Times denunciava la ferocia della repressione di Pechino sugli uiguri, il silenzio del ministro degli EsteriLuigi Di Maio sulle proteste di Hong Kongriportano alla luce il delicato tema dell’infatuazione dei grillini per leader discussi e discutibili e per regimi non esattamente liberali.
L’ultima è per Xi Jinping, o meglio presidente «Ping» come lo chiamò Di Maio.
Prendiamo per esempio il sottosegretario agli Affari Esteri, Manlio Di Stefano. Per il deputato pentastellato, i «peggiori bar di Caracas» della pubblicità emanano profumi inebrianti. Tanto che nel marzo 2017, con Vito Petrocelli, vicepresidente del Comitato italiani all’estero e Ornella Bertorotta, nella passata legislatura capogruppo alla commissione Affari esteri del Senato, volarono in Venezuela. Scopo della missione: raccogliere voti tra gli italiani all’estero. Risultato: una imbarazzante quanto convinta sfilata al fianco delle più alte sfere dell’esecutivo di Nicolás Maduro.
L’ennesima gaffe pentastellata frutto di chi ha sempre faticato a distinguere tra Cile e Venezuela, Pinochet e Chávez? Non questa volta. A gennaio 2019, i l M5s si astenne dal voto europeo che riconobbe Juan Guaidò legittimo presidente del Paese. Fabio Massimo Castaldo dichiarò: «Non siamo né pro né contro Maduro, difendiamo i diritti umani». E il solito Di Stefano sentenziò: «L’Italia non riconosce Guaidò». Non stupisce del resto visto che già nel 2016 Davide Casaleggio aveva indicato come modello per la democrazia diretta proprio il Venezuela.
Una foto postata sul suo profilo Instagram di Luigi Di Maio dell’incontro con i Gilet gialli.
LE AFFINITÀ ELETTIVE CON I GILET GIALLI
Il mantra del M5s in politica estera è sempre stato quello della non ingerenza. Motivo per cui Di Stefano strigliò il presidente francese Emmanuel Macron colpevole di aver definito illegittimo il governo Maduro. «Il principio di non ingerenza», disse il 5 stelle nel gennaio 2019, «è sacro. Qualsiasi sia la nostra visione delle cose, di Maduro, del chavismo e dei rapporti politici in America latina, qualsiasi cambiamento in Venezuela deve avvenire in un contesto politico, democratico e non violento».
Evidentemente non fu ingerenza l’incontro, qualche settimana dopo, tra Luigi Di Maio e i Gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi. «Mi dispiace che Macron l’abbia vissuta come una lesa maestà», disse il capo politico grillino, all’epoca vicepremier, «ma è giusto che una forza politica che non condivide le idee politiche di En marche abbia la possibilità di dialogare con un’altra forza politica che correrà alle Europee. Quindi andiamo avanti». Insomma, la «millenaria democrazia» francese, come la definì Di Maio, doveva farsene una ragione. Anche se poi l’affinità tra grillini e gilet si ruppe. Parigi tra l’altro aveva già mal digerito la battaglia contro il cosiddetto «neocolonialismo francese» in Africa e il Franco Cfa portato avanti da Alessandro Di Battista.
DALLA RUSSIA CON AMORE
Un altro eroe per i grillini è senz’altro Vladimir Putin. «Meno male che c’è Putin», scriveva su Facebook lo scorso 25 gennaio Di Battista, evidenziando come, senza l’egoarca russo, «ci sarebbe stato un intervento armato Usa» in Venezuela. Non una boutade di un attivista senza più ruoli in parlamento visto che il programma esteri del 2017 puntava al recupero delle relazioni con Mosca. «Un disastro economico che non ci possiamo permettere», si legge, un Paese «decisivo nelle relazioni internazionali». Un fascino, quello per la Russia, che viene da lontano e ben radicato nel M5s. Nell’aprile 2015 Beppe Grillo concedette una intervista torrenziale a Rt, emittente finanziata dal Cremlino. E, accompagnato da Di Battista e Di Stefano, incontrò Sergej Razov, ambasciatore russo a Roma. Poi ci fu l’invito di una delegazione pentastellata al congresso di Russia Unita, il partito di Putin.
QUANDO PUTIN ERA IL NEMICO
Ma non finisce qui. Addentrandoci nell’aneddotica, come dimenticare la denuncia di Marta Grande: «Della crisi in Ucraina si è smesso di parlare, non fa più notizia, siamo stati informati a senso unico», disse a Montecitorio nel 2014, rivelando le «tremende operazioni di bassa macelleria cui la follia del governo ucraino sta sottoponendo i cittadini russi, perseguitati, massacrati e torturati». Di più. Per Grande gli ucraini stavano letteralmente divorando i russi. Faceva riferimento a una foto raccapricciante diventata virale che però si rivelò una fake news: il soldato che addentava un braccio arrostito proveniva dal backstage del film russo Noi veniamo dal futuro. E dire che fino al 2014 la Russia era considerata il nemico, vuoi per l’amicizia tra Putin e Silvio Berlusconi, vuoi per la repressione nei confronti dei media. Esemplare il post del 2007 con cui il Blog eleggeva Anna Politkovskaja Woman of the Year in polemica con il Time che aveva scelto Putin come Person of the Year. Poi le cose cambiarono.
IL VAFFA DI TRUMP AI MEDIA
I grillini del resto sono trasversali. Il loro amore per l’uomo forte li porta contemporaneamente a spasimare per Putin e per Donald Trump. «È stato un grande. Ha fatto un V-Day. Era su tutti i giornali in modo incredibile: era contro le donne, i gay, l’aborto ma ha vinto», esultò Grillo il giorno dell’elezione del tycoon.
Beppe Grillo.
«Questo vuol dire», spiegava il co-fondatore del Movimento, «che i grandi giornali non sono più letti da nessuno. Mentre quelli della Rete, che vengono definiti imbecilli, scemi, barbari, demagoghi, sono quelli che si sono creati un giro di informazione sotto i radar dei media. Perché i blog capivano ciò che stava accadendo». In una intervista al Journal du Dimanche del 2017 Grillo definiva Trump un «moderato». E pensando a lui e a Putin diceva di sentirsi ottimista: «La politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come loro. Lo considero un beneficio per l’umanità». E dire che Grillo nel 2008 e nel 2012 aveva salutato come un successo la vittoria di Barack Obama. Anti-putinani ieri, putiniani oggi. Obamiani ieri, filo-trumpiani oggi. Magari tra un po’ Pechino, oggi Mecca, sarà bollato come regime liberticida. Basta aspettare.
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Il pilota Mercedes, già campione del mondo, ha dominato la gara nel circuito di Yas Marina. Secondo Verstappen, terzo Leclerc.
Lewis Hamilton è davvero un cannibale. Ricorda Eddy Merckx che, nel ciclismo, non lasciava nemmeno le briciole agli avversari, cercando di vincere sempre e comunque, qualsiasi gara, a prescindere dalla sua importante. Il britannico è un clone del belga sui pedali perché, pur avendo intascato da poco il sesto Mondiale piloti di una carriera ancora tutta da vivere, pigia sull’acceleratore come non ci fosse un domani e continua a mietere successi. Sarebbe bastato qualche piccolo rischio in meno, a cosa sarebbe servito del resto, invece il pilota della Mercedes non sembra conoscere limiti: va a tutta, sembra disconoscere la parola freno e nessuno riesce a stare in scia della sua Mercedes. Basta un dato per prendere coscienza dell’avidità agonistica del pilota della Mercedes: oltre alla vittoria odierna a Yas Marina – dove la scuderia regina del Mondiale riesce sempre a ottenere risultati esaltanti – Hamilton ha conquistato pure il punto extra del giro veloce. L’olandese Max Verstappen, che ha pure rischiato di perdere il secondo posto a beneficio del rivale Charles Leclerc, si è ripreso il secondo gradino del podio e una piccola soddisfazione, aggiudicandosi l’uno-conto-uno con il monegasco della Ferrari che, alla fine, ha dovuto abbozzare, trovando posto sul terzo gradino del podio degli Emirati Arabi Uniti. Valtteri Bottas è riuscito a rimontare, ma si è fermato al quarto posto, mentre Sebasatian Vettel non è andato oltre la quinta piazza. La Ferrari va incontro a una multa, dal momento che la benzina dichiarata era conforme nei controlli pre-gara per la monoposto numero 16 di Leclerc. Un altro indizio negativo dell’ennesima stagione chiusa a mani vuote. Il Mondiale di F1 tornerà a marzo, con il Gp d’Australia; saranno 22 gli appuntamenti e un paio le new-entry: il 3 maggio 2020 si gareggerà in Olanda, a Zandvoort, e ad inizio aprile ad Hanoi, in Vietnam.
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Dopo le accuse di molestie della figlia che hanno complicato l’uscita del film, il regista americano arriva nelle sale con un’opera che rievoca i suoi vecchi lavori: dai personaggi ai dialoghi brillanti.
Le polemiche ritornate a galla con la nascita del movimento #MeToo hanno impedito a lungo di portare nelle sale Un giorno di pioggia a New York. Il film racconta la storia di Gatsby (Timothée Chalamet), che vive nella Grande Mela, e Ashleigh (Elle Fanning), che si occupa del giornale dell’università dell’Arizona dove ha conosciuto il fidanzato, i cui progetti di trascorrere un weekend romantico vengono stravolti.
Woody Allen ritorna a New York e lo fa riportando in scena situazioni e figure già proposte nella sua filmografia: il regista plasma su se stesso lo studente Gatsby che ama il cinema del passato e si ritrova alle prese con la sorella minore di una sua ex, Shannon (Selena Gomez), mentre Ashleigh, che viene trascinata nel complicato mondo del filmmakerRoland Pollard (Liev Schreiber) che deve intervistare, avrebbe potuto essere in passato affidata a Diane Keaton.
La splendida fotografia di Vittorio Storaro crea un’atmosfera malinconica e suggestiva in cui si muovono figure che appaiono versioni contemporanee di personaggi già conosciuti. Chi ama il cinema di Allen non potrà quindi che gioire: le buone performance delle giovani star, l’esperienza dei co-protagonisti e i consueti dialoghi brillanti, che mescolano leggerezza e riflessioni sulla vita, sostengono un film confezionato con maestria che paga forse un po’ troppo le sue radici nel passato per rivolgersi agli spettatori che dovrebbero riconoscersi nei protagonisti.
Un giorno di pioggia a New York riesce però a inserirsi tra le migliori opere del suo autore grazie alla freschezza dei suoi interpreti, a un ritmo incalzante e all’esperienza di Woody Allen che si muove sicuro tra triangoli sentimentali, dubbi esistenziali, contrasti sociali e cambiamenti.
UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK: 5 COSE DA SAPERE
I guai dopo le accuse di molestie della figlia
Woody Allen ha raggiunto un accordo con Amazon Studios dopo che il regista aveva deciso di procedere per vie legali a causa della conclusione anticipata del contratto che prevedeva il finanziamento e la distribuzione di quattro film, tra cui anche Un giorno di pioggia a New York. Lo studio aveva deciso di interrompere la collaborazione dopo che erano riemerse le accuse di Dylan Farrow, la figlia del regista che da anni sostiene di essere stata molestata. Amazon riteneva che la situazione impedisse di ottenere i benefici, economici e di immagine, alla base dell’accordo, portando quindi Allen a coinvolgere gli avvocati per riuscire a ottenere circa 68 milioni di dollari per compensare le perdite subite.
Un gioco di contrasti tra luci e ombre
Vincenzo Storaro ha scelto di usare luci diverse e momenti di camera differenti per enfatizzare le due personalità di Gatsby e Ashleigh: il ragazzo ama la New York nuvolosa e piovosa, mentre Ashleigh è maggiormente estroversa e piena di passione, venendo quindi associata a colori più caldi. Le scene con al centro la giovane sono poi state girate usando una steadicam, elemento scelto per sottolineare il bisogno di libertà e di movimento del personaggio affidato a Elle Fanning, mentre per quelle dedicate a Gatsby la macchina da presa è stabile.
Allen e il rapporto indissolubile col cinema
Il regista, in una recente intervista, ha rivelato di non aver mai pensato di ritirarsi dal mondo del cinema nonostante le ripercussioni della pubblicazione delle notizie legate alle accuse che gli rivolge la figlia Dylan. Allen ha sottolineato: «Fin da quando ho iniziato a lavorare ho sempre cercato di concentrarmi sul mio lavoro, a prescindere da quello che accade nella mia famiglia o dagli aspetti politici. Non penso ai movimenti sociali. Il mio cinema è sui rapporti umani e sulle persone. E cerco di metterci dell’umorismo. Se dovessi morire probabilmente accadrebbe su un set cinematografico, e potrebbe succedere davvero».
Il prossimo progetto: Rivkin’s Festival
I problemi affrontati da Allen negli Stati Uniti potrebbero portare il filmmaker a proseguire la sua carriera solo in Europa, dove riesce ancora a ottenere i finanziamenti necessari. Il suo nuovo progetto si intitola, fino a questo momento, Rivkin’s Festival e ha come protagonisti Elena Anaya, Sergi Lopez, Gina Gershon, Wallace Shawn, Christoph Waltz e Louis Garrel. La storia è ispirata al San Sebastian Film Festival dove una coppia americana viene travolta dalla magia dell’evento e la donna inizia una relazione con un regista francese, mentre il marito si innamora di un’affascinante abitante della città.
Le reazioni del cast alle accuse di molestie
Le accuse rivolte a Woody Allen hanno diviso i membri del cast tra chi ha annunciato di rimpiangere la propria decisione di lavorare con il regista e chi, invece, lo ha difeso o sostenuto di non avere abbastanza informazioni per avere un’opinione obiettiva. Griffin Newman ha donato il proprio salario all’associazione Rainn (Rape and Incest National Network), stessa scelta compiuta da Timothée Chalamet che ha però diviso la cifra aiutando anche Time’s Up e Lgbt Center di New York.
Selena Gomez, seppur non dura nella propria opinione come i colleghi, ha donato oltre 1 milione di dollari a Time’s Up, organizzazione sostenuta anche da Rebecca Hall che ha ribadito comunque di ritenere la situazione complessa e di condannare i processi pubblici. A sostegno di Allen si erano poi schierati Jude Law, che considerava una vergogna che il film non venisse distribuito, e Cherry Jones che, dopo aver cercato ed esaminato ogni informazione relativa alle accuse, ha deciso di ritenere Allen innocente.
IL FILM DI WOODY ALLEN IN PILLOLE
La scena memorabile: Gatsby scopre i sentimenti di Shannon.
La frase cult: «La vita reale è per chi non sa fare di meglio».
Ti piacerà se: ami il cinema di Woody Allen e i suoi personaggi complicati e un po’ nevrotici.
Devi evitarlo se: vorresti vedere dei protagonisti inediti nella filmografia del regista.
Con chi vederlo: con la persona amata, per riflettere sugli ostacoli affrontati ogni giorno.
Perché vederlo: per apprezzare le interpretazioni di un cast di talento valorizzato da dialoghi e battute brillanti e un po’ romantiche.
Il Governo trova l’intesa. Confindustria preoccupata «Preoccupazione per il continuo ampliamento della sfera penale ai fatti economici».
La tanto attesa fumata bianca sul dl Fisco è finalmente arrivata. La maggioranza, infatti, ha trovato l’accordo sull’inasprimento del carcere ai grandi evasori, uno dei punti imprescindibili per il M5s. Due emendamenti dei relatori riducono l’aumento delle pene per i comportamenti non fraudolenti, come la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione, e rivedono sia la disciplina della confisca per sproporzione, prevista per i reati più gravi, sia la responsabilità amministrativa delle imprese. Entrambi gli emendamenti sono attesi alla Camera e dovrebbero essere votati già nella serata di domenica 1 dicembre 2019.
GLI EMENDAMENTI SPAVENTANO CONFINDUSTRIA
L’accordo all’interno della maggioranza è stato preso nello stesso giorno in cui Confindustria aveva diramato un comunicato «contro la criminalizzazione delle imprese». L’organizzazione rappresentativa delle imprese aveva da poco ribadito la sua «profonda preoccupazione per il continuo ampliamento della sfera penale ai fatti economici». Il punto toccato da Confindustria e quello inerente all’ambito applicativo del decreto 231 ai reati tributari. Si tratta di «un approccio iper repressivo. Questo non è certamente questo proliferare di interventi penali, volti a criminalizzare il mondo dell’impresa, il modo corretto per combattere l’evasione e far crescere l’economia del Paese», si legge nel comunicato.
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Si cibano di alimenti raccolti nella spazzatura. Frutta, verdura e prodotti scaduti da poco. Oppure raccolgono gli “scarti” dei ristoranti. Non sono clochard, ma freegan antispreco. Una “moda” che sta arrivando anche in Italia.
Si procacciano il cibo rovistando nella spazzatura, nei cassonetti dei supermercati o chiedendo ai banchi dei mercati e ai ristoranti l’invenduto della giornata, ma non sono né poveri, né clochard. Sono i freegan (crasi di free, gratis, e vegan, vegani) e il loro modo alternativo di fare la spesa è una protesta contro il consumismo e lo spreco, non più sostenibile, del sistema capitalista.
Nell’articolo Not buying it de The New York Times datato 21 giugno 2007, Steven Kurutz li definiva «spazzini del mondo sviluppato» tracciandone un profilo. Il freegan è una persona colta e spesso appartenente a classi sociali abbienti, con alle spalle un cambiamento di vita radicale, che mangia scarti recuperati dalla spazzatura dei supermercati (prodotti leggermente ammaccati o scaduti da poco), si veste con abiti riciclati e arreda la propria casa con oggetti trovati per strada, nel tentativo di ridurre il proprio impatto sul Pianeta prendendo le distanze da ciò che percepisce come un consumismo fuori controllo.
Kurutz faceva risalire il freeganismo alla metà degli Anni 90 quando, sulla scia dell’anti-globalizzazione e dei movimenti ambientali, si era sviluppata una rete di piccole organizzazioni che offriva cibo vegetariano e vegano gratuito, recuperato in gran parte dalla spazzatura del mercato. Il freeganismo, sottolineava il giornalista, aveva legami anche con realtà come i Diggers, una compagnia teatrale anarchica di strada con sede a Haight-Ashbury, il quartiere di San Francisco dove nacque la controcultura.
L’identikit del freegan: colto, deciso a ridurre il proprio impatto sull’ambiente e di classe abbiente.
I PREGIUDIZI ITALIANI
In Europa il freeganismo ha iniziato a fare capolino nell’ultimo decennio, in Italia da qualche anno, anche se fa ancora fatica ad attecchire perché sono molti i pregiudizi da superare. «Non sono un freegan radicale», dice a Lettera43.it Francesco, 42 anni, informatico milanese. «Simpatizzo, ma non sono mai andato a frugare nei cassonetti. L’unica cosa che faccio per risparmiare e limitare il mio impatto sull’ambiente è fare la spesa dal fruttivendolo e dal panettiere, acquistando a fine giornata parte del loro invenduto a un prezzo decisamente inferiore». Francesco ha un lavoro, una casa e una famiglia. La “spesa” freegan contempla solo prodotti leggermente ammaccati, appena scaduti, che vengono regolarmente buttati dalla grande distribuzione, e il cibo in eccesso regalato a fine servizio da locali, negozi e ristoranti.
SOLO NEL 2019 SONO STATI SPRECATI 16 MILIARDI DI ALIMENTI
A ben vedere il freeganismo ha senso eccome. Secondo il rapporto sullo Stato dell’alimentazione e dell’agricoltura 2019 (Sofa) presentato dalla Fao e ripreso da Coldiretti, solo nel 2019 nel nostro Paese sono finiti nel bidone alimenti e bevande per un valore di 16 miliardi di euro. Lo spreco, 36 kg all’anno pro capite, a livello nazionale, riguarda soprattutto verdura e frutta fresca. Lo spreco casalingo rappresenta il 54% del totale, superiore a quello della ristorazione (21%), della distribuzione commerciale (15%), dell’agricoltura (8%) e della trasformazione (2%). Il cibo che ogni anno buttiamo ha anche un impatto notevole sull’ambiente. Per la produzione di questi alimenti, si immettono nell’atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra, si consumano 250 chilometri cubi di acqua e 1,4 miliardi di ettari di terreno. Meglio seguire allora il professore Tristram Stuart, autore del libro Waste, «compra solo quello di cui hai bisogno, e mangia tutto ciò che compri».
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Più i sovranisti attaccano in modo sconclusionato il Salva Stati e più ottengono l’effetto di un Trattato scritto in modo improvvido: confermano ai mercati che i nostri conti pubblici sono davvero qualcosa da cui stare alla larga.
Mes sta per Meccanismo europeo di stabilità (o Esm,European stability mechanism), meglio noto agli italiani come Meccanismo salva Stati. «E rovina famiglie», aggiungono ora molti nel nostro Paese. Quando tutto è stato detto sul Mes, quando attorno a esso sono state combattute tutte le battaglie possibili, commessi (da parte del governo Conte I e Conte II) vari errori di mancata informazione e coinvolgimento del parlamento e da parte di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni e di altri sono state fatte squillare tutte le trombe più stonate del nazionalismo anti Ue, restano due domande ineludibili.
COSA RESTA DEL POLVERONE SUL MES
La prima e più importante è questa: ma quanto pensiamo di potere andare avanti con un debito pubblicoin costante crescita e non lontanissimo ormai dal ferale traguardo psicologico del 140% del Prodotto interno lordi (Pil) e dei 2.500 miliardi di euro, superato il quale tutto si complicherà ancor più? Siamo infatti oggi a 2.439 miliardi e al 137,7% del Pil. Secondo la Commissione Ue, a politiche costanti il debito aumenterebbe di 10 punti di Pil in meno di un decennio; secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) salirebbe – e anche questa come quella dell’Ue è una previsione del luglio 2019 – al 160% del Pil in circa 15 anni. La classe politica italiana – e con lei molti milioni di cittadini – rifiuta di porsi questa domanda; quando altri la mettono nero su bianco si adontano, rifiutano di ammettere che il primo problema è il debito in sé, non il fatto che gli altri ce lo ricordino.
I DUBBI SENSATI DI GALLI
La seconda domanda recita: ma questo meccanismo del Mes a noi conviene? Chi ha additato molto di recente tutti i problemi e indicato la necessità di alcuni cambiamenti nella riforma del trattato Mes, come l’economista Giampaolo Galliin una recente audizione alla Camera, ha comunque una risposta chiara, che quanti fra le file della Lega e altrove hanno utilizzato la parte critica del suo intervento si sono regolarmente dimenticati di menzionare.
Le proposte di riforma formulate dall’Eurogruppo presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un Paese come l’Italia
Giampaolo Galli, economista
«Il Mes», dice Galli concludendo, «è un’istituzione molto utile che deve continuare ad avere il pieno sostegno dell’Italia. Le proposte di riforma che sono state formulate dall’Eurogruppo (i ministri economici della zona euro, ndr) dello scorso giugno presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un Paese come l’Italia…». Ugualmente parziale è stato l’uso delle parole del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che comunque ha chiaramente espresso preoccupazione per alcuni passaggi della proposta di riforma. Va aggiunto il recente e chiarissimo avvertimento del presidente Abi Antonio Patuelli: se il testo definitivo Mes avrà clausole che di fatto indeboliscono da subito la credibilità del debito pubblico italiano le banche, che hanno oggi circa 400 miliardi di titoli sovrani italiani in portafoglio, ridurranno gli acquisti.
IL SALVA STATI, PICCOLO FONDO MONETARIO DEI PAESI EURO
Il Mes è nato nel 2011 per volontà degli allora 17 e oggi 19 Paesi dell’area euro, della Commissione e della Bce, ed è attivo dal 2012; inglobava forme già esistenti ma meno strutturate di aiuto dell’Unione monetaria a chi fra i Paesi membri fosse in difficoltà, in particolare di fronte a una sfiducia dei mercati e a un rischio di default. I primi crediti sono andati a Portogallo, Irlanda e Grecia e completano la lista di quanto concesso a Spagna e Cipro. È una specie di “piccolo” Fondo monetario dei Paesi euro. Come il Fondo fa dal 1946 per un numero crescente di Paesi – 26 all’inizio e oggi 189 – il Mes indica le condizioni del suo aiuto, che possono arrivare a una ristrutturazione del debito, come noto con conseguenze, tra l’altro, per i creditori.
Il leader della Lega Matteo Salvini.
In definitiva, il Mes fa quello che la Bce, data la sua natura sovranazionale, ha difficoltà a fare, e cioè il prestatore di ultima istanza. È autonomo dalla Commissione, che come la Bce partecipa ai suoi lavori ma senza diritto di voto, e ha una struttura con sede a Lussemburgo, quasi 190 dipendenti, un segretario generale di fresca nomina, uomo chiave della struttura, che è italiano, Nicola Giammarioli (quindi non è vero che non c’è nessun italiano, come detto da Claudio Borghi). Ha un capitale di 500 miliardi di euro assicurato, e di cui solo una quota minore è disponibile, dagli Stati dell’euro e proporzionale alla loro quota di partecipazione alla Bce; il Mes inoltre si finanzia all’occorrenza sul mercato obbligazionario con titoli garantiti dal sistema Ue.
ABBIAMO UN DEBITO FUORI CONTROLLO MA TEMIAMO IL MES
Sarebbe lungo elencare nei dettagli le “criticità” per l’Italia e altri, dettagli tutti importanti in questioni di questo tipo e tutti analizzati ad esempio da Galli, il cui chiarissimo intervento alla Camera, una decina di cartelle, è reperibile sul sito personale Giampaologalli.it. Basti dire che ciò che viene lamentato dai critici – in primisMatteo Salvini, in modo però troppo enfatico, catastrofico e irresponsabile, tipico della permanente campagna elettorale italiana – è la inevitabile creazione di due categorie di Paesi, i “buoni” e i “cattivi”. I “cattivi” sarebbero quindi subito svantaggiati sui mercati. Questo vuol dire Salvini quando afferma in vari modi che il nuovo Mes danneggia gli italiani.
Arrivato a un certo punto ogni debito pubblico è un rischio nazionale e danneggia anche i partner di un’unione economica e monetaria
Questo ovviamente va evitato a ogni costo, anche perché ci sono due verità solo apparentemente contraddittorie che convivono: la prima è che arrivato a un certo punto ogni debito pubblico è un rischio nazionale e danneggia anche i partner di un’unione economica e monetaria; la seconda è che per valutare non questo debito, fatto oggettivo, ma la sua sostenibilità va considerato il quadro complessivo di un Paese, dai conti con l’estero al risparmio ad altro, tutti fattori che l’Italia cita molto spesso a sostegno della chiara sostenibilità della sua situazione. È anche per questo che, giustamente, insieme ad alcuni altri Paesi l’Italia è tiepida verso una riforma che accentua l’autonomia iniziale del Mes rispetto alla Commissione Ue, sede più adatta per valutazioni politiche, mentre con il Mes sono i governi e il Consiglio che preferiscono tenere il pallino in mano.
Claudio Borghi.
Quello che ci dimentichiamo volentieri è la realtà dei conti pubblici e il fatto che prima o poi qualcuno, i mercati in ultima istanza e prima ancora eventualmente il Mes, ci diranno di usarla quella massa di risparmio per avviare la discesa del debito, ad esempio con un prestito forzoso e quindi assai doloroso. Se va avanti così, se nessuna finanziaria riesce a invertire la rotta dei conti pubblici, non potrà che accadere, a qualche punto nel prossimo decennio. E allora, sarà colpa del Mes, di Bruxelles, o di Berlino, o sarà prima di tutto colpa nostra, e dei politici che non solo non ci hanno messo sull’avviso, non solo non ci hanno provato, ma dicevano che era tutta «colpa dell’Europa»? Il senatore Salvini dovrebbe guardare per primo con grande timore a questo redde rationem.
QUELLE PAROLE DI BORGHI PERICOLOSE PER I MERCATI
Certo, Berlino vuole ora, con altri, la riforma Mes perché ha il problema di alcune sue banche a partire da Deutsche Bank ma non solo, e presto sarà assai costoso salvarle, e vuole dare più sostanza alla triade Mes -Unione bancaria- avvio (prudente) di un bilancio comune dell’area euro. Ma è proprio su questo do ut des che si doveva e si deve trattare, mercanteggiare in perfetto stile Ue, creandosi alleati, e difendendo le buone ragioni italiane. Indebolite da tempo, tuttavia, dall’intrattabilità del debito. Oggi Salvini minaccia querele, fa circolare sindromi da complotto anti italiano, parla di tradimento, termine cruciale per ogni nazionalista quando passa dalla contesa politica alla criminalizzazione dell’avversario. Ma Salvini e con lui Luigi Di Maio non si sono macchiati di nessuna forma di tradimento quando per propri vantaggi elettorali hanno aggiunto ai conti nazionali voci di spesa ingenti e discutibili come il Reddito di cittadinanza e Quota 100?
La polemica sul Mes ha fatto uscire in fretta e alla grande Borghi dal sottoscala dove la apparente semi-conversione salviniana sui temi europei
E come fa l’ineffabile Claudio Borghi a tuonare contro il «pericolo devastante» del nuovo Mes, lui che ha dato – l’anno scorso soprattutto – un contributo notevole con le sue parole avventate a indebolire il valore dei Btp e di altri titoli sovrani italiani, per arrivare poi al capolavoro monetario da Repubblica delle banane dei minibot? La polemica sul Mes ha fatto uscire in fretta e alla grande Borghi dal sottoscala dove la apparente semi-conversione salviniana sui temi europei, vana illusione, sembrava averlo confinato. Ora è di nuovo un combattente per la libertà dall’Europa e dall’euro, emblema di una nazione alla deriva. Più attaccano in modo sconclusionato il Mes e più fanno ciò che ugualmente fa e farebbe un Trattato scritto in modo improvvido sui temi del debito: confermano ai mercati nel dubbio che i nostri conti pubblici sono davvero qualcosa da cui stare alla larga. L’ultima asta dei titoli di Stato italiani è risultata infatti la settimana scorsa un mezzo flop.
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Salvini attacca ancora il premier: «Se passa danno grave per l’Italia». Ma Martina chiede a Di Maio di non dare altra benzina al leader del Carroccio per appiccare nuovi incendi.
Continua a tenere banco, tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione, la questione sul Mes. Ecco che anche domenica 1 dicembre i leader dei principali partiti sono tornati a parlare sul Meccanismo europeo di stabilità. Come sempre il più agguerrito è stato Matteo Salvini. Ma non sono mancate nemmeno le dichiarazioni di Giorgia Meloni e Maurizio Martina.
COSA HA DETTO SALVINI SUL MES
«Domani sarò a Roma da italiano, curioso di sentire se il presidente del Consiglio ha capito quello che faceva e ha tradito. Oppure molto semplicemente non ha capito quello che stava facendo, perché tutto è possibile», ha detto Salvini a margine dell’incontro elettorale a favore di Lucia Borgonzoni in riferimento all’informativa sul Mes del premier Conte di lunedì 2 dicembre alle Camere. «E poi martedì sarò a Bruxelles perché non voglio che l’Italia sia rappresentata da qualcuno che cede nella battaglia ancora prima di cominciarla», ha aggiunto. Il leader del Carroccio ha anche detto che l’approvazione del Meccanismo europeo di stabilità «sarebbe un danno enorme per l’Italia e gli italiani».
MELONI AUSPICA LA CADUTA DEL GOVERNO
Anche Giorgia Meloni si è omologata al pensiero salviniano. Questa volta cambiando destinatario e passando da Conte a Di Maio. «Credo che dovrebbe cadere il governo sul Mes. Nel senso che se Di Maio ha un briciolo di dignità questo è il momento in cui lo deve dimostrare. Basta proclami, Luigi Di Maio. I numeri in Parlamento ce li hai tu», ha detto a margine dell’evento organizzato dal gruppo al Senato di FdI al teatro EuropAuditorium di Bologna. «Se non vuoi che il Mes venga sottoscritto devi dire che ritiri il sostegno del Movimento 5 stelle dal Governo nel caso passi. Basta fare i pagliacci e fare finta di dire una cosa per poi farne un’altra», ha aggiunto.
MARTINA GETTA ACQUA SUL FUOCO
«Io mi auguro che Di Maio non voglia dare altra benzina a Salvini per appiccare fuochi pericolosi per l’Italia. Salvini è un esperto di questa logica folle, Di Maio eviti di dargli una mano perché in gioco c’è la forza del nostro Paese non il destino di una persona sola», ha invece detto Maurizio Martina ai microfoni di Sky Tg24.
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Il 54enne imprenditore italiano era stato fermato a Tripoli nel 2017 con l’accusa di terrorismo. Il suo ritorno in patria è coinciso anche con il fermo firmato dal gip di Roma.
Giulio Lolli, l’imprenditore bolognese condannato all’ergastolo in Libia per terrorismo e fiancheggiamento di un gruppo estremista separatista, è arrivato in Italia dopo l’estradizione. Quando era stato arrestato a Tripoli nel 2017 l’uomo era già considerato latitante per la giustizia italiana da nove anni. Ovvero da quando il sostituto procuratore Davide Ercolani, lo aveva indagato per associazione per delinquere, truffa, falso e appropriazione indebita.
L’ARRESTO E L’ESTRADIZIONE DI LOLLI
Lolli è stato consegnato al Ros dei Carabinieri grazie all’intervento diplomatico dell’Ambasciata Italiana di Tripoli, dell’Ufficiale di Collegamento della Polizia di Stato, in accordo con il Ministero della Giustizia, Ministero degli Esteri e sotto l’impulso della Procura della Repubblica di Rimini e quindi del sostituto procuratore Davide Ercolani. Al suo arrivo in Italia l’uomo è stato preso in consegna dai militari della Sezione PG-Carabinieri della Procura della Repubblica di Rimini insieme ad altri militari della Stazione dei Carabinieri di Bellaria e della Capitaneria di Porto.
IL PERICOLO TERRORISMO
Secondo il gip di Roma Cinzia Parasporo ci sarebbe il «concreto e attuale pericolo che Lolli possa commettere reati in armi e di terrorismo, stanti la gravità dei fatti e l’inserimento in un chiaro contesto eversivo». Queste le parole con cui il gip ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti del 54enne italiano. Il gip ha inoltre definito Lolli come un soggetto «dall’elevatissima pericolosità che ha vissuto in Libia diversi anni figurando tra i comandanti del cartello islamista denominato Majlis Shura Thuwar, formazione jihadista controllata dall’organizzazione terroristica Ansar Al Sharia (affiliata ad Al Qaeda), molto attiva nel 2017 a Bengasi, fino al suo definitivo scioglimento avvenuto due anni fa, e con base operativa a Misurata».
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La convenzione scade nel 2020 e il tempo stringe. Un eventuale aumento dei costi del trasporto via mare metterebbe a rischio 500 lavoratori del settore estrattivo. Il punto.
Accettato il paradosso tutto isolano di un porto dedicato alle merci ma fermo – a caccia di investitori e con 200 lavoratori in cassa integrazione – presto per la Sardegna dovrà risolvere il rebus. Quello della continuità territoriale marittima che regge gli spostamenti calmierati via mare per passeggeri residenti e merci. La scadenza della convenzione attuale è imminente, luglio 2020. A queste regole – e soprattutto ai relativi costi di trasporto – è legata l’economia sarda in«ripresina». Questo il termine che si ritrova nell’ultimo rapporto Svimez in cui fanno da traino, ancora, i servizi con un apporto anche dell’industria. Ed è proprio da uno dei comparti industriali che è arrivato l’ultimo appello, rilanciato dal nuovo assessore ai Trasporti della Giunta di centrodestra, Giorgio Todde.
L’INCOGNITA DEI PREZZI METTE A RISCHIO 500 POSTI DI LAVORO
A chiedere un intervento urgente sono le tre principali aziende che producono piastrelle e che gestiscono anche le cave sarde. Ceramica Mediterranea, Svimsa e Maffei silicati sardi contano un fatturato di 70 milioni l’anno. Le prime due operano nel Sud – attorno a Cagliari – l’altra nel Nuorese: a loro fanno riferimento piccole e medie cave da cui viene estratta la sabbia e altri minerali (come il caolino) destinati alle fabbriche dell’Italia settentrionale, soprattutto a quelle del distretto emiliano della ceramica. I siti di estrazione sono distribuiti in tutta l’Isola: da Ottana a Orani, da Guspini a Escalaplano. Da qui i camion partono alla volta del continente, ovviamente via nave. Ma con l’imminente incognita dei prezzi di trasporto l’intero comparto potrebbe essere a rischio e con esso, anche i 500 posti di lavoro tra diretti e indotto (operai, gruisti, trasportatori). Una realtà produttiva che esiste da decenni che ora ha difficoltà a programmare le attività oltre la prossima estate.
UN MOVIMENTO DI 2 MILIONI DI TONNELLATE DI SABBIA L’ANNO
La spola dei camion – la stima è di 50 mila l’anno, per 2 milioni di tonnellate di materiale – viaggia sulle rotte Olbia o Cagliari verso Livorno di solito effettuate da Moby e Tirrenia (da tre anni entrambre nel Gruppo Onorato Armatori) e del concorrente Grimaldi. Si tratta del 25% del totale dei movimenti dei tir dalla Sardegna verso la penisola. L’ipotetico aumento dei prezzi significherebbe – secondo le aziende – la fuga certa dei clienti verso cave meno costose, in Grecia o in altre zone del sud Europa. Perché sul costo finale di trasporto, la metà è per quella traversata in nave. Su cui ci sono stati dei rincari già a gennaio 2019, tra tante polemiche degli operatori e dure prese di posizione di Confapi Sardegna. Rispetto al 2018 – infatti – le tariffe sono aumentate dal 25 al 40%, una mossa simultanea per Tirrenia, Moby e Grimaldi proprio sulle rotte più battute. Un esempio concreto: per far viaggiare un autoarticolato si possono spendere fino a 600 euro.
L’ALLARME DELL’ASSESSORE REGIONALE AI TRASPORTI
I dubbi e le incertezze delle aziende sono state fatti propri dall’assessore regionale ai Trasporti Todde. Dalle colonne de La Nuova Sardegna ha rilanciato il caso dopo un incontro con i loro rappresentanti: «Presto quei lavoratori potrebbero restare tutti a casa», ha detto. «Il motivo è semplice. Senza certezze sulla convenzione non possono andare avanti. I costi di trasporto sarebbero troppo alti per restare competitivi sul mercato. Non possiamo assistere passivi a questo disastro».
IL SILENZIO DI ROMA
L’assessore Todde ribatte sul silenzio da parte di Roma (con l’alternanza estiva di due governi) e nessun bando di gara pronto in vista dell’estate. I tempi sono davvero stretti e si fa strada l’ipotesi di una proroga dell’attuale convenzione (che vale 72 milioni l’anno trasferiti dallo Stato a Cin Tirrenia su rotte mantenute attive tutto l’anno anche se in perdita). Le alternative – già citate dal governatore Christian Solinas – sarebbero l’applicazione del modello spagnolo che prevede per le sue isole un rimborso direttamente al passeggero su singolo biglietto e non alla compagnia, oppure di quello corso che mantiene prezzi fissi per gli utenti ed è aperto a più operatori. Ma la Regione può solo chiedere incontri al governo e aspettare. Perché a differenza della continuità aerea gestita dalla Regione, quella marittima è materia dello Stato con l’ente locale di fatto spettatore. Nel 2012, da ricordare, il tentativo di infrangere l’esclusiva con la Flotta sarda: navi prese a nolo per sabotare quello che veniva definito ‘monopolio dei mari‘. Un progetto dell’allora presidente della Regione, Ugo Cappellacci, e del suo assessore ai Trasporti, Christian Solinas diventato ora governatore. L’eredità è nota: un buco da 10 milioni di euro nelle casse regionali, il fallimento della compagnia controllata Saremare e una procedura d’infrazione Ue.
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La famiglia ha chiesto maggiore rispetto nei suoi confronti. Ma anche chiarezza nel dare le notizie: «Non abbiamo mai gestito Auto strade. Siamo solo azionisti al 30% di Atlantia». Poi una stoccata alla politica: «Questi attacchi sono assurdi».
Rispetto e serietà. Queste le parole usate dalla famiglia Benetton in una lettera inviata ad alcuni quotidiani nazionali. «Trovo necessario fare chiarezza su un grande equivoco: nessun componente della famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade. La famiglia Benetton è azionista al 30% di Atlantia che a sua volta controlla Autostrade», si legge nella lettera a firma di Luciano Benetton. Un chiarimento che è anche una risposta agli attacchi politici arrivati, soprattutto dal M5s, dopo il crollo del Ponte Morandi e la manutenzione dei tratti autostradali gestiti da Autostrade per l’Italia. «Non cerco giustificazioni ma questi attacchi sono assurdi. Credo anche che chi ha sbagliato deve pagare ma è inaccettabile la campagna scatenata contro la nostra famiglia», ha aggiunto il patron della famiglia veneta.
LE MOTIVAZIONI DELLA FAMIGLIA BENETTON
Luciano Benetton ha avuto modo anche di chiarire le notizie degli ultimi giorni in cui si parlava di falsi report legati all’agibilità di alcuni viadotti in realtà a rischio cedimento. «Le notizie su omessi controlli, su sensori guasti non rinnovati o falsi report, ci colpiscono e sorprendono in modo grave, allo stesso modo in cui colpiscono e sorprendono l’opinione pubblica. Ci sentiamo feriti come cittadini, come imprenditori e come azionisti. Come famiglia Benetton ci riteniamo parte lesa». Parole queste che non nasconde il mea culpa per quanto è accaduto a Genova quel 14 agosto del 2018. «Di sicuro ci assumiamo la responsabilità di aver contribuito ad avallare la definizione di un management che si è dimostrato non idoneo, un management che ha avuto pieni poteri e la totale fiducia degli azionisti e di mio fratello Gilberto che, per come era abituato a lavorare, di sicuro ha posto la sicurezza e la reputazione dell’azienda davanti a qualunque altro obiettivo. Sognava che saremmo stati i migliori nelle infrastrutture», si legge ancora.
L’APPELLO ALLE ISTITUZIONI
Poi un appello in cui si augura che la giustizia faccia il suo corso: «Nel frattempo mi appello alle istituzioni e ai media affinché trovino il giusto linguaggio per trattare questi argomenti, la scelta del capro espiatorio da linciare sulla pubblica piazza è la più semplice ma anche la più rischiosa. Chi come noi fa impresa e ha la responsabilità di decine di migliaia di dipendenti si aspetta serietà, soprattutto dalle istituzioni, serietà non indulgenza».
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