Sembra una storia da film dell’orrore, ma è successo davvero. Una cittadina in Florida è stata costretta ad andare in quaratena dopo la scoperta di un’enorme colonia di lumache terrestri giganti.
Cittadina della Florida in quarantena a causa delle lumache giganti: la scoperta e la decisione delle autorità
La zona dove è avvenuta l’invasione (che ricorda quella di alcuni racconti di fantascienza) è la contea di Pasco, particolarmente intorno alla zona di New Port Richey. Nei giorni scorsi è stata scoperta una colonia molto invasiva di lumache giganti africane in grado di riprodursi in modo rapidissimo. Tutta l’area cittadina è dunque stata messa in quarantena e trattata con particolari pesticidi in grado di uccidere gli animali, che di fatto sono dei molluschi terrestri.
A dare l’ok all’operazione è stata l’Agenzia di Protezione Ambientale degli Stati Uniti, che ha approvato per l’occasione l’utilizzo di un particolare prodotto a base di metaldeide.
Panico per i cittadini e colture a rischio
A raccontare più nel dettaglio quello che è accaduto nelle ultime ore è stata la CNN. I problemi più grossi per la popolazione si registrano a Broward Country, vicino a Fort Lauderdale, dove la comunità è stata sottoposta a isolamento. I guai principali causati da queste lumache sono legati alle colture: gli animali sono infatti molto pericolosi per i raccolti, essendo particolarmente voraci, ma possono persino cibarsi della calce degli stessi edifici. Ma non finisce qui. Alcuni degli esemplari portano con sé il verme polmonare del topo, in grado di provocare meningite negli esseri umani (come ha ricordato la direttrice di informazione pubblica del Dipartimento di Agricoltura e servizio al consumatore della Florida, Christina Chitty).
Soltanto pochi giorni fa, tra l’altro, un altro stato degli USA era stato oggetto di una terribile invasione di grilli mormone, che avevano causato più di qualche disagio agli abitanti e alle coltivazioni della cittadina di Elko, in Nevada.
Una nuova tragedia legata all’uso e all’abuso di armi da fuoco sconvolge gli Stati Uniti: nelle scorse a rendersi inconsapevole carnefice è stato un bambino di soli due anni, che ha trovato una pistola in casa e ha sparato alla madre incinta.
Bambino spara alla madre incinta per errore in Ohio: la donna e il feto sono morti
Tutto è accaduto a Norwalk, dove viveva la 31enne Laura Ilg insieme al figlio e la compagno. A raccontare quello che è successo è stata lei stessa, poco prima di morire. Sembra che il figlio di due anni sia in qualche modo riuscito a entrare nella camera dei genitori mentre lei era impegnata a fare il bucato: nonostante la porta fosse stata chiusa a chiave il bambino è entrato, ha recuperato l’arma e ha iniziato a giocarci. A ricostruire la dinamica dell’incidente è stato il sovrintendente delle forze dell’ordine locali, David Smith, che dopo aver ricevuto la telefonata della donna ha raccontato: «Ha spiegato di essere incinta di 33 settimane e che suo figlio di due anni le aveva accidentalmente sparato alla schiena con una pistola».
Alla luce di quanto accaduto la polizia ha poi effettuato una perquisizione in casa della donna uccisa accidentalmente dal figlio, scoprendo che nella stanza c’era un’altra pistola da 9 mm sul comodino e altre due armi cariche. In base a quanto riportano i media locali, sembra che tutte le armi appartenessero al marito della donna.
L’intervento del 911 è stato del tutto inutile: quando è stata trovata in casa la donna era ancora cosciente, ma ha perso la vita (e con lei il figlio che portava in grembo) una volta arrivata in ospedale.
Una scia di sangue senza fine
Gli incidenti e le stragi legati alle armi da fuoco negli USA sembrano ormai essere praticamente all’ordine del giorno. Appena ieri nel Kentucky un altro bambino di soli 5 anni era stato ucciso per errore con un colpo di arma da fuoco dal fratellino di 7.
Il presidente Usa ha commesso l’errore di voler abbandonare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro. Così rischia l’arroccamento degli Stati Uniti fra i due Oceani.
Una campagna elettorale sarebbe, in tempi normali, già decisa. La disoccupazione è negli Stati Uniti ai minimi storici dal 1969 anche se in un mercato assai diverso e molto più “atipico”; la Borsa è ai massimi; la crescita del Pil ha continuato con il presidente in carica una marcia avviata nel giugno del 2009, ormai da sei mesi un record storico, superiore all’espansione marzo 1991-marzo 2001 e primato assoluto di durata da quando vengono elaborati dati del genere, cioè dal 1854.
Tutto è più contenuto che in passato, la crescita cumulativa è più bassa, la disoccupazione è calata più lentamente, ma i risultati ci sono. In più, gli avversari democratici del presidente Donald Trump non hanno in campo per ora candidati particolarmente forti. Ma Trump ugualmente, pur rimanendo a tutt’oggi il favorito, non avrà una campagna scontata in partenza, anche se non è facile scalzare al voto un presidente in carica.
L’impeachment deciso dalla Camera il 18 dicembre 2019, e che probabilmente il Senato a controllo repubblicano boccerà (serve la maggioranza qualificata dei due terzi), c’entra fino a un certo punto, anche se trasformerà il voto presidenziale del prossimo 3 novembre più che mai in un referendum sull’immobiliarista newyorkese diventato campione del neonazionalismo americano.
LA POLITICA ESTERA DI TRUMP NON ESISTE
La decisione di far saltare in aria a Baghdad il 3 gennaio scorso con razzi sparati da un drone il generale delle milizie iraniane Qasem Soleimani, l’organizzatore da 20 anni della presenza armata iraniana in tutto il Medio Oriente, spiega meglio le difficoltà del presidente. Da un lato un gesto rapido e decisivo contro un ben noto nemico dell’America è piaciuto in sé alla base che ha dato a Trump nel 2016 la Casa Bianca, grazie a 77 mila voti giudiziosamente distribuiti in vari collegi di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin e con un voto popolare nazionale inferiore a quello ottenuto da Hillary Clinton, cosa però perfettamente legittima nel sistema americano dove conta non solo il numero ma anche la geografia delle scelte popolari.
Dall’altro però il caso Suleimani, seguito subito da un Trump minaccioso e poi dopo pochi giorni da un Trump che tende la mano all’Iran, pone allo stesso elettorato trumpiano, in genere molto contrario ad avventure internazionali e tutto concentrato sull’economia, l’immigrazione e la riaffermazione di una supremazia dell’America bianca, un chiaro quesito: che politica estera ha il presidente? Trump ha una politica elettorale, non una politica estera.
L’ATTACCO ALL’IRAN COZZA CON IL NAZIONALISMO ISOLAZIONISTA
In genere gli americani votano sulla base dell’economia e delle questioni interne, e assai meno della politica internazionale, che ha pesato solo nel voto del 1948 e del 1952, quando veniva organizzato il sistema della Guerra Fredda, e in parte quello del 1968 e 1972, quando si trattava di chiudere la malaugurata partita del Vietnam, e in parte ancora minore in quello del 1960, ancora all’ombra dello choc Sputnik (1957). Trump ha ereditato la guida della prima potenza mondiale, leader di un sistema multilaterale ormai vecchio di 70 anni ma non facilmente superabile, che va dall’economia ai commerci fino alla strategia militare di cui la residua Nato è l’esempio più chiaro ma non unico.
Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare
Ma Trump è un immobiliarista, grosso ma neppure molto stimato, forte di una crassa ignoranza su come e perché questo sistema è stato costruito dai suoi predecessori, a partire da Franklin D. Roosevelt e, soprattutto, da Harry Truman e Dwight Eisenhower. È diffusa a Washington l’opinione che se al presidente venisse chiesto un brevissimo riassunto improvvisato su come il suo Paese ha organizzato tra il 1945 e il 1947 l’enorme potere che la Seconda guerra mondiale a la presenza dell’Urss gli concessero sbaglierebbe abbondantemente nomi, date e la gerarchia delle decisioni più importanti. Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare se non per fare quattrini, e il cui motto è rimasto il «…the chief business of the American people is business..» dichiarato dal presidente Calvin Coolidge nel gennaio del 1925.
Coolidge aggiungeva anche che gli americani «sono profondamente interessati a comperare, vendere, investire e prosperare nel mondo», il che implica una politica estera. Ma gli “America firsters” che ancora nel 1940 volevano un Paese fuori da ogni conflitto (anche la famiglia Kennedy li appoggiava e finanziava per spirito irlandese antibritannico) a occuparsi solo dei non meglio precisati fatti propri dovettero aspettare Pearl Harbour nel dicembre 1941 per guardare in faccia la realtà. Trump viene da qui, e il resuscitato America First come noto è il suo motto, puro nazionalismo con forti tentazioni isolazioniste. Questo lo ha fatto vincere nel 2016. E con questo un drone contro Suleimani non ha molto a che fare, come mossa politica. È solo una vendetta. Ma anche questa è politica. E allora?
TRUMP DESTABILIZZA IL VECCHIO MONDO SENZA PROPORNE UNO NUOVO
I guai che Trump sta facendo come leader nazionalista di un Paese ancora molto condizionato da un multilateralismo che a lungo è stata la sua bandiera sono numerosi e gravi, sul piano commerciale e strategico. Anche Richard Nixon era un nazionalista e non esitò a gettare a mare nel ’71 quello che era forse in economia il perno del sistema, le parità monetarie di Bretton Woods, ma la sua base non erano i cranks bensì l’ala destra repubblicana da cui poi emergeranno, in parte, i neoconservatori degli Anni 90, nazionalisti ma tutt’altro che isolazionisti. Trump ha commesso l’errore di voler lasciare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro, che non deve necessariamente abolire il precedente, ma cambiarlo in modo significativo, che non vuol dire in modo totale.
Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo
Dov’è questo mondo di Trump? Nell’alleanza con Boris Johnson e nella semi-alleanza con Vladimir Putin, nemico-amico. E nei suoi tweet, nell’insofferenza per i collaboratori più stretti, con la girandola di ministri e altri con rango ministeriale più ampia, in tre anni, rispetto a tutti i predecessori da Nixon in poi, persone uscite in gran parte perché impossibilitati a collaborare a una strategia che non c’è. L’uccisione di Suleimani che cosa vuol dire, più o meno Medio Oriente per gli Stati Uniti? Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo (ma invocano a gran voce una politica più coerente, o meglio una politica tout court).
Trump è stato definito da vari commentatori americani un geopolitical destabilizer. Uno che cambia il vecchio senza però saper proporre un nuovo che non sia un impossibile, almeno oggi, arroccamento dell’America fra i due Oceani. Del resto Johnson e mezza Gran Bretagna pensano sia possibile un arroccamento con la protezione della Manica. Far fuori un avversario è in sé cosa gradita a tutti i cranks d’America, ma bisogna vedere poi le conseguenze, e queste non sono chiare. Neppure sulle prospettive elettorali, che certamente hanno pesato sulla scelta di mandare due droni a far fuori il patron delle operazioni speciali dei rivoluzionari islamici iraniani.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
La scusa del rischio imminente di attentati terroristici per giustificare l’uccisione del generale iraniano non regge: il pericolo per il mondo è solo The Donald. E persino alcuni repubblicani, scavalcati come tutto il Congresso Usa, se ne stanno accorgendo.
Mentre Meghan e Harry si “licenziano” dalla Corona britannica, il presidente Donald Trump sogna di essere dittatore assoluto, e decide, senza consultare il Congresso, e cioè come un dittatore qualsiasi, di trucidare Qassem Soleimani. Non era certo uno stinco di santo, il generale Soleimani, anzi: per quanto fosse la seconda persona più importante in Iran, rispettato e considerato un eroe dal regime, era a capo della Quds Force, un gruppo all’interno dei Pasdaran, il corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica in Iran responsabile di molti attacchi terroristici nel mondo. E nelle ultime settimane, dopo l’attacco alla base militare e l’assalto dell’ambasciata americana a Bagdad, Trump si è fatto prendere dal panico.
GIUSTIFICAZIONI DIFFICILMENTE CREDIBILI
Ha giustificato la sua azione di guerra dicendo che i Servizi segreti gli avevano annunciato che Soleimani era diventato una minaccia imminente agli Stati Uniti, scusa che in molti, fra politici e cittadini, fanno fatica a credere. In realtà pare che il generale fosse arrivato in Iraq per incontrarsi con il presidente iracheno per discutere delle trattative tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Pare che ci sia stato un altro attacco, quella stessa notte, per ammazzare Abdul Reza Shahlai, un alto ufficiale iraniano che si trovava in Yemen, ma pare che l’attentato non abbia avuto successo.
ENORMI PREOCCUPAZIONI ANCHE A WASHINGTON
Tutto questo, per ora, sembra avere poco a che fare con una minaccia imminente. Molto a che fare (ma questa è la mia opinione) con tutto quel disastro riguardo l’impeachment e la voglia di far parlare d’altro, possibilmente migliorando le possibilità di vittoria per un secondo mandato nel 2020. Ma chi sono io per giudicare? Una cosa è chiara: la minaccia imminente più pericolosa, per ora, rimane il presidente Trump. Le azioni militari contro l’Iran hanno suscitato enormi preoccupazioni, sia a livello internazionale sia a Washington. Malgrado Trump desideri essere l’unico ad avere il potere di attaccare a destra e a manca chi lo spaventa, negli Stati Uniti non funziona (ancora) così: ogni azione bellica deve essere prima discussa al Congresso e al Senato e deve essere approvata dalla maggioranza. Cosa che non è successa: dopo l’assassinio del generale Soleimani, un rappresentante della Casa Bianca ha indetto una riunione al Senato (che è per la maggior parte in mano repubblicana) per giustificare l’azione di Trump.
PERSINO PER QUALCHE REPUBBLICANO È STATO ABUSO DI POTERE
Se per alcuni repubblicani questo è bastato per appoggiare il presidente, per alcuni di loro, compresi i senatori Rand Paul (Kentucky) e Mike Lee (Utah), è stato commesso un grave errore, un abuso di potere. Mike Lee ha rilasciato questa dichiarazione: «La riunione con il rappresentante della Casa Bianca è stata la peggiore degli ultimi nove anni che sono al Senato, soprattutto riguardo questioni militari. Conoscendo la nostra storia, fare una consultazione non è la stessa cosa che ricevere un’autorizzazione a procedere usando la forza militare. Una notifica o una patetica riunione fatta dopo che il fatto è accaduto non sono adeguate alla circostanza».
I DEMOCRATICI PROVANO A LIMITARLO
La Camera dei rappresentanti, in mano ai democratici, ha votato giovedì mattina di limitare il potere di dichiarare guerra al presidente. Oltre alla stragrande maggioranza dei voti dei democratici, anche qualche repubblicano ha ammesso che il presidente Trump questa volta l’ha fatta davvero grossa. In risposta agli attacchi degli Stati Uniti in Iraq e i Yemen, gli iraniani hanno bombardato due basi militari americane, senza causare nessuna vittima, forse per fare in modo che la situazione non degeneri in una vera guerra, che nessuno vuole.
GIOCHI A GOLF E LASCI AD ALTRI GLI EQUILIBRI GLOBALI
Speriamo che Trump non decida di prendere altre iniziative senza consultare il Congresso, perché a questo punto la situazione mondiale potrebbe diventare davvero preoccupante. Speriamo che si impegni di più a giocare a golf e che lasci a chi ne sa di più il compito di mantenere l’equilibrio di pace globale intatto.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu per scongiurare l’escalation.
Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».
LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN
Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu per scongiurare l’escalation.
Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».
LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN
Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei..
Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei nostri consumi). Al contrario degli americani che con il fracking, il petrolio dal gas scisto delle rocce, stanno estraendo olio nero negli Usa, gli italiani dipendono quasi totalmente dalle importazioni straniere di greggio. La fragilità dell’Italia negli attacchi tra l’Iran e gli Stati Uniti, e nella contemporanea escalation della guerra in Libia, è prima di tutto nelle conseguenze economiche che una crisi petrolifera come quelle degli Anni 70 avrebbe sul Paese a un passo dalla recessione. Dallo strike degli Usa contro il generale iraniano Qassem Soleimani, le Borse sono in calo e il prezzo del greggio è volato sopra 70 dollari al barile. La pioggia di razzi iraniani in Iraq dell’8 gennaio, in rappresaglia, ha provocato una nuova impennata.
DIPENDENTI USA VIA DAI GIACIMENTI IN IRAQ
Dopo le basi militari, i siti petroliferi degli americani in Iraq – dove c’è anche l’Eni a Zubair, vicino a Bassora – e negli altri Stati del Golfo sono i primi target degli attacchi di Teheran. Un assaggio in questo senso è stato il raid messo a segno nel settembre scorso dagli iraniani agli impianti petroliferi più grandi al mondo, in Arabia Saudita. La regia dell’attacco con droni dall’Iran o dallo Yemen, che bloccò il 6% della produzione petrolifera globale mostrando la vulnerabilità di Raid, fu con ogni probabilità del generale Soleimani, da più di 20 anni a capo delle forze d’élite all’estero (al Quds) dei pasdaran. Dopo il suo omicidio mirato del 3 gennaio, le major americane hanno imbarcato i connazionali impiegati nei campi estrattivi del Sud dell’Iraq e del Kurdistan iracheno su voli verso gli Emirati e il Qatar, ha confermato il ministero del Petrolio di Baghdad.
LA MINACCIA DEL BLOCCO DELLO STRETTO DI HORMUZ
I mercati sono in fibrillazione anche per la minaccia iraniana, mai così concreta, di bloccare alle petroliere loStretto di Hormuz, controllato dai pasdaran, nel Golfo persico. Dalla più importante arteria di transito globale del greggio passa un terzo dell’export totale del petrolio via mare (il 29% verso l’Italia), da tutti i Paesi del Golfo esclusi lo Yemen e l’Oman; e anche tutto il gas naturale liquefatto del Qatar. La possibilità di una crisi energetica per l’Italia è aggravata dalla guerra in Libia diventata aperta tra potenze straniere. Forze rivali libiche e rinforzi arrivati dalla Turchia da una parte e da russi, emiratini ed egiziani dall’altra si dirigono verso la battaglia finale di Tripoli. In Libia gli introiti dell’export del greggio, redistribuite dalla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e dalla Banca centrale libica a tutte le fazioni in campo, sono il carburante del conflitto.
L’uscita o un’estromissione del Cane a quattro zampe dalla Libia è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.
LO STOP DEL GREGGIO DA IRAN E VENEZUELA
Come in Iraq, i vertici delle compagnie rassicurano che le estrazioni proseguono ai livelli invariati del 2019 «attraverso il personale locale». In Libia, a dicembre la produzione nazionale di greggio era arrivata al massimo (1,25 milioni di barili al giorno) da sette anni. Cioè dalla precedente escalation tra il 2013 e il 2014 che sfociò nella battaglia all’aeroporto di Tripoli. Le turbolenze concomitanti in Nord Africa e in Medio Oriente cadono durante un import-export del greggio già rallentato da mesi per le sanzioni massime di Trump all’Iran e dall’embargo totale al Venezuela, maggiore riserva mondiale di petrolio. Se dal 2018 Eni e le altre compagnie occidentali sono uscite dai contratti di esplorazione e di sfruttamento appena avviati con Teheran, dopo l’accordo sul nucleare, in Libia l’uscita o un’estromissione del Cane a sei zampe è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.
L’ACCORDO TURCO-LIBICO PER SPARTIRSI IL MEDITERRANEO
Eni è la prima e storica compagnia straniera a essere entrata ell’ex colonia italiana, negli Anni 50. Un partner strategico consolidato, sopravvissuto nell’Est all’avanzata del generale filorusso Khalifa Haftar e ben impiantato nella Tripoli islamista, sostenuta da anni dalla Turchia e dal Qatar. Con il Noc gestisce il complesso di raffineria di petrolio e gas a Mellitah, terminal delgreenstream che porta il gas libico verso l’Italia, i contratti con le società petrolifere durano decenni, e parte del gas di Eni serve le centrali elettriche dei libici. In compenso gli italiani rischiano molto nella corsa alle riserve di gas nel Mediterraneo orientale. Con un colpo di spugna, a novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha stretto un accordo bilaterale e arbitrario con la Libia sulla giurisdizione delle acque che spacca in due il mare nostrum, violando il diritto marittimo internazionale.
La disputa sul gas si concentra soprattutto sulle riserve attorno all’isola di Cipro contesa dalla Turchia
TURCHIA CONTRO ITALIANI E FRANCESI A CIPRO
In cambio di armi e rinforzi a terra a Tripoli e Misurata, Erdogan intende accaparrarsi i giacimenti al largo della Grecia e di Cipro, nelle acque dell’Egitto dove l’Eni ha scoperto e sfrutta il grande campo offshore di Zohr, e più a Est in quelle del Leviathan a Sud di Israele. La disputa (anche di altre major straniere) si concentra soprattutto sulle riserve attorno al piccolo Stato dell’Ue conteso dalla Turchia: a ottobre Ankara aveva alzato il livello dello scontro, inviando una nave da trivellazione proprio in un blocco esplorativo affidato da Nicosia a Eni e alla francese Total. Un’entrata a gamba tesa anche nel progetto EastMed – la pipeline concorrente alla russo-turca TurkStream – che passando per Creta dovrebbe portare il gas in Europa. Non a caso, con l’Egitto l’Ue, Italia in testa, ha dichiarato illegittimo l’accordo marittimo turco-libico. Ma mentre l’Ue parla, Erdogan agisce.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Le divisioni tra i falchi. Le divergenze nel Partito repubblicano e in quello democratico. I dissidi tra Casa Bianca e Pentagono. Le tensioni con Teheran allargano la faglia tra pro e anti Trump.
Lacrisi iraniana, esplosa dopo l’uccisione del generale Qasem Soleimani, sta producendo profonde spaccature in seno alla politica statunitense. Le varie fazioni che si stanno creando attorno a questo spinoso dossier non sono poche. La maggior parte dei repubblicani si è schierata dalla parte di Donald Trump. A sostenere il presidente in questo delicato frangente sono soprattutto i falchi del partito. All’indomani dell’attacco missilistico iraniano contro le due basi americane in Iraq, il senatore della Florida, Marco Rubio, ha dichiarato che il presidente ha gestito la faccenda «molto bene», aggiungendo: «Gli Stati Uniti erano ben preparati per questo tipo di attacco e non hanno bisogno di affrettarsi per decidere la risposta appropriata». Una posizione in buona sostanza condivisa anche dal senatore del South Carolina, Lindsey Graham, che ha definito l’aggressione iraniana «un atto di guerra». Riferendosi all’uccisione di Soleimani, l’ex ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha invece affermato: «Le uniche persone che piangono la scomparsa di Soleimani sono i nostri leader democratici e i candidati presidenziali democratici».
Va tuttavia notato che il fronte dei falchi non appare del tutto coeso e che può, almeno in generale, essere diviso in due parti. Se è infatti possibile scorgere una frangia più moderata che, con Graham, invoca un’azione ferma (volta a “ristabilire la deterrenza” contro l’Iran), è presente anche una fazione molto più agguerrita che chiede di andare ben oltre. In questo senso, non bisogna trascurare la posizione dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che – qualche giorno fa – si è augurato che l’uccisione di Soleimani possa costituire il primo passo per arrivare a un cambio di regime in Iran. Una prospettiva, quest’ultima, che Trump non ha mai mostrato di apprezzare e lo stesso Graham – nelle scorse ore – ha ribadito che il presidente non auspica un simile obiettivo. Se dunque il fronte dei falchi non appare del tutto compatto, neppure il Partito Repubblicano si è interamente schierato con Trump sul dossier iraniano.
NON TUTTO IL PARTITO REPUBBLICANO STA CON TRUMP
Per quanto minoritaria, la frangia dei libertarian(di tendenze storicamente isolazioniste) non ha gradito troppo l’eliminazione di Soleimani. Qualche giorno fa, il senatore del Kentucky Rand Paul ha dichiarato che Trump avrebbe «ricevuto cattivi consigli» sulla sua decisione di uccidere il generale iraniano: non è del resto un mistero che Paul sia sempre stato abbastanza favorevole ad intraprendere azioni diplomatiche per appianare le divergenze geopolitiche tra Washington e Teheran. L’amministrazione Usa, dal canto suo, ostenta al momento compattezza. La sintonia tra il presidente e il segretario di Stato, Mike Pompeo, sembra forte. Tutto questo, nonostante l’episodio della lettera, circolata due giorni fa, su un eventuale ritiro delle truppe americane dall’Iraq possa suggerire la presenza di qualche dissidio tra la Casa Bianca e il Pentagono.
L’INVERSIONE DI ROTTA DELLA WARREN
Ancora più articolata (e confusa) rispetto alla situazione nel Gop risulta quella tra i democratici: soprattutto se si guarda ai principali candidati alla nomination. L’estrema sinistra si è mostrata sin da subito molto critica nei confronti dell’uccisione del generale, con il senatore del Vermont Bernie Sanders che ha definito l’accaduto un «assassinio» che potrebbe condurre gli Stati Uniti verso una nuova «disastrosa guerra in Medio Oriente». Più controversa la posizione di Elizabeth Warren. Il giorno dell’uccisione di Soleimani la senatrice del Massachusetts aveva postato un primo tweet in cui, pur denunciando la possibilità di un conflitto, definiva il generale iraniano un «assassino». Qualche ora dopo, in seguito alle critiche ricevute su Twitter da attivisti di area liberal, ha in parte cambiato linea, sostenendo che Trump abbia «assassinato un alto funzionario militare straniero» e ritenendo inoltre il presidente responsabile dell’acuirsi delle tensioni con Teheran.
Più “istituzionali” si sono mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg
L’inversione di rotta non è passata inosservata e ha messo in luce le difficoltà della Warren a barcamenarsi tra le istanze più a sinistra dell’elettorato americano e quelle dell’establishment del Partito Democratico (cui la senatrice non è così estranea come spesso vorrebbe far ritenere). Più “istituzionali” si sono invece mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg: i due hanno affermato che Soleimani era un nemico dell’America ma non hanno comunque perso occasione per criticare Trump. Biden ha accusato il presidente di aver gettato un candelotto di dinamite in una polveriera, sostenendo che la Casa Bianca non disporrebbe di adeguate strategie mediorientali. Buttigieg, dal canto suo, ha criticato Trump per aver ordinato l’eliminazione del generale senza chiedere l’autorizzazione del Congresso.
L’INIZIATIVA DELLA SPEAKER PELOSI
E proprio quest’ultima accusa ha fatto breccia in gran parte dell’Asinello negli ultimi giorni. Lunedì scorso, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha annunciato l’introduzione di una risoluzione per limitare il potere del presidente sul dossier iraniano: una risoluzione che – ha scritto in una lettera la Pelosi – «riafferma le responsabilità di supervisione da lungo tempo assunte dal Congresso, imponendo che se non verrà intrapresa alcuna ulteriore azione congressuale, le ostilità militari dell’amministrazione nei confronti dell’Iran cesseranno entro 30 giorni». L’argomento, che può avere una sua validità tecnica in astratto, risulta tuttavia debole in concreto, alla luce del fatto che Barack Obama nel 2011 ordinò l’intervento in Liba, aggirando completamente l’autorità del Campidoglio. Resta tuttavia il fatto che, con ogni probabilità, la leadership dell’Asinello è intenzionata a dare battaglia su questo fronte. Magari intersecando il tutto con la partita dell’impeachment.
I (PRESUNTI) LEGAMI CON L’IMPEACHMENT
A questo proposito, c’è chi sostiene che il presidente avrebbe ordinato l’uccisione di Soleimani proprio per fronteggiare al meglio il processo di messa in stato d’accusa (che dovrebbe celebrarsi questo mese al Senato). L’interpretazione risulta tuttavia abbastanza inconsistente: Trump non aveva infatti bisogno di uccidere il generale per ottenere l’appoggio dei falchi alla Camera alta (sono mesi che, per esempio, Graham sta sostenendo il presidente su questo fronte). Inoltre, anche in termini di opinione pubblica, il consenso verso l’impeachment era già progressivamente scemato tra novembre e dicembre. Discorso simile vale poi per chi dice che Trump ha agito in ottica prettamente elettorale. È vero che secondo un recentissimo sondaggio di Morning Consult il 47% degli intervistati si è detto favorevole all’eliminazione di Soleimani (mentre solo il 40% ha manifestato contrarietà). Ma è altrettanto vero che difficilmente gli americani voteranno a novembre del 2020 pensando all’uccisione del generale iraniano.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Manifestazioni in 80 città degli Stati Uniti dopo l’omicidio mirato di Soleimani. Si teme una nuova palude in Medio Oriente. Mentre i dem alla Camera annunciano una risoluzione per limitare il presidente.
In più di 80 città degli Usa si manifesta contro lo strike algenerale iraniano Qassem Soleimani. Davanti alla Casa Bianca un migliaio di pacifisti ha condannato il gigantesco azzardo di Donald Trump, e tra loro come sempre da tempo è spiccata un’infervorata Jane Fonda.
DE NIRO CONTRO I PIANI DEL «GANGSTER»
L’attrice e attivista americana che negli Anni 70 si mobilitò contro la palude del Vietnam protesta per scongiurare il «nuovo Vietnam in Medio Oriente». Che milioni di americani temono e che Teheran promette giurando vendetta. Robert De Niro, che a Trump non le manda a dire, è convinto iniziare una guerra sia «l’unico modo» per il «gangster» di «farsi rieleggere».
ALTRI ATTI PER INTERDIRE THE DONALD
Guarda caso con il 2020 si è aperto al Senato il processo per l’impeachment, dove a sorpresa il falco repubblicano John Bolton si è fatto avanti per testimoniare come chiesto dai dem. Se non altro il finimondo scatenato in Medio Oriente oscura la campagna mediatica internazionale sulla messa in stato di accusa di Trump. Eppure proprio l’omicidio mirato di Soleimani in Iraq innesca altri atti per interdire il presidente.
STRIKE LEGITTIMO? DUBBI ANCHE OLTREOCEANO
Diversi esperti di diritti umani e strateghi contestano alla Casa Bianca la «liceità» dell’uccisione di un alto comandante militare, in un Paese terzo, come nel caso di Soleimani. Un «atto di guerra (non la reazione «di difesa» rivendicata dalla segreteria di Stato Usa) anche per l’ex consigliere del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran Gary Sick, tra i massimi conoscitori americani dell’Iran. L’argomentazione di un «attacco terroristico imminente» pianificato da Soleimani contro gli Stati Uniti – dossier dichiarato coperto da segreto di Stato – lascia perplessi anche Oltreoceano. Tecnicamente gli omicidi mirati, anche di figure statali del calibro del comandante delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione, sono ammessi dall’articolo 2 della Costituzione Usa sulla legittima difesa – ma in circostanze limitatissime. A patto che sia pressoché certa la minaccia imminente.
NANCY PELOSI TORNA ALLA CARICA
L’incaricata dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, che ha appena guidato l’inchiesta sull’omicidio di Jamal Khashoggi, chiede «trasparenza» dalla Casa Bianca, su un atto estremo – anche per conseguenze – sul quale l’Amministrazione è tenuta a rendicontare. Anche per l’esperta di intelligence, ed ex advisor dell’Onu, Hina Shamsi quanto finora affermato da Trump e dal suo accondiscendente segretario di Stato Mike Pompeo non è convincente come giustificazione: «Se ci sono più informazioni il presidente deve prendersi la responsabilità di diramarle. Non possiamo tirare a indovinare». Per i dem lo strike a Soleimani è «dinamite in una polveriera», ha esclamato l’ex vicepresidente Joe Biden. Mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi – già promotrice dell’impeachment – ha annunciato al voto dell’assemblea a maggioranza democratica una risoluzione «sui poteri di guerra per limitare le azioni militari del presidente».
LA LETTERA SUL RITIRO AMERICANO DALL’IRAQ DIFFUSA PER ERRORE
Un testo per riaffermare la «responsabilità di supervisione del Congresso. Rendendo obbligatoria, in assenza di ulteriori azioni parlamentari, la fine entro 30 giorni delle ostilità militari contro l’Iran», ha anticipato Pelosi. Tenuto conto dell’«attacco «provocatorio e sproporzionato» che «ha messo in serio pericolo i nostri militari, i nostri diplomatici e altri, rischiando una grave escalation di tensione con l’Iran». Il riferimento è alle migliaia di rinforzi mandate dagli Usa con ponti aerei a inizio 2020, in aggiunta alle migliaia di unità già presenti in Medio Oriente. Quando ancora alla fine dell’anno la Casa Bianca premeva per smantellare questi contingenti, dopo il repentino disimpegno dalla Siria. Un clima schizofrenico: dopo lo strike di Soleimani, circola in Rete una misteriosa lettera per la Difesa irachena del Comando generale Usa sul «riposizionamento delle unità» per un «ritiro sicuro», nel «rispetto della sovranità irachena». «Diffusa per errore», ha ammesso il Pentagono, «ma esistente».
DAL PENTAGONO ALT ALLA MINACCIA VERSO I SITI CULTURALI
LaGermania e altri Paesi europei hanno iniziato a «snellire» i contingenti in Iraq, l’Italia a «riposizionare» le sue unità fuori dalle basi Usa attaccate a colpi di mortaio. La Nato in sé si è distaccata pubblicamente dall’operazione contro Soleimani «decisa solo dagli Usa». Mentre anche Oltreoceano il Pentagono ha smentito platealmente la minaccia di rappresaglia, diffusa e rilanciata via Twitter dal presidente americano, di «colpire i siti culturali», contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati. Tutto il mondo si è levato contro i raid su Persepoli e sulla ventina di siti persiani patrimonio dell’umanità dell’Unesco: un crimine di guerra in base alla Convenzione dell’Aia del 1954. Ma le migliaia di americani in piazza chiedono di più per le Presidenziali del 2020: «Stop alle bombe in Iraq» e «militari fuori da tutto il Medio Oriente», prima che l’Iran e le sue milizie sciite alleate li caccino col sangue. Il 2 gennaio negli Usa era in programma una trentina di cortei nel weekend, per l’impeachment di Trump.
IMPEACHMENT E IRAN: PROTESTE A CATENA
I razzi del 3 gennaio contro Soleimani e il leader degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al Muhandis hanno moltiplicato le contestazioni. Numeri che in America non si vedevano dalla guerra in Iraq del 2003. A Times Square a New York, davanti alla Trump Tower a Chicago, a Memphis, Miami, San Francisco: contro il flagello di Trump il popolo dei pacifisti – e non solo – è in moto come ai tempi del Vietnam. Un caos anche Oltreoceano, dove lochoc mondiale provocato da Trump sull’Iran si somma alle acque agitate per l’impeachment. È doppio combustibile per le sessioni infuocate del Congresso. Non casuale, in proposito, è il sì di Bolton a parlare per la messa in stato di accusa del presidente: i dem considerano un loro trionfo il passo dell’ex advisor (silurato) di Trump alla Sicurezza nazionale. E nessuno, anche tra i repubblicani, converrebbe come la Casa Bianca che con la morte di Soleimani gli americani «sono più sicuri». Tranne probabilmente Bolton, ma neanche la guerra all’Iran di Trump lo ha placato.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Milioni di persone in strada. Per dare l’ultimo saluto al generale Qassem Soleimani, per invocare giustizia e vendetta, per gridare..
Milioni di persone in strada. Per dare l’ultimo saluto al generale Qassem Soleimani, per invocare giustizia e vendetta, per gridare ancora una volta «morte all’America». Mentre il corteo funebre del comandante delle forze Quds raggiungeva Teheran, la capitale si riempiva di una folla eterogena, fatta di radicali e moderati, uniti per una volta nel dolore e nel rancore. Presenti anche esponenti di Hamas e della Jihad islamica, insieme all’ayatollah Ali Khamenei, guida Suprema dell’Iran, che in lacrime sul feretro del suo comandante ha guidato la preghiera.
La folla ha chiesto vendetta, sventolando immagini di Soleimani e del vice capo di Hash al-Shaabi, Abu Mahdi al-Muhandis, gridando slogan contro gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e Israele. Soleimani era una figura che metteva d’accordo tutti, in Iran, e anche da morto continua a compattare il popolo, sebbene non manchino ancora le voci critiche nei suoi confronti. L’effigie del presidente Donald Trump è stata esposta in Enghelab Street con una corda al collo. Secondo Zeniab, figlia di Soleimani, le famiglie dei soldati statunitensi di stanza in Medio Oriente «dovrebbero aspettarsi la morte dei loro figli». Ali Akbar Vlayati, consigliere di Khamenei, ha promesso «un altro Vietnam» agli americani nel caso in cui non dovessero ritirare le loro forze dalla regione, confermando che «nonostante le vanterie dell’ignorante presidente degli Stati Uniti, l’Iran intraprenderà un’azione di ritorsione contro la stupida mossa degli americani che li farà pentire».
UNA LISTA COI PROSSIMI OBIETTIVI
Dopo i primi raid contro obiettivi americani in Iraq e il voto del parlamento di Baghdad a favore dell’espulsione delle truppe americane dal territorio nazionale, la preoccupazione a livello internazionale resta altissima. Il tabloid israelianoYediot Ahronotha pubblicato una lista delle più significative eliminazioni avvenute nella Regione negli ultimi anni, accompagnandola a un’altra coi nomi di chi potrebbe seguire il destino di Soleimani. Tra questi ultimi figurano Hassan Nasrallah (Hezbollah), Sallah al-Aruri e Mohammed Deif (Hamas), Ziad Nakhale (leader della Jihad islamica). Una lista che continua a gettare benzina sul fuoco dopo le minacce di Trump di colpire 52 siti in Iran.
ISRAELE CONVOCA IL CONSIGLIO DI SICUREZZA
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha convocato il Consiglio di difesa del governo per il pomeriggio del 6 gennaio, allo scopo di esaminare le ripercussioni dell’uccisione di Soleimani, mentre dall’Iran sono giunte negli ultimi giorni alcune minacce di ritorsione nei confronti di Israele. Di fronte alla delicatezza del momento, Netanyahu ha ordinato ai ministri di non esprimersi sugli ultimi sviluppi in Iran. Ma è stato lui stesso, nella seduta settimanale di governo tenutasi il 5 gennaio, a lodare Trump «per aver agito con determinazione, potenza e velocità» in questo frangente. Intanto ai confini Nord e Sud di Israele l’esercito mantiene uno stato di vigilanza, anche se negli insediamenti civili di frontiera la vita prosegue normalmente.
CONTE: «SERVE UN’AZIONE EUROPEA»
Il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, intervistato da Repubblica, ha invocato un intervento comune europeo nella vicenda: «La nostra attenzione deve essere concentrata a evitare un’ulteriore escalation, che rischierebbe di superare un punto di non ritorno». Secondo Conte «è prioritario promuovere un’azione europea forte e coesa per richiamare tutti a moderazione e responsabilità, pur nella comprensione delle esigenze di sicurezza dei nostri alleati». E sui militari italiani nella regione, ha affermato che svolgono una funzione essenziale: «Faremo il possibile per garantirne la sicurezza». Posizione critica quella assunta dal governo tedesco nei confronti di Trump. Le sue minacce, dicono da Berlino, «non sono di grande aiuto».
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Il Pentagono nega nuovi raid, ma manda 2.800 soldati in Medio Oriente. Teheran assicura di non volere una escalation, ma promette vendetta. Razzo su un aeroporto di Baghdad che ospita truppe americane.
Due razzi hanno colpito la superprotetta Green Zone di Baghdad, vicino all’ambasciata americana e dei missili Katyusha hanno centrato la base aerea di Balad, che ospita truppe americane. La rappresaglia iraniana, promessa dal presidente Rohani, sembra già essere arrivata. L’ambasciata americana è stata circondata dalle forze speciali e la strada è stata chiusa. Non vi sono al momento notizie di morti e non è chiaro se gli eventi siano collegati. Almeno cinque persone sarebbero rimaste ferite, secondo la Reuters, da alcuni colpi di mortaio caduti nel quartiere Jadriya di Baghdad.
FERITI CIVILI E SOLDATI IRACHENI
Secondo fonti dei canali di Al-Arabiya e Al-Hadath, una prima esplosione a Baghdad è avvenuta nella piazza della Celebrazione nel mezzo della Green Zone, mentre una seconda si è verificata vicino all’hotel Babylon sul lato opposto dell’ambasciata americana. Un terzo missile è caduto fuori dalla Green Zone, ferendo tre civili. Tre i razzi sulla base aerea di Balad, che ospita le forze americane a nord della capitale. Secondo il comando della base sono rimasti feriti tre soldati iracheni.
AVVISO AGLI IRACHENI: «ALLONTANATEVI DAGLI AMERICANI»
Kataeb Hezbollah, fazione filo-iraniana della rete militare irachena Hashed al-Shaabi, ha esortato le truppe irachene ad allontanarsi dalle forze statunitensi nelle basi militari. «Chiediamo alle forze di sicurezza nel Paese di allontanarsi di almeno 1.000 metri dalle basi statunitensi a partire da domenica alle 17 (le 19 ora italiana)», ha detto il gruppo. Un avviso che lascia prevedere nuovi attacchi sugli obiettivi militari americani.
IL PENTAGONO ESCLUDE NUOVI RAID PER IL MOMENTO
In giornata il Pentagono aveva assicurato che, almeno per il momento, non erano previsti altri raid aerei degli Stati Uniti contro le milizie filo-iraniane. Ma la situazione in Medio Oriente, nel giorno in cui il feretro dell’eroe nazionale iraniano Qassem Soleimani è sfilato per le vie di Baghdad accompagnato dalla folla che gridava «morte all’America», sembra quella di una pentola a pressione pronta a esplodere. Gli Stati Uniti hanno deciso di inviare circa 2.800 soldati a protezione delle sedi diplomatiche e degli interessi Usa nell’area, i punti nevralgici più sensibili a una rappresaglia iraniana che è impossibile pensare non arrivi. D’altra parte l’ambasciata americana a Baghdad era già stata assaltata da migliaia di manifestanti pochi giorni prima dell’uccisione di Soleimani.
INCONTRO IRAN-QATAR
Intanto il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha ricevuto a Teheran il suo omologo del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. Zarif ha definito l’attacco Usa un «atto terroristico» che ha portato al «martirio» del comandante, ma ha anche aggiunto che «l’Iran non vuole tensioni nella regione, ed è la presenza e l’interferenza di forze straniere che causa instabilità, insicurezza e aumento della tensione nella nostra delicata regione».
IL QATAR PROVA A MEDIARE
Il Qatar, un alleato chiave degli Stati Uniti nella regione, ospita la più grande base militare di Washington in Medio Oriente , e Al-Thani ha definito la situazione nella regione «delicata e preoccupante» e ha invitato a trovare una soluzione pacifica che porti a una de-escalation. Il ministro del Qatar ha incontrato anche il presidente iraniano Hassan Rohani, che aveva giurato vendetta per il sangue di Soleimani. L’Arabia Saudita, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno interrotto ogni rapporto con il Qatar nel 2017, accusando Doha di appoggiare l’estremismo e promuovere legami con l’Iran, accuse che il Qatar ha sempre respinto.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Violenza antisemita a Monsey. Ferite cinque persone, due sono gravi. Cuomo: «Un atto spregevole e codardo. Tolleranza zero».
È entrato in casa di un rabbino nella settima giornata delle celebrazioni di Hannukah e, con il viso coperto in parte con una sciarpa e armato di machete, ha seminato il panico fra i presenti, ferendone almeno cinque, tutti ebrei chassidisti, di cui due sono in condizioni gravi. L’attacco è avvenuto a Monsey, circa 50 chilometri a Nord di New York. Secondo i media americani l’autore, che era riuscito a scappare dall’abitazione limitrofa alla sinagoga nonostante i vari tentativi di fermarlo (anche con un piccolo tavolo per bloccargli il passaggio), è stato arrestato dalla polizia.
UN UOMO COLPITO IN PIENO PETTO
In un primo momento i media americani parlavano di un attacco in una sinagoga, ma successivamente l’Orthodox Jewish Public Affairs Council ha precisato in un tweet che è stata presa di mira l’abitazione di un rabbino. Al momento le ricostruzioni sono tutte parziali: si sa che alcuni dei feriti sono stati colpiti ripetutamente, uno almeno sei volte, un altro in pieno petto ed è quello nelle condizioni peggiori. Un’altra persona è rimasta ferita solo leggermente a un dito.
UNA LUNGA SERIE DI ATTACCHI
L’episodio si inserisce in una serie di attacchi antisemiti che si sono verificati negli ultimi giorni a New York: incidenti che hanno fatto alzare la guardia e rafforzare i controlli di polizia nell’area di Brooklyn, quella più colpita. «Un atto spregevole e codardo», ha commentato il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo. «Voglio essere chiaro: l’antisemitismo e l’intolleranza sono ripugnanti e abbiamo assolutamente tolleranza zero per tali atti di odio», ha aggiunto.
«SERVE MAGGIORE PROTEZIONE»
«Monitoriamo
le informazioni che arrivano da Monsey»,
ha affermato la polizia anti-terrorismo di New York. A condannare
l’attacco è anche il procuratore di New York, Letitia James: «C’è
tolleranza zero per atti di odio di qualsiasi tipo, continueremo a
monitorare la situazione»
a Monsey. «Dopo gli
attacchi dell’ultima settimana a Brooklyn e Manhattan spezza il cuore
vedere ancora violenza. La comunità ebraica ha bisogno di maggiore
protezione», ha affermato
il numero uno dell’Anti-Defamation League.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Inaugurato dal presidente e dalla first lady il nuovo corpo militare dedicato alla guerra nello spazio.
L’esercito degli Stati Uniti guarda allo spazio ed è pronto alla sua conquista, letteralmente. Il presidente Donald Trump ha ufficialmente inaugurato la sera del 20 dicembre la Us Space Force cioè le nuove forze spaziali americane, un nuovo corpo militare – si tratta del primo in più di settant’anni dedicato alla conquista e alla difesa spaziale.
«LA SUPERIORITÀ NELLO SPAZIO È VITALE»
«Lo spazio è il nuovo dominio mondiale di combattimento in guerra e tra le gravi minacce alla nostra sicurezza nazionale la superiorità americana nello spazio è assolutamente vitale», ha sottolineato il presidente Usa, in visita al nuovo corpo militare assieme alla first lady Melania Trump.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
La messa in stato d’accusa di Trump si configura come un vero e proprio dibattimento con accusa e difesa, prove e testimonianze. Ecco come si svolge, passaggio per passaggio.
Ora che la Camera ha deciso per l’impeachment di Donald Trump la palla passerà al Senato, dove la maggioranza repubblicana – a scanso di sorprese decisamente improbabili – salverà il presidente.
Al di là dell’esito finale, è utile capire come il Senato affronterà quello che si sviluppa come un vero e proprio processo e soprattutto chi tra i repubblicani e i democratici si avvantaggerà maggiormente in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. Ecco quali sono i passaggi previsti:
1. La Camera nomina un team di giuristi, che rappresenterà l’accusa nel processo, e passa la palla al Senato (la data prevista è il 6 gennaio).
2. Il giudice capo della Corte suprema Usa, John G. Roberts Jr, presta giuramento e diventa ufficialmente il giudice del processo.
3. Il Senato cita in giudizio il presidente, chiedendogli di rispondere alle accuse fissate dagli articoli dell’impeachment votati alla Camera (in questo caso, abuso di potere e ostruzione). Il presidente o il suo avvocato (il legale della Camera, Pat Cipollone) risponde alle accuse. Una mancata risposta viene considerata come dichiarazione di non colpevolezza.
4. Il Senato può decidere di votare subito per far finire il processo, in questo caso basta una maggioranza semplice. Non è detto, tuttavia, che i repubblicani vogliano intraprendere questa strada: un processo lungo potrebbe mettere in difficoltà per primi i democratici, con Trump convinto di poter avvantaggiarsi di uno show al Senato e i sondaggi che rivelano che il 51% degli americani è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’avvio dell’inchiesta. Se nessun senatore chiede di andare subito al voto il processo procede regolarmente.
5. L’accusa e gli avvocati del presidente espongono i loro punti di vista sul caso.
6. Vengono presentate le prove e sentiti i testimoni di accusa e difesa. Anche i senatori possono fare domande ai testimoni, ma devono prima sottoporle al giudice.
7. I pubblici ministeri della Camera e i difensori del presidente discutono la loro arringa finale.
8. Il Senato vota: per una condanna sono necessari due terzi dei voti per uno o più articoli. Se la maggioranza qualificata vota per la condanna, il presidente Trump viene rimosso dall’incarico.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
La messa in stato d’accusa di Trump si configura come un vero e proprio dibattimento con accusa e difesa, prove e testimonianze. Ecco come si svolge, passaggio per passaggio.
Ora che la Camera ha deciso per l’impeachment di Donald Trump la palla passerà al Senato, dove la maggioranza repubblicana – a scanso di sorprese decisamente improbabili – salverà il presidente.
Al di là dell’esito finale, è utile capire come il Senato affronterà quello che si sviluppa come un vero e proprio processo e soprattutto chi tra i repubblicani e i democratici si avvantaggerà maggiormente in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. Ecco quali sono i passaggi previsti:
1. La Camera nomina un team di giuristi, che rappresenterà l’accusa nel processo, e passa la palla al Senato (la data prevista è il 6 gennaio).
2. Il giudice capo della Corte suprema Usa, John G. Roberts Jr, presta giuramento e diventa ufficialmente il giudice del processo.
3. Il Senato cita in giudizio il presidente, chiedendogli di rispondere alle accuse fissate dagli articoli dell’impeachment votati alla Camera (in questo caso, abuso di potere e ostruzione). Il presidente o il suo avvocato (il legale della Camera, Pat Cipollone) risponde alle accuse. Una mancata risposta viene considerata come dichiarazione di non colpevolezza.
4. Il Senato può decidere di votare subito per far finire il processo, in questo caso basta una maggioranza semplice. Non è detto, tuttavia, che i repubblicani vogliano intraprendere questa strada: un processo lungo potrebbe mettere in difficoltà per primi i democratici, con Trump convinto di poter avvantaggiarsi di uno show al Senato e i sondaggi che rivelano che il 51% degli americani è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’avvio dell’inchiesta. Se nessun senatore chiede di andare subito al voto il processo procede regolarmente.
5. L’accusa e gli avvocati del presidente espongono i loro punti di vista sul caso.
6. Vengono presentate le prove e sentiti i testimoni di accusa e difesa. Anche i senatori possono fare domande ai testimoni, ma devono prima sottoporle al giudice.
7. I pubblici ministeri della Camera e i difensori del presidente discutono la loro arringa finale.
8. Il Senato vota: per una condanna sono necessari due terzi dei voti per uno o più articoli. Se la maggioranza qualificata vota per la condanna, il presidente Trump viene rimosso dall’incarico.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
O con lui o contro di lui: la contrapposizione aiuta i repubblicani nella corsa alle Presidenziali 2020. The Donald pronto alla grande battaglia mediatica. Mentre i dem restano senza leader carismatici. E quattro di loro si sfilano dall’incriminazione.
«L’assalto all’America». «Una vergogna e una disgrazia per il Paese». Anzi di più, un «colpo di Stato» della «sinistra radicale dei democratici nullafacenti». Nei 45 tweet scaricati a caratteri cubitali sul web al via libera all’impeachment della Camera, a Donald Trump è bastato scrivere «pregate per me» perché il repubblicano Barry Loudermilk, deputato per lo Stato della Georgia, lo paragonasse a Gesù: «Nel processo farsa di Ponzio Pilato gli furono concessi più diritti di quanti i democratici non ne abbiano lasciati al presidente americano», ha commentato. La potenza di fuoco del tycoon contro la «messinscena» e la «follia politica assoluta» contro di lui – terzo presidente degli Stati Uniti con l’onta del processo al Senato – è l’arma migliore dei repubblicani per le Presidenziali del 2020.
THE DONALD FISSO AL CENTRO DELL’ATTENZIONE
Si può dire che la corsa di Trump al secondo mandato sia scattata con i 230 sì dei deputati democratici «consumati dall’odio» all’incriminazione per abuso di potere del presidente della (197 i no). Dal 19 dicembre tutta la campagna elettorale del 2020 per la Casa Bianca sarà incentrata sulla «minaccia costante per la sicurezza nazionale», come ha definito Trump la presidente della Camera Nancy Pelosi. Per la controparte, il presidente è il più perseguitato dai nemici democratici. L’inquilino della Casa Bianca più eccentrico della storia degli Usa sarà in ogni caso al centro dell’attenzione, e tutto il resto in secondo piano. Anche come presidente, dal 2017 Trump ha brillato solo per pressapochismo e megalomania: se c’è una cosa che sa far bene, l’unica, è insomma mettersi in mostra.
FARLO MARTIRE È STATO UN REGALO
Anche nella campagna del 2016 il tycoon dell’Apprentice vinse grazie alla spregiudicatezza nella comunicazione: la competizione è il suo ambiente ideale. Farlo martire dell’impeachment è, anche per alcuni democratici, il regalo più grande che gli si potesse fare. Non a caso i repubblicani puntano ad aprire e chiudere il processo al Senato (a maggioranza repubblicana) prima possibile, tra gennaio e febbraio 2020, in modo da procedere come vincitori nella corsa contro il «partito dell’odio». Mentre Trump, che quando ne vale la pena rilancia sempre la posta, vorrebbe trascinare l’impeachment di alcuni mesi, citando in Senato come testimoni proprio Hunter Biden e il padre Joe. Cioè lo sfidante dem alle Presidenziali e la famiglia cuore delle accuse dell’impeachment.
Alla Camera i dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani
LO SCONTRO AIUTA I REPUBBLICANI
Imbastire una campagna mediatica e svergognare i democratici è il programma elettorale di Trump. Un terreno molto scivoloso per i democratici: la stessa ex first lady di Barack Obama, Michelle, è parecchio scettica sulla scelta di Pelosi – pressata dalla maggioranza dei democratici alla Camera – di avviare l’impeachment. Alla votazione, i deputati dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani che, seppur da sempre in diversi perplessi verso il loro ultimo presidente, hanno fatto tutti quadrato su Trump: un altro vantaggio del clima di contrapposizione creato. Tre deputati democratici si sono invece sfilati dal sì alla prima accusa di abuso di potere, due di loro anche dalla seconda per ostruzionismo al Congresso; un terzo dem dalla seconda accusa.
PER QUALCHE DEM È UN’ESAGERAZIONE
I dissidenti si contano sulle dita: non abbastanza per intaccare la maggioranza semplice che bastava per l’impeachment, ma niente affatto edificanti. Jeff Van Drew, dem per il New Jersey, è stato molto franco: «Così le chance di Trump alle Presidenziali del 2020 si alzano ancora». E dirlo da democratico proprio non aiuta. Un altro campanello d’allarme è il no di Collin Peterson, moderato, rappresentante del Minnesota nel 2016 andato a Trump, sconfitto in passato dai repubblicani: ebbene per Peterson «Trump non ha commesso alcun crimine». Quanti la pensano come lui nel Minnesota, e prima del voto il 3 novembre 2020 oscilleranno tra democratici e repubblicani? L’ex soldato d’élite Jared Golden, deputato per il Maine, ritiene per esempio esagerata l’accusa di ostruzionismo, e non quella di abuso di potere.
GABBARD, LA DEMOCRATICA PIÙ AMATA DAL CREMLINO
Un’astensione molto imbarazzante, per i democratici privi di un leader carismatico, è arrivata (su entrambi e capi di accusa) dalla giovane deputata e militare Tulsi Gabbard, eletta alle Hawaii. Figlia di un repubblicano, ex soldatessa in Iraq, per welfare e istruzione universali, prima super delegata donna a sostenere Bernie Sanders nel 2016, Gabbard è considerata una stalinista tra i dem: pro Bashar al Assad in Siria, filorussa in politica estera, ora isolata anche nella sinistra radicale per l’impeachment, il soldato Gabbard corre da solo. Ma soprattutto, come ha annunciato, correrà per una nomination alle Presidenziali del 2020. Di lei Hillary Clinton aveva detto che la Russia sta facendo tra i dem quello che fece con Trump tra i repubblicani, aprendo una lite prima con l’interessata poi con Sanders.
PELOSI LEADER SOLO PERCHÉ È L’ANTI-TRUMP
Tutte queste divisioni indeboliscono i democratici. Mentre il Gran old party (Gop) si stringe attorno al corpo estraneo di Trump. È significativo che tra i dem emerga come leader solo la 79enne speaker della Camera: non perché prima donna e prima italo-americana a presiedere l’assemblea legislativa degli Usa, non perché deputata democratica di più alto grado mai ammessa nei Comitati di intelligence, non perché tra le donne dem – insieme a Clinton e Michelle Obama – con più accesso alle informazioni sulla Difesa e sulla Sicurezza nazionale – e tanto meno perché sfidante alle Presidenziali. Pelosi non è candidata alla Casa Bianca né lo è mai stata, è leader perché ha mosso l’impeachment a Trump. Una retorica che, finora, negli States non ha spostato consensi dai repubblicani ai democratici.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Ankara risponde con la sua arma preferita alla minaccia di sanzioni americane per l’acquisto del sistema missilistico russo. Perché l’aeroporto di Incirlik è uno snodo strategico fondamentale per Washington.
«Se serve, possiamo chiudere una o entrambe» le basi militari gestite dagli Usa in Turchia di Incirlik e Kurecik. Lo ha ribadito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, parlando con i reporter a margine del Forum mondiale sui rifugiati a Ginevra. «Sappiamo bene quando agire con moderazione e quando essere determinati», ha aggiunto il leader di Ankara, criticando Washington per le minacce di sanzioni per l’acquisto del sistema missilistico russo di difesa aerea S-400.
L’IMPORTANZA STRATEGICA DI INCIRLIK
Incirlik è considerata una delle basi più strategiche degli Usa nella regione. Al suo interno sono anche custodite numerose testate nucleari tattiche americane. La base è già stata al centro di diversi bracci di ferro in passato tra Washington e Ankara, che l’aveva aperta alle operazioni aeree della Coalizioni anti-Isis nel 2015. Kurecik è un’installazione miliare radar impiegata per scopi di difesa aerea.
Incirlik è snodo chiave per decine di operazioni, comprese le guerre in Iraq e le missione in Afghanistan (che attraverso questo hub riceve il 70% del traffico cargo militare) e in Siria. È la ‘casa’ del 39/o gruppo Air Wing Base (il cui mandato è assistere e proteggere interessi Usa e della Nato), del 728/o squadrone mobilità aerea nonché del 717/o e 425/o squadrone di trasporto dell’aviazione Usa. Sono presenti anche forze della Raf britannica e della Luftwaffe tedesca.
LA BASE “OSTAGGIO” DI ANKARA
La tendenza a utilizzare l’aeroporto come minaccia o merce di scambio non è nuova per la Turchia. Nel 2003, il governo di Ankara negò l’autorizzazione all’uso della base a Washington per l’invasione dell’Iraq: uno spartiacque nei rapporti con l’alleato storico. L’accordo tra StatiUniti e Turchia per l’uso di Incirlik come aeroporto per i voli della coalizione anti-Isis è stato formalmente firmato il 29 luglio 2015, dopo che per quasi un anno la Turchia aveva negato l’autorizzazione all’uso delle piste. Nel luglio del 2016 la base fu usata da alcuni militari golpisti nella notte del tentato colpo di Stato contro Erdogan. All’epoca il presidente reagì con il “sequestro” immediato della base da parte della magistratura, e negli Usa si aprì il dibattito sulla convenienza nel tenere le testate nucleari stipate a Incirlik.
CIPRO E IL GENOCIDIO ARMENO ALIMENTANO LE TENSIONI
Ad alimentare le tensioni tra Usa e Turchia anche l’ipotesi della fine dell’embargo sulla vendita di armi alla Repubblica di Cipro, votata ieri dal Congresso Usa e in attesa della firma del presidente Trump. L’embargo era stato introdotto nel 1987 per evitare una corsa agli armamenti e incoraggiare una soluzione politica a Cipro, divisa in due dal 1974 dopo un’invasione dell’esercito turco a seguito di un tentativo di golpe filo-greco. Ankara mantiene nella parte settentrionale dell’isola oltre 30 mila soldati e diverse basi militari. Inoltre, Erdogan ha dovuto subire lo smacco del riconoscimento da parte del Senato Usa del genocidioarmeno, un tema su cui la Turchia è da sempre molto sensibile.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d’accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l’asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l’avversario.
Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.
DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI
Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.
REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI
I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».
PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI
Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.
WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA
Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.
A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE
Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.
I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO
D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatoresi è fatto avanti il5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.
Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020
Nancy Pelosi, presidente della Camera
PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI
La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo ilpresidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).
LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO
Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».
OPINIONE PUBBLICA SPACCATA
Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.
METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA
Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.
PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL
Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.
CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI
Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.
TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA
Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.
UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È
McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presiedutodal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d’accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l’asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l’avversario.
Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.
DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI
Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.
REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI
I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».
PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI
Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.
WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA
Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.
A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE
Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.
I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO
D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatoresi è fatto avanti il5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.
Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020
Nancy Pelosi, presidente della Camera
PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI
La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo ilpresidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).
LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO
Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».
OPINIONE PUBBLICA SPACCATA
Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.
METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA
Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.
PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL
Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.
CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI
Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.
TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA
Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.
UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È
McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presiedutodal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
L’episodio risale al mese di settembre e rappresenta un inedito assoluto negli ultimi 30 anni. Pechino presenta una protesta formale.
La Cina ha presentato «una solenne protesta formale» agli Stati Uniti sull’espulsione, per la prima volta in oltre 30 anni, di due funzionari cinesi accusati di spionaggio. Lo ha annunciato il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang. L’episodio, riportato dal New York Times, è avvenuto a settembre: i funzionari dell’ambasciata erano entrati in auto con le rispettive mogli in una base militare in Virginia che ospita le forze per le Operazioni speciali. Le autorità Usa ritengono che almeno uno dei due fosse un agente sotto copertura diplomatica.
PECHINO CHIEDE DI CORREGGERE L’ERRORE
Geng ha definito le due espulsioni un «errore» e, in merito alla versione dei fatti data dal New York Times citando persone a conoscenza dell’episodio, ha definito le accuse di spionaggio «completamente contrarie ai fatti». Il portavoce, parlando nel corso della conferenza stampa del pomeriggio, ha chiesto «con forza agli Stati Uniti di correggere l’errore», sollecitando la «protezione dei legittimi diritti e interessi dei diplomatici cinesi».
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it