Prima un decreto per lo spacchettamento del dicastero; quindi la nomina da parte del presidente della Repubblica e il successivo giuramento.
Prima il decreto in Consiglio dei ministri per lo spacchettamento tra ministero dell’Istruzione e ministero dell’Università e della Ricerca di competenze finora accorpate in un solo dicastero; quindi la nomina da parte del presidente della Repubblica e il successivo giuramento. È il timing che attende Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi, i ministri indicati dal premier Giuseppe Conte per il post-Fioramonti: la prima messa a capo del ministero della Scuola, il secondo titolare dell’Università e della Ricerca. Per l’ufficialità, tuttavia, a quanto spiegano fonti di governo, bisogna attendere almeno i primi di gennaio. Anche perché l’iter richiede più tappe.
L’ITER CHE PORTA ALL’INSEDIAMENTO DEI DUE MINISTRI
Innanzitutto è necessario un decreto legge (ipotesi altamente più probabile di un Decreto del presidente del Consiglio dei ministri – Dpcm) che spacchetti le competenze assegnate all’attuale Ministero dell’Istruzione, dell’università e della Ricerca, che è un dicastero con portafoglio. Quindi il Consiglio dei ministri deve dare il via libera all’operazione, in modo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, su indicazione del premier Giuseppe Conte, possa procedere alla nomina. Solo allora i ministri nominati potranno salire al Quirinale per il giuramento e insediarsi nei loro nuovi uffici. A quel punto i ministri del governo Conte Bis passeranno da 21 a 22.
UN ESECUTIVO COMPOSTO DA 63 PERSONE
Come precisato dallo stesso presidente del Consiglio non è prevista la nomina di nuovi sottosegretari. Che in totale, compresi i viceministri, erano 42. Con le nomine del 28 dicembre diventano 41 per il passaggio di Azzolina dalla sottosegreteria alla guida del nuovo dicastero della Scuola. In totale i componenti dell’Esecutivo sono quindi 63. Il governo Conte Uno con la maggioranza gialloverde era arrivato a 64, uno in più. I cinque premier precedenti hanno totalizzato rispettivamente: Paolo Gentiloni 60 elementi, Matteo Renzi 63, Enrico Letta 63, Mario Monti 47. Quest’ultimo, il “governo dei professori”, risulta il più magro di tutti. Il record assoluto di affollamento spetta invece al secondo governo di Romano Prodi che, insediatosi nel 2006, in due anni di durata arrivò alla cosiddetta «carica dei 102», il totale tra ministri e sottosegretari. L’Andreotti VII nel ’91 si era fermato a 101.
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Prima un decreto per lo spacchettamento del dicastero; quindi la nomina da parte del presidente della Repubblica e il successivo giuramento.
Prima il decreto in Consiglio dei ministri per lo spacchettamento tra ministero dell’Istruzione e ministero dell’Università e della Ricerca di competenze finora accorpate in un solo dicastero; quindi la nomina da parte del presidente della Repubblica e il successivo giuramento. È il timing che attende Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi, i ministri indicati dal premier Giuseppe Conte per il post-Fioramonti: la prima messa a capo del ministero della Scuola, il secondo titolare dell’Università e della Ricerca. Per l’ufficialità, tuttavia, a quanto spiegano fonti di governo, bisogna attendere almeno i primi di gennaio. Anche perché l’iter richiede più tappe.
L’ITER CHE PORTA ALL’INSEDIAMENTO DEI DUE MINISTRI
Innanzitutto è necessario un decreto legge (ipotesi altamente più probabile di un Decreto del presidente del Consiglio dei ministri – Dpcm) che spacchetti le competenze assegnate all’attuale Ministero dell’Istruzione, dell’università e della Ricerca, che è un dicastero con portafoglio. Quindi il Consiglio dei ministri deve dare il via libera all’operazione, in modo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, su indicazione del premier Giuseppe Conte, possa procedere alla nomina. Solo allora i ministri nominati potranno salire al Quirinale per il giuramento e insediarsi nei loro nuovi uffici. A quel punto i ministri del governo Conte Bis passeranno da 21 a 22.
UN ESECUTIVO COMPOSTO DA 63 PERSONE
Come precisato dallo stesso presidente del Consiglio non è prevista la nomina di nuovi sottosegretari. Che in totale, compresi i viceministri, erano 42. Con le nomine del 28 dicembre diventano 41 per il passaggio di Azzolina dalla sottosegreteria alla guida del nuovo dicastero della Scuola. In totale i componenti dell’Esecutivo sono quindi 63. Il governo Conte Uno con la maggioranza gialloverde era arrivato a 64, uno in più. I cinque premier precedenti hanno totalizzato rispettivamente: Paolo Gentiloni 60 elementi, Matteo Renzi 63, Enrico Letta 63, Mario Monti 47. Quest’ultimo, il “governo dei professori”, risulta il più magro di tutti. Il record assoluto di affollamento spetta invece al secondo governo di Romano Prodi che, insediatosi nel 2006, in due anni di durata arrivò alla cosiddetta «carica dei 102», il totale tra ministri e sottosegretari. L’Andreotti VII nel ’91 si era fermato a 101.
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L’allarme del sinologo Scarpari ha fatto discutere tra gli accademici del nostro Paese. Ma è fondato. Cosa sono e come operano gli Istituti Confucio.
Da qualche giorno nel mondo universitario italiano – per essere precisi in quella nicchia di specialisti che si occupano di Cina, i sinologi, – “volano stracci”, come si direbbe in modo forse poco accademico ma efficace. Probabilmente in pochi se ne sono accorti, ma la maretta che si è scatenata nell’ambiente sta montando e rischia di diventare un autentico tsunami. In Italia i poli universitari specializzati nell’ambito degli Studi Orientali sono storicamente due: Venezia, con l’università Ca’ Foscari, e Napoli, con l’università L’Orientale. A questi, che vantano una tradizione più che centenaria nel settore, nel tempo si sono aggiunti Torino, Roma e, in piccola parte anche Milano, che all’Università Bicocca ha inaugurato da qualche anno un corso di laurea in cinese.
L’ENTRATA A GAMBA TESA DI SCARPARI
A far scoppiare il bubbone è stato un veterano tra i sinologi italiani, Maurizio Scarpari, con un suo intervento pubblicato da La Lettura sul sito del Corriere della Sera, dal titolo (insolitamente diretto per un mondo di studiosi abituato a discettare e confrontarsi utilizzando sempre toni “alti” e usualmente poco comprensibili ai comuni mortali) “Fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane”. Il professor Scarpari è un’autorità riconosciuta nel settore: ha insegnato Lingua cinese classica dal 1977 al 2011 proprio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha firmato innumerevoli pubblicazioni sulla Cina, tra le quali spicca Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, pubblicato da Il Mulino nel 2015. Ma cosa ha potuto scrivere un austero professore universitario di così provocatorio, da scatenare repliche e contro repliche, dibattiti, critiche e anche pindariche difese d’ufficio della Cina odierna, da parte dei suoi – solitamente misuratissimi – colleghi?
UNO SQUARCIO IN UN VELO DI IPOCRISIA
Per riassumerla in poche parole, Scarpari ha squarciato il velo dell’ipocrisia e della doppia morale praticata – secondo lui – da molti suoi colleghi quando sulla Cina si affrontano (anzi, si evitano accuratamente, a sentir lui) argomenti considerati “sensibili” dal regime di Pechino. Accusando senza mezzi termini i suoi colleghi cattedratici di essere «evidentemente restii a prendere posizione, considerando inopportuno affrontare argomenti che possano risultare sgraditi alle autorità cinesi e mescolare cultura e politica, come se i due ambiti non fossero legati».
Il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”
Ma non basta, perché l’illustre sinologo si è anche spinto più in là, tirando in mezzo al dibattito, senza tanti giri di parole, il ruolo preoccupante che la rete di Istituti di cultura cinese all’estero – diretta emanazione del governo di Pechino, i Confucius Institute, diffusi in tutto il mondo e ben presenti anche nel nostro Paese – giocherebbero nell’influenzare pesantemente l’insegnamento universitario sulla Cina in Italia, attraverso interventi finanziari ed esplicite pressioni e ricatti nei confronti degli accademici del nostro Paese, affinché si facciano diligenti divulgatori della propaganda ufficiale del regime sui temi appunto “sensibili”, e non solo. Come per esempio la repressione della minoranza musulmana nello Xinjiang, le vicende di Hong Kong, la questione di Taiwan e più in generale lo spinoso problema del (non) rispetto dei diritti umani in Cina. A questo punto, come si può ben immaginare, apriti cielo. In molti tra i suoi colleghi hanno preso carta e penna e hanno spedito repliche al Corriere, per contestare le affermazione del professor Scarpari.
In realtà il tema è importante e molto delicato, e chi scrive se ne è occupato in più occasioni anche da queste colonne. Innanzitutto va detto che il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”, per gli addetti ai lavori, delle quali si evita accuratamente di parlare. Scarpari ha avuto l’oggettivo merito di far emergere il problema e di porre la all’attenzione dell’opinione pubblica un tema che, fino a oggi, era rimasto confinato all’ambito accademico, ma che finisce per intrecciarsi in modo preoccupante con le scelte strategiche dell’attuale governo e di quelli precedenti in politica estera e quindi con la politica tutta.
UN FIORE ALL’OCCHIELLO DEL SOFT POWER CINESE
Come ignorare, infatti, un tema tanto delicato tenendo conto, come correttamente nota Scarpari, che gli Istituti Confucio sono un «fiore all’occhiello del soft power cinese, creati nel 2004 dallo Hanban, il potente ente statale, emanazione dell’Ufficio Propaganda del Partito comunista, cui è affidato il compito di diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero»? «Una struttura imponente», continua il professore, «che dispone di grandi mezzi finanziari e che si sta espandendo in tutto il mondo». Con il nemmeno troppo celato obiettivo – continua lo studioso veneziano – «di creare un’immagine positiva e attrattiva della Cina, in un momento in cui il Paese ha avviato un ambizioso progetto di espansione egemonica in tutto l’Occidente».
Gli Istituti Confucio sono inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone
La gravità della situazione richiamata da Scarpari emerge con chiarezza quando si considera che, a differenza di altri istituti culturali, gli Istituti Confucio sono ormai stabilmente inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone variabile e la concessione di benefit e finanziamenti a docenti, ricercatori, studenti. Una commistione pericolosa e un “abbraccio mortale” che ha fatto sì che, ormai da anni, all’estero, la loro collocazione nelle università sia stata motivo di un acceso dibattito. Per questo molti atenei hanno scelto di non avere IC e, tra quelli che li avevano, non pochi li hanno chiusi. A tutto questo si aggiunga il dato di fatto che diversi Istituti Confucio nel mondo si sono rivelati essere anche centrali di spionaggio cinese all’estero, come nel caso del Canada e recentemente quello del Belgio, dove la Vrije Universiteit Brussel (VUB), uno dei principali istituti di istruzione superiore del Paese, ha deciso di chiuderne la sede dopo che il servizio di intelligence belga aveva accusato formalmente il suo direttore di essere una spia per conto di Pechino.
UNA POLEMICA CHE RISCHIA DI CONTAGIARE LA POLITICA
Insomma, un sasso – quello lanciato dall’intervento di Scarpari – che rotola tra le nascoste e silenziose dinamiche che sovrintendono al funzionamento di diversi atenei italiani, e che potrebbe trasformarsi facilmente in una valanga che rischia di travolgere non solo una fetta del mondo accademico italiano, ma anche buona parte di quello politico. Un allarme fondato, senza ombra di dubbio, visto che un altro illustre sinologo universitario italiano, Fiorenzo Lafirenza, intervenendo a sua volta su questo tema su La Lettura, ha ammesso: «I miei studenti per le tesi evitano argomenti sensibili. Dicono: e poi, come ci andiamo a lavorare in Cina?».
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L’allarme del sinologo Scarpari ha fatto discutere tra gli accademici del nostro Paese. Ma è fondato. Cosa sono e come operano gli Istituti Confucio.
Da qualche giorno nel mondo universitario italiano – per essere precisi in quella nicchia di specialisti che si occupano di Cina, i sinologi, – “volano stracci”, come si direbbe in modo forse poco accademico ma efficace. Probabilmente in pochi se ne sono accorti, ma la maretta che si è scatenata nell’ambiente sta montando e rischia di diventare un autentico tsunami. In Italia i poli universitari specializzati nell’ambito degli Studi Orientali sono storicamente due: Venezia, con l’università Ca’ Foscari, e Napoli, con l’università L’Orientale. A questi, che vantano una tradizione più che centenaria nel settore, nel tempo si sono aggiunti Torino, Roma e, in piccola parte anche Milano, che all’Università Bicocca ha inaugurato da qualche anno un corso di laurea in cinese.
L’ENTRATA A GAMBA TESA DI SCARPARI
A far scoppiare il bubbone è stato un veterano tra i sinologi italiani, Maurizio Scarpari, con un suo intervento pubblicato da La Lettura sul sito del Corriere della Sera, dal titolo (insolitamente diretto per un mondo di studiosi abituato a discettare e confrontarsi utilizzando sempre toni “alti” e usualmente poco comprensibili ai comuni mortali) “Fuori gli Istituti Confucio dalle università italiane”. Il professor Scarpari è un’autorità riconosciuta nel settore: ha insegnato Lingua cinese classica dal 1977 al 2011 proprio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha firmato innumerevoli pubblicazioni sulla Cina, tra le quali spicca Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, pubblicato da Il Mulino nel 2015. Ma cosa ha potuto scrivere un austero professore universitario di così provocatorio, da scatenare repliche e contro repliche, dibattiti, critiche e anche pindariche difese d’ufficio della Cina odierna, da parte dei suoi – solitamente misuratissimi – colleghi?
UNO SQUARCIO IN UN VELO DI IPOCRISIA
Per riassumerla in poche parole, Scarpari ha squarciato il velo dell’ipocrisia e della doppia morale praticata – secondo lui – da molti suoi colleghi quando sulla Cina si affrontano (anzi, si evitano accuratamente, a sentir lui) argomenti considerati “sensibili” dal regime di Pechino. Accusando senza mezzi termini i suoi colleghi cattedratici di essere «evidentemente restii a prendere posizione, considerando inopportuno affrontare argomenti che possano risultare sgraditi alle autorità cinesi e mescolare cultura e politica, come se i due ambiti non fossero legati».
Il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”
Ma non basta, perché l’illustre sinologo si è anche spinto più in là, tirando in mezzo al dibattito, senza tanti giri di parole, il ruolo preoccupante che la rete di Istituti di cultura cinese all’estero – diretta emanazione del governo di Pechino, i Confucius Institute, diffusi in tutto il mondo e ben presenti anche nel nostro Paese – giocherebbero nell’influenzare pesantemente l’insegnamento universitario sulla Cina in Italia, attraverso interventi finanziari ed esplicite pressioni e ricatti nei confronti degli accademici del nostro Paese, affinché si facciano diligenti divulgatori della propaganda ufficiale del regime sui temi appunto “sensibili”, e non solo. Come per esempio la repressione della minoranza musulmana nello Xinjiang, le vicende di Hong Kong, la questione di Taiwan e più in generale lo spinoso problema del (non) rispetto dei diritti umani in Cina. A questo punto, come si può ben immaginare, apriti cielo. In molti tra i suoi colleghi hanno preso carta e penna e hanno spedito repliche al Corriere, per contestare le affermazione del professor Scarpari.
In realtà il tema è importante e molto delicato, e chi scrive se ne è occupato in più occasioni anche da queste colonne. Innanzitutto va detto che il tema delle pressioni cinesi sulla cultura universitaria italiana rappresenta il proverbiale “segreto di pulcinella”, per gli addetti ai lavori, delle quali si evita accuratamente di parlare. Scarpari ha avuto l’oggettivo merito di far emergere il problema e di porre la all’attenzione dell’opinione pubblica un tema che, fino a oggi, era rimasto confinato all’ambito accademico, ma che finisce per intrecciarsi in modo preoccupante con le scelte strategiche dell’attuale governo e di quelli precedenti in politica estera e quindi con la politica tutta.
UN FIORE ALL’OCCHIELLO DEL SOFT POWER CINESE
Come ignorare, infatti, un tema tanto delicato tenendo conto, come correttamente nota Scarpari, che gli Istituti Confucio sono un «fiore all’occhiello del soft power cinese, creati nel 2004 dallo Hanban, il potente ente statale, emanazione dell’Ufficio Propaganda del Partito comunista, cui è affidato il compito di diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero»? «Una struttura imponente», continua il professore, «che dispone di grandi mezzi finanziari e che si sta espandendo in tutto il mondo». Con il nemmeno troppo celato obiettivo – continua lo studioso veneziano – «di creare un’immagine positiva e attrattiva della Cina, in un momento in cui il Paese ha avviato un ambizioso progetto di espansione egemonica in tutto l’Occidente».
Gli Istituti Confucio sono inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone
La gravità della situazione richiamata da Scarpari emerge con chiarezza quando si considera che, a differenza di altri istituti culturali, gli Istituti Confucio sono ormai stabilmente inseriti, anche in Italia, all’interno delle università, previo pagamento di un canone variabile e la concessione di benefit e finanziamenti a docenti, ricercatori, studenti. Una commistione pericolosa e un “abbraccio mortale” che ha fatto sì che, ormai da anni, all’estero, la loro collocazione nelle università sia stata motivo di un acceso dibattito. Per questo molti atenei hanno scelto di non avere IC e, tra quelli che li avevano, non pochi li hanno chiusi. A tutto questo si aggiunga il dato di fatto che diversi Istituti Confucio nel mondo si sono rivelati essere anche centrali di spionaggio cinese all’estero, come nel caso del Canada e recentemente quello del Belgio, dove la Vrije Universiteit Brussel (VUB), uno dei principali istituti di istruzione superiore del Paese, ha deciso di chiuderne la sede dopo che il servizio di intelligence belga aveva accusato formalmente il suo direttore di essere una spia per conto di Pechino.
UNA POLEMICA CHE RISCHIA DI CONTAGIARE LA POLITICA
Insomma, un sasso – quello lanciato dall’intervento di Scarpari – che rotola tra le nascoste e silenziose dinamiche che sovrintendono al funzionamento di diversi atenei italiani, e che potrebbe trasformarsi facilmente in una valanga che rischia di travolgere non solo una fetta del mondo accademico italiano, ma anche buona parte di quello politico. Un allarme fondato, senza ombra di dubbio, visto che un altro illustre sinologo universitario italiano, Fiorenzo Lafirenza, intervenendo a sua volta su questo tema su La Lettura, ha ammesso: «I miei studenti per le tesi evitano argomenti sensibili. Dicono: e poi, come ci andiamo a lavorare in Cina?».
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