Sono le stime diffuse dall’Office for national statistics. In numeri assoluti il Paese è secondo solo agli Usa.
Supera la quota choc di 40 mila la stima dei morti per coronavirus nel Regno Unito.
Stando alle elaborazioni settimanali dell’Ons, l’Office for national statistics, (l’Istat britannico), i decessi legati almeno come concausa al Covid-19 censiti in Inghilterra e Galles al 9 maggio sono saliti a 35.044 e quelli rilevati fino al 3 in Scozia e Irlanda del Nord a 3300.
Il governo britannico di Boris Johnson e i suoi consiglieri medico-scientifici hanno però più volte insistito nelle ultime settimane sulla dubbia attendibilità – almeno fino a quando non vi saranno bilanci completi e omogenei – di un paragone fra i dati ufficiali o le stime del Regno e quelli di altri Paesi. I dati dell’Ons, si nota a Londra, sono in particolare molto più ampi di quelli diffusi da altri enti: comprendono infatti tutti i decessi, anche probabili, legati al Covid-19 raccolti negli ospedali, in qualunque altro ricovero, in case private e ovunque. Cosa che altri governi non fanno, o includono solo parzialmente, nei loro aggiornamenti.
In rapporto alla popolazione il Regno Unito resta in effetti dietro a Belgio o Spagna e testa a testa con l’Italia (avendo 67 milioni di abitanti contro i circa 60 dell nostro Paese). Sullo sfondo della situazione attuale, con il lockdown solo marginalmente alleggerito malgrado la flessione della curva dei contagi di queste settimane, il governo Johnson si appresta intanto a estendere oltre giugno lo schema di sussidi pubblici concesso fino all’80% dello stipendio a milioni di lavoratori in congedo a causa delle restrizioni della pandemia.
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Da qualche mese Meghan e Harry si sono affidati alla Sunshine Sachs. Società statunitense che tra i suoi clienti ha Di Caprio, la famiglia Jackson e Jennifer Lopez. Ed è esperta in crisi di immagine.
La scissione da Buckingham Palace è ormai compiuta: Harry e Meghan, i duchi del Sussex, sono pronti a trasferirsi dall’altra parte dell’Atlantico verso – dicono – la libertà economica. E pure la comunicazione.
Il divorzio dalla Corona è stato uno strappo impegnativo da gestire anche per la 93enne Elisabetta II a cui i due, sposati nel 2018 e genitori di Archie (un anno il prossimo maggio), hanno comunque assicurato «continuo sostegno».
Ma anche per William, il fratello maggiore di Harry e secondo in linea di successione al trono dopo Carlo. In una intervista al Sunday Times il duca di Cambridge ha vuotato il sacco: «Ho tenuto il braccio sulle spalle di mio fratello per tutta la vita», ha detto, «adesso non posso più farlo, siamo entità separate».
LA BATTAGLIA CONTRO I TABLOID E L’ADDIO AL ROTA ROYAL
La rottura con The Firm(la Corona) – resta da capire se si tratterà di una soft o di una hard Megxit – segue quella con la stampa britannica su cui pesa ancora lo spettro della morte di Lady D. Non è un caso che Harry abbia combattuto l’insistenza dei tabloid sulla moglie: prima a parole e poi in tribunale. A ottobre è arrivato l’annuncio dell’azione legale della coppia contro il Sun, il Daily Mirror e il domenicale del Mail: accusati rispettivamente di hackeraggio telefonico, pubblicazione di audio privati e di una lettera scritta da Meghan a suo padre.
Una battaglia solitaria, seppur nei ranghi della Casa Reale, in linea con l’altra decisione, arrivata ora: l’addio al Rota Royal. Si tratta del sistema che da 40 anni gestisce le immagini, le dichiarazioni e la copertura di eventi di tutti i membri dei Windsor.
Una battaglia solitaria, seppur nei ranghi della Casa Reale, in linea con l’altra decisione, arrivata ora: l’addio al Rota Royal. Si tratta del sistema che da 40 anni gestisce le immagini, le dichiarazioni e la copertura di eventi di tutti i membri dei Windsor.
Nel circuito ci sono le principali testate britanniche (tra cui quelle accusate di scorrettezze) che poi a loro volta condividono il materiale con altri media internazionali. Ebbene, questo è il punto. I due credono in «un’industria dei media libera, forte e aperta, che sostiene l’accuratezza e favorisce l’inclusione, la diversità e la tolleranza». Ma, spesso – sostengono – le cronache dei corrispondenti accreditati sono state manipolate, con un effetto altoparlante globale.
IL RAPPORTO DIRETTO CON IL PUBBLICO
I duchi hanno già la soluzione: ed è il fai-da-te. L’obiettivo dichiarato è il filo diretto – in sintonia con la connessione no stop – con il pubblico. Senza i filtri dei protocolli reali, e senza l’esclusiva con il Rota che imponeva di fatto lo stop alla diffusione di qualsiasi contenuto in modo autonomo. E infatti anche l’addio è stato pubblicato come messaggio personale sul loro sito web ufficiale Sussexroyal.com rilanciato subito sull’omonimo account Instagram (certificato) con quasi 11 milioni di follower.
Ad accompagnare le parole sul sito la loro foto mano nella mano, sguardo complice di lui verso lei, entrambi in movimento. Avanti, verso il futuro. Le pose si ripetono simili in altri contesti: boschi, incontri di beneficenza e viaggi nei Paesi del Commonwealth. Colori tenui, grafica semplice ed elegante, tra le tre sezioni c’è spazio (ancora) per «Serving the monarchy», servire la monarchia. Come in qualsiasi sito di un’organizzazione o di una società c’è poi la sezione Faq, le domande frequenti. Soprattutto l’addio e le relazioni con i media. È qui che Harry e Meghan affermano di voler coinvolgere giovani giornalisti esordienti, di voler diversificare la copertura degli eventi in cui sono protagonisti, ancora con «cronache obiettive». Rivendicando la gestione dei canali social, travolti in pochi giorni dai meme e i post a tema. Twitter, su tutti, è stato invaso dagli hashtag #HarryandMeghan e #Megxit.
L’AIUTO DELLA SUNSHINE SACHS
Ovviamente non sono soli. Da settembre la coppia si è affidata per la comunicazione a una prestigiosa agenzia americana, la Sunshine Sachs con sedi a New York, Washington e ovviamente Los Angeles che deve il suo nome all’omonimo fondatore, Ken, ora 71enne, amico dei Clinton. Una vecchia conoscenza di Meghan che all’agenzia aveva affidato già in passato la sua immagine, quando era protagonista della serie Suits. Nel portfolio dell’agenzia più vip che politici o celebrità. Da Naomi Campbell a Leonardo Di Caprio, da Jennifer Lopez alla famiglia di Michael Jackson. Non una scelta qualsiasi: perché il Pr (e il suo staff di professionisti) è esperto nell’affrontare crisi di immagine ed è conosciuto per le sue strategie aggressive. Più che utilizzare i media, il patron aveva più volte dichiarato che si possono anche «colpire». Ufficialmente la Sunshine Sachs si occupa di pubblicizzare le attività benefiche dei Sussex in Usa, ma pare abbia anche seguito per Meghan la direzione della September Issue di British Vogue: iniziativa che era stata bollata nel Regno Unito come troppo hollywoodiana.
LE ACCUSE DI AVER MODIFICATO WIKIPEDIA
Ma non è finita qui. Nel 2015 la squadra della Sunshine era stata accusata di aver modificato Wikipedia in modo scorretto. Qualche manina aveva ripulito le voci dei clienti da qualche macchia o fatto da nascondere. Uno stile apparentemente distante da quello dei duchi di Sussex, almeno finora.
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Abdicazioni, rinunce, scandali: i terremoti che hanno scosso la famiglia reale britannica prima del caso Harry e Meghan.
Fra abdicazioni, rinunce e allontanamenti, la famiglia reale britannica può allineare più di un precedente, nella storia moderna, della presa di distanza annunciata l’8 gennaio dai duchi di Sussex, Harry e Meghan; seppure in contesti e circostanze assai diverse fra loro. Eccone una lista, da Edoardo VIII a oggi, passando per la compianta Lady D.
EDOARDO VIII
Fu indubbiamente il protagonista della vicenda più grave mai capitata in casa Windsor, per la portata dei fatti, l’impatto sui tempi, il contesto storico drammatico e il suo ruolo di sovrano regnante, non di semplice principe cadetto come Harry. Nato con il nome di David, fratello maggiore del padre di Elisabetta II, il futuro Giorgio VI, Edoardo – in seguito sospettato pure di simpatie filo naziste – rinunciò al trono nel 1936 per sposare la borghese Wallis Simpson, americana e divorziata al pari di Meghan Markle, ma in un mondo diverso; un gesto romantico e folle, nella percezione dell’epoca, che né il governo né la Chiesa di Stato anglicana poterono accettare e che causò uno scandalo enorme, al punto da mettere a repentaglio il futuro medesimo della dinastia e dell’istituzione monarchica.
LADY DIANA
Madre del principe Harry (e del fratello maggiore William), fu al centro di un distacco dalla Royal Family consumatosi in due tempi, prima di tramutarsi in un autentico terremoto per la corte e per la regina Elisabetta al momento della morte prematura della ‘principessa del popolo’. Nel 1993 il primo passo fu quello di un suo allentamento degli impegni ufficiali di corte – un po’ come quello annunciato dai duchi di Sussex – dopo il clamoroso suo divorzio (inizialmente presentato come “amichevole”) dal principe Carlo. Nel 1996 il secondo fu invece la revoca di ogni incarico residuo di rappresentanza, con annessa perdita del titolo di Sua Altezza Reale, ordinata dalla sovrana dopo la messa in scena pubblica in tv delle recriminazioni coniugali contro l’erede al trono.
FERGIE
Sarah Ferguson, duchessa di York, fu a sua volta al centro, nel 1996, di uno scandaloso divorzio condito da tradimenti incrociati dal principe Andrea, fratello minore di Carlo e terzogenito della regina e di Filippo duca d’Edimburgo; messa da parte quasi subito dal casato a causa degli imbarazzi provocati, in quello che la regina ebbe a definire il primo “annus horribilis” del suo lungo regno, Fergie la Rossa continuò del resto anche in seguito a farsi parlare dietro. Fra sospetti di affarucoli spregiudicati, con tanto di presunti tentativi di sfruttamento del ‘brand’ reale. Salvo riavvicinarsi più di recente ad Andrea e alla famiglia regnante, al fianco delle figlie Beatrice e Eugenie, nipoti molto amate da Elisabetta II.
ANDREA, DUCA DI YORK
Il suo ritiro dalla scena pubblica è un fatto di poche settimane fa e non è stato volontario. Bensì un benservito imposto da circostanze di opportunità (e deciso dalla regina su pressione di Carlo, secondo alcuni media) in seguito al riemergere delle denunce sui vecchi rapporti di frequentazione dell’ex marito di Fergie con Jeffrey Epstein: il miliardario Usa, amico di molti ricchi e potenti, accusato di abusi sessuali su ragazze giovani e giovanissime e morto infine in un carcere americano, ufficialmente suicida.
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I ribelli Harry e Meghan danno il benservito alla Regina e corrono incontro alla loro libertà. Al secondogenito di Carlo auguriamo ogni bene. Anche se al suo posto non avremmo mai scambiato la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.
Potendo sostituire il comunicato ufficiale a firma “Duca e Duchessa del Sussex”, forse avrebbero più semplicemente e italicamente scritto «andate tutti affanculo».
Che è un po’ il senso manifesto della fuga di Harry & Meghan, i cui nomi si intrecciano in un logo da coppia dannata, come quelli di Bonnie & Clyde o, più regalmente, come quelli degli antenati Edward & Wally, anch’essi in fuga, circa 80 anni fa, dalle pesanti regole della corte britannica.
HARRY E MEGHAN IN FUGA COME NE IL LAUREATO
Harry & Meghan gettano alle ortiche i privilegi regali, l’appannaggio, quella vita insulsa fatta di sorrisi di circostanza, visite ai centri di beneficenza, fingendosi interessati ai disegni di bambini disagiati delle periferie, partecipazioni a eventi e cerimonie pompose, in cui offrirsi ai flash dei fotografi per poi finire su giornali che criticheranno il tuo abito, le tue scarpe, il trucco, la smorfia involontaria. Tutta roba che William & Kate si sciroppano senza troppo disagio, ma tant’è: sarai il re d’Inghilterra? E allora beccatela tu questa vita del cavolo. Noi diciamo no e ce ne andiamo, come la coppia de Il laureato che abbandona le famiglie furibonde con un palmo di naso, per salire su un autobus sgarrupato e andare incontro alla libertà e al vero amore.
Archie non crescerà tra maggiordomi e istitutrici e non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo o a pattinare
Naturalmente, non ci saranno autobus scalcinati nella vita di Harry & Meghan, che possono contare sulla rendita milionaria del giovane rampollo della casa reale. Ma fanculo pure alla rendita, i due dichiarano che diventeranno indipendenti, andranno a lavorare. Lei come attrice, si suppone. Lui chissà, forse cooptato nel consiglio di amministrazione di una multinazionale, oppure impegnato a finanziare qualche centro di ricerca per la salvezza del Pianeta. Il loro bambino, Archie, non crescerà tra maggiordomi e istitutrici, non imparerà a camminare dentro saloni affrescati, su tappeti persiani di otto per otto metri, non sarà perseguitato dai fotografi mentre va all’asilo, a scuola, a pattinare.
UNO STORYTELLING INFINITO
La monarchia britannica si conferma un generatore di storytelling senza pari, tanto da fornire in tempo reale nuovo materiale per gli sceneggiatori della serie The Crown, così come le dimissioni di papa Ratzinger hanno generato fiction su fiction. Se poi ci aggiungiamo Bill Gatesche ha dichiarato: «Sono troppo ricco, voglio pagare più tasse», allora qui si profila un’abdicazione dell’élite mondiale dal proprio ruolo. Proprio qualche sera fa, alla cerimonia dei Golden Globe, il comedian inglese Ricky Gervais aveva ammonito i divi del cinema: «Voi non sapete nulla della vita reale, quindi non fate discorsi politici, non siete credibili, ritirate il vostro piccolo premio, ringraziate, e andate via». Harry & Meghan, divi anche loro, rinunciano ai loro privilegi per guadagnare una vita reale e dunque forse una credibilità, davanti al mondo, e prima ancora davanti a se stessi.
Cinicamente, chi ha più esperienza di matrimoni non scambierebbe mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta
Il semplice fatto di nascere come secondo figlio, dopo William, e risultare perciò attualmente solo sesto nella successione al trono, concede a Harry la libertà di fare questa scelta radicale. Non avrà più protezioni, se ne andrà solo nel mondo insieme a Meghan. Gli auguriamo ogni bene, però al suo posto non l’avremmo mai fatto. Ma solo perché, cinicamente, abbiamo più esperienza di matrimoni e non scambieremmo mai la solidità di una Royal family con la volubilità di una moglie inquieta.
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I Sussex hanno intenzione di fare un passo indietro dalla Royal Family e rendersi indipendenti dal punto di vista economico. Uno strappo rivoluzionario, reso più facile dal patrimonio milionario su cui possono contare.
Non bastasse la Brexit, con il 2020 per i sudditi di Sua Maestà è arrivata come un fulmine a ciel sereno pure la Megxit.
I duchi del Sussex, Harry e Meghan Markle, hanno espresso ufficialmente l’intenzione di fare un passo indietro da membri Senior dalla Firm, la Corona britannica.
Un’altra grana per la regina Elisabetta II già alle prese con lo scandalo Epsteinche ha travolto il principe Andrea. Uno strappo che ricorda, con tutti i distinguo del caso, l’abdicazione nel dicembre del 1936 di re Edoardo VIII dopo il matrimonio con Wallis Simpson (pure lei americana).
L’ALLONTANAMENTO DEI SUSSEX DA THE FIRM
I Sussex, che hanno passato le festività natalizie in Canada con il piccolo Archie ben lontani dagli impegni di Buckingham Palace, in un comunicato hanno dichiarato di voler avviare «la transizione verso un nuovo ruolo dentro l’istituzione» monarchica. Il che comporta la decisione di «lavorare per diventare finanziariamente indipendenti, sebbene continuando a sostenere pienamente Sua Maestà la Regina» e quella di dividersi d’ora in avanti «fra il Regno Unito e il Nord America» per consentire di far crescere il figlio «nel rispetto della tradizione reale in cui è nato, garantendo al contempo spazio alla nostra famiglia per concentrarsi su un nuovo capitolo: incluso il lancio di una nostra nuova entità caritativa» autonoma.
IL PATRIMONIO DI HARRY E MEGHAN
Dunque i Sussex, in rotta da tempo con i Cambridge – per i non avvezzi alle cose reali William e Kate Middleton -, si rimboccheranno le maniche per trovare un lavoro, cosa che l’attuale status impedisce loro. Sì, ma quale lavoro? Gira voce, per esempio, che Meghan potrebbe riprendere la carriera di attrice. La rivincita delle Grace Kelly, verrebbe da dire. Anche se di “lavorare” la coppia, stando alle finanze note, non avrebbe più di tanto bisogno.
Harry può contare su un patrimonio compreso tra i 25 e i 40 milioni di dollari
Secondo l’International Business Times, il principe Harry può contare su un patrimonio compreso tra i 25 e i 40 milioni di dollari.Non è ancora chiaro quanto la decisione di “divorziare” dalla Corona peserà sul tesoretto totale. Non solo. C’è infatti l’eredità lasciatagli dalla madre Diana (12 milioni di euro circa, secondo quanto riportato dal Sunday Times) più i gioielli privati della “Regina di Cuori” il cui valore però non è noto. Il secondogenito di Carlo ha servito per 10 anni (fino al 2015) la Royal Air Force come capitano, guadagnando – riporta Forbes – circa 53 mila dollari per anno. La moglie Meghan, secondo quanto rivelato da Money lo scorso maggio, avrebbe invece messo da parte grazie alla sua attività sui set – come star di Suit principalmente – almeno 5 milioni di dollari.
I COSTI DELLA COPPIA RIBELLE
Da quello che si sa – ed Elisabetta permettendo – i Sussex hanno intenzione di continuare il loro impegno nelle opere di beneficenza della Corona, oltre a creare un ente tutto loro. Ma quanto costano Harry e Meghan? Il Sovereign Grant, il fondo pubblico che finanzia il lavoro della famiglia reale incluso il mantenimento delle residenze e lo staff, copre solo il 5% delle spese. E la coppia ha assicurato di non aver mai utilizzato denaro pubblico per spese private né di godere di benefit fiscali per le loro attività benefiche. Il 95% restante delle spese è invece coperto dal Ducato di Cornovaglia del principe Carlo. E non sono spiccioli se il viaggio dei Sussex in Australia, Nuova Zelanda, Tonga e Figi dell’ottobre 2018 è costato 90 mila euro e il Royal Wedding si è parlato di cifre astronomiche: tra i 35 e i 45 milioni di euro. Poca cosa per la Famiglia Reale valutata da Forbes intorno agli 88 miliardi di dollari tra residenze, gioielli della Corona e il valore generato dal brand su turismo e moda.
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Online gli indirizzi di oltre mille destinatari dei New Year Honours: tra loro politici, star del calibro di Elton John.
Il governo britannico è in imbarazzo dopo la pubblicazione, per errore, degli indirizzi di oltre mille destinatari dei cosiddetti New Year Honours, le tradizionali onorificenze reali: tra loro politici, star del calibro di Elton John, ma anche decine di funzionari della difesa e dell’antiterrorismo, con evidenti implicazioni per la sicurezza. Una svista, ha ammesso l’ufficio del gabinetto che si è scusato per quanto accaduto, assicurando di aver rimediato in breve tempo.
ANCHE OLIVIA NETWON JOHN E BEN STROKES TRA LE VITTIME DELLA ‘SVISTA’
Tra i 1.097 destinatari delle onorificenze del 2020 ci sono anche il giocatore di cricket Ben Stokes, l’attrice Olivia Newton John, l’ex leader del Partito conservatore Iain Duncan Smith, la cuoca televisiva Nadiya Hussain e l’ex capo dell’Ofcom (l’authority per le comunicazioni) Sharon White. Tra gli altri, diversi funzionari di governo, accademici, leader religiosi, sopravvissuti all’Olocausto. Ma anche funzionari della Difesa e alte gerarchie della polizia, quindi personalità considerate sensibili dal punto di vista della sicurezza. C’è chi ha preso questa vicenda con filosofia, come Mete Coban, pioniere delle attività caritatevoli che ha ricevuto un’onorificenza per il suo lavoro con i giovani, che si è detto non troppo preoccupato per l’errore. Al contrario, Big Brother Watch, organizzazione britannica che si occupa di privacy e tutela delle libertà civili, ha definito «estremamente preoccupante che il governo non mantenga una solida stretta sulla protezione dei dati e che le persone che ricevono alcuni dei più alti onori siano messe a rischio per questo». Ed il ministro ombra per l’ufficio del gabinetto, Jon Trickett, ha evidentemente rincarato la dose: «Se il governo non è in grado di proteggere dati sensibili, come possiamo aspettarci che risolva le importanti questioni del nostro Paese?».
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Online gli indirizzi di oltre mille destinatari dei New Year Honours: tra loro politici, star del calibro di Elton John.
Il governo britannico è in imbarazzo dopo la pubblicazione, per errore, degli indirizzi di oltre mille destinatari dei cosiddetti New Year Honours, le tradizionali onorificenze reali: tra loro politici, star del calibro di Elton John, ma anche decine di funzionari della difesa e dell’antiterrorismo, con evidenti implicazioni per la sicurezza. Una svista, ha ammesso l’ufficio del gabinetto che si è scusato per quanto accaduto, assicurando di aver rimediato in breve tempo.
ANCHE OLIVIA NETWON JOHN E BEN STROKES TRA LE VITTIME DELLA ‘SVISTA’
Tra i 1.097 destinatari delle onorificenze del 2020 ci sono anche il giocatore di cricket Ben Stokes, l’attrice Olivia Newton John, l’ex leader del Partito conservatore Iain Duncan Smith, la cuoca televisiva Nadiya Hussain e l’ex capo dell’Ofcom (l’authority per le comunicazioni) Sharon White. Tra gli altri, diversi funzionari di governo, accademici, leader religiosi, sopravvissuti all’Olocausto. Ma anche funzionari della Difesa e alte gerarchie della polizia, quindi personalità considerate sensibili dal punto di vista della sicurezza. C’è chi ha preso questa vicenda con filosofia, come Mete Coban, pioniere delle attività caritatevoli che ha ricevuto un’onorificenza per il suo lavoro con i giovani, che si è detto non troppo preoccupato per l’errore. Al contrario, Big Brother Watch, organizzazione britannica che si occupa di privacy e tutela delle libertà civili, ha definito «estremamente preoccupante che il governo non mantenga una solida stretta sulla protezione dei dati e che le persone che ricevono alcuni dei più alti onori siano messe a rischio per questo». Ed il ministro ombra per l’ufficio del gabinetto, Jon Trickett, ha evidentemente rincarato la dose: «Se il governo non è in grado di proteggere dati sensibili, come possiamo aspettarci che risolva le importanti questioni del nostro Paese?».
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Se il Regno pensa di vedersi offrire su un piatto d’argento il libero accesso al mercato statunitense, si sbaglia di grosso. Il nazionalismo costerà caro agli inglesi. Come preconizzato da George Orwell.
Prima di archiviare la lunga saga Brexit e in attesa di vedere fra un paio d’anni le vere conseguenze, è bene assicurarsi che venga archiviata nello scaffale giusto. Che è quello dei sogni. A volte si realizzano. A volte no. Non c’è dubbio che si tratta dell’ultimo grande exploit del nazionalismo inglese. Convinto, come diceva nel 1999 Margaret Thatcher cacciata nove anni prima dalla guida del governo dagli uomini del suo stesso partito anche per la sua durezza anti Ue, che «noi siamo certamente il miglior Paese in Europa» e che «nel corso della mia vita tutti i problemi sono venuti dal continente, e tutte le soluzioni sono venute dai Paesi di lingua inglese disseminati in giro per il mondo». L’ex premier “lady di ferro” morirà nel 2013. Anche il grande Mercato Unico di cui la premier Thatcher fu negli Anni 80 uno dei più convinti creatori è stato un problema venuto dal continente?
Thatcher guidava il partito che aveva portato il Regno Unito nel Mec e diventò decisamente anti Ue solo dopo il profilarsi della riunificazione tedesca. Milioni di inglesi vogliono ora sbattere la porta, l’hanno sbattuta, con molti che si scrollano si direbbe anche la polvere dai calzari, ispirati idealmente da una Thatcher che Boris Johnson ha usato come una novella Giovanna d’Arco alla riconquista dell’indipendenza. Persino Winston Churchill che invece fu, perso l’Impero, un convinto europeista, è stato gabellato come brexiteer. Intanto, tutti parlano per sentito dire. Quello della Brexit è un argomento da tempo noioso perché rimasto a bagnomaria per oltre tre anni ma, archiviandolo, occorre sapere che la storia non finisce qui. Non si tratta infatti solo dell’uscita legale, che ci sarà il 31 gennaio prossimo, dell’ultimo ammainabandiera a Bruxelles e Strasburgo e della scomparsa della già rara bandiera azzurrostellata dell’Unione dagli edifici pubblici britannici.
LA SAGA DELLA BREXIT NON È FINITA
Ridisegnare i rapporti tra Londra e il continente è infatti un’operazione gigantesca e inedita. Si tratta dell’uscita reale dalla enorme rete cha a partire dal 1973 ha integrato l’economia del Regno Unito con quella continentale, e non solo l’economia, e del disegno complesso dei futuri rapporti commerciali. Johnson ha ribadito martedì 17 dicembre che si uscirà del tutto comunque a fine 2020. Quindi una hard Brexit, probabilmente; i mercati hanno subito reagito male. D’altra parte una soft Brexit vorrebbe dire restare agganciati al sistema Ue, come regole, e questo Johnson lo definiva già un anno fa un “vassallaggio”. Johnson ha vinto grazie agli errori clamorosi del corbynismo (si veda Corbyn consegnerà il Regno Unito alla brexit di Farage del 19 maggio scorso) e dei liberaldemocratici e sulla base di due promesse, ma mantenere la prima promessa rende difficilmente realizzabile la seconda.
Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni
La prima promessa ora ribadita dice “usciremo definitivamente a fine dicembre 2020”, cioè fra un anno. Ciò significa che per un anno cambia poco nei rapporti economici fra Londra e Bruxelles, e dopo cambia tutto. La seconda promessa assicura un’economia in rapida crescita spinta anche dalla spesa pubblica, investimenti notevoli nelle aree delle Midlands e dell’Inghilterra settentrionale, aree ex minerarie e operaie, da un secolo o poco meno tenacemente laburiste, che in nome della Brexit si sono in parte notevole, determinando le dimensioni della vittoria, schierate con i Tory, passaggio prima impensabile. Ma sarà possibile un’economia in crescita se i duri del partito conservatore e Nigel Farage che già ha lanciato anatemi impongono comunque un’uscita definitiva dai meccanismi economici e doganali fra un anno? Una vera intesa commerciale fra Londra e Bruxelles secondo tutti i canoni ha bisogno di non meno di 3-4 anni di negoziazioni.
L’INTEGRAZIONE CON GLI USA NON SARÀ MAI PARI A QUELLA CON L’UE
Se Londra esce fra un anno sarà inevitabile adottare le regole del Wto, il che significa dazi, tariffe, dogane e controlli. Farage non va sottovalutato. Non ha conquistato nemmeno un seggio il 12 dicembre con il suo Brexit party, ma si è presentato in meno di metà dei collegi per disturbare il minimo possibile Johnson. E Farage, con la sua retorica iper nazionalista e sopra le righe a dir poco, resta l’uomo politico più influente del Paese, vero pontefice della Brexit. È lui che ha imposto il dibattito nazionale a partire dal voto del 2013 e dalle europee del 2014, spingendo i Tory a cercare di essere più anti Ue di lui. È la logica degli estremismi di cui il nazionalismo, a differenza del patriottismo, fa parte. Johnson parla della «grande avventura» in cui il Paese si è lanciato «riconquistando» la propria indipendenza e tratteggia i contorni di un Regno Unito nuovamente «imperiale».
Un impero soft fatto di eccellenza economica, di finanza, di centralità globale della piazza londinese, di ricerca e alta tecnologia, di supremazia intellettuale insomma, quella stessa che i burocrati bruxellesi e, diciamolo pure, le stranezze e la mediocrità di un continente che un certo tipo di inglesi ha sempre guardato dall’alto in basso, impedivano. È un esercizio nel quale il suo lungo mestiere da giornalista lo aiuta, e appartiene per ora al mondo dei sogni. Sogni? La risposta è sempre stata: avremo un magnifico trattato commerciale con gli Stati Uniti. Donald Trump in effetti lo ha promesso, con l’obiettivo di usare il Regno Unito come grimaldello per sfasciare la Ue, che è troppo grossa commercialmente e infastidisce un’America di un certo tipo di cui Trump è il portabandiera, l’America iper nazionalista e, che lo ammetta o no, neo isolazionista e che non sa che farsene ormai del “mondo occidentale”. Ma qui occorre un semplice ragionamento.
È difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche
Fino a oggi, e fino al 31 dicembre 2020, l’economia britannica, 66 milioni di abitanti , è integrata in un mercato di 512 milioni di persone, senza dazi e senza vincoli. Uscendo rinuncia quindi al libero accesso a un mercato di 450 milioni e il più ricco, come capacità totale di spesa della popolazione, del mondo. Gli Stati Uniti non si integreranno mai in analoga misura, per molto tempo almeno, con il mercato britannico, ma Trump ha promesso e Johnson continua a citare un «accordo fantastico». Difficilmente ci sarà nel corso del 2020, anno dominato dall’impeachment e ancor più dalla campagna elettorale che lascerà probabilmente agli elettori il giudizio finale sul presidente. Ma c’è un altro aspetto da considerare. Qualsiasi trattativa sarà bilaterale, non multilaterale come quella che ha creato il Mercato Unico europeo più di 30 anni fa. Ed è difficile pensare che un’America con un mercato da 315 milioni di persone possa offrire a Londra e ai suoi 66 milioni condizioni perfettamente paritetiche, visto che i due mercati sono ben lontani dall’esserlo.
GLI ISTINTI PROTEZIONISTI MADE IN USA
È chiaro infatti che il libero accesso al mercato Usa vale potenzialmente per i prodotti britannici assai di più, cinque volte tanto, del libero accesso al mercato Uk per i prodotti Usa. Inoltre va considerato anche, come l’ex Cancelliere dello scacchiere conservatore Kenneth Clark (fra i moderati giubilati da Johnson) ricordava ai Comuni alcuni mesi fa, che gli Stati Uniti sono fortemente condizionati nelle trattative commerciali da un Congresso dove gli istinti protezionisti, sollecitati di continuo dalle molte lobby, e la perfetta coscienza delle asimmetrie fra i due mercati peseranno certamente. Non c’è che da aspettare e vedere. Ma la vittoria del nuovo partito conservatore nazional-brexista-populista (in omaggio al nuovo elettorato delle Midlands) non è che l’ennesima incarnazione del vecchio nazionalismo inglese, condiviso dalle classi superiori e inferiori, e anzi in queste ultime spesso ancora più tenace. Di nuovo, a rafforzarlo, c’è solo l’immigrazione. Il resto è un déja-vu.
L’insularità degli inglesi, il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro
George Orwell
Senza perdersi dietro le cronache delle ultime settimane con interviste “alla gente”, basta ricordare quanto diceva Alexis de Tocqueville quando confrontava il francese ansioso che guarda in alto nel timore che qualcuno possa essergli superiore, e l’inglese che unicamente «abbassa il suo sguardo per contemplare con soddisfazione». Oppure, uscendo dall’800, l’epitaffio sulla Brexit può essere quello di George Orwell, quando diceva in The Lion and the Unicorn (1941), splendido e affettuoso ritratto del suo Paese e dei suoi connazionali, che l’errore degli inglesi è non avere mai preso sul serio i continentali, ritenendosi troppo superiori. La classe operaia, diceva, detesta gli stranieri (vedi ancora le Midlands). «L’insularità degli inglesi», aggiungeva Orwell, «il loro rifiuto di prendere gli stranieri sul serio, è una follia che di tempo in tempo costadecisamente caro».
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Superato il voto e la scelta del divorzio, l’Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C’è un anno per un’intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.
Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.
METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE
Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.
LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE
Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyenha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.
Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile
Ursula von der Leyen
DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE
Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno ditransizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire.
IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO
In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italianodella componentistica.
Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta
Kiel Institute for the World Economy
TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO
A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».
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Superato il voto e la scelta del divorzio, l’Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C’è un anno per un’intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.
Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.
METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE
Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.
LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE
Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyenha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.
Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile
Ursula von der Leyen
DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE
Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno ditransizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire.
IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO
In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italianodella componentistica.
Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta
Kiel Institute for the World Economy
TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO
A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».
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BoJo promette il divorzio da Bruxelles il prima possibile. Voto a Westminster forse già prima di Natale. Dal primo febbraio via al periodo di transizione, con l’obiettivo di raggiungere un’intesa commerciale entro giugno. A quel punto l’uscita diventerebbe effettiva da gennaio 2021.
Con la schiacciante e difficilmente prevedibile, almeno nelle proporzioni, vittoria del partito conservatore alla elezioni nel Regno Unito, il processo verso la Brexit è destinato a subire un’inevitabile accelerazione. Boris Johnson intende presentare al voto di Westminster l’accordo sul divorzio da Bruxelles il prima possibile, forse già entro Natale, vale a dire sabato 21 dicembre. Il via libera definitivo, in ogni caso, arriverebbe solo a gennaio. «Dalle urne è emerso un mandato per la Brexit, che noi onoreremo entro il 31 gennaio» ha detto Johnson di fronte a Downing Street nel discorso della vittoria, ringraziando gli elettori e impegnandosi a «lavorare senza risparmio» anche per una programma di politica interna su temi come sanità, sicurezza e «fine dell’austerità».
IL PERIODO DI TRANSIZIONE A PARTIRE DAL PRIMO FEBBRAIO
Dato per scontato che, avendo i Tory la maggioranza assoluta, l’intesa questa volta passerà, proprio il 31 gennaio, come promesso ripetutamente dal premier in campagna elettorale, sarà il Brexit day. Dal giorno dopo, infatti, inizierà il periodo di transizione che si protrarrà, con tutta probabilità, fino alla fine del 2020.
LA NUOVA INTESA COMMERCIALE GIÀ ENTRO LA FINE DI GIUGNO?
In questo lasso di tempo la situazione resterà identica all’attuale, rimarranno in vigore leggi e accordi tra l’Ue e il Regno Unito fino a quando non ne saranno negoziati altri. In particolare quelli commerciali. Secondo la Bbc, la nuova intesa commerciale tra Bruxelles e Londra dovrebbe essere pronta entro il 30 giugno 2020 e portata in parlamento entro dicembre dello stesso anno.
L’IPOTESI DI UN’ESTENSIONE DEL PERIODO DI TRANSIZIONE
Se sarà ratificata, dal primo gennaio 2021 la Brexit sarà davvero effettiva e tra Unione europea e Regno Unito sarà in vigore un nuovo accordo commerciale (e non solo). Se dovesse essere bocciata, il Regno Unito dovrà chiedere un’estensione del periodo di transizione oppure a gennaio 2021 lascerà del tutto l’Unione senza alcuna intesa. Con un largo sostegno alle spalle, in ogn caso, per Boris sarebbe più semplice perseguire una “hard Brexit” basata su un vago accordo di libero scambio, sull’esempio del modello canadese: una soluzione che allontanerebbe decisamente Londra dall’Europa e la spingerebbe verso l’anglosfera dominata dagli Stati Uniti.
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No euro da sempre, ex assistente di Gove, è l’uomo che ha inventato gli slogan Take Control e Get Brexit Done e che ha trasformato la campagna tory in perfetti meme.
Stratega e esperto social, inventore di slogan, ma anche di traiettorie politiche, creatore di video tormentoni e di nuovi consensi. Se c’è un uomo dietro altrionfo di Boris Johnson alle elezioni britanniche è lui: lo sconosciuto Dominic Cummings. Con cinque parole, Take control’ e ‘Get Brexit done‘, ha consacrato nel 2016 Johnson come leader della campagna pro-Leave e oggi ne ha fatto il vincitore assoluto della politica del Regno Unito. Cummings, è la mente dei nuovi Tory, inviso ai politici conservatori paludati che ha saputo parlare alla pancia della Gran Bretagna con messaggi semplici ma evidentemente efficaci.
PRIMO OBIETTIVO: ELIMINARE FARAGE
Ex consulente dei Tory, classe 1972, l’uomo con lo zainetto che stamani alle sette è stato ripreso dalla telecamere di mezzo mondo mentre bussava al numero 10 di Downing street come un cittadino qualsiasi ha puntato la sua strategia comunicativa, oggi come tre anni fa, su un uso massiccio dei social e un linguaggio aggressivo e non convenzionale. Aver sostituito ‘Get change‘ con ‘Take control’ nello slogan per il referendum sulla Brexit impresse una virata netta alla campagna anti-Ue, mettendo in ombra persino il re dei brexiteer Nigel Farage che, non è un caso, è uscito da questa tornata elettorale senza neanche un seggio. Gli addetti ai lavori raccontano che uno degli obiettivi di Cummings era proprio silurare Farage e il suo Brexit Party. «Se vogliamo marginalizzare quel partito dobbiamo fare campagna elettorale sul concetto niente più ritardi, realizziamo la Brexit», scrisse Cummings ai suoi in un sms ad ottobre, svelando per la prima volta l’ormai storico ‘Get Brexit done‘.
DA SEMPRE ANTI EURO, IN COPPIA PERFETTA CON BOJO
Che fosse un tipo tosto a Westminster lo avevano capito già nel 2003, quando cominciò la sua crociata contro l‘euro. I suo avversari lo deridevano chiamandolo «adolescente brufoloso», nonostante avesse 31 anni. Lui tirava dritto e sentenziava: «Avere l’euro significherebbe perdere il controllo della nostra economia». Brexit ante-litteram. Nel 2010 diventò assistente di Michael Gove al ministero dell’Istruzione e la sua carriera nel partito conservatore iniziò a decollare fino a diventare il guru elettorale di Johnson. A «match made in heaven», una coppia perfetta che, almeno per quanto riguarda la comunicazione politica, ha dato il meglio di sé nelle ultime settimane prima del voto.
LA STRATEGIA CHE GENERA MEME HA FUNZIONATO
La parodia del popolarissimo film di Natale ‘Love Actually’ (‘Brexit Actually‘), che gli avversari hanno deriso e bollato come un becero tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai temi veri, è stato un colpo da maestro. Ed effettivamente ha distolto l’attenzione dall’ultimo scivolone di Johnson, pescato ad ignorare la foto di un bambino malato di polmonite che dormiva sul pavimento di un ospedale. Una strategia che per i Tory più snob e tradizionalisti è roba da meme (‘meme-generating behaviour‘, l’ha definita il Guardian) ma che forse proprio per questo ha regalato il Regno a Boris Johnson con numeri che per i conservatori non si vedevano dai tempi di Margaret Thatcher.
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Ci ritroviamo una nazione corsara ai confini dell’Ue. Decisa a strappare business al Continente. Ma ora il Regno Unito potrebbe disgregarsi sotto la spinta indipendentista della Scozia. Le (brutte) notizie per l’Europa dal voto britannico.
Partita chiusa. Boris Johnson ha vinto la sua scommessa. Jeremy Corbyn non solo ha subìto la peggiore sconfitta laburista dal 1935 perdendo una sessantina di seggi, ma ha confermato in pieno il pessimo giudizio di chi dalle file stesse del Labour lo accusava di avere una strategia sbagliata e confusa. E i liberal democratici che si illudevano con Jo Swinson di decuplicare i deputati da 12 (o 21, contando i transfughi raccolti dalle file dei conservatori soprattutto) a 120, dovranno accontentarsi di 11, e risultano travolti dal ridicolo.
A BORIS INTERESSA SOPRATTUTTO LA SUA STATURA
Ci sarà la Brexit anche se difficilmente sarà così rapida e radicale come Johnson ha promesso infinite volte perché ora l’obiettivo è dimostrare che il Regno Unito affronta il nuovo cammino senza scosse e i conservatori costruiscono così le premesse per un’altra vittoria quando si tornerà alle urne, fra cinque anni salvo sorprese. Chi conosce Johnson sa bene che assai più della Brexit gli importa entrare fra i primi ministri di lunga durata come Margaret Thatcher e Tony Blair e raggiungere una statura che non sfiguri accanto a quella del suo idolo Winston Churchill.
CLAMOROSI ERRORI DI CORBYN
Brillante nei risultati, con una quarantina di seggi in più rispetto a quelli ottenuti al voto anticipato del giugno 2017 da Theresa May e una maggioranza parlamentare tranquilla di circa 30 seggi, la vittoria di Johnson è dovuta però prima di tutto ai clamorosi errori di Corbyn che ha dimostrato di avere una lettura della realtà profondamente distorta dall’ideologia politica. E si è illuso di trasformare quello che il Paese sentiva come un secondo referendum sulla Brexit sotto le spoglie di voto per il rinnovo del parlamento di Westminster in una svolta politico-culturale e nell’avvio della sua Inghilterra verso il socialismo laburista, nazionalizzazioni comprese.
UNA SANGUINOSA SCONFITTA LABURISTA
«È colpa di Corbyn, colpa di Corbyn», diceva dopo i pessimi exit poll l’ex ministro laburista dell’Interno Alan Johnson, buttandola in grottesco. «I corbinisti tireranno fuori la tesi che la vittoria è un concetto borghese, e che il solo obiettivo dei veri socialisti è una gloriosa sanguinosa sconfitta». Resta il fatto che in molti comizi, l’ultimo due giorni prima del voto a Liverpool, Corbyn ha parlato del suo sogno di una nuova Gran Bretagna e citato la Brexit solo di sfuggita in un inciso. Proprio fuori strada.
HANNO LASCIATO GLI ANTI-BREXIT SENZA UN LEADER
L’errore fondamentale di Corbyn viene da lontano ed è quello di avere lasciato senza leadership un potenziale voto maggioritario – il Paese secondo tutti i sondaggi era ormai 55 a 45% piuttosto critico della Brexit nonostante il referendum del 2016 – che andava invece organizzato motivato e sostenuto. Ma Corbyn stesso è sempre stato pro Brexit, una sua brexit socialista, perché se per molti conservatori Bruxelles è da rifiutare perché troppo dirigista e non abbastanza liberista, per Corbyn era da rifiutare in quanto non abbastanza socialista.
UN GOVERNO DI COALIZIONE ERA POSSIBILE
Quindi ha deciso di fare un campagna elettorale tutta contro l’austerità imposta per 10 anni dai conservatori, per il rilancio del Nhs, il servizio sanitario nazionale, e per una visione da «socialismo in un solo Paese» in questa Europa troppo capitalista. La stessa promessa di tenere un secondo referendum in caso di vittoria alle Politiche del dicembre 2019 gli è stata alla fine imposta dal suo gruppo parlamentare, a netta maggioranza filo Ue. Una vera vittoria è sempre stata impossibile; era in teoria possibile però un governo di coalizione a guida Corbyn che sarebbe stato tenuto insieme solo per il tempo necessario a tenere un secondo referendum. Gli elettori hanno preferito un taglio netto.
DI FIANCO A JEREMY DUE VETERO SOCIALISTI
Per capire Corbyn basta un’occhiata ai suoi due uomini di fiducia al vertice del labour, Seumas Milne e Andrew Murray, perché sempre i collaboratori più stretti rivelano la vera natura del capo. Milne e Murray, entrambi di estrazione alto borghese, sono due vetero socialisti molto ideologizzati, con un giudizio decisamente favorevole per esempio di quella che fu l’Unione sovietica (secondo Milne il Muro di Berlino era un giusto baluardo della Guerra fredda e la Germania Est un Paese efficiente e ricco che faceva star bene il suo popolo, come l’Urss del resto), e con una visione che in altri tempi sarebbe passata terzomondista.
Il gioco politico assegnava a Corbyn il ruolo di anti Brexit e non avendo raccolto il guanto ha perso malamente il duello
L’unica attenuante alla confusione mentale di Corbyn e che c’è nel Labour, soprattutto nell’elettorato popolare delle Midlands e dell’Inghilterra del Nord, c’era e c’è un consistente filone pro Brexit che arriva a un quarto circa del potenziale elettorato laburista e che lui non ha voluto antagonizzare. Perché in fondo è come loro. Ma il gioco politico gli assegnava il ruolo di anti Brexit, visto che i conservatori sono diventati con Johnson e anche prima il Conservative Brexit Party, e non avendo raccolto il guanto ha perso malamente il duello. Harold Wilson aveva ugualmente nel 1975, anno del primo referendum britannico sull’Europa, un partito diviso e seguì ugualmente una politica ufficiale di non scelta, ma tutti sapevano che in privato era pro Bruxelles e fu decisamente più abile e molto meno ideologizzato.
JOHNSON, TROPPE PROMESSE DI SPESA PUBBLICA
Johnson ha avuto una strategia semplice e quindi chiara. «Facciamo la Brexit». Anche lui ha fatto molte promesse di spesa pubblica che in realtà si ridurranno assai. Ha condotto una campagna che ha puntato a fare breccia nei collegi storicamente laburisti del Nord dell’Inghilterra. E qui ha raccolto il nerbo dei nuovi seggi conservatori, portando al suo partito elettorati da generazioni laburisti, in nome della Brexit e solo di quella Brexit che Corbyn si è rifiutato di valutare bene. La corsa alla successione a Corbyn era già aperta, nel Labour, prima del voto.
E LA SCOZIA MINACCIA IL REGNO UNITO
C’è poco da aggiungere. Forse il buon successo dei nazionalisti scozzesi in Scozia, che rende ora la richiesta di un nuovo referendum locale per l’indipendenza più pressante. Fortememnte filo Ue, dicono di non poter accettare il distacco dall’Europa. Ma non sarà facile. Johnson resterà a lungo a Downing Street, ma chi in queste ore mastica amaro sostiene che potrebbe essere l’ultimo premier del Regno Unito, destinato a disunirsi proprio sulla questione europea. Non sarà semplice.
TRADITA L’EREDITÀ DI CHURCHILL
Per quanto scontato, per quanto abituati a Bruxelles a una Londra che spesso ha remato contro e quindi alla fine meglio fuori che dentro, il risultato è una brutta notizia per l’Europa. Se è un buon risultato per il Regno Unito, oltre che per l’attuale partito conservatore che portò nel 1973 il Paese nel Mec, solo il tempo potrà dirlo. Certamente non è un risultato che ha seguito l’eredità lasciata da Winston Churchill. Il premier della Seconda guerra mondiale ha lasciato una posizione molto chiara e filoeuropea e senza tentennamenti fin dal discorso alla Albert Hall del 1947. Nella sua visione il Regno Unito avrebbe appoggiato il disegno europeo dall’esterno se fosse riusciuto a mantenere l’Impero, ed entrando con decisa e piena partecipazione se l’Impero fosse sparito. Vedremo ora che cosa la “little England”, nazione corsara ai confini della Ue e decisa a diventare un porto franco per strappare business al Continente, riuscirà a fare.
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Il leader dei Tory: «Realizzerò la Brexit entro gennaio, senza se e senza ma». Lunedì rimpasto di governo, la prossima settimana la Regina approverà l’accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles. Poi un anno di tempo per negoziare tutti i dettagli.
Dopo lavittoria schiacciante alle elezioni anticipate in Gran Bretagna, Boris Johnson ha tenuto un discorso a Londra ai suoi sostenitori, invitando tutti a ripetere in coro lo slogan della campagna per il voto: «Get Brexit done!». E la promessa verrà mantenuta, non ci sono più dubbi: «È una decisione del popolo, inconfutabile e indiscutibile», ha scandito il leader dei conservatori, «basta con le miserabili minacce di un secondo referendum».
LE PROSSIME TAPPE PER L’USCITA DALL’UE
Lunedì 16 dicembre è previsto un rimpasto di governo, mentre la prossima settimana la Regina approverà l’accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles. L’Europa preme per ratificarlo presto, ma poi ci sarà tempo fino al 31 dicembre 2020 per negoziare nei dettagli i termini dei futuri rapporti tra le due entità. Una partita complessa in cui si è subito inserito il presidente americano Donald Trump, che ha evocato la possibilità di firmare un nuovo accordo commerciale tra americani e britannici «potenzialmente molto più vantaggioso».
MA LA SCOZIA PUÒ SPACCARE IL PAESE
«Con questo mandato finalmente realizzeremo la Brexit, metterò la parola fine a tutte le assurdità degli ultimi tre anni. Usciremo dall’Ue entro gennaio, senza se e senza ma», ha ribadito Johnson. Le urne hanno regalato ai Tory «la più grande vittoria dagli Anni 80, quando molti di voi non erano neanche nati». Ma adesso occorre «unire il Paese», ha sottolineato il premier, ben consapevole che anche gli indipendentisti scozzesi si sono rafforzati e puntano a chiedere una nuova consultazione popolare, due anni dopo quella del 2014, per staccarsi dal Regno Unito e restare nell’Ue. Il parlamento di Westminster potrà respingere la richiesta, ma le tensioni sono destinate a crescere. «Facciamo la Brexit, ora però facciamo colazione», ha concluso Johnson con una battuta. A lui il compito di «capire che tipo di terremoto abbiamo provocato» e affrontarne le conseguenze.
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Scalzata per 149 voti dall’indipendentista scozzese Amy Callaghan. Ma per il momento non si è dimessa.
Choc anche per i LibDem nelle elezioni britanniche: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, che ha ottenuto 11 seggi (10 in meno rispetto alla Camera uscente); ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson, per il momento, non ha tuttavia annunciato le proprie dimissioni da capo del partito.
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Il grande sconfitto del voto nel Regno Unito difficilmente avrà un’altra chance. Paga le ambiguità sulla Brexit e una leadership mai così incerta. Tra i Labour gia si pensa al suo erede.
Una sconfitta così, dalle parti del Labour, non si vedeva da quasi un secolo. Per la precisione dal 1935. E un fiasco di tali dimensioni, difficile anche solo da prevedere alla vigilia, non può che ricadere sulle spalle di Jeremy Corbyn, il cui futuro, all’indomani del voto del 12 dicembre, sembra già essere scritto.
DALLE RETROVIE AL CENTRO DELLA SCENA
Per decenni più noto alle piazze dei militanti che non nei palazzi, alla Camera dei Comuni, dove pure siede da quasi 37 anni, Corbyn è sempre stato l’eterno backbencher: uno di quelli seduti agli ultimi banchi, la retrovia dei battitori liberi, fra gli indisciplinati della sinistra laburista. A 70 anni suonati, il compagno Jeremy, sembrava essersi abituato al centro della scena, ma ora sarà gioco forza costretto a un passo indietro obbligatorio.
L’IDEALISMO CHE NON LO HA MAI ABBANDONATO
Alfiere del ‘no all’austerity’, pacifista e socialista mai pentito, Corbyn è arrivato all’ultima chance politica della vita con gli stessi sogni, gli stessi pregi e difetti, gli stessi abiti sdruciti della gioventù. Solo la barba si è fatta grigia, da rossa che era. E il sorriso si è come addolcito: da nonno ribelle, caro ai molti giovani millennials apparsi a frotte, nella sorpresa un po’ stizzita dei media di establishment, ad acclamarlo fin dalla campagna del 2017 al grido “Jez, we can!”. Nato a Chippenham, nel Wiltshire, figlio di un ingegnere e di una insegnante di matematica conosciutisi sulla trincea repubblicana durante la Guerra civile spagnola, Jeremy è cresciuto in un clima di attivismo politico destinato a segnarne tutte le scelte future.
LE MILLE BATTAGLIE COMBATTUTE IN PRIMA LINEA
Dopo essere stato funzionario sindacale, è diventati deputato nel collegio londinese di Islington a 34 anni. Le sue cause hanno spaziato dai diritti dei lavoratori alla pace in Irlanda del Nord e in Palestina. Per Nelson Mandela, allora in cella nelle galere di un regime razzista sudafricano trattato coi guanti dai governi di Margaret Thatcher, si è fatto pure arrestare. Paladino del disarmo nucleare, ostile all’interventismo militare (in Iraq, Afghanistan, Libia, ma anche nei Balcani), è altrettanto radicale nella vita privata. Vegetariano, astemio e ambientalista, si è sposato tre volte: dalla seconda moglie, Claudia Bracchitta, italiana, ha avuto tre figli e ha divorziato nel 1999, pare uno screzio sull’iscrizione di uno dei ragazzi a una scuola privata, da lui considerata off limits. La consorte attuale è cilena e gli ha portato in dote il micio El Gato.
LA SCALATA UN PO’ A SORPRESA ALLA LEADERSHIP LABURISTA
La svolta nel suo destino è arrivata nel 2015, quando è stato eletto a sorpresa leader dei laburisti, sull’onda del rifiuto dilagante nella base verso gli ex blairiani liberal in carriera. L’anno dopo ha stravinto una seconda sfida malgrado il fuoco amico di gran parte della nomenklatura interna. E la bandiera del Labour è rimasta così nelle sue mani, sia contro Theresa May sia contro Boris Johnson, in barba agli alti e bassi della Brexit, alle critiche alla sua leadership incerta, alle polemiche sull’atteggiamento che gli è stato imputato rispetto a certi rigurgiti di antisionismo (ma anche di antisemitismo di sinistra) nel partito.Ma il suo punto debole è probabilmente rimasto il rapporto con la platea più vasta degli elettori, la maggioranza silenziosa. Anche se pareva aver fatto breccia tra i disillusi e gli sconfitti della globalizzazione, come fra gli under 30. Il risveglio, tuttavia, è stato traumatico e adesso è difficile credere che la parabola di Jeremy non sia giunta al capolinea.
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Le voci dal Regno Unito nel giorno del trionfo di Johnson. Tra le incertezze dei piccoli imprenditori e le paure di chi di Londra ha fatto la propria seconda casa.
Con il voto britannico che ha spianato – una volta per tutte – la strada alla Brexit, le future norme sull’immigrazione restano la principale preoccupazione tra gli expat italiani nel Regno Unito. Ma anche fra la generazione dei ‘vecchi’ italo-inglesi, sullo sfondo di elezioni svoltesi Oltremanica in una giornata grigia e piovosa di dicembre. Qualcuno di loro ha votato. Qualcuno non lo ha fatto o non lo può fare, perché non è suddito di Sua Maestà e non ha chiesto il passaporto, anche se magari sull’isola ci vive da decenni.
UN’INCERTEZZA CHE SPAVENTA GLI INVESTITORI
Il voto del 12 dicembre è stato qualcosa di molto simile a un secondo referendum sul divorzio da Bruxelles, nota Alessandro Belluzzo, presidente della Camera di Commercio italo-britannica e londinese d’adozione, che parla di «elezioni legate alla Brexit, non c’è stato spazio per altro. La priorità per il Paese è superare quest’incertezza, radicale, persino violenta. Noi eravamo contrari, ma se il popolo ha deciso così, dobbiamo accettarlo». Un nodo cruciale è quello degli investimenti. «Gli imprenditori», insiste Belluzzo, «hanno bisogno di certezze, di una cornice economico-sociale chiara entro cui operare. Dal voto per la Brexit abbiamo registrato una diminuzione d’interesse per questo Paese. Prima c’era più voglia di provarci, ora chi viene per investire o lavorare ha molti più dubbi e domande».
Ho vissuto qui per 40 anni, ma nonostante abbia una moglie inglese e figli con passaporto inglese mi chiedo quale sarà il mio futuro
Salvatore Calabrese
Questi timori sono condivisi anche da chi del Regno ha fatto una seconda patria. «La Brexit fa paura, soprattutto a chi è arrivato qui nel secondo dopoguerra e sente il Regno Unito come fosse casa sua», spiega Gianna Vazzana, del patronato Acli, dalla sede di Clerkenwell Road, accanto alla chiesa cattolica italiana di San Pietro, nel cuore di quella che fu la mini Little Italy di Londra fin dall’arrivo dei primi rifugiati ai tempi di Giuseppe Mazzini e poi delle prime comunità di migranti. «Gente che magari non ha mai preso la doppia cittadinanza, e ora teme di doversene andare», aggiunge. Ipotesi estrema, improbabile. Eppure evocata anche da Salvatore Calabrese, celebre barman e oggi consulente del più antico albergo della capitale, il Brown’s Hotel. «Ho vissuto qui per 40 anni, ma nonostante abbia una moglie inglese e figli con passaporto inglese mi chiedo quale sarà il mio futuro».
UNA CAMPAGNA ELETTORALE DAI TONI «VIOLENTI»
Lui non ha votato, e comunque non avrebbe saputo chi scegliere. «Ho sempre detto che politica e religione non devono entrare nei miei bar, ma in questi giorni è stato impossibile. Non si è parlato che di politica. Sono state le elezioni più imprevedibili che io ricordi. Boris Johnson è un personaggio divisivo, piace ed è detestato alla stessa maniera». A fare da contraltare al trionfo del premier c’è la disfatta del leader laburista Jeremy Corbyn, che «rispetto a due anni fa non ha potuto contare sull’effetto sorpresa, e forse ha pagato anche qualche incertezza sulla Brexit», dice Dimitri Scarlato, direttore d’orchestra e membro di ‘The 3 million’, un movimento nato per tutelare per i diritti dei cittadini europei nel Regno.
Se potessi chiederei al premier di smettere di dire tutte le bugie che ho sentito
Alessandro Gallenzi
La Brexit ha «spaccato il Paese», ma ne ha pure evidenziato gravi lacune amministrative, accusa Alessandro Gallenzi, fondatore della casa editrice Alma. «Piccole aziende come la mia sono rimaste al buio, nonostante le nostre ripetute richieste di chiarimento e, se potessi, chiederei» alla politica «di smettere di dire tutte le bugie che ho sentito». O se non altro di moderare certi toni «aspri, di fortissima contrapposizione», fa eco Lazzaro Pietragnoli, consigliere del Labour nel municipio circoscrizionale di Camden. Lui, in campagna elettorale, è stato coinvolto direttamente, secondo la tradizione britannica del porta a porta. Ma ne parla come di «una campagna più negativa che positiva, in cui entrambi i leader si sono preoccupati soprattutto di spiegare perché non votare l’avversario».
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Il Partito conservatore del premier ottiene 368 seggi, 42 in più della maggioranza. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Thatcher. E che allontana una volta per tutte Londra dall’Ue. A picco il Labour (191), mai così male dal 1935. Corbyn al passo d’addio. Cronaca di un voto storico.
Un plebiscito per la Brexit. Il 12 dicembre il Regno Unito è andato alle urne per la seconda chiamata alle elezioni generali da quando il referendum del 2016 ha messo in moto il tribolato iter per il divorzio di Londra dall’Unione europea. E il responso è stato inequivocabile, almeno stando ai primi exit poll: Partito conservatore a valanga, con 368 seggi, 42 in più della maggioranza assoluta. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore dal 1935 per il Labour di Jeremy Corbyn, a 191 seggi contro i 247 che contava nella Camera bassa uscente. Terza forza è lo Scottish National Party (Snp), a 55 seggi (+20). Soltanto 13 per i LibDem, unico partito convintamente pro Remain.
JOHNSON VINCE LA SUA SCOMMESSA
Le elezioni anticipate del 12 dicembre sono state volute dal premier conservatore Boris Johnson, nel tentativo di ottenere quella maggioranza assoluta in parlamento che, defezione dopo defezione, aveva visto allontanarsi sempre di più negli ultimi mesi a Downing Street e che è necessaria per portare a termine la Brexit.
Viviamo nella più grande democrazia del mondo
Boris Johnson
«Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato», ha commentato a caldo Johnson. «Viviamo nella più grande democrazia del mondo». Il controllo Tory sulla Camera nega ogni spazio di manovra al fronte dei partiti – in primis il Labour a trazione socialista di un Corbyn incapace di ripetere la sorpresa almeno parziale del 2017 – che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire ai sudditi di Sua Maestà una chance di ripensamento.
UN PLEBISCITO A SEI SETTIMANE DALLA SCADENZA PER LA BREXIT
La strada è segnata. Il voto consegna a Johnson le chiavi di Downing Street per i prossimi cinque anni e, soprattutto, quelle di una Brexit che, tre anni e mezzo dopo il referendum del 2016, diventa sostanzialmente irreversibile. Get Brexit done, è stato il messaggio-tormentone di BoJo in queste settimane di campagna elettorale. E una fetta ben superiore alle attese degli elettori d’Oltremanica ha deciso di abbracciarlo, a sei settimane dalla nuova scadenza per il divorzio dall’Ue fissata per il 31 gennaio. L’altra faccia della medaglia è la sconfitta di Corbyn, avviato all’addio. Lo stesso cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, braccio destro di Corbyn, non ha escluso le dimissioni nelle prossime ore.
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Il Partito conservatore del premier ottiene 368 seggi, 42 in più della maggioranza. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Thatcher. E che allontana una volta per tutte Londra dall’Ue. A picco il Labour (191), mai così male dal 1935. Corbyn al passo d’addio. Cronaca di un voto storico.
Un plebiscito per la Brexit. Il 12 dicembre il Regno Unito è andato alle urne per la seconda chiamata alle elezioni generali da quando il referendum del 2016 ha messo in moto il tribolato iter per il divorzio di Londra dall’Unione europea. E il responso è stato inequivocabile, almeno stando ai primi exit poll: Partito conservatore a valanga, con 368 seggi, 42 in più della maggioranza assoluta. Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore dal 1935 per il Labour di Jeremy Corbyn, a 191 seggi contro i 247 che contava nella Camera bassa uscente. Terza forza è lo Scottish National Party (Snp), a 55 seggi (+20). Soltanto 13 per i LibDem, unico partito convintamente pro Remain.
JOHNSON VINCE LA SUA SCOMMESSA
Le elezioni anticipate del 12 dicembre sono state volute dal premier conservatore Boris Johnson, nel tentativo di ottenere quella maggioranza assoluta in parlamento che, defezione dopo defezione, aveva visto allontanarsi sempre di più negli ultimi mesi a Downing Street e che è necessaria per portare a termine la Brexit.
Viviamo nella più grande democrazia del mondo
Boris Johnson
«Grazie a tutti nel nostro grande Paese, a chi ha votato, a chi è stato volontario, a chi si è candidato», ha commentato a caldo Johnson. «Viviamo nella più grande democrazia del mondo». Il controllo Tory sulla Camera nega ogni spazio di manovra al fronte dei partiti – in primis il Labour a trazione socialista di un Corbyn incapace di ripetere la sorpresa almeno parziale del 2017 – che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire ai sudditi di Sua Maestà una chance di ripensamento.
UN PLEBISCITO A SEI SETTIMANE DALLA SCADENZA PER LA BREXIT
La strada è segnata. Il voto consegna a Johnson le chiavi di Downing Street per i prossimi cinque anni e, soprattutto, quelle di una Brexit che, tre anni e mezzo dopo il referendum del 2016, diventa sostanzialmente irreversibile. Get Brexit done, è stato il messaggio-tormentone di BoJo in queste settimane di campagna elettorale. E una fetta ben superiore alle attese degli elettori d’Oltremanica ha deciso di abbracciarlo, a sei settimane dalla nuova scadenza per il divorzio dall’Ue fissata per il 31 gennaio. L’altra faccia della medaglia è la sconfitta di Corbyn, avviato all’addio. Lo stesso cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, braccio destro di Corbyn, non ha escluso le dimissioni nelle prossime ore.
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Dalla resa dei conti tra Johnson e Corbyn dipenderà il futuro della Brexit. Favoriti i conservatori, ma le possibilità di un parlamento senza maggioranza sono alte. Seggi aperti fino alle 22 ore locali (le 23 italiane).
Elezioni al via questa mattina nel RegnoUnito: i seggi sono aperti dalle 7:00 ora locale (le 8:00 in Italia) in 650collegielettorali tra Inghilterra, Galles, Scozia e IrlandadelNord ed i sudditi di SuaMaestà potranno votare fino alle 22:00 locali. I risultati cominceranno ad arrivare quindi nella notte fra giovedì e venerdì. Il favorito è l’attuale premier Boris Johnson ed il suo partito conservatore, ma il suo principale sfidante, il laburistaJeremy Corbin, è ancora convinto di poterlo battere.
I MEDIA: «VOTO STORICO»
Johnson, che ha fatto campagna elettorale sotto lo slogan ‘Get Brexit done‘, punta a portare il Paese fuori dalla Ue alla nuova scadenza del 31 gennaio 2020. Il suo rivale Corbin promette di convocare un secondo referendum sull’uscita dall’Unione europea. Per i media britannici non ci sono dubbi: il Guardian parla questa mattina di una scelta «storica» e l’Independent gli fa eco definendo lo scrutinio «veramentestorico».
Si tratta delle terze elezioni (dopo quelle del 2015 e 2017) in meno di cinque anni e le prime tenute nel mese di dicembre in circa 100 anni.
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