La Prima della Scala ci insegna l’uso metalinguistico di Instagram

In platea, Durante l’esecuzione della Tosca, fiorivano gli spettatori col cellulare in mano. Una rappresentazione di come i social abbiano vinto sulla nostra percezione del reale.

Assistito al Terzo Atto della Tosca dall’ingresso della platea con il cappotto sul braccio, fra i cani sciolti, quelli che si erano attardati a fumare in piazza e le poverette che non avrebbero potuto fare altrimenti perché indossavano un vestito da fatina con le lucine di Natale incorporate accese e che dunque non avrebbero potuto sedersi in platea (ci siamo informate, si chiama Dvora, a Milano fa l’estetista-con-punturine, ogni anno si presenta con qualche obbrobrio addosso scatenando l’eccitazione dei fotografi e confermando così l’idea che la Prima della Scala sia un posto di sciroccate a cui nulla interessa della musica), ci siamo accorte che nessuno spegneva il cellulare.

Gli applausi per l’arrivo del presidente Sergio Mattarella.

LA CORSA AI SOCIAL DURANTE LA PRIMA

Tutti, invece, controllavano non solo i messaggi, ma anche i social. I social. Ma che cosa c’era di così impellente da controllare su Instagram, Twitter e Facebook mentre ci si trovava all’evento culturale-mondano più atteso dell’anno e sarebbe stato lecito goderselo senza pensieri? Visto che siamo curiose per natura e per mestiere, e in più eravamo seccatissime perché invece a noi quel terzo atto piace molto, volevamo godercelo anche da quella posizione precaria e aspettavamo con trepidazione “e lucevan le stelle” (purtroppo svanì anche il sogno nostro di ascoltarla cantata come si deve, Francesco Meli è un Mario Cavaradossi troppo tiepido), dopo aver segnalato ai vicini che le lucette dell’estetista, ora arrivata proprio lì accanto a noi a ridacchiare, fornivano un’illuminazione più che sufficiente per disturbare lo spettacolo, abbiamo buttato un occhio sulle schermate dei vicini più prossimi.

COME INSTAGRAM VINCE SULLA PERCEZIONE DEL REALE

Controllavano chi fosse stato ritratto, fotografato, segnalato alla Scala, cioè il luogo dove si trovavano in quel preciso momento. Ci siamo messe a sorridere anche noi, soddisfatte. Non dovevamo irritarci, ma rallegrarci, perché finalmente, dopo anni di teorie, stavamo assistendo alla perfetta mise en abyme delle potenzialità non social ma sociologiche di Instagram, alla sua vittoria sulla nostra percezione del reale. Instagram come volontà e rappresentazione, l’abisso della differipetizione, come certe fotografie di Man Ray in cui l’immagine si ripete ossessivamente, sempre più in piccolo, all’interno della prima. Lo scopo di quell’affannosa ricerca collettiva era il controllo ansioso di chi si trovasse lì con noi dei ricchi-e-famosi, se si fosse perso qualche volto e qualche immagine importante fra i tanti presenti (ci spiace per il ministro Provenzano che ha innescato l’inutile polemica contro Milano-asso-piglia-tutto-d’Italia: il 7 dicembre non mancava nessuno dei potenti di oggi e anche di ieri, vedi il povero Angelino Alfano al cui passaggio non scattano più i flash), e se ci si potesse vantare di qualcosa con gli amici, suscitare qualche commento desioso e invidioso, trarne vantaggio, schermirsi.

LA SFILATA DEI POTENTI TRA GAFFE ED ELEGANZA

Quanto a lungo hanno parlato il candidato alla presidenza di Confindustria Carlo Bonomi e Diana Bracco? Quanto era divertente vedere i cronisti incerti fra Alexander Pereira, sovrintendente uscente, e Dominique Meyer, entrante e già sostanzialmente insediato? Quanto erano davvero gentili gli scambi di cortesie fra Lella Curiel e il costumista di Tosca, Gianluca Falaschi («signora, lei ci ha insegnato l’eleganza», «ma no, bravo davvero lei, complimenti»)? E poi. Il viceministro agli Esteri Ivan Scalfarotto era davvero l’unico accompagnatore di Maria Elena Boschi, star della serata in abito-smoking di velluto nero, sottile, elegante e understated come una milanese (quanta strada ha percorso, da quel provincialissimo tailleur bluette del primo giuramento nel governo Renzi)? E com’era possibile che sessant’anni di comunismo non avessero insegnato ai ricchi ospiti cinesi dei Dolce&Gabbana che è semplicemente atroce vedere una donna farsi reggere lo strascico da una cameriera come la Liù di Turandot (e non vogliamo nemmeno commentare la cafoneria di un abito da ballo a teatro).

Ivan Scalfarotto e Maria Elena Boschi alla Prima (Foto LaPresse)

IL FILTRO DI INSTAGRAM CHE ESALTA L’INDIVIDUALISMO DI MASSA

Insomma, a tutto questo Instagram e i social servivano alla Prima, a dimostrazione che il nuovo saggio di Paolo Landi, Instagram al tramonto, a cui accennavamo la scorsa settimana, è davvero il libro del momento: la rappresentazione del nuovo mondo dell’individualismo di massa, il mondo in cui ci crediamo unici spettatori di uno spettacolo condiviso, il mondo a cui riconosciamo importanza solo attraverso il piccolo schermo del nostro smartphone. Un piccolo schermo che ci valorizza e al tempo stesso ci difende: nulla di male può davvero accaderci attraverso la distanza dell’obiettivo, a nulla possiamo credere davvero e fino in fondo, nulla ci tocca. Ed ecco, dunque, ripresa la Prima della Scala, ma anche e purtroppo tante atrocità. Il mondo reale e filtrato al tempo stesso, in cui ci pare di vivere il doppio, e che invece ci allontana sempre di più dalla realtà.

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Record in tv per la Tosca: oltre 2,85 milioni di spettatori

Boom di spettatori per la Prima della Scala. Battuto il record di Madama Butterfly di tre anni fa. Share oltre il 15%.

Tosca è la Prima della Scala in assoluto più vista in tv: il 7 dicembre la diretta su Rai1, curata da Rai cultura, è stata infatti vista da una media di 2 milioni 850 mila spettatori con uno share del 15%. Circa ottocentomila in più dell’Attila di Verdi dello scorso anno e anche della Madama Butterfly (finora record) di tre anni fa che fu vista da 2 milioni 644 mila persone. Anche la presentazione dell’opera prima dell’inizio ha fatto un risultato di tutto rispetto con 1 milione 947 mila spettatori e uno share del 14,2%, ben più del programma precedente.

L’ORGOGLIO DI RAI CULTURA

Il risultato di Tosca, ha spiegato la Rai in una nota, è stato «il record assoluto di ascolti per un’opera lirica in tv da quando esiste l’Auditel». L’azienda di Viale Mazzini ha parlato di «un motivo di grande orgoglio» tanto che il direttore di Rai Cultura Silvia Calandrelli, ha parlato di orgoglio «per tutti coloro i quali hanno contribuito, nello spirito del vero servizio pubblico, a portare nelle case degli italiani il capolavoro di Puccini». «Nel corso della stagione Rai Cultura riprenderà e trasmetterà altre tre opere e un balletto della Scala, così come saremo accanto a molte altre realtà musicali per continuare a diffondere la bellezza della grande musica», ha aggiunto Calandrelli.

FOA: «GRANDE SUCCESSO PER IL NOSTRO PAESE»

Impettito anche il presidente della Rai, Marcello Foa: «Sono felice per lo straordinario risultato di ascolto: con quasi 3 milioni di spettatori è il record per una Prima della Scala. Mi congratulo con Rai Cultura, con Rai1 e con il centro di produzione Rai di Milano. La Prima della Scala viene vista in queste ore in tutto il mondo. Si tratta di un grande successo per il nostro Paese». «La Rai», ha concluso Foa, «è orgogliosa di contribuire a promuovere in Italia e nel mondo l’eccellenza della cultura, della creatività e della tecnologia italiane».

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Tosca, un kolossal dal retrogusto kitsch

Il maestro Chailly si conferma pucciniano di alto livello. I cantanti non deludono e il regista Livermore regala meraviglie sul palcoscenico. Scivolando talvolta ai confini del kitsch e dell’eccesso. In tivù buone scelte narrative, e qualche occasione (ancora) persa.

Nel luglio del 1992 RaiUno mandò in onda un progetto mai prima tentato: un live film diretto da Giuseppe Patroni Griffi intitolato Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca. In pratica, un film-opera (Placido Domingo, Ruggero Raimondi e Catherine Malfitano diretti da Zubin Mehta) che si svolgeva in presa diretta a Sant’Andrea della Valle, a Palazzo Farnese e sulla sommità di Castel Sant’Angelo (in complessa sincronia con l’orchestra posizionata in studio), rispettando la tempistica di Puccini: primo atto a mezzogiorno, secondo in serata, terzo all’alba del giorno dopo. 

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IL RACCONTO DAI LUOGHI REALI DELLA TOSCA

Evidentemente qualcuno in Rai nelle settimane scorse si è ricordato di quel suggestivo esperimento e ne ha tratto lo spunto per il modo in cui è stata raccontata la trama di Tosca nel corso della diretta dalla Scala. Le incursioni dell’attore Francesco Montanari sui luoghi reali del melodramma hanno costituito un buon esempio di tivù: si è offerta una chiave di lettura efficace, sulle suggestioni delle immagini e della parole, per quanto di lì a poco si sarebbe visto sul palcoscenico della Scala.

Una scena di Tosca (Ansa).

ALCUNE OCCASIONI PERSE

Naturalmente la soluzione è stata permessa dal particolare congegno drammatico e “topografico” e monumentale del libretto ed è sostanzialmente irripetibile in qualsiasi altra opera, o quasi. Ma è giusto sottolineare che almeno quest’occasione è stata colta. Molte altre come da tradizione sono state perse, nei lunghi intervalli da riempire di parole e volti. Così capita quando la televisione si avvicina a quell’oggetto considerato misterioso che si chiama melodramma: per semplificare a tutti i costi si finisce per fare un pessimo servizio alla musica e una mediocre tivù.

Bruno Vespa e signora alla Prima della Scala (Ansa).

Si tratta della possibilità di parlare di opera in maniera divulgativa e chiara, di evitare l’aneddotica stantia e di dubbia precisione, di portare davanti alle telecamere gli addetti ai lavori, visto che dei giudizi invariabilmente esaltanti di “appassionati” come l’onnipresente Bruno Vespa si poteva fare tranquillamente a meno e che una vecchia gloria come Raina Kabaivanska andava ben altrimenti valorizzata. Per non parlare dello psichiatra Vittorino Andreoli, che si è lanciato in citazioni “a orecchio” dell’epistolario pucciniano. Tant’è, la critica musicale in Italia è ormai rinchiusa in una riserva e gli eventi mediatici e culturali come l’inaugurazione della Scala la vedono ancor più ai margini, sconfitta dall’elogio acritico e dall’entusiasmo che profuma di marketing. 

LA TRANSIZIONE DELLA SCALA SENZA UN SOVRINTENDENTE

Nella sfilata dei personaggi, molto evidente l’assenza di Alexander Pereira, il sovrintendente giubilato la scorsa estate dal sindaco Beppe Sala fra molte polemiche e ancora formalmente in carica per una settimana, visto che si insedierà al Maggio Fiorentino il prossimo 15 dicembre.  Questo spettacolo è anche farina del suo sacco, ma naturalmente si è preferito sorvolare. Così come, per una sorta di par condicio, non si è ritenuto di dare il minimo spazio al suo successore, Dominique Meyer, che da metà dicembre sarà interpellabile per i “casi di emergenza” ma entrerà in carica solo il primo marzo dell’anno prossimo.

Attilio Fontana, Chiara Bazoli, Beppe Sala e e Alexander Pereira (Ansa).

La Scala si trova in una situazione di transizione non semplice, e magari si poteva illustrarla brevemente al grande pubblico di RaiUno. Semplicemente a titolo di cronaca: per far capire che l’inaugurazione di stagione di uno dei maggiori teatri lirici del mondo senza un sovrintendente alla guida non è esattamente la norma. 

LA COMPAGNIA DI CANTO HA MANTENUTO LE PROMESSE

Quanto al merito di quel che si è visto e sentito, la compagnia di canto era di indiscutibile livello e ha mantenuto tutte le promesse. Anna Netrebko è stata una Tosca imperiosa e capace di passare dal dramma all’elegia con la duttilità della fuoriclasse; Francesco Meli ha dato a Cavaradossi una sofferta intensità che si è mantenuta impeccabilmente al di qua delle esagerazioni veristiche; Luca Salsi ha fatto valere la sontuosa qualità di una voce magnificamente timbrata, eguale e scorrevole, capace di tutte le accentuazioni e le sottolineature che il monumentale ruolo del malvagio Scarpia esige.

Il soprano Anna Netrebko (Ansa).

Sul piano scenico e attoriale, però, l’alterigia sprezzante, l’arroganza del potere e la perversione del sadismo fatto musica e canto si sono colte solo a intermittenza. D’altra parte, se per gran parte del cruciale secondo atto il regista mette il cattivissimo in maniche di camicia e bretelle, non è facile.

CHAILLY, PUCCINIANO DI LIVELLO

Dal podio, Chailly ha per così dire “siglato” l’inaugurazione riesumando meno di un minuto di musica nel finale ultimo, che lo stesso autore aveva in seguito tagliato. Una scelta interessante, che giunge alla fine di un’interpretazione densa e profonda, con la quale il direttore ha confermato la sua fama di “pucciniano” di altissimo livello, misurando la sostanza sinfonica della partitura senza inutile enfasi ma con viva forza emotiva, rispettando e anzi sottolineando la multiforme natura del canto in quest’opera. 

UN KOLOSSAL CON QUALCHE SCIVOLONE AI CONFINI DEL KITSCH

Quanto allo spettacolo firmato dal brillante e talentuoso Davide Livermore, dato atto alla regia televisiva di una “neutralità” altre volte molto meno chiara, che ha permesso di apprezzare in naturalezza le soluzioni sceniche, si è visto un vero e proprio kolossal, autentico trionfo delle meraviglie tecniche del palcoscenico della Scala. Piattaforme rotanti, piani di azione sfalsati che si alzano e si abbassano, un continuo apparire e scomparire di elementi scenici, che così determinano il mutare delle ambientazioni: Livermore l’aveva promesso è ha mantenuto la parola, la sua Tosca è una vera e propria motion picture, che strizza l’occhio al coevo cinema degli albori non solo nella natura delle immagini in movimento ma anche nella recitazione un po’ sopra le righe, accentuata.

Il cast della Tosca (Ansa).

Poi, in qualche occasione il gioco prende la mano al regista: animare un dipinto facendo esprimere commozione ai personaggi che vi sono rappresentati, mentre Tosca sta cantando Vissi d’arte, è una soluzione buona per Harry Potter. Mentre al grand-guignol appartiene la scena dell’uccisione di Scarpia: non una ma tre pugnalate più strangolamento, schizzi di sangue sulla veste della protagonista. Invece, è un piccolo colpo di genio la trasformazione della tradizionale lugubre scena in cui Tosca apparecchia il catafalco di Scarpia in una sorta di sdoppiamento psichico: la protagonista si vede accanto al cadavere dell’uomo che ha tentato di violentarla fisicamente e lo ha fatto psicologicamente. L’ultimo colpo di scena è nel finale tragico: Tosca vola sì da Castel Sant’Angelo, ma la sua è una specie di assunzione in cielo, tra fasci di luce. Una scelta ai confini del kitsch

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La Prima della Scala tra vip e politici

Quindici minuti di applausi per Tosca, sebbene l’allestimento non abbia convinto tutti. Ovazione per il presidente Sergio Mattarella. Tra i presenti Boschi con Scalfarotto, Bazoli versione D’Artagnan, Patti Smith.

La Tosca di Davide Livermore con la direzione del maestro Riccardo Chailly alla fine ha convinto incassando almeno 15 minuti di applausi. Al termine dell’omaggio alla compagnia di canto, alcuni spettatori si sono voltati verso il palco d’onore gridando «Presidente grazie», ed è così partito un nuovo applauso rivolto al Capo dello Stato, Sergio Mattarella dopo l’ovazione che lo aveva accolto al suo arrivo con la figlia Laura.

A dargli il benvenuto, fra gli altri, il governatore Attilio Fontana, il sindaco Giuseppe Sala, il sovrintendente a fine mandato Alexander Pereira e la senatrice a vita Liliana Segre. Poco prima del Capo dello Stato erano arrivati la presidente del Senato Maria Alberti Casellati e il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il titolare dello Sport Vincenzo Spadafora.

La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese con Pereira (Ansa).

UN PUBBLICO ETEROGENEO

Non è mai invece una novità la passerella di politici e vip. Per Italia viva presente Maria Elena Boschi in doppiopetto di velluto nero accompagnata da Ivan Scalfarotto. Il banchiere Giovanni Bazoli invece ha sfoggiato un inedito pezzetto stile D’Artagnan. Mentre l’imprenditore vicino a Casaleggio, Arturo Artom, si dice abbia fatto da padrone di casa. Alla Scala anche Emma Margaglia, Gabriele Galateri di Genola con la moglie Evelina Christillin, presidente del Museo Egizio di Torino e consigliera Uefa, Corrado Passera e Piercarlo Padoan.

Patty Smith (La presse).

Occhi puntati su Patti Smith. «Tosca è una donna straordinaria, tutta cuore, il suo personaggio mi affascina molto», ha detto. E stupore per la presenza di due star nostrane come Marracash ed Elodie che si sono spartiti i flash con la coppia Claudio Santamaria e Francesca Barra in Armani. Immancabili Carla Fracci e l’étoile Svetlana Zhakarova. A rappresentare il mondo della moda Dolce e Gabbana, soci sostenitori del teatro, dove venerdì hanno presentato la loro alta moda. Nel parterre anche Marco Bizzarri di Gucci in smoking rosso.

CRITICHE PER L’ALLESTIMENTO

Passando all’opera, l’allestimento non sembra aver convinto tutto il pubblico. Se il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora nel foyer alla fine del primo atto lo ha definito «pazzesco», per Carla Fracci è risultato «eccessivo»: «Meravigliosa l’orchestra e i cantanti, ma non troppo i costumi», è stato il suo giudizio. «Tutti quei su e giù mi sono sembrati eccessivi», ha concordato Fedele Confalonieri che ha aggiunto scherzando: «Ma forse è la mia età che mi fa girare la testa». Ha apprezzato molto le macchine sceniche, invece, Milly Carlucci: «È un’opera grandiosa ed emozionante, le macchine danno la sensazione di una grande messinscena».

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Tosca, una porta sull’oscurità umana

La storia nell’opera di Puccini che inaugura la stagione della Scala è poco più di un pretesto. In realtà si tratta di un viaggio nelle passioni. Il trionfo dell’artificialità teatrale.

Con la Tosca del 7 dicembre, Davide Livermore entra in un club ristrettissimo, quello dei registi che hanno firmato almeno due inaugurazioni di stagione alla Scala.

Lui peraltro, i suoi due spettacoli di apertura li ha realizzati in rapida successione: l’anno scorso Attila, quest’anno il capolavoro pucciniano, dalla quasi rarità a una delle opere più popolari di sempre.

LIVERMORE OPTERÀ PER UNA NARRAZIONE CINEMATOGRAFICA

Non ci saranno spostamenti di epoca, a differenza di quanto era accaduto con l’opera giovanile di Verdi portata dal V secolo agli anni della Seconda Guerra mondiale. Ma ci sarà un altro tipo di attualizzazione, quella che passa per la scelta di una sorta di narrazione cinematografica, linguaggio con il quale il regista torinese ha già dimostrato di avere efficace dimestichezza. E del resto, la storia di Tosca al cinema è molto lunga e comincia pochi anni dopo il debutto dell’opera.

BARONE SCARPIA, ASSOLUTO PROTAGONISTA

Il più cinematografico dei personaggi è il barone Scarpia, capo della polizia. Quando lo spettatore ne sente parlare per la prima volta – atto I, scena VI – capisce subito, anche se non lo ha ancora visto, che si tratta del vero, assoluto protagonista di Tosca. È Cavaradossi a descriverlo, con versi memorabili: «Scarpia?! Bigotto satiro che affina / colle devote pratiche / la foia libertina / e strumento al lascivo talento / fa il confessore e il boia!».

Maria Callas e Tito Gobbi nella Tosca di Zeffirelli al Covent Garden di Londra (Getty Images).

Ecco già squadernato il nucleo drammaturgico del capolavoro noir di Puccini: brama di sesso e ipocrita devozione sul piano personale, potere (di vita e di morte) e Chiesa alleati contro il vento impetuoso della storia, che soffia dalla Francia napoleonica, sul piano generale.

UN SINISTRO PRODIGIO DI ARMONIA

Mentre riecheggia sinistramente l’inquietante motivo ricorrente di Scarpia (è un semplice prodigio di armonia: tre accordi maggiori perfetti ma di tonalità molto lontane fra loro, soluzione che qualche decennio più tardi sarà fatta propria dalla musica per il cinema e per sempre collegata all’apparizione dei malvagi), gli eventi della fatale giornata-nottata nella Roma del giugno 1800 si avvitano inesorabilmente su queste pulsioni nella cornice di uno storico sfacelo. Il tempo della narrazione e quello della rappresentazione quasi si sovrappongono. Non sopravvivrà nessuno.

LA CORNICE STORICA È SOLO UN PRETESTO

La cornice storica, peraltro, è niente più che un pretesto, nell’opera di Puccini, Illica e Giacosa. E la dimensione politica – in fondo, Cavaradossi diventa un attivista politico quasi per caso – sbiadisce al contatto con la devastante profondità psicologica di un melodramma la cui struttura a duetti è funzionale proprio a questo percorso nella passione, nell’abiezione e nella perdizione.

Maria Callas con il regista Franco Zeffirelli dopo il successo di Tosca al Convent Garden (Getty).

STALKING E VIOLENZA IN SCENA

Al centro, nel secondo atto, naturalmente c’è il terribile confronto fra il sadico Scarpia e la sua vittima predestinata, concupita lungamente e morbosamente: la più lunga, dettagliata, terrificante scena di stalking e di violenza sessuale nella storia dell’opera. Lui vuole a tutti i costi aggiungere la bella “cantatrice” all’elenco delle sue conquiste, ma non vuole il mellifluo consenso, si eccita con la conquista violenta. Del resto, è uno che in chiesa invece di pregare si accende pensando al momento in cui riuscirà a possedere la donna che desidera (atto I, Te Deum). Prima e dopo, sono i due appassionati amanti a costruire il percorso della tragedia e la temperatura emotiva dell’opera. Nel primo atto, amore incrinato dalla gelosia e poi rinsaldato, ma già inquinato da Scarpia, che alla fine potrà cantare: «Va’, Tosca, nel tuo cuor si annida Scarpia». Nel terzo atto, amore illuso e disperato, che viene distrutto e si autodistrugge. Sipario.

UN’OPERA CHE È CONFRONTO DI PSICOLOGIE

Tosca però è ben altro che un feuilleton tutto sangue e violenza, colpi di scena e amori disperati. È soprattutto un gigantesco, drammatico, devastante confronto di psicologie. La violenza è pervasiva, quasi una presenza ossessiva, tanto più lancinante in quanto materialmente il più delle volte resta fuori scena. E dunque, lungi dal rappresentare, come ancora talvolta si sostiene, il punto di maggiore avvicinamento di Puccini alla poetica del Verismo, che nell’ultimo decennio dell’Ottocento ha avuto in Italia la sua in fondo effimera ma vigorosa stagione, quest’opera costituisce il trionfo di una straordinaria e molto moderna artificialità teatrale.

Una foto di scena di Tosca a La Scala con la direzione di Lorin Mazel e la regia di Luca Ronconi (2006).

Il suo meccanismo drammatico non racconta qualche tranche de vie, possibilmente popolare, con naturalistica evidenza, ma inventa il vero, a partire dal plot creato da Sardou. È un gioco che va molto oltre la ricerca dell’effetto esteriore. La morbosità sadica di Scarpia è meccanismo drammaturgico ma anche struttura psicologica e scandalosa decorazione di gusto ormai prossimo al floreale: così, Tosca non è solo un frutto particolare del Decadentismo, ma realizza una modernità spesso sottovalutata proprio per la perfezione della sua artificialità.

SCELTE ARMONICHE INNOVATIVE E UNA SCRITTURA SONTUOSA

Ne è gran maestro un Puccini mai fino a quel momento così efficace nel costruire una partitura in grado di piegare idee musicali e logiche formali al graticcio letterario. Ciò avviene in virtù di scelte armoniche innovative, di una scrittura orchestrale sontuosa e mai di maniera, fra perorazioni di inedita spettacolarità e dettagli di minuziosa eleganza. Domina nella partitura una magistrale duttilità espressiva, che coinvolge anche la sempre seducente vena melodica del compositore lucchese, ma la riconduce alle esigenze drammaturgiche con straordinaria e a volte perfino ruvida efficacia, grazie alla complessa trama delle reminiscenze motiviche, di cui tutta l’opera è intessuta.

Il compositore Giacomo Puccini (1858 – 1924) (Getty Images).

UN ESEMPIO SCINTILLANTE DI TEATRO MUSICALE A OROLOGERIA

Il risultato è un melodramma che sembra ammiccare alla tradizione ma in realtà ne contrae violentemente i presupposti formali ed espressivi e arriva vicino a scardinarli senza però dare mai l’impressione di farlo davvero. Per questo, Tosca può sembrare un ennesimo trionfo della civiltà della Romanza. In realtà non per questo ci commuove e ci impressiona ogni volta, infallibilmente, ma perché è uno scintillante esempio di teatro musicale a orologeria: un meccanismo perfetto che certo offre anche una rassicurante dose di sentimentalismo, ma soprattutto schiude allo spettatore – in maniera mai prima così diretta e inquietante nel melodramma italiano – i recessi più oscuri dell’anima umana. Nel giro di un paio di decenni arriveranno Richard Strauss e Alban Berg, arriveranno Salome, Elektra e Wozzeck. Ma Tosca a buon diritto, come la critica più avvertita ha da tempo riconosciuto, può considerarsi la prima tappa di questo percorso nella modernità.

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La Genesi di Tosca, capolavoro di sangue e poesia

Dal dramma francese di Sardou al canovaccio di Illica e le liriche di Giacosa. La storia dell’opera di Puccini che apre la stagione della Scala. E che è una delle cinque più rappresentate al mondo.

È la prima volta che Tosca di Giacomo Puccini inaugura la stagione della Scala, il 7 dicembre. Sul podio Riccardo Chailly, regia di Davide Livermore, protagonisti il soprano Anna Netrebko (Floria Tosca), il tenore Francesco Meli (Cavaradossi) e il baritono Luca Salsi (Scarpia).

Il caso è singolare, perché si parla di una delle opere più applaudite di sempre, che infatti ha nel teatro del Piermarini una storia importante, scandita attraverso i grandi interpreti del XX secolo. E in fondo anche perché nelle intenzioni del compositore l’opera era destinata proprio alla Scala e al suo fido Arturo Toscanini che aveva allora poco più di 30 anni.

LA FORTUNA PLANETARIA DI UN’OPERA SENZA TEMPO

La prima assoluta si ebbe in realtà e non per caso al Teatro Costanzi di Roma (oggi Teatro dell’Opera), il 14 gennaio 1900: così volle l’editore Ricordi in considerazione della “romanità” del soggetto. E anche per ragioni promozionali. A Milano Tosca approdò due mesi più tardi, il 17 marzo, sull’onda di un grande successo. Nel giro di pochi anni sarebbe dilagata in Europa, quindi nelle Americhe e in Oriente. Era l’inizio di una fortuna planetaria, che non accenna a tramontare.

Negli ultimi 15 anni (dati di Operabase.com) è al quinto posto assoluto fra le opere più rappresentate, con 1.428 produzioni e 6.869 rappresentazioni. Vuol dire che dal 2004 in media è andata in scena un po’ più di una volta al giorno. E poi dicono che il melodramma è al tramonto. Dipende dal titolo, e dall’autore.

IL DRAMMA DI VICTORIEN SARDOU

L’idea di Tosca era venuta a Puccini nel 1889, dopo avere assistito a Milano alla rappresentazione dell’omonimo dramma di Victorien Sardou (scritto nel 1887) con la “mattatrice” Sarah Bernhardt nel ruolo principale. L’interesse del compositore fu immediato, la causa di questo interesse resta misteriosa, a meno di non voler fare ricorso a categorie poco estetiche e molto psicologiche (e spesso anche molto banalizzate) come l’intuito o l’istinto creativo.

Il compositore Giacomo Puccini (1858 – 1924) (Getty Images).

Lo spettacolo si teneva infatti in lingua originale francese e il musicista non capì granché del dialogo, anche se è vero che l’arte di Bernhardt era largamente affidata alle sfumature della voce e al gesto. Ma soprattutto, la pièce di Sardou era (ed è) un drammone di cornice storica, improntato dal gusto per il coup de théâtre sanguinoso, che si dipana per cinque lunghi atti fra innumerevoli divagazioni in molteplici ambientazioni sceniche, popolato da una folla di 23 personaggi. Qualcosa di sideralmente lontano dalla tagliente concentrazione drammatica che è carattere fondante dell’opera.

L’EFFICACE ADATTAMENTO DI ILLICA

Dato atto della rabdomantica capacità di Puccini di “sentire” le potenzialità melodrammatiche del testo di Sardou, bisogna aggiungere che all’iniziale clic scattato nella mente del compositore seguì una lunga fase di dubbi e d’incertezza, anch’essa del resto caratteristica dei suoi complessi percorsi creativi. Intanto, la Casa Ricordi – su richiesta del musicista – aveva acquisito i diritti del testo e Luigi Illica ne aveva realizzato rapidamente una straordinaria sintesi, una “tela” efficacissima (oggi potremmo dire un adattamento) che riduceva gli atti da cinque a tre, lasciando Tosca, Scarpia e Cavaradossi praticamente soli a delineare il plot, con solamente due altri personaggi di qualche significato nel contorno (il sagrestano e lo sbirro Spoletta). Il resto delle invenzioni di Sardou svaniva, salvo il grand-guignol (morti ammazzati o suicidi) e l’ambientazione romana che diventava però elemento ben diversamente caratteristico nella sua specificità anche topografica.

La chiesa di Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo: tutto si svolge in un triangolo di poche centinaia di metri nel cuore della Capitale. In questi luoghi, uno per atto, la storia inizia all’ora dell’Angelus (mezzogiorno) per concludersi all’alba successiva, fra il 17 e il 18 giugno 1800. I papisti credono che Napoleone sia stato sconfitto a Marengo e invece è accaduto il contrario; il feroce capo della polizia va a caccia di prigionieri politici evasi e cerca intanto di soddisfare la sua “foia libertina” nei confronti di una cantatrice famosa, con il condimento sadico di torture a un pittore volterriano, che di lei è l’amante

L’AFFIDAMENTO DELL’OPERA A PUCCINI

Tornando alla genesi dell’opera, mentre Puccini si dedicava ad altro (e che altro: Manon Lescaut e Bohème), Tosca – soggetto che lo stesso Verdi apprezzava, avendolo conosciuto durante un incontro con Illica e Sardou a Parigi – fu affidata dall’editore Ricordi a un bravo compositore della sua scuderia, Alberto Franchetti. La prassi all’epoca non era infrequente. Semmai, era decisamente raro che poi un soggetto “tornasse a casa” come avvenne con Tosca, riaffidata dopo la spontanea (o forse “spintanea”) rinuncia di Franchetti a un Puccini stavolta entusiasta dell’impresa. Era l’estate del 1895, di lì a pochi mesi avrebbe debuttato La Bohème. A Illica venne affiancato Giuseppe Giacosa, per la rifinitura poetica di un libretto che è quasi tutto in versi. Il famoso letterato e drammaturgo doveva risultare uno dei più accesi critici del soggetto, ma i suoi tentativi di sfilarsi dall’impresa vennero sempre respinti, segno che la sua polemica collaborazione era ritenuta fondamentale.

Una foto di scena di Tosca a La Scala con la direzione di Lorin Mazel e la regia di Luca Ronconi (2006).

I DUBBI DI GIUSEPPE GIACOSA

Giacosa imputava alla trama di contenere troppi fatti e pochi sentimenti e di essere per questo inadatta a diventare melodramma. Contestava non senza qualche motivo il fatto che il finale del primo atto e l’inizio del secondo fossero entrambi caratterizzati da un monologo di Scarpia. Pensava che la successione di duetti mettesse a rischio l’equilibrio del melodramma. Cercava luoghi dove fare poesia e stimolare la musa lirica pucciniana, com’era avvenuto con risultati memorabili in Bohème. Non capiva la diversità di Tosca, né poteva immaginare che Puccini stesse preparando una virata radicale rispetto allo stile e al clima dell’opera ambientata a Parigi, ma alla fine si adattò. E facendolo ha consegnato alla letteratura italiana alcuni dei più seducenti versi per musica scritti fra Otto e Novecento.

Luciano Pavarotti nella Tosca (1979-1980).

Il libretto di Tosca è infatti un capolavoro per il capolavoro: nitido e tagliente, lirico e brutale, funzionale come meglio non si potrebbe alla drammaturgia musicale pucciniana. Una miniera di versi memorabili fra i quali il musicologo Mario Bortolotto amava spesso citare quello di Cavaradossi nel primo atto, nel quale proclamava esserci la più brillante avversativa della letteratura italiana: «È buona la mia Tosca, MA credente». 

LA PASSIONE DI MONTALE PER TOSCA

Oltre la boutade colta, questo è però anche un libretto insospettabilmente denso proprio sul piano della poesia. Non a caso, è stato una sorta di riferimento non solo ideale ma molto pratico e preciso per uno dei maggiori poeti italiani del XX secolo, Eugenio Montale.

Il trionfo di Maria Callas nella Tosca al Covent Garden di Londra. Accanto a lei Tito Gobbi e Renato Cioni (LaPresse).

In numerosi passai dell’opera del Nobel per la Letteratura, soprattutto nella sua prima fase, gli studiosi hanno trovato agganci e vere e proprie citazioni del testo di Giacosa. Montale fu anche critico musicale, come è ben noto, e in gioventù aveva accarezzato l’idea di una carriera da cantante lirico. «Come baritono», raccontò una volta il poeta al suo biografo Giulio Nascimbeni, «mi attraeva la figura di Scarpia nella Tosca. Vedo che in genere lo fanno tutti male. Non gli danno il tono del gran signore, lo trasformano in una specie di sceriffo austriaco…». Ancora qualche giorno, e si potrà capire se questa Tosca sarebbe stata nelle corde di Eugenio Montale.

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Una mostra celebra i palchi della Scala di Milano

Al museo del Teatro un’esposizione racconta le storie dei proprietari di quei piccoli salotti che hanno accolto anche la regina Elisabetta e Lady D.

«Piove, nevica fuori dalla Scala? Che importa/Tutta la buona compagnia è riunita in centottanta palchi del teatro», scrive Henri Beyle, Stendhal, in quel 1816 del suo viaggio più glorioso e felice in Italia, ricco di soste e ritorni nella città che preferiva a Parigi, e cioè Milano. Ogni sera, correva al Teatro alla Scala, il palcoscenico nel palcoscenico in cui vedeva rappresentata non solo tutta la buona società locale, ma la messa in scena quotidiana della vita della città, dei suoi amori e dei suoi affari. La storia dell’industriale Ziliani che si innamora della bella dama Gina, fedifraga patentata, è da leggere; un romanzo in nuce, se mai avrete tempo di scorrere quelle note, ma il motivo per cui ne scriviamo oggi è che questo breve aforisma inaugura, come un viatico, anche la mostra Nei palchi della Scala. Storie milanesi aperta l’8 novembre 2019 nel Ridotto della Scala curata da Pier Luigi Pizzi con l’intima grandeur che gli è propria (e non sembri un ossimoro, perché non lo è).

PREVISTO ANCHE UN DATABASE ONLINE

L’esposizione si inserisce in un lungo progetto di ricerca che ha unito il Teatro al Conservatorio G.Verdi e alla Biblioteca Braidense nella realizzazione di uno studio sui palchi e i palchettisti dal 1778, anno di apertura della sala che sostituiva il Regio bruciato poche stagioni prima fino al 1920, ultimo anno in cui quelle salette affacciate sul palcoscenico conservarono la proprietà privata (l’affitto non era uso, l’esproprio si rese necessario per dare nuovo ossigeno finanziario). Disponibili a chiunque sia interessato in un database online a partire dal 7 dicembre, i risultati della ricerca sono già ora visibili all’interno della mostra, ed è straordinario vedere come tutti, ma proprio tutti, cerchino nomi noti, documenti. E in un certo senso è come se stessimo insieme con i Trivulzio, i Litta, i Belgiojoso (straordinario il numero delle donne proprietarie di palchi: 308 su 1223 nomi finora censiti) i Visconti, le cui narrazioni personali si intrecciano con quelle dei patrioti italiani. E attenzione al palco numero 5, I ordine settore destro, più vicino al proscenio, detto appunto “il palco dei patrioti”: di proprietà di Vitaliano Bigli, uno dei tre cavalieri delegati a trattare a nome della Società dei Palchettisti con l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian e il regio architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione della Scala e della Cannobbiana, venne occupato dal pronipote Federico Confalonieri, patriota del partito degli “Italici puri” coinvolto nei moti del 1820-21 e fondatore del “Conciliatore” con Giovanni Berchet, Silvio Pellico e Luigi Porro Lambertenghi). 

OMAGGI A CURIEL, MONTALE, FRACCI E TOSCANINI

Una mostra costruita per suggestioni che al primo piano si apre con la doppia rappresentazione fotografica dello spettacolare (è proprio il caso di dirlo) abito da sera dedicato qualche stagione fa da Raffaella Curiel alla Prima del 7 dicembre di cui la sua famiglia veste buona parte delle ospiti dagli Anni ’50. L’esposizione avvolge poi il visitatore con le molte “quinte fotografiche” bellissime di Giovanni Hanninen, vere catapulte visive ad effetto tridimensionale nell’atmosfera del teatro, spettacolo della vita prima della sua rappresentazione. Lo scopo è proprio questo: avvolgere. Proteggere. Rafforzare il senso di sicurezza e di orgoglio di chi ne varca le porte di ispirazione neoclassica con le pigne beneauguranti sui maniglioni: «Un forte legame di identificazione culturale e civile», come lo definisce il sindaco Giuseppe Sala. In un montaggio fotografico ideale e fantastico dei quattro ordini, curatori e fotografo hanno inserito i volti di Eugenio Montale, grande baritono mancato (Indro Montanelli ha lasciato traccia della prima esibizione a cui assistette, nella redazione del Corriere della Sera), di Carla Fracci e Valentina Cortese, Wally e Arturo Toscanini, Anna Crespi, Vittoria Crespi Morbio e Nandi Ostali, il Quartetto Cetra del “vecchio palco della Scala”. E c’è anche Liliana Segre, tesoro protetto dalla città e forse non abbastanza dal Paese. Nella mattina di pioggia in cui la direttrice del Museo Teatrale alla Scala, Donatella Brunazzi, ha evocato Stendhal con il senso di protezione e di ristoro, di oasi, che il teatro milanese offre ai suoi visitatori, era seduta in prima fila e le era appena stato assegnata la scorta per proteggerla, lei sopravvissuta ad Auschwitz, dagli insulti e dalle minacce di morte della feccia che, sarà pure minoritaria come dice qualcuno ma in questa Italia, in questo momento, ha trovato l’humus per crescere e l’atmosfera per spandere il proprio olezzo di marciume. La senatrice era serena e garbata come sempre. Ma noi ci siamo sentiti immensamente grati di trovarci lì, in quella mattina di pioggia, asciutti e al sicuro, in mezzo alla compagnia dove tornava sempre anche Stendhal, in attesa che Napoleone, il suo generale che non gli piaceva più da tempo, scomparisse per sempre.

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