I club si sono accordato sull’ex manager nominato con 12 voti a favore anche grazie al quorum più basso.
Paolo Dal Pino è il nuovo presidente della Lega Serie A. È stato eletto dall’assemblea dei venti club con 12 voti, uno in più della maggioranza semplice richiesta dopo due assemblee elettive andate a vuoto. Dal Pino aveva già sfiorato la nomina nella seconda assemblea elettiva, lo scorso 16 dicembre, raccogliendo nei tre scrutini 13 e 12 voti, fra cui quelli di Roma, Lazio, Milan e Genoa.
ELETTO GRAZIE ALL’ABBASSAMENTO DEL QUORUM
Con l’abbassamento del quorum questa volta 12 sono bastati per essere eletto. Una scheda è stata lasciata bianca e altri 7 voti sono andati a Gaetano Miccichè, che si era dimesso dalla presidenza della Lega il 19 novembre dopo l’inchiesta della Procura federale sulla sua elezione, e che è stato candidato poco prima del voto dal presidente del Torino Urbano Cairo.
UN PASSATO NELL’INDUSITRA DELLA COMUNICAZIONE
Milanese, classe 1962, Dal Pino ha iniziato la sua carriera di manager nel 1986 in Fininvest, ricoprendo poi ruoli di vertice fra editoria e telecomunicazioni, in Mondadori, Kataweb del gruppo Espresso, Telecom, Seat Pg, Pirelli e Wind.
I DUBBI DI MAROTTA SUL VOTO
La nomina di Dal Pino non ha però trovato l’intesa di tutti i club, come hanno dimostrato le parole dell’ad dell’Inter, Giuseppe Marotta, dopo l’elezione: «L’elezione», ha spiegato, «è avvenuta a mio giudizio in modo abbastanza improvvisato. Noi grandi contestavamo il metodo con cui si è arrivati all’elezione, non certo la persona, perché Dal Pino rappresenta un manager importante ma ci pareva giusto poterci confrontare con lui per ascoltare il suo programma. Non abbiamo condiviso questa scelta e abbiamo espresso il nostro voto».
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Juventus-Lazio si gioca a Riad dopo il precedente con polemiche di Gedda. Ma l’indignazione (anche se ipocrita) della scorsaprecedente edizione è svanita. Eppure l’Arabia è sempre lo stesso Paese che calpesta i diritti umani. La Lega Serie A tira dritto e pensa ai guadagni.
Lo stadio dell’Università Re Sa’ud è pronto. Domenica 22 dicembre 2019 alle 17.45 (ora italiana) Riad ospita la Supercoppa italiana, per la seconda volta consecutiva in Arabia Saudita dopo il precedente di Gedda. E se a fine 2018 la vigilia della partita tra Juventus e Milan fu accompagnata da una lunga serie di polemiche, stavolta Juventus e Lazio si apprestano a vivere la loro sfida nel silenzio generale. L’indignazione che nemmeno 12 mesi prima si era sollevata per la scelta di andare a giocare in uno dei Paesi che più calpesta i diritti umani sembra svanita nel nulla.
ATTIVISTE FEMMINISTE IN CARCERE
Eppure l’Arabia Saudita è sempre l’Arabia Saudita, in un anno non è cambiato poi granché. È vero, le donne ora possono viaggiare e guidare un’auto, ma continuano ad aver bisogno del permesso di un tutore maschio per sposarsi, andare a scuola e ottenere un passaporto. Intanto le attiviste femministe continuano a essere chiuse in carcere, dove le pratiche che violano i diritti umani continuano a essere perpetrate. Gli arresti arbitrari sono ancora all’ordine del giorno, come quello di Anas al-Mazrou, professore della stessa università che dà il nome allo stadio in cui si giocherà Juventus-Lazio, che nel marzo 2019 è finito in cella per aver parlato in pubblico a sostegno degli attivisti per i diritti delle donne detenute.
LA SCALA E QUEL CONTRATTO STRACCIATO
Sempre a marzo, sull’onda lunga dell’indignazione per quella Supercoppa a cui le donne avrebbero avuto accesso soltanto in un settore speciale riservato a loro, occupante il 15% dello stadio, il Teatro alla Scala stracciò il contratto che portava all’ingresso nel consiglio d’amministrazione della sua Fondazione del governo saudita. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala annunciò la rinuncia a 15 milioni di euro in tre anni e la restituzione dei 3 già versati come acconto dagli arabi alla Fondazione. La Lega Serie A, per giocare la Supercoppa a Riad, di milioni ne prende esattamente la metà, 7,5 per tre edizioni, 2,5 l’anno, ma non ha mai pensato di poter rinunciare a una cifra che in realtà non sposta poi di molto il bilancio complessivo dei club partecipanti (a cui va il 90% della somma) e del calcio italiano in generale (alla Lega resta appena il 10%, 750 mila euro).
POLITICA DI ESPORTAZIONE PER LA SERIE A
Nemmeno l’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista saudita per il Washington Post, fortemente critico nei confronti del governo di Re Salman, torturato e massacrato nella sede del consolato arabo a Istanbul nell’ottobre del 2018, riuscì a cambiare lo stato delle cose. D’altra parte la Serie A aveva già intrapreso da anni la sua politica di esportazione della Supercoppa, con nove edizioni giocate all’estero prima di quella del gennaio 2019, spesso in Paesi non proprio celebri per il rispetto dei diritti umani (oltre a due negli Stati Uniti, se ne sono giocate infatti tre in Cina, due in Qatar e una Libia nel 2002, quando il Paese era ancora sotto il governo di Gheddafi, i rapporti del rais con Silvio Berlusconi erano ben oltre la semplice cordialità, e il figlio di Mu’ammar, Saadi, era appena diventato azionista della Juventus. In quelle edizioni la Lega guadagnò ancora meno dei 7,5 milioni che prende dall’Arabia Saudita: lo fece, piuttosto, per provare a rendere più globale il prodotto calcio italiano, ma verosimilmente anche in quanto strumento di diplomazia e geopolitica internazionale.
CONTINUIAMO A VENDERE ARMI AI SAUDITI
L’Italia che non vuole i sauditi alla Scala è la stessa che continua a vendere loro armi per la guerra contro lo Yemen, le bombe fabbricate in Sardegna dalla tedesca Rwm, ma non solo. Secondo la relazione annuale sulla vendita di armi verso paesi stranieri che il governo ha presentato in parlamento a giugno, solo nel 2018 l’Italia ha spedito a Riad 108 milioni di euro in armamenti. Il calcio, insomma, non è che lo specchio di un Paese ipocrita che continua a fare affari e siglare intese con uno Stato da cui a parole prende le distanze.
GERMANIA E FRANCIA HANNO REAGITO
Eppure una via diversa è possibile. L’ha indicata la Federcalcio tedesca nel decidere che la Germania non avrebbe più giocato amichevoli contro nazionali di Paesi in cui non vige la parità di genere. L’ha fatto, in parte, anche la Spagna, dove all’indignazione per un accordo della Liga del tutto analogo a quello concluso dalla Serie A (la Supercoppa di Spagna si gioca a Gedda per tre edizioni in un nuovo formato che prevede un quadrangolare) è seguita la netta presa di posizione della tivù di Stato, la Tve, che ha deciso di non trasmettere gli incontri sui suoi canali. La Figc, invece, si è limitata a invitare al Barbera di Palermo, per la partita tra Italia e Armenia del 18 novembre, una delegazione di donne iraniane, costrette ancora a forti limitazioni all’accesso agli stadi nel loro Paese.
L’ITALIA FATICA PURE CON L’ANTI-RAZZISMO
La Serie A, però, non cambia idea. E dopo essersi mossa goffamente e con estremo ritardo sul fronte della lotta al razzismo negli stadi, sembra del tutto sorda agli appelli per il rispetto dei diritti umani in Arabia Saudita. Con buona pace di Kashoggi, della parità di genere, del rispetto dei diritti umani. Che evidentemente contano meno di una manciata di milioni e dell’esportazione di un brand che persino Cristiano Ronaldo fa fatica a risollevare a livello globale.
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La vita da imprenditore. L’inchiesta poi archiviata. L’acquisto del club da Cellino. Il rapporto controverso con la tifoseria, che lo tratta da straniero. Nonostante il quarto posto in classifica. Una storia di odi et amo.
Il milanese. Così, a Cagliari, chiamano Tommaso Giulini. E non lo dicono in senso neutro. Lo fanno proprio per togliergli qualcosa. Il sardo è particolare, cresce educato all’idea che l’ospite è sacro ma è anche estremamente geloso e protettivo della sua appartenenza culturale. Lo straniero è straniero e tale rimane, può essere ospite, appunto, e in quanto tale deve essere trattato con grande gentilezza. Se si incontra un forestiero per strada, nei paesi, lo si accompagna al bar e gli si offre da bere, si cumbida, come dicono nell’isola. Fil’e ferru, mirto, Ichnusa. Rigorosamente qualcosa di alcolico, perché «s’abba», l’acqua, da quelle parti si dà «a is froris», ai fiori. Però forestiero rimane, a meno che non si chiami Gigi Riva. Allora in quel caso cambia tutto.
L’IMPRENDITORE VENUTO DAL CONTINENTE (CON UNA MACCHIA NERAZZURRA)
Giulini è il presidente del Cagliari dall’estate del 2014, quando acquistò la società da Massimo Cellino dopo 22 anni di gestione sostanzialmente ininterrotta (eccezion fatta per una brevissima finestra in cui Cellino lasciò la presidenza a Bruno Ghirardi ed emigrò in Florida, continuando comunque a essere il proprietario della società) e, soprattutto, al termine di mesi di bufale e panzane che si rincorsero in città sull’arrivo degli emiri e su una fantomatica cordata americana misteriosa e anonima con grandi progetti per club e stadio nuovo rappresentata dal mitomane Luca Silvestrone. Giulini pagò in primis il peccato originale di rappresentare il risveglio dall’illusione. Il pubblico di Cagliari, che aveva fatto la bocca a scenari in stile Manchester City, si ritrovò con un imprenditore venuto dal Continente, semi sconosciuto, i cui unici legami con il calcio erano legati al fallimento del fratello col Bellinzona e una sua esperienza nel consiglio d’amministrazione nell’Inter. Eccola, l’altra colpa di Giulini: essere interista, un marchio a fuoco sulla pelle che ancora oggi non riesce a levarsi di dosso.
UN CAMPIONATO DA RECORD, MA LA DIFFIDENZA DEI TIFOSI RESTA
Persino ora, che la squadra è quarta in classifica dopo 15 giornate e appare decisamente difficile criticarne la gestione, c’è chi gli rinfaccia di aver “regalato” Nicolò Barella alla sua squadra del cuore. E pazienza se in realtà l’Inter Barella l’ha pagato 45 milioni (bonus inclusi) e se la fumata bianca è arrivata al termine di un lungo tira e molla in cui Giulini non ha ceduto di un millimetro alle sue richieste iniziali. Pazienza persino se quei 45 milioni sono stati quasi integralmente reinvestiti per acquistare Marko Rog, Nahitan Nandez e Giovanni Simeone e pagare l’ingaggio di Radja Nainggolan.
C’è pure chi ancora si ostina a chiamarlo “tanalla”, una parola che nel cagliaritano indica una persona poco incline a spendere il proprio denaro. “Giulini tanalla” è un urlo che va avanti da quella dannata prima stagione in cui Giulini sognatore avrebbe lasciato spazio al presidente pragmatico dopo una rincorsa al calcio spettacolo iniziata con la faccia di Zdenek Zeman sugli autobus della municipalizzata Ctm e terminata con il Cagliari terzultimo e retrocesso in Serie B. “Tanalla” è l’equivoco che nasce dagli atteggiamenti oculati di un presidente che non spende un euro più di ciò che ha in cassa, che come ha dichiarato in una recentissima intervista a Vanity Fair cerca «la sostenibilità, la stabilità, la serietà».
LA GESTIONE DI FLUORSID E L’INCHIESTA PER DISASTRO AMBIENTALE
Rampollo di una delle più grandi dinastie industriali in Italia nel settore della produzione e lavorazione dell’alluminio, proprietario del gruppo Fluorsid che ha la sua sede nell’area industriale di Macchiareddu, alle porte di Cagliari, Giulini dice di aver deciso di diventare presidente del club «per restituire qualcosa a un territorio dal quale la mia famiglia ha ricevuto tantissimo». Nel 2005, con l’azienda alle prese con la forte concorrenza cinese, decise di sua sponte, all’insaputa del padre, di varare in totale autonomia un aumento di capitale che salvò numerosi posti di lavoro nell’isola. Nel 2017 il suo nome finì tra i faldoni di un’inchiesta per inquinamento e disastro ambientale per smaltimento di scarti di produzione in un’area di 20 ettari antistante il polo produttivo. La vicenda si è conclusa nel luglio scorso con il patteggiamento di 11 indagati, dirigenti a vari livelli dell’impresa, ma Giulini ne era già uscito pulito da tempo: la sua posizione venne immediatamente stralciata e archiviata in quanto estraneo ai fatti, e l’azienda si è fatta carico di un piano da 20 milioni per la completa bonifica dell’area.
QUELLA PROMESSA CHE STRIZZA L’OCCHIO ALLA PROFEZIA
Il Giulini di oggi è profondamente diverso dal Giulini di qualche anno fa, diverso da quando giocava in porta e si buttava sui piedi degli attaccanti nelle categorie inferiori, diverso da chi l’ha preceduto alla guida del Cagliari. È uomo di equilibrio, nelle scelte societarie e nelle uscite pubbliche, così distante dallo stile che fu di Cellino. Dopo quella prima stagione già citata, ha tenuto lo stesso allenatore, Massimo Rastelli, per due anni e mezzo, e ora si trova alla seconda stagione con Rolando Maran. Non prende scelte avventate, ragiona e pondera, non si lascia influenzare dal sentimento popolare che circonda la squadra.
Nel 2014 Giulini promise un nuovo stadio e la Champions League per il centenario del club, fondato nel maggio del 1920
Eppure continua a camminare in bilico sul filo che divide il sogno dal pragmatismo, come se fosse il protagonista, o meglio ancora l’autore, di un romanzo che fa eco al realismo magico di Marquez o Borges. Quando arrivò nel 2014 promise un nuovo stadio e la Champions League per il centenario del club. Il Cagliari è stato fondato nel maggio del 1920 e, mentre la data fatidica si avvicina, ciò che resta del Sant’Elia semi distrutto osserva placido il piccolo impianto temporaneo della Sardegna Arena. E lo stadio nuovo rimane ancora solamente su carta, ben lontano dall’essere realizzato. In compenso la squadra è quarta in classifica, non perde da 13 partite, ha il terzo attacco del campionato e un brasiliano – Joao Pedro – che ha segnato 10 gol nelle prime 15 giornate, eguagliando il record di Riva.
GIULINI RESTA “IL MILANESE” E “LA TANALLA”
Giulini, però, continua a essere “il milanese”, l’interista, per qualcuno, nonostante tutto, addirittura “la tanalla”. Non si è mai trasferito a Cagliari e non ha intenzione di farlo, preferisce osservare la sua creatura da lontano e godersi il momento nella tranquillità che lui e la sua famiglia si sono costruiti “nel Continente”. E non se la prende se tanti sardi provano nei suoi confronti ancora un sentimento di diffidenza. Lui, col tempo, ha imparato a conoscerli e apprezzarli per ciò che sono. Chissà che un giorno non possa essere pienamente ricambiato.
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Il quotidiano pubblica una lettera offensiva di un lettore. E Cucci risponde senza prendere le distanze. L’allenatore non parla coi giornalisti.
Colpirne centro per educarne uno. A due settimane di distanza dalla polemica sul titolo Black Friday su Romelu Lukaku e Chris Smalling, per cui l’Inter non aveva preso provvedimenti a differenza di Roma e Milan, la conferenza stampa dell’allenatore Antonio Conte viene annullata a causa di una lettera pubblicata dal Corriere dello Sporte alla risposta di Italo Cucci, entrambe ritenute «offensive» nei confronti dell’allenatore. «Ieri», scrive la nota, «dal Corriere dello Sport è stata pubblicata una lettera offensiva nei confronti del nostro allenatore, giustificando l’aggressione nel commento».
CONTE DEFINITO «ESAURITO»
Il 13 dicembre il quotidiano sportivo romano ha dedicato mezza pagina all’eliminazione dell’Inter dalla Champions League e pubblicato, nella pagina dedicata ai lettori, una mail di un tifoso del Bologna che contesta Conte offendendolo: «Godo nel vedere la Grande Inter surclassata dal Barcellona B che ha fatto vedere come si gioca a pallone a quell’esaurito del suo allenatore». Il tifoso ha contestato la «beatificazione» dell’allenatore nerazzurro che «nella sua carriera nonostante le vittorie, non ha mai fatto vedere un bel gioco» e «si è lamentato della campagna acquisti».
CUCCI RINCARA LA DOSE SU ICARDI
La risposta di Italo Cucci non ha certo gettata acqua sul fuoco: «Alla sua cattiveria aggiungo la mia che sono disposto a far diventare un tormentone: quando confesseranno, dirigenti (anche amici) e tifosi dell’Inter che senza Icardi hanno buttato via la Champions e forse anche il resto? Slogan: No Icardi, no party». L’Inter quindi, con un comunicato, ha annunciato l’annullamento della conferenza stampa della vigilia di Fiorentina-Udinese a pochi minuti dall’orario d’inizio con i giornalisti convenuti ad Appiano Gentile.
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I gol di Lasagna e Zielinsky. Mentre Atalanta Verona termina 3 a 2 con un gol di Djimsit al 93esimo.
Dopo il 3 a 2 dell’Atalanta sul Verona, grazie alla rete al 93esimo di Djimsiti, che permette alla Dea di restare in zona Champions, Udinese-Napoli finisce 1 a 1 al Friuli Dacia Arena. Gli uomini di Luca Gotti si portano in vantaggio al 32′ con un diagonale di Lasagna servito da un assist in profondità di Fofana. Il Napoli evita la sconfitta solo nella ripresa con il gol di Zielinski: sinistro dal limite che coglie di sorpresa Musso, immobile tra i pali.
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Dopo il ko con il Bologna, l’allenatore aveva accusato i giocatori di non impegnarsi abbastanza. I partenopei sono settimi in classifica, sempre più lontani dalla zona Champions.
Il Napoli in ritiro. Questa volta la decisione non è della società, ma dell’allenatore Carlo Ancelotti. La squadra sarà in ritiro da mercoledì 4 dicembre fino al match con l’Udinese, in programma sabato 7. Ancelotti lo ha comunicato nel corso dell’allenamento del lunedì, dopo la sconfitta per 2-1 al San Paolo contro il Bologna. Il mister azzurro, che in occasione del ritiro di inizio novembre – poi non rispettato dalla squadra – s’era detto in disaccordo con la società, questa volta ha scelto di usare il pugno duro contro i giocatori che, nell’immediato post partita col Bologna, aveva accusato di non impegnarsi al massimo.
IL J’ACCUSE DI ANCELOTTI DOPO IL KO COL BOLOGNA
«Io mi prendo la maggior parte delle responsabilità», le parole a caldo di Ancelotti, «ma anche i giocatori si devono sentire responsabili: in campo ci vanno loro e devono provare a mettere sempre la stessa intensità come collettivo. Non ce la stanno mettendo tutta o lo fanno solo in parte». La squadra, secondo l’allenatore, «non riesce a mantenere un livello di attenzione e applicazione con continuità in campionato, cosa che invece riesce a fare in coppa. Per questo se venerdì si è parlato e si sono chiarite alcune cose, ora si apre un discorso nuovo tra me e la squadra. Sentirsi in discussione è il minimo, ma ne siamo tutti coinvolti al 100%: questo momento è durato troppo, ora deve finire velocemente, perché obiettivamente stiamo facendo troppo male. Se penso alla passata stagione siamo meno fluidi e efficaci, la costruzione sempre un po’ arruffata. Vedo che, quando incide l’aspetto caratteriale e di sacrificio, si pareggia con il Liverpool; ecco, il problema è stare lì al 100% con la testa, so che non è facile, ma bisogna esserci. Chi va in campo deve fare qualcosa di più».
LA ZONA CHAMPIONS È LONTANA OTTO PUNTI
La classifica vede il Napoli settimo, con soli 20 punti in 14 partite (frutto di cinque vittorie, cinque pareggi e quattro sconfitte) e la zona Champions che si allontana sempre più: la Lazio, terza, è a +10, e la Roma, quarta, a +8.
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Dopo il ko con il Bologna, l’allenatore aveva accusato i giocatori di non impegnarsi abbastanza. I partenopei sono settimi in classifica, sempre più lontani dalla zona Champions.
Il Napoli in ritiro. Questa volta la decisione non è della società, ma dell’allenatore Carlo Ancelotti. La squadra sarà in ritiro da mercoledì 4 dicembre fino al match con l’Udinese, in programma sabato 7. Ancelotti lo ha comunicato nel corso dell’allenamento del lunedì, dopo la sconfitta per 2-1 al San Paolo contro il Bologna. Il mister azzurro, che in occasione del ritiro di inizio novembre – poi non rispettato dalla squadra – s’era detto in disaccordo con la società, questa volta ha scelto di usare il pugno duro contro i giocatori che, nell’immediato post partita col Bologna, aveva accusato di non impegnarsi al massimo.
IL J’ACCUSE DI ANCELOTTI DOPO IL KO COL BOLOGNA
«Io mi prendo la maggior parte delle responsabilità», le parole a caldo di Ancelotti, «ma anche i giocatori si devono sentire responsabili: in campo ci vanno loro e devono provare a mettere sempre la stessa intensità come collettivo. Non ce la stanno mettendo tutta o lo fanno solo in parte». La squadra, secondo l’allenatore, «non riesce a mantenere un livello di attenzione e applicazione con continuità in campionato, cosa che invece riesce a fare in coppa. Per questo se venerdì si è parlato e si sono chiarite alcune cose, ora si apre un discorso nuovo tra me e la squadra. Sentirsi in discussione è il minimo, ma ne siamo tutti coinvolti al 100%: questo momento è durato troppo, ora deve finire velocemente, perché obiettivamente stiamo facendo troppo male. Se penso alla passata stagione siamo meno fluidi e efficaci, la costruzione sempre un po’ arruffata. Vedo che, quando incide l’aspetto caratteriale e di sacrificio, si pareggia con il Liverpool; ecco, il problema è stare lì al 100% con la testa, so che non è facile, ma bisogna esserci. Chi va in campo deve fare qualcosa di più».
LA ZONA CHAMPIONS È LONTANA OTTO PUNTI
La classifica vede il Napoli settimo, con soli 20 punti in 14 partite (frutto di cinque vittorie, cinque pareggi e quattro sconfitte) e la zona Champions che si allontana sempre più: la Lazio, terza, è a +10, e la Roma, quarta, a +8.
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I 20 club hanno firmato un documento in cui si impegnano a combattere la discriminazione. Ma spesso sono i primi a sminuire gli episodi che avvengono nelle loro curve.
Dalla Juventus al Verona, dal Napoli all’Atalanta, dalla Roma all’Inter e via dicendo, i 20 club di serie A uniti contro il razzismo che nelle ultime settimane è tornato prepotentemente protagonista sui campi di calcio. Dagli insulti a Lukaku a quelli a Balotelli, il mondo del calcio si interroga e decide di affrontare il tema in prima persona facendo anche seguito alla proposta del presidente della Figc, Gabriele Gravina, per il progetto dei pannelli acustici che potranno individuare così i responsabili di cori e insulti razzisti durante le partite. «La Lega Serie A sta lavorando sodo su questo tema, ed è pronta a guidare la lotta al razzismo all’interno e all’esterno degli stadi», ha sottolineato l’ad della Lega di A, Luigi De Siervo. I 20 club di serie A hanno condiviso oggi, sui propri siti ufficiali, una lettera aperta «a tutti coloro che amano il calcio italiano per chiedere aiuto nel combattere il razzismo».
IL DOVEROSO MEA CULPA DELLE SQUADRE
Un documento con cui si impegnano «pubblicamente a fare meglio», chiedendo «una efficace policy contro il razzismo, con nuove leggi e regolamenti». La lettera inizia con un’ammissione di colpa: «Dobbiamo riconoscere che abbiamo un serio problema con il razzismo negli stadi italiani e che non l’abbiamo combattuto a sufficienza nel corso di questi anni». Un mea culpa doveroso, soprattutto dal momento che i club spesso e volentieri sono i primi a non voler ammettere o a sminuire episodi di razzismo quando questi accadono tra le loro tifoserie. «Anche in questa stagione, le immagini del nostro calcio, in cui alcuni giocatori sono stati vittime di insulti razzisti, hanno fatto il giro del mondo, scatenando ovunque dibattito», prosegue la lettera pubblicata dai club sui rispettivi siti, «è motivo di frustrazione e vergogna per tutti noi. Nel calcio, così come nella vita, nessuno dovrebbe mai subire insulti di natura razzista. Non possiamo più restare passivi e aspettare che tutto questo svanisca».
«DESIDERIO DI SERI CAMBIAMENTI»
«Su spinta degli stessi club, nelle ultime settimane, è stato avviato un confronto costruttivo con Lega Serie A, Figc ed esperti internazionali su come affrontare e sradicare questo problema dal mondo del calcio», si sottolinea quindi nel documento, «noi, i club che sottoscrivono questa lettera, siamo uniti dal desiderio di seri cambiamenti e la Lega Serie A ha dichiarato la sua intenzione di guidare questo percorso attraverso una solida e completa politica anti-razzismo in Serie A, con nuove leggi e regolamenti più severi, assieme a un piano di sensibilizzazione mirato per tutti coloro che sono coinvolti in questo sport riguardo al flagello del razzismo».
«NON C’È PIÙ TEMPO DA PERDERE»
«Non abbiamo più tempo da perdere», conclude la lettera, «dobbiamo agire uniti con rapidità e determinazione, e così faremo di qui in avanti. Ora più che mai il contributo e il sostegno di tutti voi, tifosi dei nostri club e del calcio italiano, sarà fondamentale in questo sforzo di vitale importanza».
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Negli anticipi di Serie A, bianconeri e nerazzurri vincenti con Atalanta e Torino. Mentre tra Milan e Napoli finisce 1-1.
La Juventus batte l’Atalanta e tenta l’allungo subito rintuzzato dall’Inter, dilagante in casa del Torino. Mentre la sfida tra le due malate illustri della Serie A, Napoli e Milan, finisce con un pareggio che serve a poco a entrambe.
HIGUAIN E DYBALA RIBALTANO L’ATALANTA
Nel sabato di anticipi di prestigio di questa 13esima giornata di Serie A, le prime big a scendere in campo sono Atalanta e Juventus, a Bergamo. Nerazzurri avanti con il gol di Robin Gosens su assist di Musa Barrow, che in precedenza aveva fallito un rigore. Nell’ultimo qarto d’ora la reazione della Juventus – orfana di un acciaccato Cristiano Ronaldo -, con la doppietta di Gonzalo Higuain (il secondo gol è viziato da un fallo di mano di Juan Cuadrado) e la rete del definitivo 1-3 di Paulo Dybala.
BONAVENTURA RIACCIUFFA IL NAPOLI
Nel match delle 18, a San Siro il Napoli del grande ex Carlo Ancelotti va avanti sul Milan con il gol di Hirving Lozano, che raccoglie la conclusione di Lorenzo Insigne sbattuta sulla traversa. Il vantaggio dei partenopei dura pochi minuti: il pareggio, con un gran destro, è firmato Giacomo Bonaventura, al gol dopo oltre 400 giorni segnati da una lunga sequela di infortuni.
LAUTARO E LUKAKU LANCIANO L’INTER
Nel match serale, l’Inter sbanca il campo del Torino grazie ai gol di Lautaro Martinez, Stefan De Vrij e Romelu Lukaku. Con questi risultati, la Juventus resta in vetta (35 punti) alla classifica con una lunghezza di vantaggio sull’Inter. Il Napoli, a 20 punti, rischia di vedersi allontanare ulteriormente la zona Champions, ora a 4 lunghezze, mentre il Milan resta impaludato nelle zone medio-basse della classifica, a 14 punti, cinque sopra la zona retrocessione.
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Secondo un’anticipazione di Dagospia, il dirigente avrebbe deciso di lasciare in seguito alla chiusura delle indagini sulla sua elezione.
Il presidente della Lega di Serie A Gaetano Micciché sarebbe pronto a rassegnare le dimissioni. La decisione sarebbe stata presa in seguito alla chiusura delle indagini della Procura della Figc sulla sua elezione. Miccichè fu eletto il 19 marzo del 2018 al vertice della Lega Serie A, che era reduce da un doppio commissariamento, prima con Carlo Tavecchio e poi col presidente del Coni, Giovanni Malagò. Proprio quest’ultimo aveva risolto l’impasse indicando alle venti società il nome del banchiere, presidente di BancaImi, e membro del cda di Rcs.
L’ELEZIONE PER ACCLAMAZIONE
Anziché la maggioranza qualificata a scrutinio segreto, Miccichè aveva bisogno dell’unanimità per essere eletto, come prevede lo statuto per evitare il conflitto di interessi di chi ha ricoperto incarichi in istituzioni private di rilevanza nazionale in rapporto con i club o loro gruppi di appartenenza. Lo scrutinio segreto fu accompagnato dalle dichiarazioni pubbliche di voto (tutte a favore di Miccichè), per insistenza in particolare dell’ad della Roma, Mauro Baldissoni, e del presidente della Juventus, Andrea Agnelli. Miccichè fu quindi eletto per acclamazione e non furono scrutinate le schede, che sono tuttora custodite nell’urna elettorale sigillata.
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Secondo un’anticipazione di Dagospia, il dirigente avrebbe deciso di lasciare in seguito alla chiusura delle indagini sulla sua elezione.
Il presidente della Lega di Serie A Gaetano Micciché sarebbe pronto a rassegnare le dimissioni. La decisione sarebbe stata presa in seguito alla chiusura delle indagini della Procura della Figc sulla sua elezione. Miccichè fu eletto il 19 marzo del 2018 al vertice della Lega Serie A, che era reduce da un doppio commissariamento, prima con Carlo Tavecchio e poi col presidente del Coni, Giovanni Malagò. Proprio quest’ultimo aveva risolto l’impasse indicando alle venti società il nome del banchiere, presidente di BancaImi, e membro del cda di Rcs.
L’ELEZIONE PER ACCLAMAZIONE
Anziché la maggioranza qualificata a scrutinio segreto, Miccichè aveva bisogno dell’unanimità per essere eletto, come prevede lo statuto per evitare il conflitto di interessi di chi ha ricoperto incarichi in istituzioni private di rilevanza nazionale in rapporto con i club o loro gruppi di appartenenza. Lo scrutinio segreto fu accompagnato dalle dichiarazioni pubbliche di voto (tutte a favore di Miccichè), per insistenza in particolare dell’ad della Roma, Mauro Baldissoni, e del presidente della Juventus, Andrea Agnelli. Miccichè fu quindi eletto per acclamazione e non furono scrutinate le schede, che sono tuttora custodite nell’urna elettorale sigillata.
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