Davide e Sofia eccezionali, giudici in confusione perpetua

Tornambene e Rossi restano i due concorrenti più dotati, mentre la giuria pare senza più mordente. Tra gli ospiti si salva il pianista siriano Aeham Ahmad. Le pagelle della semifinale.

Rischioso, mettere una popstar sullo stesso palco con degli aspiranti: può capitare come con la boxe, il ragazzino affamato che mette alle corde il campione sazio e pasciuto, gli fa fare una magra figura. Davide di X Factor, per esempio, canta meglio di Tiziano Ferro. Meglio sotto tutti gli aspetti, dal timbro all’espressività; 15 anni fa, lo avrebbero costruito e ci avrebbero costruito una carriera, magari fino in America, adesso rischia di bruciarsi al sole fatuo di un talent, lui come Sofia, stelline di due mesi e poi l’oblio.

Se questo X Factor – che per tutta questa tredicesima edizione ha rantolato, annaspato, ha mostrato muscoli che non aveva per mascherare il declino – una chiave di lettura ancora la conserva, è la seguente: testimonia del totale sbando di una discografia che ai talent ha appaltato il suo vivaio, almeno quello del mainstream, del commerciale che è il genere di riferimento. Una formula che dovrebbe, doveva scoprire quelli bravi, i talenti e troppo spesso li manda a sicuro macello, privilegiando il qui e ora della faccetta bella e possibile, spendibile, del personaggino dalle spinte giuste, da fiondare subito a Sanremo, da spremere e buttare.

Quando va bene: che è di Lorenzo Licitra,”tenor di grazia” vincitore nel 2017 e subito evaporato, uno che da due anni annuncia un disco che nessuno ha più visto? Voi direte: e allora i Maneskin? Allora Anastasio? I Maneskin non esistono, esiste il cantante Damiano che presto proseguirà da solo, per quel che durerà, Anastasio invece è talmente atipico che sarebbe uscito fuori anche senza talent. Ma quanti cadaveri di possibili artisti disseminano il cammino di queste 13 edizioni di X Factor? Domande che ci poniamo alla vigilia, ormai, di una finale che schiera due bravi, Davide e Sofia, una coppia di trapper per ragazzi, la Sierra, e un non so cosa che non ha il non so che, questi Booda che, azzardiamo, non avranno alcun futuro.

TUTTA LA GIURIA SOTTO LA SUFFICIENZA

ALESSANDRO CATTELAN: 6. Del color del suo vestito. Grigio. Senza sfumature.

MARA MAIONCHI: 4. A immagine e somiglianza del programma che l’ha lanciata a 70 anni: spremuta, spenta, ripetitiva, fuori dai tempi e dal tempo; senilmente fissata con «l’erotismo» (dei Booda, che le manca). Arriva in finale senza nessun candidato, lei che in passato tanti ne aveva fatti vincere (e di più ne aveva affogati).

MALIKA AYANE: 4. Sera dopo sera, ha affilato il birignao a livelli d’afasia: quand che la parla, se capiss nagott. Magari modulasse così quando canta. Tanto look, zero sostanza; ha ragione solo su una cosa, quando difende Davide dai colleghi, in malafede o stupidi, che non ne vedono «il percorso», che lo considerano datato: giudizi a pera, anche Mozart a questa stregua è datato.

SFERA EBBASTA: 4. Vedi sopra. Per lui tutto ciò che non è truffa rappettara è vecchio, non ha senso. Ma a non aver senso è lui. «Ah, mi rompono le balle perché dicono sempre hai spaccato». Mah, chissà con chi ce l’ha. Glielo ripetiamo una tantum, perché la zucca, sotto il color porporina, è notoriamente dura: Sfera, hai spuaccuato. Le bualle.

SAMUEL: 4. Il nostro Umarell fals e corteis, come si dice dei piemonteis (ma è un pettegolezzo a livello portineria) se ne porta ben due alla finale. E bravo. Ma certi giudizi, proprio… «Ah, Davide, sei bravissimo ma non so dove vai». Perché, lui Samuel dove va? A scaldar la poltrona a XF. Mai un guizzo, mai un sussulto, azzarederemmo che per lui XF finisce giovedì prossimo.

SOFIA E DAVIDE SOPRA TUTTI, BOODA SPROFONDA

SIERRA (Born Slippy, Nuxx, Underworld/ Ni Ben Mal, Bad Bunny): 5. Candidati alla vittoria ormai. Sarebbe scandaloso, ma li pompano: hanno visto che su internet sono i più consumati. Come se bastasse ad una credibilità; forse qui sì, qui è tutto quello che conta. Ma se questo due di rapperminkia («fra bro c’è aria che tira stasera che tiro») fosse solo fumo per ragazzi?

SOFIA TORNAMBENE (Human nature/Michael Jackson/Love of my life, Queen): 7 1/2. Dicevano: ah, che difficile però il pezzo della Sierra coatta, gli Underworld: e allora Sofia? Ma se una è brava, non teme neanche il fantasma di Michael Jackson. E infatti. Questa ragazzina sa cantare, ha un istinto che supplisce alla tecnica, e impara in fretta. Ha un bel timbro, caldo e fresco. Dio le ha dato tutto. Anche se sui Queen convince meno. Tra parentesi, l’arrangiamento di entrambi i brani, in termini freddamente analitici, faceva desiderare e questa è un’altra tara di X Factor.

DAVIDE ROSSI (Toxic, Britney Spears/Uptown Funk, Bruno Mars): 8 1/2. Se penso che era un bambino grasso alla corte della tortellona Antonella Clerici. Qui è il migliore, senza discussioni. Anche più di Sofia. Lui ha anche tecnica, oltre che doti naturali, ha un timbro che a volte ricorda Freddie Mercury, a volte Elton John, se la cava anche molto bene al piano, ha confermato una versatilità che gli contestavano; davvero appaiono meschini i rilievi di certi “giudici”, «ah, ma tu non hai un percorso». Loro, invece… Straniante, sentirlo criticare da gente che non vale un suo sputo.

BOODA (Dibby Dibby Sound, Dj Fresh vs Jay Fay/Level up, Ciara): 4. E fu così che il cronista, a 55 anni, dopo un’onorata carriera anche a volte pericolosa, si ritrovò a parlare di tre che fanno dibidibidi dibidibidù. Ma XF è quel posto dove vogliono far fuori uno come Davide, e non ce la fanno perché davvero non possono, perché sarebbe oltre l’indecenza, e però mandano in finale ‘ste tre app, ‘sta Cristina d’Avena liofilizzata. Erotici come sardine, e tutto il resto è Booda, dibidibidù.

EUGENIO CAMPAGNA (Una buona idea, Niccolo Fabi/Nessuno vuol essere Robin, Cesare Cremonini): 5. L’hanno spinto fin dove hanno potuto, lui ci credeva pure, gli davano, spericolatamente, della nuova grande cosa della canzone d’autore, del poeta: Eugenio Montato. Ma se poi ti fanno i complimenti perché non hai fatto orrore come la settimana scorsa, che senso ha? Ora, non sapremo mai se ha stancato “il pubblico dei social” o se si son fatti due calcoli. Sconta anche l’invecchiamento di nonna Mara, che difficilmente potrà imporlo come un nuovo Nigiotti.

💥 SBAM 💥Ospite della Semifinale di #XF13 per la prima volta in TV 😇 tha Supreme 😈 con “Blun7 A Swishland”!

Posted by X Factor Italia on Thursday, December 5, 2019

TRA GLI OSPIDI SOLO AEHAM AHMAD COMUNICA QUALCOSA

THA SUPREME: ??. Potevamo anche mettere: WTF? (la traduzione evitiamola). E come fai a commentare un cartone animato? Che non c’è, oltretutto, vecchissimo trucco, basti pensare ai Residents. Insomma, la recensione su questo ignoto già l’ho fatta, e forse è stata la più difficile della vita mia.

TIZIANO FERRO: 5.Sto Tiziano poesse Fero e poesse Piuma: oggi è stata ‘na lagna. Non si sta un po’ appesantendo, imbolsendo? A metà della sua maturazione, basta non incanutisca precocemente: il rischio c’è.

AEHAM AHMAD (I forgot my name): 6. Suggestivo. Per come ha vissuto, per come suona. Per quello che dice. Se non canta è meglio.

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Quelle canzoni di successo svilite dalla pubblicità

Alcune nascono fuori dal tempo, destinate all’eternità. Anche troppo, perché un bel giorno ti ritrovi a odiarle, t’ingenerano nausea e quasi disprezzo.

Ci sono canzoni che nascono fuori dal tempo, destinate all’eternità. Magari non lo sanno, o non lo sanno i loro autori o forse sì, le hanno fatte proprio con quell’obiettivo lì, sta di fatto che diventano modi di dire, di essere, di sentire, patrimonio dell’umanità. Anche troppo patrimonio, perché un bel giorno ti ritrovi a odiarle, t’ingenerano nausea e quasi disprezzo: sono diventate tormentoni pubblicitari, jingle, sigle di trasmissioni becere, sonerie, musichette maledette di attesa infinita al call center. Canzoni spot che vivranno per sempre da rinnegate. Nessuno si salva, né vivi né trapassati: è il post capitalismo, bellezza, ovvero è sempre una faccenda di soldi (il resto è conversazione, parola di Gordon Gekko). E, siccome è una faccenda di soldi, qualcuno che dà il permesso, dietro pingue compenso, ci sarà pure: di solito gli inconsolabili eredi, così pronti, anche a mezzo fondazione, a preservare la purezza antimercantile del caro estinto, in tanti sensi.

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I SUCCESSI CANNIBALIZZATI

Abbiamo visto imbastardire così Sergio Endrigo (Io che amo solo te), Rino Gaetano (Il cielo è sempre più blu), gente intransigente, che in vita mai si sarebbe sognata (forse) di finire a reclamizzare istituti di credito, merendine, cibo per cani, carte igieniche. Abbiamo visto, e vediamo, ribelli organici come Vasco Rossi, che, «eh, oh, capito», molla le sue creazioni alle compagnie dei cellulari, «eeeh già». Abbiamo visto inni anticapitalisti degli Anni 60 finire come colonne sonore di auto di lusso, gioielli, abiti griffati, i feticci del capitalismo hard. Abbiamo visto, sentito momenti epocali come She’s a rainbow dei Rolling Stones usata come sigla di una compagnia telefonica, per fortuna non di una marca di assorbenti, visto che di quello poi parla (e speriamo che a qualche genio, leggendoci, non s’accenda la lampadina). Abbiamo trovato una ammiccante, allusiva Guarda come dondolo di Edoardo Vianello relegata a réclame dei reggiseni

DIRITTI ASTRONOMICI A CUI È DIFFICILE RESISTERE

Eh, già, le compagnie della comunicazione: sono cannibalesche, macinano hit con voracità da squali, a decine, a centinaia: come resistere a sirene così spietate? Edoardo Bennato è tra quelli che resistono meno, anzi per niente, dei suoi brani un tempo sarcastici, intransigenti, finiti negli spot dei telefoni si è perso il conto. Anche Sting, l’ambientalista dell’Amazzonia, concede praticamente di tutto, è stato calcolato che coi soli diritti pubblicitari guadagna cifre astronomiche, la sola Every breath you take gli fa cascare in bocca all’incirca un milioncino d’euro l’anno, nella solenne incazzatura degli ex compagni, cui il principe dei solidali egualitari e perequativi non scuce un ghello. Ma si concede anche con Puff Daddy, insomma c’è da sospettare che da un bel pezzo lui le canzoni le faccia per tutt’altri motivi. 

IL CEDIMENTO DI BOB DYLAN

E Bob Dylan, il bardo, che nel 2009 autorizzò la epocale Blowin’ in the wind per una multicorporation britannica (la Co-operative Group) che, tra le altre cose, provvedeva, pensate un po’, ai servizi funebri? Praticamente l’inno della cremazione. Nel 2015 lo scontroso menestrello si è ripetuto prestando la faccia a uno spot della Ibm. E, per rimanere nel settore, ancora i Rolling Stones diedero, per un compenso clamoroso, la loro Start Me Up a Bill Gates in occasione del lancio del sistema operativo Windows 95 (che s’impallò proprio alla solenne presentazione, rimasta memorabile).

David Bowie, imprendibile in esistenza come in spirito, ha sponsorizzato di tutto, automobili, profumi, acque minerali. La sola Heroes ha rivestito il carisma di così tanti prodotti, oltre a trasmissioni di tutto il mondo e alle Olimpiadi di Londra 2012, da disperdere completamente il senso del significato originario.

DAL CAROSELLO ALLE HIT

Segno dei tempi che stanno cambiando, aveva ragione Bob, cambiano, cambiano sempre, non aspettano nessuno (come diceva Mick) e chi non si adegua è fuori. Ma si adeguano. Le aziende hanno capito che non sanno più concepire i motivetti di Carosello, che s’inchiodavano al cervello, preferiscono risparmiarsi la fatica e pescare nel mare magno dei successi.

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Così «il gusto pieno della vita» di un celebre amaro lascia il posto agli Aerosmith di I don’t wanna miss a thing. Altro che perdersi qualcosa, qui c’è tutto da guadagnarci. Tranne la faccia, qualche volte.

CANZONI CONSUMATE DA PROGRAMMI SCONFORTANTI

Ci sono programmi sconfortanti che consumano canzoni, L’Anno che verrà di Lucio Dalla è snaturato in un eterno Capodanno, I migliori anni della nostra vita di Renato Zero servono a condire qualsiasi scempiaggine televisiva, Ti amo di Umberto Tozzi ci esce dalle orecchie, e così Zucchero, Ligabue, De Gregori («La storia siamo noi, bella ciao» è finita a reclamizzare il Monte dei Paschi di Siena).

Enrico Ruggeri ha fatto di meglio, ha ricantato la sigla dei salumi Negroni, «le stelle sono tante, milioni di milioni…». Ma perfino Il pescatore, scelta per presentare il recente, e deludente, ritratto di De Andrè, è stata svilita a una assurda sigletta da tivù dei ragazzi. Perché in Rai debbono sempre sputtanare tutto così? Qualche volta, l’effetto vira sul grottesco. C’è un programma insulso, uno dei tanti, della mattina. A un certo punto scatta l’aria di «Buona Domenica, con quegli idioti che ti guardano e che continuano a giocare». E gli «idioti», senza il minimo imbarazzo, zompettano, ammiccano, fanno le facce, insomma: giocano.

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Tiziano Ferro, un miracolo riuscito (a metà)

Con il nuovo cd, il cantautore cerca svecchiarsi. Anche grazie al tocco internazionale di Timbaland. Dimostrando, in questi 50 minuti di autoanalisi, il coraggio di riscriversi. Il risultato è un disco riuscito anche se con qualche caduta nel sentimentalismo prima maniera. Ma lo sforzo va comunque apprezzato.

Tiziano Ferro ha un problema, si chiama Mengoni. Marco Mengoni. Uno che, per molti motivi, gli si può sovrapporre e nei fatti lo fa e lui rischia di uscirne sbiadito.

È sempre un po’ lo specchio di Biancaneve, anche nella musica: «Chi è la popstar più bella del reame?», e lo specchio: «Qualcuna c’è che è più bella di te».

Anche così si spiega, a 40 anni o giù di lì, la scelta di voltare pagina, per non lasciarsi imbrigliare, per non ridursi a clone di se stesso, a inseguitore dell’altrui successo. Oltre all’umanissimo artistico bisogno di mettersi alla frusta, di verificarsi e verificare un pubblico assuefatto.

E allora: via il produttore storico, quel Michele Canova che ha instaurato una sorta di dittatura del gusto sul pop mainstream, dentro il sogno di una vita, il guru sonico che dai 90 detta legge nell’hiphop e nel R&B commerciale americano, dunque mondiale.

IL TOCCO INTERNAZIONALE DI TIMBALAND

L’intento è chiaro: svecchiare il respiro, renderlo internazionale. Timbaland produce così nove pezzi, più i due di Davide Tagliapietra (chi è? L’ex di Mietta, chitarrista, turnista, uomo da palco), più uno a cura dello stesso Ferro; più lo spirito fratino di Jovanotti, altro sogno raggiunto per Tiziano; più la serenità esistenziale che ai quattro venti dichiara d’aver raggiunto; più la tempestiva polemicuzza con Fedez; più la copertina in sfumature di grigio meditabondo. Insomma non ci si fa mancar niente, signore e signori: voilà Accetto Miracoli. Per vendere. Per rimanere se stesso. Per cambiare. Per dire: sono un uomo adulto, un artista adulto, col coraggio di reimpacchettare il successo e giocarmelo. C’è riuscito, Tiziano?

CINQUANTA MINUTI DI AUTOANALISI

Ferro non è Leonard Cohen (che esce anche lui oggi, postumo, con lo struggente Thanks for the dance, assemblato sul figlio che ha cucito suoni e musiche sulle parti vocali lasciate in eredità). Il lavoro comunque si apre con un beat lento, profondo, e un cantato che già chiarisce il senso del gioco: Vai ad amarti, forse vaghissimamente dalle influenze Massive Attack, è l’incipit di questi 50 minuti di autoanalisi dove, in effetti, la mano americana di Timbaland si sente eccome. In modo accorto, senza stravolgere la matrice dell’artista, cui anzi viene lasciato ogni spazio – il tappeto sonoro è fatto più di richiami, echi, sospensioni, battiti, ma resta sempre la voce cantante in prima linea.

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Amici per errore si sposta verso il Beck più folk, ed è un altro pezzo riuscito, sorretto da chitarre acustiche piene e pulite, contrappuntate da singole gocce di piano: rischia la melensaggine, e invece la sua semplicità cattura.

IN BALLA CON ME SI FA PALESE LA SFIDA A MENGONI

Balla con me, giustamente, aumenta le pulsazioni e qui sì che la sfida, discreta ma chiara, a Mengoni, è gettata: spunta un Jovanotti e il gioco è fatto: orecchiabilità a eccedere, risolta con un gioco scaltro di trasporti e modulazioni. Se sfida è, la è sullo stile, sull’esperienza di una semplicità ruffiana che, per usare le parole del pezzo, «ci sta». In mezzo a questo inverno è l’unica prodotta direttamente dall’artista e si sente: recupera calligrafie autoriali fin dalla intro di piano, che, di solito, annuncia qualcosa di zuccherino e però di sciapo. «C’eri tu c’eri tu c’eri tu in mezzo a questo inverno» fa tanto Pausini, ovvero il Tiziano “vecchio”, che, per paradosso, era più vecchio a 20, 30 anni di questo nuovo che ne ha 40. Insomma, il branuccio fila via senza sussulti particolari: la promessa di smielaggine è mantenuta. Come farebbe un uomo è ancora classic Ferro, ma risolta in modo più moderno e conferma che la scelta di Timbaland è stata felice davvero.

Tiziano Ferro ha preso a metà il coraggio di riscriversi. Ma quella metà c’è, e va apprezzata. Da domani, da oggi la corsa sarà sempre più su se stesso

CON SECONDA PELLE TORNA IL SENTIMENTALISMO FACILE

Quanto a Seconda pelle, insiste nel romanticismo, o se si preferisce sentimentalismo anche facile – «una fotografia della fotografia» -, ma in un disco come questo è proprio il sentimento la chiave che fa entrare nel vissuto, il viatico per i conti con se stesso; se poi sia scelta autentica o solo astuta, è questione che pertiene a Ferro, basti qui dire che è un altro brano che non lascia particolari impressioni. Ma in un disco lungo, prolisso, è chiaro che non tutte le canzoni riescono col buco. Il destino di chi visse per amare è ancora e sempre autobiografia del cuore, virata al passato: la perdita è la carta d’identità, siamo fatti di assenze, di quel che abbiamo lasciato o ci ha lasciato lungo la strada. C’è un raccontarsi qui, tra nostalgie, fischi e successi, che deve anche più di qualcosa al Renato Zero della maturità. Le 3 parole sono 2 gioca sugli equilibri precari, sul ricomporre le scissioni: Tiziano l’italiano, il melodico, che si apre, a volte timidamente, a suggestioni diverse, meno nazionali, meno annunciate. È un brano emblematico dell’album, col suo oscillare tra il già sentito e sprazzi di inaspettato: Ferro avrebbe potuto osare di più, ha tenuto la briglia corta alla tanto annunciata smania di cambiamento, eppure il disco funziona.

PER RINNOVARSI È QUASI SEMPRE NECESSARIO TORNARE AI MAESTRI

Perché un disco, alla fine, vive di un suo carisma, di quella impalpabile atmosfera complessiva, e questa o c’è o non c’è. In questo senso, si può dire che l’obiettivo sia raggiunto. Casa a Natale, ad esempio, al di là di certe ingenuità testuali («di deserto sono esperto») sfodera perfino impensabili acutezze vocali alla Fabio Concato. A conferma che, per rinnovarsi, quasi sempre bisogna ritornare ai maestri.

Accetto Miracoli. Per vendere. Per rimanere se stesso. Per cambiare. Per dire: sono un uomo adulto, un artista adulto, col coraggio di reimpacchettare il successo e giocarmelo

Un uomo pop è tra i momenti più interessanti: di eleganza patinata, si ascolterebbe bene (anche) a una sfilata di moda, ma la costruzione è intrigante, il vestito sonico perfettamente bilanciato nelle sue sincopi e sospensioni, e il testo sembra quasi esaltarsi. È uno dei momenti in cui la cifra adulta di Tiziano risalta, amara, piccata, ironica ma finalmente diretta, scevra da ulteriori implicazioni. Buona (cattiva) sorte è un ballabile pseudolatino, di quelli che francamente hanno stuccato: sembra un riempitivo, o forse un acchiapparadio. Nelle pieghe dei beat si nasconde lo spettro del Battisti di metà Anni 70, ma, probabilmente, è un oltraggio non voluto.

FERRO HA TROVATO IL CORAGGIO DI RISCRIVERSI E VA APPREZZATO

Della chiusura (salvi i due remix in appendice) s’incarica il brano eponimo, Accetto miracoli con le sue ambizioni classicheggianti: tutto è sorretto dal piano, sopra discreti battiti sintetici e una brezza d’archi; è il momento del bilancio definitivo, almeno per ora. Il miracolo, musicalmente parlando, non c’è, c’è una canzone che sconta tutti i limiti di una generazione artistica e che tenta orgogliosamente di sciogliersi da quei limiti. Tiziano Ferro ha preso a metà il coraggio di riscriversi. Ma quella metà c’è, e va apprezzata. Da domani, da oggi la corsa sarà sempre più su se stesso, e meno sugli eredi possibili.

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The Supreme, anche i bimbiminkia nel loro piccolo spaccano

Un linguaggio incomprensibile in un tappeto sonoro su misura. Il disco d’esordio del giovane rapper romano in 24 ore ha stracciato ogni record. Un album che è come una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva. E ci dice molto dei tempi in cui viviamo.

È difficile per chi abbia più di 16 anni capire, raccontare il successo folgorante di Tha Supreme, questo hip hopper, questo rapper classe 2001 che con un primo disco uscito da una settimana ha sbancato, anzi ha «spuaccuato», come direbbe Sfera Ebbasta.

Difficile non compiacere per il rischio di tradirsi e risultare “out of time”, obsoleto, superato: meglio fare quello mentalmente aperto, che mente a se stesso e a chi lo legge, tessere – per pararsi il culo, come stanno facendo tutti – l’elogio di un anonimo ragazzino romano, Davide Mattei, che però come pseudonimo, Tha Supreme, è già un mito e vogliono farlo passare per epocale. E qui serve un passettino indietro, piccolo perché la storia è esigua.

L’imberbe Davide si rivela, sedicenne, con un pezzo per Salmo, Perdonami, ripetuto da altri brani singoli, tutti fortunati, che via via vanno a costruire l’ossatura dell’album d’esordio, 23 6451, venti episodi, alcuni con le stelline nostrane del rap/trap/hiphop, Salmo, Mahmood, Marracash, Lazza, Nitro, Dani Faiv, Gemitaiz e Madman.

23 6451, UN DISCO D’ESORDIO DA RECORD

Il disco esce, targato Epic/Sony, e in poche ore razzola record a manetta: tutti e 20 i brani nella top 50 Italia, sette nella Top 200 global di Spotify, 13 milioni di streaming nel giro di 24 ore. Fine della storia, per ora. Ma anche inizio. Perché tutto parte da qui, e tutto da qui sarà possibile. Di fronte a questi numeri, il recensore medio si spertica nelle lodi automatiche: scampa alla tempesta di rabbia social degli adolescenti, passa nel novero di quelli che hanno capito l’incomprensibile, perché capaci di sintonizzarsi sui linguaggi delle giovani generazioni, bla, bla, bla.

È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito

Ecco, il linguaggio: ingrediente primario di Tha Supreme. Perché non c’è. È tutto un bla bla bla sapientemente decostruito, un pidgin hip hop fatto apposta per non essere capito, e quindi a maggior ragione seducente: «Ciascuno ci trova quello che vuole», spiegano i recensori che hanno capito, come a dire la scomparsa del senso compiuto, universalmente accettato per comunicare. Tutto e il contrario di tutto, che è anche un bell’esercizio, volendo, di viltà: lo stesso dei politici, che si smentiscono mentre affermano.

Tranne quando Tha Supreme vuol farsi capire: allora i concetti li scandisce chiari, mitragliati, ripetuti, ma chiari e, vedi caso, sono regolarmente termini-sirene, che seducono i fanciulli: le canne, il fumo, la scuola no, «una puttana quindi figlio di puttana», il profluvio strategico di turpiloquio da scuola dell’obbligo, anzi del non obbligo, perché c’è l’espresso, irriverente invito a segarla. «MilevolacintatumifaiunbelBIP». Per fomentare, è chiaro, la ribellione alla panna che tanto funziona oggi: «coglionerottilcazzo», non manca neppure l’afflato sul qualunquista-grillesco, «politicidimmerda».

TESTI INCOMPRENSIBILI SU UN TAPPETO SONORO PERFETTAMENTE CALIBRATO

La trovata del pidgin non è nuova, molti artisti, quando compongono, lo fanno in un inglese stralunato, masticato lì per lì: poi ci metton sopra le parole dei testi. La genialata di Supreme è quella di lasciare, debitamente rifinito, la masticatura per quella che è, velocissima, trapanante. Ne esce una totale apparente mancanza di senso, una licenza dal senso che fa il paio con il suono: morbido, fruibile, perfettamente calibrato – il lavoro figura composto e prodotto dallo stesso Mattei, in realtà si deve alla Salmo Crew che sviluppa un flusso ossessivo e raffinato, bilanciando influenze americane, senza strafare, con istanze squisitamente locali.

I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata

È una inoffensività apparentemente aggressiva (7rapper ma1 è una fiondata particolarmente riuscita), di sicuro molto ben costruita: funziona bene da cellulare come da impianto stereo (e questo è aspetto da non sottovalutare assolutamente), come sottofondo come da ispirazione diretta. I temi? Per quel che è dato intuire, sono i soliti: la ribellione del ghetto, figlia dell’incomprensione, che sfocia nella passione per i piaceri facili, edonistici come le droghe, la Ferrari, monili e diademi vistosi, vita bella e sfrontata.

Musicalmente l’album è ridondante, prolisso, venti momenti, quasi tutti brevi o brevissimi, ma non c’è solo la tachicardia ritmica, ogni tanto affiorano conati melodici (Gua10; Blun7 A Swishland, che dovrebbe raccontare del desiderio di cambiare fumo), e sono i momenti in cui la capacità compositiva, sfrondata un po’ dell’ottundimento sintetico-ritmico mostra drammaticamente la corda. Altri sprazzi sono un po’ così: Parano1a K1d schiera Fabri Fibra, ma paga pesante tributo a J-Ax; M12ano, con Mara Sattei, chiarisce il gusto minorenne ai tempi di X Factor: qualcosa di troppo lontano, anche per chi sia appena uscito dalla fase puberale, per essere davvero compreso. Ma c’è perfino, nel pezzo con Salmo, Sw1n60, una sorta di strampalato swing, tanto per non farsi mancare niente: «Dellascenarapneholepallepiene, guardachegrandestocazzochemene, pensocolcazzoperchémiconviene».

UN ALBUM PIENO DI IDEE RICICLATE MA CHE RIESCE AD ANDARE OLTRE

A un disco come questo, ci si può solo girare intorno: è una caramella, stordente, gommosa, acre, coloratissima, allusiva (la copertina, che cita Dalì, è a sua volta tripudio citazionista, ovviamente adeguato ai tempi: il coniglio Bunny, carte da gioco, astronavi, finta originalità, trita e ritrita). Con gli ospiti che fanno gli ospiti, Mahmood recita Mahmood e così via. Un mondo di idee riciclate ma insospettate da chi non ha abbastanza tempo addosso da scoprire qualcosa di remoto, dunque di nuovo.

Tutto calcolato per un disco di record perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana

Cinica truffa, ma fatta come si deve. Tredici milioni di streaming in 24 ore. I beat giusti nei cervelli giusti. Spirali di fumo ovunque, come giustificazione all’apatia, all’impossibilità, perfino al vittimismo da «politici ci avete tolto i sogni ci avete rubato il futuro e noi allora ci sballiamo ci sbattiamo di canne sempre ogni traccia ogni momento come se non ci fosse un domani come se non ci fosse un’altra dieta».

Eppure in questa monotonia rap, in questa polluzione del già sentito, c’è come un punto e a capo. Come uno spingersi oltre. Come se la totale, assoluta vacanza concettuale avesse raggiunto nuove misure, travolto vecchi limiti. Come se la cura formale diventasse funzionale come mai prima. C’è un avatar di Tha Supreme, lo trovate, mastodontico pupazzo, nelle stazioni dei treni di Milano e di Roma. Tutto calcolato per un disco di record, effimeri magari, ma perfetti per un tempo quando «non fidarti di quella troia, mi toglie il follower» passa per lirica leopardiana, e per questa volta la dittatura del politicamente corretto che si fotta, anzi chesifotta, yo yo yo, raga raga raga.

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Le accuse di Tiziano Ferro a Fedez su bullismo e omofobia

Il cantante di Latina apre la polemica per una canzone del 2011: «Non si scherza sulla sessualità, serve una legge contro l’odio». La replica del marito della Ferragni: «Strano tempismo, ma se si è offeso mi spiace. Facciamo qualcosa insieme contro le discriminazioni».

Una polemica su bullismo, odio e (presunta) omofobia scoppiata con quasi 10 anni di ritardo. Lo scontro è avvenuto fra due big della canzone italiana, per successi ottenuti e seguito sui social: Tiziano Ferro e Fedez. Il primo ha accesso la miccia a Milano parlando durante la conferenza di presentazione del suo nuovo album Accetto miracoli: «Mi si tira in ballo e io sono ironico, finché si scherza va bene, mi spiace solo quando queste cose sono legate al sentimento e alla sessualità, perché anche una battuta può mettere un adolescente a disagio, e che un idolo dei ragazzini mi prenda in giro su questo è un atto di bullismo molto forte, non solo verso di me».

«IL BULLISMO VIENE ANCHE DA CHI SCRIVE CANZONI»

L’idolo dei ragazzini in questo caso è “mister Ferragni“, visto che Tiziano ha fatto riferimento alle offese ricevute spiegando che «il bullismo non è finito a 13 anni» e che viene anche da chi scrive canzoni. A chi gli ha chiesto se si riferisse a Fedez, ha risposto che lui è «”uno dei”, dai…».

QUELLE BATTUTE SU OUTING E WÜRSTEL

Il testo della canzone “incriminata”, Tutto il contrario, uscita nel 2011, fa così: «Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing; Ora so che ha mangiato più würstel che crauti; Si era presentato in modo strano con Cristicchi; “Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?”».

Serve una legge contro l’odio, perché le parole sono importanti. Bisogna imparare a dire le cose, esistono forme e tempi


Tiziano Ferro

Ferro ha poi sottolineato la necessità di «una legge contro l’odio, perché le parole sono importanti. Bisogna imparare a dire le cose, esistono forme e tempi». Insomma «anche questo è bullismo, non ci si deve scherzare».

FEDEZ: «A 19-20 ANNI MI ESPRIMEVO IN MANIERA DIVERSA»

La risposta di Fedez non si è fatta attendere ed è arrivata su Instagram, tramite le story: «Mi stupisce il tempismo di questa dichiarazione, all’epoca avevo 19-20 anni, ero una persona diversa che si esprimeva in modo diverso. Però nella canzone io già dal titolo volevo far capire che la sessualità dell’artista è accessoria al giudizio che do dell’artista. Poi l’ho condita con il linguaggio dissacrante che avevo».

Penso negli anni di aver dimostrato che io e l’omofobia viaggiamo in parallelo e non ci incontriamo mai

Fedez

E ancora: «Penso negli anni di aver dimostrato che io e l’omofobia viaggiamo in parallelo e non ci incontriamo mai, con Mika a X-Factor abbiamo fatto un sacco di cose contro bullismo e omofobia».

«RENDIAMO COSTRUTTIVA QUESTA BRUTTA PARENTESI»

Infine le scuse e un appello: «Non pensavo che la canzone potesse aver offeso Tiziano, ora che lo so mi sento dire che non era quella l’intenzione e mi dispiace. Cerchiamo di rendere costruttiva questa brutta parentesi, io e Tiziano possiamo fare tante cose assieme per la lotta a omofobia e bullismo».

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Quando Rossini incontra il jazz

Il trio composto da Paolo Fresu, Uri Caine e Daniele Di Bonaventura ha riletto a Pesaro la Petite messe solennelle. Una “provocazione” riuscita che conferma la straordinaria originalità di quello che il maestro marchigiano definiva il suo «ultimo peccato di vecchiaia».

La città di Gioachino Rossini, sotto le insegne del Rof, lo storico festival a lui dedicato. E il grande capolavoro sacro, quella Messa piccola e solenne che oltre la civetteria dell’autore, che la definì il suo «ultimo peccato di vecchiaia», afferma ancora oggi un’originalità così prepotente da risultare quasi sconcertante. Aveva tutto, la Petite (jazz) messe solennelle realizzata in prima assoluta il 16 novembre a Pesaro per costituire l’evento dell’anno nell’ambito sfuggente e complesso, eppure sempre più frequentato, in cui il jazz incrocia la musica cosiddetta colta.

UNA “PROVOCAZIONE” PORTATA NEL SANTUARIO ROSSINIANO

C’era la singolarità un po’ provocatoria dell’iniziativa, portata nel “santuario” del compositore, quel teatrino ottocentesco eponimo che dai lontani Anni 80 è il cuore del rossinismo internazionale. Ma soprattutto c’era l’originalità del progetto: una sfida temibile, mai osata prima, che metteva in campo da un lato un monumento della vocalità sacra del XIX secolo, solistica e corale, sostenuto peraltro da una scrittura pianistica di originalissima quanto singolare cifra stilistica e dall’altro tre musicisti di punta della scena jazz internazionale. E se la connotazione pianistica dell’approccio era doverosamente quanto inevitabilmente salvata (e anzi, come vedremo, per molti aspetti esaltata) grazie alla presenza di Uri Caine, la rimanente combinazione strumentale sembrava fatta apposta per disegnare traiettorie solo apparentemente comode e naturali, costituita com’era dal flicorno (a volte sostituito dalla tromba) di Paolo Fresu e dal bandoneón di Daniele Di Bonaventura.

Il trio Fresu-Caine -Di Bonaventura al Teatro Rossini di Pesaro (foto Studio Amati Bacciardi).

UNA CARTOGRAFIA MUSICALE FEDELE E INSIEME INNOVATIVA

La sfida si deve a proprio a Di Bonaventura, marchigiano di Fermo, forse non a caso l’unico dei tre a essere conterraneo di Rossini. Sua l’idea di affrontare una buona volta il periplo della partitura rossiniana – suddividendosi poi il lavoro specialmente con Uri Caine – per trarne una cartografia musicale che riuscisse a essere nello stesso tempo fedele e innovativa. Riesecuzione e riscrittura come postilla Fresu. Sua la convinzione che la tanto sbandierata “modernità” della scrittura pianistica rossiniana nella Petite messe potesse diventare il terreno di confronto (e magari anche scontro) per una rivisitazione arricchita dalla dialettica fra gli strumenti a fiato e il bandoneón, vedi caso strumento nato proprio in ambito religioso, prima di conoscere e assumere la dimensione etnica e tanguera che è oggi la sua più conosciuta.

UN WORK IN PROGRESS DA NON ABBANDONARE

L’ascolto ha dato l’impressione che questa navigazione musicale abbia appena spiegato le vele, nello stesso tempo fornendo suggestioni tali da far sperare che il work in progress non sia abbandonato, che l’elaborazione continui e si prenda il tempo necessario per crescere nel confronto con la monumentale partitura rossiniana e nella rilettura dei suoi mille dettagli. Forse, il punto principale riguarda proprio la natura della “riscrittura”, assodato che l’approccio della “riesecuzione” è risultato sostanzialmente fedele al modello, eliminando solo (si fa per dire) tre numeri del Gloria: i primi due e la conclusiva doppia Fuga, Cum Sancto Spiritu.

Il trio jazz ha eseguito la Petite messe solennelle del maestro marchigiano (foto Studio Amati Bacciardi).

IMPROVVISAZIONI A CORRENTE ALTERNATA

Il versante improvvisatorio ed elaborativo in senso profondo è sembrato infatti procedere un po’ a corrente alternata. Fluiva libero e suggestivamente provocatorio nella tastiera di Uri Caine, un musicista integrale che conosce bene quanto sia complesso ma quanti succosi frutti possa dare il confronto con la scrittura degli autori “classici” (dai lui lungamente e ampiamente frequentati non solo nell’ambito pianistico). Lo si coglieva subito – e l’attacco era affascinante – nello spostamento degli accenti dentro l’introduzione pianistica del Kyrie, lo si notava nella fremente libertà di spaziare da un capo all’altro della tastiera, un po’ meno nelle pur accattivanti ma forse un po’ manierate accensioni swing, anche perché il problema della drammaticità possibile dentro lo swing resta aperto. Ma non si poteva non apprezzare la colta consapevolezza stilistica rossiniana del pianista americano, che per esempio lo ha portato, nella pagina per solo pianoforte (così è l’originale) del Preludio religioso, a inserire il suo apporto improvvisatorio laddove nel belcanto di Rossini sono previste le variazioni, cioè nelle ripetizioni o nei “da capo”.

FRESU, SUGGESTIVO MA STANDARD

Questo meccanismo è parso evidente anche nell’apporto di Fresu, che si è confermato strumentista di gran vaglia e di sensibilità musicale decisamente inclusiva e comunicativa, all’interno tuttavia di una prova più manierata e prevedibile. Non era facile: toccavano a lui le trasposizioni più dirette e immediate (quelle di cui ogni rossiniano tradizionale, in questi casi, resta in attesa) delle melodie vocali, e se è innegabile che siano state in genere risolte con eleganza, ci è parso però che il loro trattamento fosse un po’ quello riservato a certi “standard” usurati: magari suggestivo, ma solo a tratti in grado di lasciar leggere una riscrittura davvero alternativa che andasse a costruire una dimensione nuova oltre quella naturalmente costituita dal rifacimento in chiave più o meno “calligrafica”. A bilanciare gli elementi di questo difficile equilibrio è stato Di Bonaventura con il suo bandoneón: il suo apporto al trio e soprattutto i suoi dialoghi con il flicorno o la tromba di Fresu hanno costruito spesso una dimensione sonora inedita e poetica, capace di disegnare un pensiero originale dentro alla voluta fedeltà al punto di partenza, regalando sottigliezze timbriche e sottili trine armoniche e melodiche che molto hanno giovato anche alla dimensione solistica di Fresu, arricchendole di una dimensione dialettica intrigante.

Daniele Di Bonaventura sul palco (foto Studio Amati Bacciardi).

APPLAUSI E DUPLICE BIS

Teatro Rossini al gran completo, esecuzione contrappuntata da numerosi applausi e salutata alla fine da vivo entusiasmo, che ha spinto il trio a un duplice bis. Come doveva essere, la rilettura del Domine Deus e del Quoniam dal Gloria si è svolta con l’apporto di ulteriori improvvisazioni e non senza una musicale boutade da parte di Uri Caine, il quale a un certo punto ha fatto risuonare alla tastiera anche la celeberrima “galoppata” che chiude la Sinfonia del Guillaume Tell. Una firma e un omaggio allo stesso tempo.

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Gianna si tuffa nel passato e fa davvero La differenza

Nell’ultimo disco della Nannini si sente, in tutto e per tutto, la tensione della sfida, un rispetto autentico per la musica, la voglia di ribadirsi senza troppi calcoli, senza fronzoli ma con estrema cura per i dettagli. C’è un ritorno marcato a una asciuttezza che fa risaltare l’unicità dell’artista.

Gianna Nannini è di quelli che possono piacere e non piacere, con il suo modo da scavezzacolla di buona famiglia, di Gian Burrasca col culo parato, la ricca borghesia senese che ti permette di fare quello che vuoi, vizi capricci pretese, tanto se caschi, caschi in piedi.

Lei voleva fare la rockstar, e l’ha fatto. Anzi ha cominciato proprio da dura, per poi via via normalizzarsi, come succede a chi ha un successo esagerato. Ma la gavetta l’ha avuta, le sue porte da sfondare le ha avute: e le ha sfondate.

S’è anche persa, come è doveroso per una rockstar, dandosi al caos, allo sbando, all’ossessione da coca («Ne ero dipendente, non restavo mai senza», ha detto qualche tempo fa a Vanity Fair).

CON LA DIFFERENZA GIANNA RITORNA AL PASSATO

Allo stesso tempo, quelle pose zompettanti che nascondevano Rossini, «questo amore è una camera a gas», potevano irritare i puristi, potevano indurre a dire: chi vuoi prendere in giro, Giannina? Noi non ce la beviamo. Ma lei tirava dritto per la sua strada, faceva come sempre il comodo suo, giocava con la sua libertà viziata ma imprescindibile, si permetteva una figlia fuori tempo massimo, facendo incazzare i moralisti, faceva dischi magari non sempre a fuoco, e teneva botta: una sua raccolta, qualche anno fa, arrivò a vendere la per questi tempi astronomica cifra di cento e passa mila copie. Anche se il rock, vero o presunto, era sempre più lontano. Anche se altri generi, altre facce premevano. Lei avanti, dritta a modo suo.

A 63 anni arriva un album come questo, e capisci che chiamarlo La differenza non è altro che la verità, tutta la verità

È che i conti si fanno alla fine, ci vuole una vita per capire chi si è e soprattutto per dimostrarlo. Poi, a 63 anni, arriva un album come questo, e capisci che chiamarlo La differenza non è altro che la verità, tutta la verità. Non nel senso che Gianna sia snaturata o rinnegata, tutt’altro: c’è se mai una diversità che fa la differenza, c’è un ritorno marcato a una asciuttezza che fa risaltare l’unicità: io sono altro da voi, e posso esserlo perché me lo sono guadagnato e non ho bisogno di rincorrere le mode. Faccio corsa su di me e, per quanto possa coinvolgere qualche ragazzino, sia chiaro che sono io a condurre il gioco.

Ed è andata a Londra, dove vive per lo più attualmente, in cerca di aspirazioni e ispirazioni, e poi è finita a Nashville, perché serviva incontrare certi sogni, certe radici magari immaginifiche ma non meno forti. Ed è arrivato questo punto e a capo, dove si sente, in tutto e per tutto, la tensione della sfida, un rispetto autentico per la musica, la voglia di ribadirsi senza troppi calcoli, senza fronzoli ma con estrema cura per i dettagli.

DAL REGGAE AL ROCK DURO, LA NANNINI NON SI TRADISCE MAI

L’album si presenta col primo singolo, l’eponimo La differenza che ha accenti vocali alla Brunori Sas (o non sarà il contrario?): è subito un colpo dritto al centro, una ballata che non vuole travolgere ma avvolgere, dove tutto è calibrato, dalla strofa al ritornello che si apre, ma senza esagerare, con l’intensità controllata che ci vuole. Romantico e bestiale è un reggae sporco, fatto con Dave Stewart, e dà modo a Gianna di liberare la parte più istintiva, se si vuole istrionica, ma qui ancora misurata, su bordoni d’organo. Motivo torna alla ballata e potrebbe sapere di risaputo, appesantita dalla pochezza interpretativa e compositiva di Coez; ma in questo album breve, 36 minuti e andare, di elaborata essenzialità, niente va sprecato e anche questo pezzo, in sé piuttosto ruffiano e tra i più deboli della raccolta, si salva nell’economia complessiva del lavoro.

Si ascoltano echi di Nashville, dove il disco è stato rifinito, opportunamente, dopo la gravidanza inglese

Molto meglio Gloucester Road, arpeggiata in pizzico di dita, inglese ma in fondo italiana, perfino napoletana, il sapore è quello del vecchio compagno di «notti magiche» Edoardo Bennato. L’aria sta finendo sfodera il rock venato di country, si ascoltano echi di Nashville, dove il disco è stato rifinito, opportunamente, dopo la gravidanza inglese; discretamente mainstream, senza dubbio, e qua e là affiorano certe tentazioni liriche a gola spiegata; ma trovala, una che dopo tanta strada ancora non si fa scrupolo nel tirare fuori questa carica, più matura, forse anche più sincera di prima nel ritornare ad una certa idea de “l’America”.

NEL DISCO NON MANCANO LA VENA CANTAUTORIALE E LE MELODIE ITALIANE

Più canonica, subito dopo, Canzoni buttate, per dire più cantautorale, la classica canzone destinata ad essere adorata, adottata dagli hardcore fan. Per oggi non si muore continua il gioco, solo asciugandolo un poco: rinchiudendosi in un microcosmo emotivo e fisico, qui Gianna canta per tutti ma soprattutto per se stessa, come sotto la doccia o dentro un bicchiere di whisky; ed è una melodia italiana quella che dipana sotto flussi morbidi di chitarre elettriche. Simpaticamente celentanesca Assenza, giusta giusta per cavarne fuori un secondo singolo, e vedrete se non sarà così.

La cantautrice e musicista italiana Gianna Nannini posa per i fotografi durante il photocall per la presentazione del suo ultimo album ‘La differenza’.

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A chi non ha risposte, e siamo già in vista della fine, è piuttosto di routine ma serve a ricordare che qui c’è una interprete inconfondibile, tuttora in grado di alternare il registro roco, aggressivo con quello alto, quasi adolescenziale, sempre con quella intensità tra folk e il melodramma; e la coda col controcanto di una corista soul è un modo interessante di uscirne. L’esito di Liberiamo va sul sicuro, è Every breath you take dei Police, che poi è Stand by me di Ben E. King: in questi casi non conta il giro armonico standard, conta la capacità di rileggerlo con intensità adeguata: la Nannini non è una blueswoman, ma ha abbastanza esperienza e talento per cavarsela.

UN ALBUM IMPORTANTE DI UNA ARTISTA DI TALENTO

E così Gianna reimpacchetta il passato e lo riporta a casa. Fa un giro lungo, dall’Inghilterra all’America, mette nel sacco quello che conta, che serve, poi lo sparpaglia per confezionare un album importante, ambizioso, coraggioso nella sua scaltra onestà. C’è una purezza, una bellezza di suono che rende il disco godibilissimo specialmente in cuffia. C’è la sfida, sfrontata, evidente, di consegnarsi a una sensibilità poetica personale, dunque fuori tempo – niente ammiccamenti qui, niente costruzioni buone per Spotify, solo la riaffermazione di un talento consapevole della sua storia ma che allo stesso tempo non rinuncia a rinfrescarsi, solo alle sue condizioni. Ci sono i limiti, ma c’è anche tanta vitalità, tanta forza, l’orgoglio e l’entusiasmo che alla fine ti fa dire: però, mica male questa Nannini. E chi se l’aspettava, così cazzuta ancora.

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