Di Maio non vede che Tripoli sta per cadere in mano russa

La crisi libica mette in risalto tutta l’inadeguatezza del ministro degli Esteri. Troppo preso dalle grane interne al M5s per accorgersi che l’Italia si sta condannando all’ininfluenza.

L’inesperienza e l’insipienza di Luigi di Maio – e del premier Giuseppe Conte – hanno ormai espulso l’Italia da un qualsiasi ruolo nella crisi libica. Il ministro degli Esteri infatti si muove all’insegna di un dogma: «Non esiste soluzione militare: rinnoviamo l’impegno dell’Italia per una soluzione pacifica». Ma il punto è che invece proprio la soluzione militare si sta imponendo con l’imminente conquista armata di Tripoli da parte del generale Khalifa Haftar. L’allarme non è nostro, ma è stato lanciato con toni drammatici dallo stesso inviato dell’Onu Ghassam Salamé che ha dato per certa la caduta di Tripoli, non grazie alla abilità militare di Haftar (che non ha mai vinto né una guerra né una battaglia), ma come conseguenza ovvia della decisione strategica della Russia di Vladimir Putin di gettare nella battaglia attorno alla capitale libica la potente forza d’urto di 1.400-2.000 mercenari della Organizzazione Wagner –una macchina da guerra efficientissima- che stanno facendo capitolare le difese delle milizie di Misurata.

L’ANNUNCIO DI ERDOGAN E LA MINACCIA DI HAFTAR

L’imporsi imminente di una drammatica soluzione militare è tale che immediata e speculare è stata la reazione del presidente turco Tayyp Erdogan che ha annunciato che –su richiesta del governo legittimo di Fayez al Serraj– è pronto a inviare a Tripoli una forza di 5 mila militari per garantirne la difesa. Il governo di al Serraj ha immediatamente accolto con favore questa opzione. Anche Haftar ha preso sul serio questa opzione, tanto che ha minacciato «di affondare tutte le navi turche che portino soldati in Libia». Tuoni crescenti di guerra. Dunque, lo stallo della guerra civile libica che dura da anni, ha avuto una improvvisa accelerazione bellica dovuta alla decisione di Putin di applicare il “modulo ucraino”: un forte e determinante impegno militare russo affidato non già a truppe regolari (come in Siria), ma grazie agli “uomini verdi”, ex membri delle Forze speciali russe –formidabili combattenti reduci dal conflitto ceceno- inquadrati in una organizzazione privata, ma funzionale alla politica di Putin e coordinata col Cremlino.

DI MAIO SI GUARDA BENE DAL VOLARE A MOSCA E AD ANKARA

Il governo italiano non ha minimamente preso atto di questo drammatico cambiamento di scenario e ha rifiutato di compiere l’unica mossa indispensabile se vuole continuare a giocare in Libia: un intervento diplomatico diretto sulla Russia (e sulla Turchia). Ma Di Maio –preso come è dalle grane interne al M5s– si guarda bene dal volare a Mosca e ad Ankara. Pure, vi sarebbe un ampio spazio di manovre diplomatica per il nostro Paese. Putin ed Erdogan, infatti, hanno ampiamente dimostrato in Siria che –pur con interessi a volte divergenti- sono in grado di mediare le proprie strategia. Sono in contatto telefonico sulla crisi libica e si apprestano ad un vertice l’8 gennaio. L’Italia ha (avrebbe) tutti i titoli per inserirsi in questa dinamica di trattativa su Tripoli. Ma dà segno di non essersi nemmeno accorta che la propria visione del conflitto è scaduta, che i vertici non servono a nulla quando è la forza delle armi che determina i rapporti di forza. Un esempio raro e drammatico di dilettantismo.

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Haftar risponde a Erdogan: «In Libia è l’ora delle armi»

Il generale della Cirenaica reagisce all’ipotesi di un sostegno militare turco ad al Sarraj: «Il tempo dei colloqui diplomatici è finito». La Marina libica ha l’ordine di affondare le navi di Ankara.

Alle ipotesi interventiste del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il generale Khalifa Haftar ha risposto affermando che per la Tripoli delle milizie che appoggiano il premier Fayez al-Sarraj non c’è soluzione politica, ma solo militare: visto che Ankara sta per inviare i suoi blindati, è l’ora delle armi e non delle conferenze diplomatiche, a Berlino o altrove. E qualsiasi nave turca dovesse passare davanti a Bengasi per portare soldati in Libia verrà affondata. Haftar ha mandato avanti per dirlo il portavoce del sedicente Esercito nazionale libico (Lna), di cui è comandante generale: «Il tempo dei colloqui diplomatici è finito, ora è il tempo dei fucili», ha scandito Ahmed al-Mismari al megafono panarabo della tv al-Arabiya.

LA CONFERENZA DI BERLINO VERSO IL NAUFRAGIO

Un nuovo siluro contro i pazienti sforzi che la cancelleria tedesca sta profondendo per mettere attorno a un tavolo la comunità internazionale e soprattutto i Paesi (l’Onu ne conta una decina) che ingeriscono nella crisi libica rendendola ormai una classica guerra per procura. Del resto, come ribadito più volte da Mismari, è dall’inizio dell’attacco a Tripoli dell’aprile scorso che il generale considera solo l’opzione militare contro le milizie filo-Sarraj, ai suoi occhi «terroriste» nonostante il premier sia riconosciuto dall’Onu.

IL PORTAVOCE DI HAFTAR: «LA TURCHIA INVIA I BLINDATI»

Il portavoce ha rivelato di avere informazioni secondo le quali la Turchia si appresta ad inviare altri blindati in Libia facendoli atterrare all’aeroporto tripolino Mitiga che riapre proprio nelle prossime ore. E alimentando il clima di tensione, il capo di stato maggiore della Marina militare libica, l’ammiraglio Farag El Mahdawi, ha reso noto di avere in tasca l’ordine di Haftar di «affondare qualsiasi nave turca si avvicini all’area». Il fuoco verbale di sbarramento è una diretta risposta a Erdogan, impegnato assieme al Qatar nell’appoggio a Tripoli estendendo così in Nord Africa la faglia che lo contrappone al fronte egitto-saudita-emiratino alleato di Haftar.

ERDOGAN PRONTO A MANDARE TRUPPE SUL TERRENO

Il presidente turco martedì aveva dichiarato che «se la Libia ce lo chiedesse, saremmo pronti a mandare» truppe, come del resto già apertamente auspicato da Sarraj. La base dell’invio sono le controverse intese di «cooperazione militare e di sicurezza» marittima firmate a fine novembre da Erdogan a Istanbul assieme a Sarraj. «Non abbiamo condiviso gli accordi con la Turchia che, a nostro parere, non sono legittimi perché hanno definito limiti marittimi senza coinvolgere la Grecia. La priorità in Libia resta quella della stabilità», ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. E anche i vertici Ue, secondo indiscrezioni, si preparerebbero a dichiarare l’accordo Ankara-Tripoli contrario alle leggi internazionali. Nel complesso dunque nuova instabilità in un Paese che è l’imbuto della migrazione africana e che, come ha appena segnalato un rapporto dell’Onu, l’Isis ha dichiarato «uno dei principali assi» delle proprie operazioni future.

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Perché le Presidenziali post Bouteflika in Algeria sono inutili

Elezioni il 12 dicembre, per volere del capo dell’esercito Salah. In corsa solo ex premier, ex ministri o politici parte dell’establishment. Le piazze rifiutano tutti i candidati e boicottano le urne. Ma ai giovani manifestanti pro-cambiamento manca un nuovo leader.

Un voto rimandato e infine imposto, forse l’ultimo colpo di coda dell’ancient regime algerino, di certo un punto interrogativo per tutti, fuori e dentro l’Algeria. La piazza non vuole le Presidenziali del 12 dicembre 2019 ma il pouvoir, il «potere» da spazzare via, le ha imposte entro la fine dell’anno. Così detta la Costituzione algerina, ma soprattutto così ha voluto il nuovo uomo forte, il capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah.

IL POPOLO RIGETTA TUTTI E CINQUE I CANDIDATI

Dalle dimissioni dell’ex presidente ottuagenario Abdelaziz Bouteflika, destituito ad aprile dal generale Salah per «manifesta incapacità», entro 90 giorni doveva essere rieletto un capo dello Stato. A luglio il voto era stato annullato, mancando i candidati. Ma oltre l’anno non si può temporeggiare, poco importa se il fiume umano che dal 22 febbraio invade le strade dell’Algeria rigetti tutti i cinque candidati «del sistema, ex premier, ex ministri o oligarchi».

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Il candidato di punta delle Presidenziali in Algeria del 2019, l’ex premier Alis Benflis. (Getty)

L’IMBARAZZANTE 75ENNE BENFLIS

L’accoglienza dei comizi non è stata, per usare un eufemismo, calorosa. L’ex primo ministro (dal 2000 al 2003) Alis Benflis, 75enne naturalmente del Fronte di liberazione nazionale (Fln) di Bouteflika, suo avversario fantoccio delle Presidenziali, è il candidato di punta e tra i più imbarazzanti della rosa. Un insulto per il popolo dell’hirak, il «movimento» che chiede e pretende lo «smantellamento totale» dell’apparato di potere dell’Algeria. Il capo della campagna elettorale di Benflis nella regione della Cabilia, roccaforte delle contestazioni, si è dovuto dimettere su pressione dei familiari, per il timore di tumulti.

LE PIAZZE SEMI VUOTE PER L’EX PLURI MINISTRO

Abdelmadjid Tebboune, classe 1945, ex premier ed ex ministro praticamente di tutto, in politica dal 1975 e parente di Bouteflika, è il prediletto di Salah. E non lo aiuta: Tebboune ha dovuto cancellare il primo raduno perché la piazza era semi vuota, anche il suo manager ha mollato l’incarico.

L’ISLAMISTA MODERATO PRESO A UOVA E POMODORI

Peggio ancora è andata al candidato islamista Abdelkader Bengrina, un moderato intenzionato a rappresentare l’hirak. Meno organico, ma anche lui ex ministro, sebbene più di 20 anni fa, di un governo Bouteflika. Bengrina, 57 anni, ha promesso aiuti alle donne single e si era messo ad arringare sul cambiamento dalla piazza di Algeri delle proteste. Ma è dovuto scappare in auto, preso a uova e pomodori dai dimostranti che non lo ritengono una degna opposizione.

NON CONVINCE L’EX TITOLARE DELLA CULTURA

Alla vigilia del voto anche il Movimento della società per la pace, la maggiore rappresentanza degli islamisti nell’Algeria, ha preso le distanze da «tutti i candidati», appoggiando in linea di principio le Presidenziali ma «non in queste circostanze, senza consenso». Allo stesso modo, non convince l’ex ministro della Cultura Azzedine Mihoubi, 60 anni, già sottosegretario alla comunicazione, leader del Raggruppamento democratico nazionale (Rdn) alleato del Fln.

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Militari in pensione governativi manifestano ad Algeri per le Presidenziali del 2019. (Getty)

CAMPAGNA CONSIDERATA UNO SPRECO DI DENARO

Né si salva Abdelaziz Belaïd, 56enne leader del Fronte del futuro, piccolo partito considerato di sponda tattica del pouvoir. E certo Belaïd, che all’hirak assicura lotta alla corruzione, lo è stato di Bouteflika, come Benflis, alle passate Presidenziali. La società civile algerina è giovane, ostinatamente pacifica e molto consapevole dello status quo: considera la campagna «uno spreco di denaro» da parte di chi «non si è fatto ancora carico delle richieste popolari», cioè di un «vero ricambio», precondizione per «elezioni trasparenti e sane».

AI MANIFESTANTI PERÒ MANCA UN LEADER

Alle masse di manifestanti mancano però dei leader politici nuovi e preparati: dall’indipendenza il partito unico del Fln ha soffocato la fondazione di altri partiti che non fossero collaterali e funzionali al sistema. Agonizzante, come il malato Bouteflika, ma pronto anche alle Presidenziali del 2019 a giocare la carta della paura.

L’ESERCITO RESTA ARBITRO: E LA DEMOCRAZIA DOV’È?

Il potere fa leva sul bisogno di stabilità degli algerini. Si pone come rimedio al caos, lascia filtrare il rischio di disordini il giorno del voto, e intanto manda in piazza i supporter governativi. Le Presidenziali decise dal generale Salah, vice ministro della Difesa, 80enne, sono un banco di prova anche per la tenuta dell’hirak, forte ad aggirare le trappole ma continuamente insidiato. Finché l’esercito resterà arbitro autoritario della “transizione” non ci sarà democrazia in Algeria: gli arresti di questi mesi sono trasversali. Colpiscono imprenditori e funzionari corrotti del pouvoir, con retate a effetto, come esponenti della sinistra all’opposizione e dimostranti berberi per «attentato alla nazione». I cortei sono tollerati, ma i giornalisti intimiditi. I magistrati protestano contro le ingerenze, ma parte di loro sono complici. E se il voto boicottato per il presidente sarà un flop, per il pouvoir c’è sempre il secondo turno.

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Perché le Presidenziali post Bouteflika in Algeria sono inutili

Elezioni il 12 dicembre, per volere del capo dell’esercito Salah. In corsa solo ex premier, ex ministri o politici parte dell’establishment. Le piazze rifiutano tutti i candidati e boicottano le urne. Ma ai giovani manifestanti pro-cambiamento manca un nuovo leader.

Un voto rimandato e infine imposto, forse l’ultimo colpo di coda dell’ancient regime algerino, di certo un punto interrogativo per tutti, fuori e dentro l’Algeria. La piazza non vuole le Presidenziali del 12 dicembre 2019 ma il pouvoir, il «potere» da spazzare via, le ha imposte entro la fine dell’anno. Così detta la Costituzione algerina, ma soprattutto così ha voluto il nuovo uomo forte, il capo di stato maggiore Ahmed Gaïd Salah.

IL POPOLO RIGETTA TUTTI E CINQUE I CANDIDATI

Dalle dimissioni dell’ex presidente ottuagenario Abdelaziz Bouteflika, destituito ad aprile dal generale Salah per «manifesta incapacità», entro 90 giorni doveva essere rieletto un capo dello Stato. A luglio il voto era stato annullato, mancando i candidati. Ma oltre l’anno non si può temporeggiare, poco importa se il fiume umano che dal 22 febbraio invade le strade dell’Algeria rigetti tutti i cinque candidati «del sistema, ex premier, ex ministri o oligarchi».

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Il candidato di punta delle Presidenziali in Algeria del 2019, l’ex premier Alis Benflis. (Getty)

L’IMBARAZZANTE 75ENNE BENFLIS

L’accoglienza dei comizi non è stata, per usare un eufemismo, calorosa. L’ex primo ministro (dal 2000 al 2003) Alis Benflis, 75enne naturalmente del Fronte di liberazione nazionale (Fln) di Bouteflika, suo avversario fantoccio delle Presidenziali, è il candidato di punta e tra i più imbarazzanti della rosa. Un insulto per il popolo dell’hirak, il «movimento» che chiede e pretende lo «smantellamento totale» dell’apparato di potere dell’Algeria. Il capo della campagna elettorale di Benflis nella regione della Cabilia, roccaforte delle contestazioni, si è dovuto dimettere su pressione dei familiari, per il timore di tumulti.

LE PIAZZE SEMI VUOTE PER L’EX PLURI MINISTRO

Abdelmadjid Tebboune, classe 1945, ex premier ed ex ministro praticamente di tutto, in politica dal 1975 e parente di Bouteflika, è il prediletto di Salah. E non lo aiuta: Tebboune ha dovuto cancellare il primo raduno perché la piazza era semi vuota, anche il suo manager ha mollato l’incarico.

L’ISLAMISTA MODERATO PRESO A UOVA E POMODORI

Peggio ancora è andata al candidato islamista Abdelkader Bengrina, un moderato intenzionato a rappresentare l’hirak. Meno organico, ma anche lui ex ministro, sebbene più di 20 anni fa, di un governo Bouteflika. Bengrina, 57 anni, ha promesso aiuti alle donne single e si era messo ad arringare sul cambiamento dalla piazza di Algeri delle proteste. Ma è dovuto scappare in auto, preso a uova e pomodori dai dimostranti che non lo ritengono una degna opposizione.

NON CONVINCE L’EX TITOLARE DELLA CULTURA

Alla vigilia del voto anche il Movimento della società per la pace, la maggiore rappresentanza degli islamisti nell’Algeria, ha preso le distanze da «tutti i candidati», appoggiando in linea di principio le Presidenziali ma «non in queste circostanze, senza consenso». Allo stesso modo, non convince l’ex ministro della Cultura Azzedine Mihoubi, 60 anni, già sottosegretario alla comunicazione, leader del Raggruppamento democratico nazionale (Rdn) alleato del Fln.

Algeria presidenziali proteste Bouteflika
Militari in pensione governativi manifestano ad Algeri per le Presidenziali del 2019. (Getty)

CAMPAGNA CONSIDERATA UNO SPRECO DI DENARO

Né si salva Abdelaziz Belaïd, 56enne leader del Fronte del futuro, piccolo partito considerato di sponda tattica del pouvoir. E certo Belaïd, che all’hirak assicura lotta alla corruzione, lo è stato di Bouteflika, come Benflis, alle passate Presidenziali. La società civile algerina è giovane, ostinatamente pacifica e molto consapevole dello status quo: considera la campagna «uno spreco di denaro» da parte di chi «non si è fatto ancora carico delle richieste popolari», cioè di un «vero ricambio», precondizione per «elezioni trasparenti e sane».

AI MANIFESTANTI PERÒ MANCA UN LEADER

Alle masse di manifestanti mancano però dei leader politici nuovi e preparati: dall’indipendenza il partito unico del Fln ha soffocato la fondazione di altri partiti che non fossero collaterali e funzionali al sistema. Agonizzante, come il malato Bouteflika, ma pronto anche alle Presidenziali del 2019 a giocare la carta della paura.

L’ESERCITO RESTA ARBITRO: E LA DEMOCRAZIA DOV’È?

Il potere fa leva sul bisogno di stabilità degli algerini. Si pone come rimedio al caos, lascia filtrare il rischio di disordini il giorno del voto, e intanto manda in piazza i supporter governativi. Le Presidenziali decise dal generale Salah, vice ministro della Difesa, 80enne, sono un banco di prova anche per la tenuta dell’hirak, forte ad aggirare le trappole ma continuamente insidiato. Finché l’esercito resterà arbitro autoritario della “transizione” non ci sarà democrazia in Algeria: gli arresti di questi mesi sono trasversali. Colpiscono imprenditori e funzionari corrotti del pouvoir, con retate a effetto, come esponenti della sinistra all’opposizione e dimostranti berberi per «attentato alla nazione». I cortei sono tollerati, ma i giornalisti intimiditi. I magistrati protestano contro le ingerenze, ma parte di loro sono complici. E se il voto boicottato per il presidente sarà un flop, per il pouvoir c’è sempre il secondo turno.

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L’Arabia Saudita ha abolito la segregazione delle donne nei ristoranti

Riad dice basta alla regola che prevedeva ingressi separati per maschi e femmine nei locali.

L’Arabia Saudita ha abolito gli ingressi separati per uomini e donne nei ristoranti, facendo cadere un nuovo tabù sociale del regno ultraconservatore. Lo annunciano le autorità di Riad, riprese dai media. In ossequio al divieto d’incontro in luoghi pubblici fra uomini e donne che non siano familiari, i ristoranti e i locali pubblici finora osservavano una rigida segregazione, con sale e ingressi separati. Al Jazeera scrive che non è tuttavia chiaro se uomini e donne potranno sedere agli stessi tavoli all’interno dei ristoranti, e aggiunge che la misura non è obbligatoria, e che quindi potrebbe esserci qualche ristoratore che preferisce mantenere la rigida separazione.

LE RIFORME ACCOMPAGNATE DALLA REPRESSIONE

Al Jazeera ricorda anche che negli ultimi anni molti locali, ristoranti, ma anche caffè, sale per concerti e centri congressi, hanno iniziato a chiudere un occhio, con discrezione, sulla segregazione di genere. Una conseguenza del ‘nuovo clima’ di tolleranza sociale instaurato dal giovane erede al trono, principe Mohammed bin Salman, accusato però di aver inasprito come mai prima la repressione, anche violenta, del dissenso, di cui è stato vittima anche il giornalista Jamal Khashoggi.

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Gli ultraconservatori cavalcano le proteste in Iran

I riformisti mollano Rohani dopo la repressione. E l’ala più oltranzista guadagna forza in vista delle Legislative a febbraio. Così l’autoritarismo vince sulle democrazie.

Non è secondario che nell’Iran sciita si voti a febbraio del 2020 per rinnovare il parlamento. Nella Repubblica islamica sono state appena stroncate le proteste di massa più grandi e violente del 1979: dalle testimonianze sfuggite al blocco della censura, centinaia di morti in pochi giorni, più delle circa 70 vittime (in 10 mesi) ricostruite nell’Onda verde del 2009. Migliaia gli arresti ammessi dalle autorità, chi ha mobilitato i cortei e dei loro famigliari sarebbero prelevati dalle forze di sicurezza dalle case porta a porta. Mentre in Iraq rivolte sanguinose scuotono santuari islamici come Najaf, a larga maggioranza sciita e storica influenza iraniana. Il Medio Oriente sciita, 40 anni fa mobilitato e tradito negli ideali democratici da Khomeini, tenta di rovesciare i regimi e i governi corrotti. Ma anche stavolta la repressione rafforza gli ultraconservatori in Iran e i militari iraniani approfittano delle turbolenze nell’area mediorientale. 

LA GRANDE MACCHIA DI ROHANI

Hassan Rohani è presidente dal 2013, grazie al consenso popolare degli alleati riformisti con i leader agli arresti domiciliari dalle proteste del Movimento verde contro il governo Ahmadinejad.  L’avvitamento economico – per le durissime sanzioni americane di Donald Trump – aggrava la crisi finanziaria di mese in mese, alimentando le contestazioni: già di per sé un guaio per lo schieramento di Rohani. I morti, i feriti, gli arresti e l’oscuramento per giorni di Internet e delle reti telefoniche (quest’ultimo disposto proprio da Rohani, si è scritto, in capo al Consiglio nazionale di sicurezza) macchiano il suo governo più del governo Ahmadinejad. Fuori dall’Iran nessuno sa quello che è davvero successo durante i disordini di metà novembre, alcuni racconti raccolti dalle Ong sono sconvolgenti. Ma a Teheran, a proposito di Legislative, ne ha un’idea anche qualche parlamentare. In una mozione urgente si chiede una commissione d’inchiesta sulle uccisioni e sugli arresti. 

Iran rivolte Iraq guerra pasdaran
Le rivolte nella città santa sciita di Najaf, in Iraq. GETTY.

MOUSAVI CONTRO KHAMENEI

Rohani sta perdendo tutti i voti dei riformisti. Il leader dell’Onda verde Mir Hossein Mousavi, costretto a casa con la moglie dal 2011, raramente parla in pubblico anche se da quest’anno gli è stato dato un cellulare e può guardare alcuni canali tivù. Ma quest’autunno ha fatto uscire su Internet frasi lapidarie contro la guida suprema iraniana Ali Khamenei: «Nel 1978 gli assassini erano i rappresentanti e gli agenti di un regime non religioso, mentre i cecchini del novembre 2019 sono i rappresentanti di un governo religioso. Allora il comandante in capo era lo scià, oggi è la guida suprema che ha autorità assoluta». Dal Majlis, il parlamento iraniano, la deputata riformista Parvaneh Salahshouri ha denunciato vittime adolescenti tra i morti nelle ultime proteste. E chiede sia fatta luce «sulle notizie unilaterali e umilianti diffuse dalla tivù sui manifestanti, arrabbiati e frustrati da numerosi problemi economici». Sulle reti di Stato le autorità hanno ammesso «spari ai teppisti facinorosi».

Il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran anche in Iraq

VOTO BOICOTTATO A FEBBRAIO

Le masse sono pronte a disertare il voto il 21 febbraio. Un boicottaggio che farà vincere gli ultraconservatori, i referenti politici dell’apparato di sicurezza in testa alla repressione. In prospettiva anche alle Presidenziali del 2021. Tanto più che a Rohani l’opposizione rinfaccia da sempre l’accordo sul nucleare con gli Usa, affossato da Trump ma mai decollato neanche con Barack Obama a livello economico. Mentre il caos irradiato dalla rabbia delle popolazioni moltiplica i presidi dei pasdaran iraniani anche in Iraq: dalle informazioni dell’intelligence americana le forze all’estero dei guardiani della rivoluzione di Khamenei hanno trasportato un arsenale di missili balistici in Iraq, approfittando della confusione e dei rinforzi chiesti dal governo amico di Baghdad. L’effetto paradossale della guerra americana a Saddam Hussein è stata, come per le sanzioni di Trump agli ayatollah, la penetrazione politica e militare dell’Iran nell’Iraq. Come già in Libano e in Siria.

Iran rivolte Iraq guerra pasdaran
Paramilitari sciiti in Iraq, alle porte di Mosul. GETTY.

L’ARSENALE DI MISSILI IN IRAQ

Dal 2003 le milizie sciite irachene (cosiddette Forze di mobilitazione popolare) dei cecchini che sparano sui manifestanti sono state costruite e armate dai pasdaran. Mentre i marines addestravano l’esercito iracheno depurato dai quadri di Saddam Hussein, i governi filosciiti che si sono succeduti a Baghdad – pilotati dagli americani quanto dall’Iran – permettevano la proliferazione di paramilitari che sta prendendo il sopravvento. In Iraq i miliziani sciiti controllano strade, ponti, infrastrutture. Dove nell’ultimo anno, a un ritmo crescente, avrebbero fatto passare in segreto missili iraniani a medio raggio (circa 1000 km) che possono raggiungere Israele. O colpire i contingenti americani nel Paese, come i cinque razzi piovuti sulla base Usa di Ayn al Asad con oltre la metà dei marines in Iraq. Armi balistiche sofisticate, capaci di cambiare traiettoria e di sviare gli scudi aerei. Come è avvenuto lo scorso settembre con l’attacco alle raffinerie saudite.

Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31 del Paese, inclusa la città santa di Mashad

LE RIVOLTE NELLE CITTÀ SCIITE

Un missile, per l’intelligence Usa, partito dall’Iran e virato poi a Nord sul Golfo persico. Per i fortini in Libano, Siria e Iraq, e per sempre nuovi e potenti armamenti, la Repubblica islamica investe miliardi dai budget statali prosciugati dal blocco dell’export e dall’inflazione rampante. In Iraq mancano i servizi e il territorio, da Nord a Sud, è devastato da attentati e guerre. Le proxy war in Medio Oriente dell’Iran logorano milioni di civili. Il ministero dell’Interno iraniano ha citato disordini in 29 province su 31, inclusa la città santa di Mashad. In Iraq si sono rivoltati i santuari dei pellegrinaggi sciiti di Kerbala e Najaf: un duro colpo, il doppio assalto al consolato iraniano di Najaf è un attacco anche simbolico dal cuore degli sciiti. Non a caso, a parole in Iraq i religiosi sciiti si schierano «contro la corruzione» con  i manifestanti. Ma a maggior ragione l’Iran aumenta i presidi militari e anche di religiosi in Iraq. E come in Siria, è ancora l’autoritarismo a vincere.

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Ipo record per Saudi Aramco: vale 1.700 miliardi

Già raccolti 25,6 miliardi di dollari con l’Offerta pubblica iniziale. Superato il primato di Alibaba.

Saudi Aramco raccoglie 25,6 miliardi di dollari con l’Ipo, e mette a segno un nuovo record, superando quella di Alibaba che con la sua quotazione nel 2014 raggiunse i 25 miliardi di dollari. Il colosso petrolifero saudita ha spuntato il prezzo massimo di 32 riyal per azione a una valutazione di 1.700 miliardi di dollari. Il totale degli ordini ha raggiunto i 119 miliardi di dollari. Aramco ancora non ha comunicato quando inizieranno le negoziazioni a Riad.

I SAUDITI PUNTAVANO A 2 MILA MILIARDI

Il risultato finale è comunque diverso rispetto agli obiettivi che originariamente Aramco aveva prefissato. Inizialmente il governo saudita puntava a una valutazione di 2 mila miliardi di dollari, ma l’operazione ha sofferto un processo travagliato dopo una serie di rinvii per le incertezze sul buon esito dell’Ipo che hanno portato a ridimensionare la valutazione del colosso petrolifero saudita e a ridurre dal 5% all’1,5% le azioni in vendita. L’1% del capitale è stato destinato agli investitori istituzionali e il rimanente 0,5% al retail.

FONDAMENTALI GLI INVESTITORI SAUDITI

Aramco ha dovuto fare affidamento sugli investitori sauditi e la tranche riservata agli istituzionali ha attirato offerte per un totale di 397 miliardi di riyal. Per la tranche riservata agli investitori retail la sottoscrizione si era chiusa la scorsa settimana a quota 10,2 miliardi di dollari. L’Arabia Saudita ha fatto di tutto per assicurarsi il successo dell’Ipo: ha tagliato l’aliquota fiscale per Aramco tre volte, ha promesso il dividendo più grande del mondo e offerto bonus in azioni per investitori al dettaglio. I proventi dell’Ipo verranno trasferiti al Fondo pubblico di investimento, che a suo tempo si era imbarcato in forti investimenti, a partire dai 45 miliardi di dollari impegnati nel Fondo Vision di SoftBank e acquisendo una quota di 3,5 miliardi di dollari in Uber Technologies.

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La presidenza del G20 può essere una svolta vera per l’Arabia saudita

Potrebbe essere un fondamentale trampolino per aprire il Paese al mondo, sia dal punto di vista democratico, sia per dare di sé l’immagine di una Potenza credibile.

Il primo dicembre scorso l’Arabia Saudita ha assunto la presidenza del G20, il gotha economico-finanziario del mondo, per i prossimi 12 mesi. La notizia che in sé non sarebbe né positiva né negativa essendo assegnata a turno a ciascun paese membro del Gruppo, ma trattandosi di un Paese per molti versi oggetto di giudizi contrastanti e prevalentemente critici, soprattutto nel mondo occidentale, pensavo che avrebbe offerto l’occasione per un qualche commento/approfondimento di merito.

Per la verità vi sono stati diversi richiami a questo Paese, ma per macabra ironia essi sono stati focalizzati su un’altra vicenda, l’orrenda uccisione del giornalista Jamal Khashoggi avvenuta giusto un anno addietro, il 2 dicembre del 2018, se le ricostruzioni fatte all’epoca saranno mai convalidate da prove, dato che il cadavere non è stato trovato, né intero né a pezzi.

Ma si sa che la cronaca, soprattutto se relativa ad un delitto efferato – tanto più se associato in qualche modo ad un potente rampollo di casa reale ed erede al trono di una monarchia assoluta– attrae ben più di evento di politica internazionale. Salvo, beninteso, che non riguardi un importante politico italiano, invitato a Riad a fine ottobre a una tavola rotonda sul tema What’s next in economic diplomacy and G20? nella cornice della Future Investment Initiative – la cosiddetta Davos del deserto – assieme al britannico David Cameron.

RIAD DEVE CONVINCERE IL MONDO DI ESSERE UNA POTENZA CREDIBILE

Intendiamoci, lungi da me cercare di dare dell’Arabia Saudita un’immagine edulcorata, ma la lista degli Stati che calpestano i più elementari diritti umani e con i quali abbiamo o vorremmo avere buoni rapporti bilateralmente e come membri dell’Unione europea è molto lunga. Da Mosca a Pechino passando da Caracas a Nuova Delhi, passando per Ankara che ha proprio in Recep Erdogan il grande accusatore della Casa reale saudita e del principe ereditario Mohammed bin Salman, in particolare. Lo facciamo in nome del supremo “interesse nazionale”.

Il G20 offre a Riad un’occasione per imprimere una svolta alla sua stagione di riforme previste nella vasta e ambiziosa Vision 2030

Lasciamo dunque da parte questa schizofrenia moralistica e soffermiamoci sull’evento del G20 che ha una duplice valenza: da una parte perché offre a Riad un’occasione per imprimere una svolta alla sua stagione di riforme previste nella vasta e ambiziosa Vision 2030 che finora è stata fatta calare dall’alto del potere assoluto della Casa reale, la quale non ha avuto e non ha remore nel corredarle di atti repressivi a tutto campo a danno di quanti lottano per introdurre semi produttivi di democrazia. Dall’altra perché nei 12 mesi che seguono sarà chiamata a convincere il mondo, o almeno le altre 19 potenze del pianeta, di essere una credibile forza globale, e non solo economicamente, nella privilegiata situazione di trovarsi al crocevia di Asia, Africa ed Europa.

IL PROCESSO DI TRASFORMAZIONE DEL PAESE VOLUTO DAI SAUDITI

Tre sono in quest’ottica gli sbocchi perseguiti da Riad:

  • Dare più potere alla popolazione, con particolare riferimento alle donne e ai giovani;
  • Salvaguardare il pianeta;
  • Tracciare nuove frontiere specialmente sul terreno dell’innovazione e della tecnologia.

Si tratta di tre mete assai impegnative, molto di più dei risultati raggiunti finora nell’apertura del Paese al mondo che la Casa reale riassume, tra l’altro e in estrema sintesi, nella scomparsa dalle strade della polizia religiosa, dalla cancellazione del bando della musica, della danza e del divertimento, dell’accoglienza dei turisti, dalla autorizzazione data alle donne di guidare un’auto al viaggiare senza il permesso del “guardiano” maschio, di svolgere attività lavorative in continua espansione, etc.. Tutte cose vere e di fatto quasi rivoluzionarie in quel Paese, ma ben lontane dagli standard occidentali.

Il 2020 ANNO DELLA VERITÀ PER L’ARABIA SAUDITA

Il 2020 sarà dunque un anno della verità per questo Paese che ha già annunciato di aver invitato, oltre alle principali organizzazioni internazionali – dalle Nazioni Unite al Fondo monetario internazionale dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico al Gruppo della Banca mondiale, dall’Organizzazione mondiale della sanità all’Organizzazione mondiale del commercio.

Da destra, il ministro degli Esteri giapponese Toshimitsu Motegi e quello dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan al-Faisal, durante il G20 di Nagoya.

Dalla Fao al Consiglio per la stabilità finanziaria all’Organizzazione internazionale del lavoro – una serie di organizzazioni regionali quali il Fondo monetario arabo (Amf), la Banca islamica per lo sviluppo, la Repubblica socialista del Vietnam in qualità di presidente dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), la Repubblica del Sudafrica, in qualità di presidente dell’Unione africana (Ua), gli Emirati Arabi Uniti, in qualità di presidente del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), e la Repubblica del Senegal in qualità di presidente del Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (Nepad). Saranno poi organizzati un centinaio di eventi e conferenze, tra cui riunioni a livello ministeriale e riunioni di funzionari e rappresentanti della società civile.

LA VOLONTÀ DI EMANCIPARSI DAL PETROLIO

Insomma, la presidenza del G20 si prospetta come un fondamentale trampolino per aprire il Regno saudita al mondo, cominciando dall’inaugurazione della prima stagione turistica aperta ai visitatori asiatici e occidentali non musulmani, e proseguendo in un’onda lunga di investimenti, tanti investimenti, per uscire dal ghetto, ancorchè dorato, del petrolio. La quotazione dell’Aramco in Borsa non è stata una travolgente vittoria, ma ha fatto toccare con mano i termini del realismo per un Paese che dal petrolio si vuole emancipare. Una bella sfida il cui esito è tutt’altro che scontato. Lo vedremo e nell’attesa accontentiamoci di un duplice evento sportivo in chiave nostrana ed europea: la finale di Supercoppa italiana il 22 dicembre a Riad e la partenza da Gedda, il 5 gennaio, della prima Parigi-Dakar nei deserti arabici.

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Il premier iracheno Abdul-Mahdi si è dimesso

Dopo due mesi di proteste e circa 400 morti, il capo del governo annuncia il passo indietro. Scaricato anche dalla massima autorità religiosa del Paese.

Il premier iracheno Adel Abdul-Mahdi ha annunciato le dimissioni. Il passo indietro, ufficializzato nel pomeriggio del 29 novembre, arriva all’indomani dell’uccisione di decine di manifestanti anti-governativi nel Sud dell’Iraq e dopo che la massima autorità religiosa sciita irachena, il Grande Ayatollah Ali Sistani, aveva invitato il parlamento iracheno a togliere la fiducia al governo di Adel Abdul Mahdi.

CINQUANTA MORTI IN 24 ORE, 400 IN DUE MESI

Solo nelle ultime 24 ore sono morti 50 manifestanti. Il bilancio complessivo delle proteste in corso da due mesi a Baghdad e nel Sud sciita è di circa 400 vittime. La mattina del 29 novembre, Adel Dakhili, il governatore della regione meridionale di Dhi Qar con capoluogo Nassiriya, teatro nelle ultime 24 ore di sanguinosi scontri tra forze di sicurezza e manifestanti, aveva annunciato le dimissioni in dissenso col governo centrale di Baghdad.

Lo spargimento di sangue è stato causato da forze venute da fuori e senza che il governo centrale informasse le autorità locali

Adel Dakhili, governatore della regione di Dhi Qar

«Lo spargimento di sangue è stato causato da forze venute da fuori della regione di Dhi Qar e senza che il governo centrale informasse le autorità locali», aveva detto Dakhili.

L’APPELLO DI SISTANI AL PARLAMENTO

La spallata decisiva ad Abdul Mahdi è arrivata poco dopo. Nella predica settimanale, tenuta da un rappresentante di Sistani durante la preghiera comunitaria islamica del venerdì nella città santa sciita di Karbala, a Sud di Baghdad, il Grande Ayatollah ha chiesto al parlamento di intervenire per cambiare l’equilibrio politico nel Paese e ascoltare le pressanti richieste della popolazione del sud del Paese. «Il parlamento, da cui il governo trae sostegno, deve rivedere la sua scelta riguardo all’esecutivo considerando gli interessi dell’Iraq», ha detto Sistani, affermando che questa scelta deve esser fatta per «proteggere il sangue dei cittadini (iracheni)».

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La crisi libica si complica, l’Italia batta un colpo

Mentre il conflitto continua e le ingerenze di Russia e Usa si fanno più concrete, sarebbe indispensabile che il nostro Paese si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica. Di Maio ne sarà capace?

La Libia torna vistosamente alla ribalta internazionale: per l’abbattimento di due droni, uno statunitense e uno italiano, per il faro che vi hanno acceso gli incontri Usa con Khalifa Haftar e Fayez al Serraj, per le accuse di destabilizzazione rivolte alla Russia, per le attese riposte nella Conferenza alla quale stanno lavorando i tedeschi.

Non invece per gli sbarchi sulle nostre coste dei migranti provenienti dalla Libia che hanno dominato il dibattito politico nostrano, lasciando che rimanesse preda delle nebbie di una vaga laconicità osservata dalla Difesa in merito alla scomparsa del nostro drone: «Nella giornata odierna è stato perso il contatto con un velivolo a pilotaggio remoto dell’Aeronautica MilitareMQ9 Reaper (Predator B) – successivamente precipitato sul territorio libico. Il velivolo, che svolgeva una missione a supporto dell’operazione Mare Sicuro, seguiva un piano di volo preventivamente comunicato alle autorità libiche (Tripoli). Sono in corso approfondimenti per accertare le cause dell’evento».

Da allora il silenzio; anche in risposta alla dura reprimenda del portavoce dell’Esercito nazionale libico Ahmed al-Mesmari che nello stesso giorno bollava il volo (area di Tarhuna, roccaforte del generale Haftar a una 70ina di chilometri da Tripoli) come «una violazione dello spazio aereo e della sovranità della Libia». Si è probabilmente voluto evitare di incorrere in ritorsioni suscettibili di mettere a repentaglio il nostro contingente a Misurata anche se altrettanto verosimilmente è stato letto come un segnale di debolezza di cui tenere conto,

CAMBIA IL RAPPORTO DEGLI USA CON HAFTAR

Conforta comunque sapere che il nostro governo si occupa della Libia, e lo fa non solo in relazione al fenomeno migratorio, che pure è un problema per noi importante, ma anche alla sfibrante conflittualità che la attraversa e alle minacce che ne stanno derivando sul terreno della sicurezza di fronte a un riaffiorante terrorismo – dell’Isis ma anche di Ansar al Sharia – che sta investendo un po’ tutta l’area saheliana. Si tratta di una conflittualità che sta inducendo anche gli Usa ha riposizionare il proprio faro su questo Paese anche in termini pubblici. E ciò sia con una robusta sollecitazione al generale Haftar venuta dal Dipartimento di Stato a cessare le operazioni su Tripoli sia con un monito alla Russia di «non sfruttare il conflitto» contro la volontà del popolo libico.

Una serie di indicazioni che stanno facendo emergere un accresciuto supporto militare russo, con attrezzature e mercenari, a fianco di Haftar

Un linguaggio, quello rivolto ad Haftar, ben diverso dal “riconoscimento” della Casa Bianca rivolto da Donald Trump al generale nell’aprile del 2019 per il suo ruolo nella lotta al terrorismo con la cosiddetta operazione Dignità che aveva indotto più di un osservatore a leggere in quel giudizio una sorta di sganciamento da Serraj, il capo del governo riconosciuto internazionalmente, a favore dell’uomo forte della Cirenaica.

Da sinistra, Giuseppe Conte e Haftar.

Un linguaggio che ha segnalato e sta segnalando una rinnovata preoccupazione Oltreoceano per una serie di indicazioni che stanno facendo emergere un accresciuto supporto militare russo, con attrezzature e mercenari, a fianco di Haftar. E forse non è un caso se più o meno in contemporanea un giudice del Tribunale di Stato della Virginia ha emesso un mandato d’arresto contro Khalifa Haftar – che ha anche la cittadinanza americana – per crimini di guerra.

IL RUOLO DELLA RUSSIA PER SOSTENERE IL GENERALE

Su questo sfondo ha colto di sorpresa l’annuncio di Mesmari, portavoce del generale, dell’imposizione di una no fly zone «sopra e intorno all’area delle operazioni militari dentro e intorno a Tripoli». Intanto perché solo Serraj (Tripoli) avrebbe una legittimazione a decretare una misura del genere; poi perché non risulta che quest’ultimo disponga dei mezzi necessari per garantirne il rispetto e infine perché dalla no fly zone sarebbe escluso l’aeroporto di Mitiga, l’unico funzionante nella zona anche se provvisoriamente chiuso per le vicende belliche vi si stanno sviluppando.

L’accusa mossa alla Russia da David Shenker è di aver dispiegato in Libia regolari forze militari in numero significativo per sostenere l’attacco a Tripoli di Haftar

Si tratta di un annuncio che prelude a un’avanzata sulla capitale o semplicemente un segnale di vitalità del contingente armato? Vi ha fatto seguito un incontro svoltosi tra lo stesso Haftar e una delegazione americana di alto livello (vice consigliere per la sicurezza in Medio Oriente e rappresentanti dello stesso Dipartimento di Stato, dell’Energia e delle forze armate) per «discutere i passi necessari per giungere ad una sospensione delle ostilità e una soluzione politica al conflitto libico», sottolineando il pieno supporto degli Stati Uniti a favore della sovranità e integrità territoriale della Libia e la loro preoccupazione per l’azione della Russia.

Vladimir Putin.

Azione che a stretto giro di posta è stata seguita dall’accusa mossa sempre alla Russia da David Shenker, l’Assistant Secretary del Dipartimento di Stato per il vicino oriente, di aver dispiegato in Libia regolari forze militari in numero significativo per sostenere l’attacco a Tripoli del generale Haftar, sottolineandone l’effetto altamente destabilizzante anche perché destinato a provocare un gran numero di vittime civili.

LA CONFERENZA SULLA LIBIA E GLI INTERESSI DELL’ITALIA

Intanto prosegue il lavoro di preparazione della Conferenza sulla Libia da parte tedesca. Con determinazione, ma anche con una punta di scetticismo per l’ostentata negatività che si manifesta da parte dei più stretti collaboratori di Haftar che continuano a dichiarare che non c’è possibilità di alcuna soluzione politica, essendo quella militare ormai l’unica praticabile.

Sarebbe davvero indispensabile che l’Italia, bilateralmente e in seno all’Ue finalmente rinnovata nei sui vertici, si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica

Sarà proprio così? Difficile dire, stante le obiettive difficoltà in cui versano entrambi gli schieramenti e il peso della delusione/frustrazione degli sponsor di Haftar per una guerra che doveva portare in un lampo alla conquista di Tripoli e che dopo sette mesi versa al contrario in uno stallo dal quale nessuna vittoria militare di uno dei due contendenti sull’altro sembra a portata di mano. A meno che, beninteso, non intervenga la classica “mossa del cavallo”, cioè un deciso intervento esterno che nelle condizioni date avrebbe un esito dirompente.

Luigi Di Maio.

Stando così le cose, sarebbe davvero indispensabile che l’Italia, bilateralmente e in seno all’Unione europea finalmente rinnovata nei sui vertici, si ponesse in prima fila in un’azione politico-diplomatica bilaterale e multilaterale volta a far prevalere le ragioni del negoziato per la stabilizzazione della Libia che stanno alla base della Conferenza in preparazione ad opera della Germania. Non dimentichiamoci mai che in Libia abbiamo anche forti interessi energetici. Ma è lecito chiedersi se il nostro ministro degli Esteri saprà/vorrà muoversi con la necessaria tempestività in tale direzione.

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Giacimento dell’Eni chiuso in Libia a causa dei combattimenti

Attività sospese a El Feel. Le forze fedeli al premier Sarraj e quelle del generale Haftar si stanno scontrando nel Sud del Paese.

Il giacimento di El Feel della joint venture Mellitah Oil and Gas, nel Sud della Libia, è stato chiuso a causa dei combattimenti in corso tra le forze fedeli al governo di Tripoli, presieduto dal premier Fayez al-Sarraj, e quelle del generale Khalifa Haftar.

Il giacimento è gestito dall’Eni e dalla Noc, la compagnia petrolifera nazionale libica. Le attività saranno sospese fino al termine delle operazioni militari.

La Noc non ha segnalato danni a cose o persone e ha fatto sapere che i dipendenti del giacimento «sono al sicuro, ma non possono riprendere i loro normali compiti».

El Feel ha una produzione giornaliera stimata in circa 70 mila barili di petrolio. Sabha, la città nei pressi della quale si trova, dista 650 km in linea d’aria da Tripoli.

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Per Amnesty la procura suprema egiziana è coinvolta in torture e sparizioni

Per l’organizzazione non governativa i pm responsabili di abusi regolari della legge anti terrorismo che non garantiscono un giusto processo.

La verità sulla morte di Giulio Regeni non è ancora stata scritta e intanto in un nuovo rapporto sull’Egitto diffuso il 27 novembre, Amnesty International ha accusato la Procura suprema per la sicurezza di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo per annullare le garanzie sul giusto processo e perseguire migliaia di persone che hanno criticato il governo in modo pacifico. Il rapporto rivela quelle che Amnesty denuncia come «le complicità della Procura suprema nelle sparizioni forzate, nella privazione arbitraria della libertà, nei maltrattamenti e nelle torture».

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Per Amnesty la procura suprema egiziana è coinvolta in torture e sparizioni

Per l’organizzazione non governativa i pm responsabili di abusi regolari della legge anti terrorismo che non garantiscono un giusto processo.

La verità sulla morte di Giulio Regeni non è ancora stata scritta e intanto in un nuovo rapporto sull’Egitto diffuso il 27 novembre, Amnesty International ha accusato la Procura suprema per la sicurezza di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo per annullare le garanzie sul giusto processo e perseguire migliaia di persone che hanno criticato il governo in modo pacifico. Il rapporto rivela quelle che Amnesty denuncia come «le complicità della Procura suprema nelle sparizioni forzate, nella privazione arbitraria della libertà, nei maltrattamenti e nelle torture».

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In Siria prende piede il turismo dell’orrore

In Rete sono sempre più comuni offerte di viaggio dedicate a occidentali per «attraversare villaggi in macerie», o per «visitare siti archeologici sull’orlo della distruzione». Tra le mete anche Aleppo.

La Siria sta per entrare nel suo nono anno di guerra, ma il relativo controllo del regime di Bashar al Assad sul suo territorio sta permettendo la nascita di un nuovo fenomeno: il turismo dell’orrore. Secondo quanto riporta il Guardian, su Internet si trovano sempre più agenzie di nicchia che offrono pacchetti di viaggi dedicati a occidentali per «socializzare con i locali mentre si attraversano villaggi in macerie», o per «visitare siti archeologici sull’orlo della distruzione». Attrae anche l’ipotesi di provare «la famosa e cosmopolita vita notturna del centro di Damasco».

LA BASE A DAMASCO

Viaggiare in Siria è sconsigliato da quasi tutti i governi del mondo, ma la capitale è ormai relativamente sicura e sta diventando un punto di partenza per tutti quei viaggiatori che vengono attratti dal fatto che il Paese è stato inaccessibile per tutti questi anni.

ANCHE ALEPPO TRA LE METE

La maggior parte dei tour offerti dalle compagnie offrono visite nella città vecchia di Damasco, al castello di Krak dei Cavalieri vicino a Homs e al sito archeologico di Palmira. L’agenzia cinese Young Pioneer Tours ha in catalogo persino la città di Aleppo, teatro della battaglia più feroce della guerra siriana dal 2012 al 2016 e tutt’ora in rovina.

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Chi sono i foreign fighters dell’Isis che la Turchia vuole rispedire in Europa

Sarebbero 1.200 i cittadini europei catturati in Siria. Molti di loro sono jihadisti che Ankara è pronta a rimpatriare nei Paesi d’origine. Che però, nella mancata comunicazione tra intelligence, non sanno gestirli. Il punto.

L’11 novembre la Turchia ha espulso il primo dei combattenti stranieri dell’Isis trattenuti sul suo suolo, un americano che alla fine sembra essere stato abbandonato sul confine con la Grecia (quindi dell’Ue), rimbalzato più volte tra le polizie. «Non è un nostro problema», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sono seguiti due rimpatri, uno verso la Germania l’altro verso la Danimarca, e nei giorni dopo effettuati decine di voli verso l’Europa. «Centinaia e centinaia ce ne saranno ancora», ha promesso Erdogan e fa sul serio. Chi invece a lungo ha declinato, e declina, le proprie responsabilità sulle migliaia di foreign fighter (gli stranieri partiti per combattere con l’Isis e al Qaeda in Medio Oriente) sono i maggiori governi europei: la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, disconosce questi cittadini, la Francia e il Belgio tentano di farli processare in Iraq, la Germania li accetta ma non sa ancora bene dove mettere le mani.

LE LACUNE DELLE INTELLIGENCE

Ci sono prove o sufficienti elementi per disporre custodie cautelari? È certa alle intelligence la loro identità? In alcuni casi no. Il ministero degli Esteri tedesco ha ammesso di non conoscere ancora tutti i nomi dei concittadini in partenza dalla Turchia, solo un terzo dei rientrati è sotto inchiesta. Si tratta poi di stranieri catturati (circa 2280) dalla coalizione guidata dai curdo-siriani (Ypg) durante la liberazione caotica del Nord della Siria. Combattenti jihadisti detenuti in origine nelle carceri del Rojava, regione invasa questo autunno dalle forze turco-arabe dopo l’improvviso ritiro degli americani. Nell’ultima indagine dell’Egmont Institute si stima che circa 1.200 foreign fighter dell’Europa fossero finiti nelle prigioni curde. Sarebbe stato necessario un gioco di squadra tra i dipartimenti dell’antiterrorismo per ricostruire i percorsi dei sopravvissuti: migliaia di jihadisti stranieri sono morti o dispersi in guerra, alcuni di loro erano tracciati, mentre altri in vita no. Invece i governi occidentali chiamati in causa erigono muri. 

Un foreign fighter arrestato in Italia.
Un foreign fighter arrestato in Italia.

IN ITALIA NESSUN ARRIVO

L’Italia stavolta non fa testo: era tra i Paesi dell’Ue con meno foreign fighter, anche per le dinamiche di immigrazione più recenti. Tra i circa 140 partiti dal nostro Paese, una cinquantina risultano morti, e nel totale solo 25 erano cittadini italiani: tra loro, alcuni sono rientrati in Ue e diversi sono monitorati. Non ci sarebbero italiani in arrivo dalla Turchia: anche all’estero, ha fatto notizia la storia del piccolo Elvin, identificato dall’antiterrorismo italiano nel campo dell’Isis di al Hol, in Siria, e riportato a casa grazie alla collaborazione con le forze curde attraverso un corridoio umanitario tra Damasco e il Libano. Si ha contezza anche di altri bambini italiani nel Nord-Est della Siria sotto il controllo delle Ypg, che si tentano di rimpatriare. In ogni caso le donne e i minori rappresentano un problema nel problema, anche tra i foreign fighter in Turchia: circa due terzi di questi detenuti (ovvero 700) sono bambini tratti in salvo nei combattimenti. Spesso orfani di un genitore (come Elvin della madre), quando non dell’intera famiglia.

IL DESTINO DELLE DONNE RECLUTATRICI

Alcune donne dell’Isis sono rilasciate all’arrivo in Europa, per il ruolo passivo o la mancanza di prove, seguite poi nella de-radicalizzazione come è accaduto in Germania. Altre, come un’altra tedesca subito portata in carcere a Francoforte, sono accusate di avere avuto un ruolo attivo nella rete terroristica. E, quindi, sono considerate ancora pericolose come la combattente e reclutatrice di spose per i miliziani Tooba Gondal: 25enne di origine pachistana, è cresciuta a Londra dove vorrebbe tornare dalla famiglia, ed è ben nota all’intelligence del Regno Unito che le ha vietato il soggiorno. Tooba però, più volte vedova di jihadisti e con diversi figli, ha il passaporto francese. Di conseguenza era nella lista turca di ex membri dell’Isis da rimpatriare in Francia, dove in compenso l’intelligence ha pochi elementi su di lei. Il suo caso, come quello del primo espulso americano, è emblematico del groviglio sul destino dei terroristi cittadini di Stati occidentali che non li vorrebbero indietro.

Isis foreign fighter Turchia Ue
Circa 700 membri dell’Isis europei catturati in Siria sono bambini. GETTY.

LE CITTADINANZE REVOCATE

A questo proposito, negli Stati Uniti un giudice ha appena negato la cittadinanza a una donna dell’Isis, nata e cresciuta nell’Alabama, ma figlia di un diplomatico yemenita all’Onu: condizione che le è valsa l’altolà al rientro dalla Siria. Allo stesso modo il Regno Unito ha revocato la cittadinanza a diversi jihadisti (comprese alcune convertite da Gondal) per i quali si sostiene ci sarebbero gli estremi per la cittadinanza automatica nei Paesi d’origine. E sebbene anche i britannici si siano adeguati all’ultimatum («la Turchia non è un albergo»), lasciando atterrare dei sospetti terroristi, insistono affinché siano «processati nel luogo dove sono stati commessi i crimini», cioè in Siria e in Iraq. Una posizione sostenuta anche dal Belgio, costretto ad «aprire procedure bilaterali» con Ankara, ma con Baghdad si vedrà. Le resistenze sui connazionali nell’Isis restano forti anche in Francia, dove dal 2014 sono rientrati circa 250 affiliati grazie ad accordi con la Turchia. Ma i circa 400 che erano in Siria si vorrebbe fossero giudicati e detenuti in Iraq.

IL GIRO DI DENARO TRA RAQQA, LA TURCHIA E L’UE

A Baghdad c’è la pena di morte, anche le donne dell’Isis colpevoli di gravi reati sono giustiziate, mentre in Francia sconterebbero pene in media di 10 anni. Eppure gli esperti di terrorismo raccomandano di non mettere la testa nella sabbia, anche per ragioni di sicurezza: gli ultimi attacchi non sono stati compiuti da ex foreign fighter, in un modo o nell’altro, tracciati. Ma da cani sciolti come i rifiutati dagli Usa e dall’Ue, o fanatici e fanatiche apolidi o in fuga – con i figli – dai campi di prigionia verso le tante cellule sparse dell’Isis in Siria e in Iraq. E resta il fatto che più di 1000 jihadisti siano a tutti gli effetti cittadini Ue. Vero è che neanche la Turchia può fare il poliziotto buono, sottraendosi alle responsabilità sull’Isis: il dipartimento del Tesoro Usa sta sanzionando aziende turche che hanno rifornito al Baghdadi per anni. Money transfer, cambi valute e gioiellerie aperte dai jihadisti hanno operato anche dal Gran Bazar di Istabul verso Raqqa e gli altri territori dell’Isis. Con ramificazioni in Medio Oriente e fino in Belgio, nel cuore dell’Ue.

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Chi sono i foreign fighters dell’Isis che la Turchia vuole rispedire in Europa

Sarebbero 1.200 i cittadini europei catturati in Siria. Molti di loro sono jihadisti che Ankara è pronta a rimpatriare nei Paesi d’origine. Che però, nella mancata comunicazione tra intelligence, non sanno gestirli. Il punto.

L’11 novembre la Turchia ha espulso il primo dei combattenti stranieri dell’Isis trattenuti sul suo suolo, un americano che alla fine sembra essere stato abbandonato sul confine con la Grecia (quindi dell’Ue), rimbalzato più volte tra le polizie. «Non è un nostro problema», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sono seguiti due rimpatri, uno verso la Germania l’altro verso la Danimarca, e nei giorni dopo effettuati decine di voli verso l’Europa. «Centinaia e centinaia ce ne saranno ancora», ha promesso Erdogan e fa sul serio. Chi invece a lungo ha declinato, e declina, le proprie responsabilità sulle migliaia di foreign fighter (gli stranieri partiti per combattere con l’Isis e al Qaeda in Medio Oriente) sono i maggiori governi europei: la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, disconosce questi cittadini, la Francia e il Belgio tentano di farli processare in Iraq, la Germania li accetta ma non sa ancora bene dove mettere le mani.

LE LACUNE DELLE INTELLIGENCE

Ci sono prove o sufficienti elementi per disporre custodie cautelari? È certa alle intelligence la loro identità? In alcuni casi no. Il ministero degli Esteri tedesco ha ammesso di non conoscere ancora tutti i nomi dei concittadini in partenza dalla Turchia, solo un terzo dei rientrati è sotto inchiesta. Si tratta poi di stranieri catturati (circa 2280) dalla coalizione guidata dai curdo-siriani (Ypg) durante la liberazione caotica del Nord della Siria. Combattenti jihadisti detenuti in origine nelle carceri del Rojava, regione invasa questo autunno dalle forze turco-arabe dopo l’improvviso ritiro degli americani. Nell’ultima indagine dell’Egmont Institute si stima che circa 1.200 foreign fighter dell’Europa fossero finiti nelle prigioni curde. Sarebbe stato necessario un gioco di squadra tra i dipartimenti dell’antiterrorismo per ricostruire i percorsi dei sopravvissuti: migliaia di jihadisti stranieri sono morti o dispersi in guerra, alcuni di loro erano tracciati, mentre altri in vita no. Invece i governi occidentali chiamati in causa erigono muri. 

Un foreign fighter arrestato in Italia.
Un foreign fighter arrestato in Italia.

IN ITALIA NESSUN ARRIVO

L’Italia stavolta non fa testo: era tra i Paesi dell’Ue con meno foreign fighter, anche per le dinamiche di immigrazione più recenti. Tra i circa 140 partiti dal nostro Paese, una cinquantina risultano morti, e nel totale solo 25 erano cittadini italiani: tra loro, alcuni sono rientrati in Ue e diversi sono monitorati. Non ci sarebbero italiani in arrivo dalla Turchia: anche all’estero, ha fatto notizia la storia del piccolo Elvin, identificato dall’antiterrorismo italiano nel campo dell’Isis di al Hol, in Siria, e riportato a casa grazie alla collaborazione con le forze curde attraverso un corridoio umanitario tra Damasco e il Libano. Si ha contezza anche di altri bambini italiani nel Nord-Est della Siria sotto il controllo delle Ypg, che si tentano di rimpatriare. In ogni caso le donne e i minori rappresentano un problema nel problema, anche tra i foreign fighter in Turchia: circa due terzi di questi detenuti (ovvero 700) sono bambini tratti in salvo nei combattimenti. Spesso orfani di un genitore (come Elvin della madre), quando non dell’intera famiglia.

IL DESTINO DELLE DONNE RECLUTATRICI

Alcune donne dell’Isis sono rilasciate all’arrivo in Europa, per il ruolo passivo o la mancanza di prove, seguite poi nella de-radicalizzazione come è accaduto in Germania. Altre, come un’altra tedesca subito portata in carcere a Francoforte, sono accusate di avere avuto un ruolo attivo nella rete terroristica. E, quindi, sono considerate ancora pericolose come la combattente e reclutatrice di spose per i miliziani Tooba Gondal: 25enne di origine pachistana, è cresciuta a Londra dove vorrebbe tornare dalla famiglia, ed è ben nota all’intelligence del Regno Unito che le ha vietato il soggiorno. Tooba però, più volte vedova di jihadisti e con diversi figli, ha il passaporto francese. Di conseguenza era nella lista turca di ex membri dell’Isis da rimpatriare in Francia, dove in compenso l’intelligence ha pochi elementi su di lei. Il suo caso, come quello del primo espulso americano, è emblematico del groviglio sul destino dei terroristi cittadini di Stati occidentali che non li vorrebbero indietro.

Isis foreign fighter Turchia Ue
Circa 700 membri dell’Isis europei catturati in Siria sono bambini. GETTY.

LE CITTADINANZE REVOCATE

A questo proposito, negli Stati Uniti un giudice ha appena negato la cittadinanza a una donna dell’Isis, nata e cresciuta nell’Alabama, ma figlia di un diplomatico yemenita all’Onu: condizione che le è valsa l’altolà al rientro dalla Siria. Allo stesso modo il Regno Unito ha revocato la cittadinanza a diversi jihadisti (comprese alcune convertite da Gondal) per i quali si sostiene ci sarebbero gli estremi per la cittadinanza automatica nei Paesi d’origine. E sebbene anche i britannici si siano adeguati all’ultimatum («la Turchia non è un albergo»), lasciando atterrare dei sospetti terroristi, insistono affinché siano «processati nel luogo dove sono stati commessi i crimini», cioè in Siria e in Iraq. Una posizione sostenuta anche dal Belgio, costretto ad «aprire procedure bilaterali» con Ankara, ma con Baghdad si vedrà. Le resistenze sui connazionali nell’Isis restano forti anche in Francia, dove dal 2014 sono rientrati circa 250 affiliati grazie ad accordi con la Turchia. Ma i circa 400 che erano in Siria si vorrebbe fossero giudicati e detenuti in Iraq.

IL GIRO DI DENARO TRA RAQQA, LA TURCHIA E L’UE

A Baghdad c’è la pena di morte, anche le donne dell’Isis colpevoli di gravi reati sono giustiziate, mentre in Francia sconterebbero pene in media di 10 anni. Eppure gli esperti di terrorismo raccomandano di non mettere la testa nella sabbia, anche per ragioni di sicurezza: gli ultimi attacchi non sono stati compiuti da ex foreign fighter, in un modo o nell’altro, tracciati. Ma da cani sciolti come i rifiutati dagli Usa e dall’Ue, o fanatici e fanatiche apolidi o in fuga – con i figli – dai campi di prigionia verso le tante cellule sparse dell’Isis in Siria e in Iraq. E resta il fatto che più di 1000 jihadisti siano a tutti gli effetti cittadini Ue. Vero è che neanche la Turchia può fare il poliziotto buono, sottraendosi alle responsabilità sull’Isis: il dipartimento del Tesoro Usa sta sanzionando aziende turche che hanno rifornito al Baghdadi per anni. Money transfer, cambi valute e gioiellerie aperte dai jihadisti hanno operato anche dal Gran Bazar di Istabul verso Raqqa e gli altri territori dell’Isis. Con ramificazioni in Medio Oriente e fino in Belgio, nel cuore dell’Ue.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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L’incriminazione di Netanyahu aggrava la crisi in Israele

Tempi bui anche per il capo di Stato Rivlin. Né Bibi né l’avversario Gantz sono in grado di formare un governo. Così il premier accusato di tre reati resta in sella. Fino al voto anticipato di aprile. E forse anche dopo.

Un nuovo primato aggrava la peggiore crisi politica di Israele. Come era nell’aria, Benjamin “Bibi” Netanyahu, a 70 anni il più longevo primo ministro israeliano, è anche il primo premier incriminato durante il mandato. Nell’anno del record del bis delle Legislative, che dall’aprile del 2019 è probabile diventeranno un ter, a marzo 2020. «Giorni duri, cupi negli annali della storia di Israele», anche per il capo di Stato Reuven Rivlin che in questi frangenti dovrebbe essere una roccia. L’annuncio dell’incriminazione del leader del Likud Netanyahu, per bocca del procuratore generale Avichai Mandelblit, è piovuto all’indomani del fallimento del capo dellopposizione Benny Gantz nel tentare di formare un governo. Era stato incaricato da Rivlin, dopo il premier, ma anche il generale della coalizione Blu e Bianco ha dovuto rimettere il mandato. Dal voto anticipato di settembre è impossibile formare un esecutivo. Entro metà dicembre spetta al parlamento della Knesset proporre un candidato premier che raccolga un’improbabile maggioranza. 

LA CORSA ALL’IMMUNITÀ

Altrimenti, e sarà così, si tornerà al voto anticipato entro tre mesi. Netanyahu non sembra aver intenzione di mollare. Ha tenuto botta in tre anni di indagini, con la moglie Sara incriminata e poi condannata per appropriazione di fondi pubblici. Restare primo ministro è l’unica arma per far approvare alla Knesset leggi ad personam che gli risparmino il carcere (e può intanto attivare la procedura per l’immunità da parlamentare). In Israele un premier è tenuto a dimettersi solo alla condanna definitiva in terzo grado, per la quale occorreranno anni. Anche se certo per “Bibi” non è politicamente opportuno insistere: l’opinione pubblica è sensibile ai procedimenti giudiziari. E il Likud – con consensi in calo e dei fuoriusciti – è rimasto leale al leader. Ma il tentativo del governo Netanyahu di far passare una nuova legge sull’immunità, dopo il penultimo voto ad aprile, fece storcere il naso anche a parte dei conservatori. E fu subito abbandonato.

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit. GETTY.

LA PALUDE DI NETANYAHU E GANTZ

Grazie alla «caccia alle streghe» lamentata da Netanyahu, Gantz e l’alleato Yair Lapid drenano voti verso il cartello centrista partorito meno di un anno fa. La loro campagna era centrata sulle indagini contro Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio, non sul conflitto con la Palestina. Sulla guerra a Netanyahu si era compattata anche la Lista unita degli arabi israeliani. Ma, come il Likud, Gantz e gli altri non hanno una maggioranza sufficiente per governare, non ancora almeno. E per molto: anche i sondaggi di novembre danno un quadro sostanzialmente invariato dalla scorsa primavera. Blu e Bianco (33) ha scavalcato il Likud (32), ma di appena un seggio: e per Gantz, senza il blocco di sostegno della destra estrema e religiosa, raggiungere gli indispensabili 61 seggi è ancora più dura che per Netanyahu. Lista araba e l’ultranazionalista sionista Avigdor Lieberman , l’ex ministro della Difesa killer di “Bibi”, sono incompatibili.

Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari

LE MANOVRE CON I TYCOON

La via d’uscita alla palude esiste: è un governo di grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Impossibile però senza la testa di “Bibi”. A rigor di logica con l’incriminazione i tempi dovrebbero essere maturi: Mandelblit l’ha disposta per tutti i capi di accusa esaminati («un tentato colpo di Stato» per Netanyahu) e i reati contestati sono particolarmente odiosi. In particolare la corruzione del caso 4000 è infamante: Netanyahu è accusato di aver elargito per anni incentivi dal ministero delle Telecomunicazioni per un valore di oltre 250 milioni di dollari. Verso l’azienda telefonica Bezeq proprietaria anche di un sito web di news, in cambio di una copertura di notizie favorevole. La stessa manovra sarebbe stata intavolata – ma non realizzata – con il tycoon della free press Aron Mozes: non attraverso un’offerta di finanziamenti ma di modifiche legislative favorevoli. Per le quali il premier israeliano è accusato di abuso d’ufficio nel caso 2000

Israele Netanyahu incriminazione crisi Gantz
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (Likud). GETTY.

BIBI RISCHIA FINO A 13 ANNI 

La frode riguarda invece il caso 1000 e, nello stile, è più simile allo scandalo della moglie Sara che faceva la bella vita a spese dello Stato. Gli indizi portano la procura generale a pensare che il premier israeliano (in carica dal 2009 e già primo ministro tra il 1996 e il 1999) abbia ricevuto regalie per quasi 200 mila dollari tra sigari, gioielli e champagne: «La sua catena di fornitori», ha precisato Mandelblit. Miliardari, nel caso di “Bibi”, incluso il produttore di Pretty Woman di origine israeliana Arnon Milchan, in cambio di visti d’ingresso e altri favori. Se condannato, il leader del Likud potrebbe scontare fino a 10 anni per corruzione e un massimo di tre anni per la frode e l’abuso di potere. Come Lieberman i flop elettorali, il procuratore generale designato proprio da Netanyahu aspettava da tempo questo momento: ha comunicato le incriminazioni di fronte alle telecamere, annunciò di scavare sui casi un mese prima del voto del 9 aprile.

L’interesse pubblico ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge

Avichai Mandelblit

IL LIMBO DELL’INTERIM

Mandelblit è uno dei nemici di Netanyahu, da tempo si è distaccato dal premier sempre più spregiudicato non soltanto politicamente. «L’interesse pubblico», ha chiosato, «ci richiede di vivere in un Paese dove nessuno è al di sopra della legge». Per i laburisti le 63 pagine della superprocura sul premier sono «la più grave incriminazione contro un funzionario eletto nella storia di Israele». Un «giorno triste» anche per Gantz e i suoi: Blu e Bianco ha postato il video di 11 anni fa di Netanyahu di condanna contro l’allora primo ministro Ehud Olmert (nel Likud e poi in Kadima) accusato all’epoca di corruzione. Olmert si dimise, prima del verdetto e dei 16 mesi di carcere, e fu rimpiazzato proprio da “Bibi”. Ma per il successore potrebbe andare diversamente. Le tappe verso un vero governo sono una via crucis per i cittadini israeliani. Ma l’interim in mano a Netanyahu dalla crisi di fine 2018 è un limbo perfetto per restare in sella, nonostante tutto.

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Netanyahu è stato incriminato per corruzione

Il premier a processo per una delle tre inchieste che lo riguardano. È la prima volte che un primo ministro viene accusato di questo reato in Israele.

Il procuratore generale Avichai Mandelblit ha deciso di incriminare per corruzione Benjamin Netanyau in una delle tre inchieste in cui il premier israeliano è coinvolto. Confermate anche le accuse di frode e abuso di ufficio. Le inchieste sono il Caso 1000 (regali da facoltosi uomini di affari) e 2000 (rapporti con l’editore di Yediot Ahronot Arnon Mozes) con frode e abuso di ufficio, mentre per il Caso 4000 (affaire Bezez-Walla) oltre la frode e l’abuso di ufficio c’è anche la corruzione.

PRIMO PREMIER ACCUSATO DI CORRUZIONE IN ISRAELE

È la prima volta nella storia di Israele che un premier in carica è accusato di corruzione. Su tutte le reti nazionali sono in corso edizioni speciali di notiziari sulla vicenda.

LE LACRIME DI COCCODRILLO DI GANTZ

«Un giorno triste per lo Stato di Israele», ha scritto su Twitter il leder centrista Benny Gantz, maggiore rivale di Netanyahu, commentando l’incriminazione.

«È una giornata dura e triste per il popolo israeliano e per me personalmente» ha detto il procuratore generale, «ho deciso con cuore pesante, ma in piena coscienza. Questo era il mio dovere di fronte ai cittadini».

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L’Iran “riformista” ha mostrato il suo vero volto: le forche

Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iraq. Ma il regime change per ora è una chimera.

Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da una protesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.

Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.

Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.

L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA

Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.

L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele

L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gaza su Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.

Le proteste in Iraq.

L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.

NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI

Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.

Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie

Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.

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