Di Maio prova a ricompattare il M5s: arrivano i “facilitatori”

Il leader del Movimento presenta il team che lo affiancherà nelle decisioni: «In questi anni mi sono sentito solo».

L’uomo «solo» al comando dei 5 Stelle prova a far ripartire il Movimento contando sulla condivisione delle responsabilità: oneri e onori. «In questi anni mi sono sentito molto solo, credo pure Grillo lo sia stato. Quando sei solo e prendi decisioni da solo e non ci sono persone legittimate con le quali condividerle tutto è molto difficile», ammette il capo politico del M5s Luigi Di Maio annunciando dal palco del tempio di Adriano la partenza della fase 2 del M5s, quel rilancio nel segno della riorganizzazione della forza politica e della suddivisione delle responsabilità che dovrebbe anche metterlo al riparo dai continue critiche che gli arrivano dall’interno del Movimento.

IL TEAM DI 24 FACILITATORI

Ha costituito un “team” di 24 persone con dietro, ciascuna di esse, una squadra, per affiancarlo nelle decisioni: a breve seguirà anche la costituzione di un gruppo di facilitatori regionali che serviranno a fare da collante con i territori, il punto debole nella ramificazione del Movimento. «Stasera con questo evento possiamo chiudere un primo step di un processo di riorganizzazione partito quasi un anno fa: non è stato semplice. L’anno che sta per concludersi è quello in cui il Movimento ha raggiunto i dieci anni», ricorda il capo politico deciso a tirare le somme e ripartire con una nuova fase: «Siamo l’unica forza politica che fa decidere direttamente agli iscritti, anche per formare il governo. Gli unici a concepire un programma partecipato, per farlo diventare un programma di governo», ha detto Di Maio presentando il nuovo team. Poi ha aggiunto: «A volte una cosa buona deve finire affinché ne nasca un migliore. Oggi con la nascita del Team del Futuro permettiamo al Movimento di pensare ai prossimi dieci anni».

«NUOVA STRATEGIA PER LA COMUNICAZIONE»

Un punto dal quale ripartire, insomma, sapendo tuttavia che se «oggi nasce il Team del Futuro, non è la panacea di tutti i mali, non risolve tutti i problemi. È fatto di facilitatori, non di decisori. Ma qualcosa, per forza, dovrà cambiare. Lo promette il deputato Emilio Carelli che, ad esempio, va a supervisionare il settore della Comunicazione: «Dobbiamo scrivere un nuovo piano per la comunicazione che metta in luce gli aspetti positivi ma anche le criticità emerse», annuncia il giornalista che non nasconde le pecche a suo giudizio mostrate dalla comunicazione pentastellata. «Dobbiamo cambiare il tono e le strategie per rispondere agli attacchi che ci vengono rivolti e alle critiche, facendo ogni giorno un’analisi puntuale ed una verifica della nostra comunicazione», annuncia Carelli intenzionato ad affiancare l’opera di formazione della squadra di eletti anche attraverso corsi di “public speaking“.

IL RITORNO ALLA BASE

Poi c’è il ritorno all’ascolto della base, dei territori e non solo con la creazione dei nuovi facilitatori regionali ma anche con il rilancio del cosiddetto “Activism” che porterà avanti Paola Taverna. «Il Movimento è una piramide rovesciata, la base è il nostro vertice e noi dobbiamo rimanere degli umili portavoce. Chiedo scusa perché spesso si è creata una distanza, che dovrà essere colmata», confessa la vicepresidente del Senato che, dopo aver ammirato il successo di piazza delle Sardine, promette un cambio di regia: «Chiederò di ricominciare dall’ascolto, colmando quella distanza che si è venuta a creare con quella parte fondamentale del M5s, che è quella che sta nelle piazze e ai banchetti».

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Di Maio prova a ricompattare il M5s: arrivano i “facilitatori”

Il leader del Movimento presenta il team che lo affiancherà nelle decisioni: «In questi anni mi sono sentito solo».

L’uomo «solo» al comando dei 5 Stelle prova a far ripartire il Movimento contando sulla condivisione delle responsabilità: oneri e onori. «In questi anni mi sono sentito molto solo, credo pure Grillo lo sia stato. Quando sei solo e prendi decisioni da solo e non ci sono persone legittimate con le quali condividerle tutto è molto difficile», ammette il capo politico del M5s Luigi Di Maio annunciando dal palco del tempio di Adriano la partenza della fase 2 del M5s, quel rilancio nel segno della riorganizzazione della forza politica e della suddivisione delle responsabilità che dovrebbe anche metterlo al riparo dai continue critiche che gli arrivano dall’interno del Movimento.

IL TEAM DI 24 FACILITATORI

Ha costituito un “team” di 24 persone con dietro, ciascuna di esse, una squadra, per affiancarlo nelle decisioni: a breve seguirà anche la costituzione di un gruppo di facilitatori regionali che serviranno a fare da collante con i territori, il punto debole nella ramificazione del Movimento. «Stasera con questo evento possiamo chiudere un primo step di un processo di riorganizzazione partito quasi un anno fa: non è stato semplice. L’anno che sta per concludersi è quello in cui il Movimento ha raggiunto i dieci anni», ricorda il capo politico deciso a tirare le somme e ripartire con una nuova fase: «Siamo l’unica forza politica che fa decidere direttamente agli iscritti, anche per formare il governo. Gli unici a concepire un programma partecipato, per farlo diventare un programma di governo», ha detto Di Maio presentando il nuovo team. Poi ha aggiunto: «A volte una cosa buona deve finire affinché ne nasca un migliore. Oggi con la nascita del Team del Futuro permettiamo al Movimento di pensare ai prossimi dieci anni».

«NUOVA STRATEGIA PER LA COMUNICAZIONE»

Un punto dal quale ripartire, insomma, sapendo tuttavia che se «oggi nasce il Team del Futuro, non è la panacea di tutti i mali, non risolve tutti i problemi. È fatto di facilitatori, non di decisori. Ma qualcosa, per forza, dovrà cambiare. Lo promette il deputato Emilio Carelli che, ad esempio, va a supervisionare il settore della Comunicazione: «Dobbiamo scrivere un nuovo piano per la comunicazione che metta in luce gli aspetti positivi ma anche le criticità emerse», annuncia il giornalista che non nasconde le pecche a suo giudizio mostrate dalla comunicazione pentastellata. «Dobbiamo cambiare il tono e le strategie per rispondere agli attacchi che ci vengono rivolti e alle critiche, facendo ogni giorno un’analisi puntuale ed una verifica della nostra comunicazione», annuncia Carelli intenzionato ad affiancare l’opera di formazione della squadra di eletti anche attraverso corsi di “public speaking“.

IL RITORNO ALLA BASE

Poi c’è il ritorno all’ascolto della base, dei territori e non solo con la creazione dei nuovi facilitatori regionali ma anche con il rilancio del cosiddetto “Activism” che porterà avanti Paola Taverna. «Il Movimento è una piramide rovesciata, la base è il nostro vertice e noi dobbiamo rimanere degli umili portavoce. Chiedo scusa perché spesso si è creata una distanza, che dovrà essere colmata», confessa la vicepresidente del Senato che, dopo aver ammirato il successo di piazza delle Sardine, promette un cambio di regia: «Chiederò di ricominciare dall’ascolto, colmando quella distanza che si è venuta a creare con quella parte fondamentale del M5s, che è quella che sta nelle piazze e ai banchetti».

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Chi è Simone Benini, il candidato M5s in Emilia-Romagna

Il consigliere comunale di Forlì è risultato il più votato sulla piattaforma Rousseau con 335 voti. «Saremo le sentinelle dei cittadini», le sue prime parole.

Sarà il forlivese Simone Benini il candidato presidente del Movimento 5 stelle alle prossime Regionali in Emilia-Romagna. È risultato il più votato su Rousseau con 335 preferenze.

RINNOVABILI E SOSTENIBILITÀ TRA I PUNTI DEL SUO PROGRAMMA

Benini, 49 anni, è nato e vive a Forlì. Secondo la biografia diffusa dal M5s, è un piccolo imprenditore attivo nel campo It, sistemista programmatore senior, esperto di sistemi informatici. Politicamente, è legato alle energie rinnovabili, politiche rifiuti zero, sostenibilità ambientale applicata in ogni campo. È appassionato di apicultura ed è lui stesso apicoltore. Dal 2014 è consigliere comunale del M5s di Forlì, dove è stato riconfermato nel mandato a maggio di quest’anno. Durante il primo mandato è stato vice presidente della seconda Commissione consiliare programmazione, investimenti, urbanistica, ambiente, attività economiche.

«SAREMO LE SENTINELLE DEI CITTADINI»

«Saremo le sentinelle utili dei cittadini. Solo la nostra presenza permette di affrontare le sfide del futuro», sono state le prime parole, affidate a Facebook del neocandidato presidente. «Sarà una bellissima sfida che affronteremo tutti insieme, piazza per piazza, mercato per mercato. Come abbiamo sempre fatto», ha scritto Benini, certo «che solo una forte presenza del M5s in Assemblea legislativa metterà al centro i temi che interessano i cittadini e le sfide del futuro e non le solite lotte di potere tra partiti»

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Nel M5s anche Castaldo contro Di Maio sul listino bloccato

Il vicepresidente del parlamento Ue Castaldo, capo delegazione del M5s in Europa, contro il leader i suoi “facilitatori”. E cioè la segreteria del M5s, di cui sei membri scelti direttamente dal ministro degli Esteri.

Dopo le fuoriuscite di Lucidi e Grassi, i due senatori che sono passati alla Lega, il M5s prova a cambiare pagina con il voto su Rousseau di quella che in altri partiti si sarebbe chiamata segreteria. Ma quel voto è un prendere o lasciare comprese le sei persone scelte direttamente dal capo politico Luigi Di Maio. Un metodo che non è piaciuto affatto a un nome che nel movimento sta acquisendo sempre più peso cioè quel Fabio Massimo Castaldo eletto vice presidente del parlamento europeo e che guida il gruppo grillino che a Bruxelles ha segnato il divorzio dalla Lega votando a favore della commissione di Ursula Von der Leyen.

Fabio Massimo Castaldo durante il convegno ”Open Democracy ? Democrazia in rete e nuove forme di partecipazione cittadina”, organizzato dal Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati presso la Sala Mappamondo, 18 aprile 2016 a Roma. ANSA/FABIO CAMPANA

«UNA SCELTA AMPIA DI INCOERENZA»

«Una scelta d’ampia incoerenza: #iodicono alle liste bloccate!». Così in un post il vicepresidente M5s del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo commenta il voto in blocco su Rousseau del listino dei cosiddetti facilitatori nazionali scelti dal capo politico del Movimento Luigi Di Maio. «La trovo una scelta ampiamente incoerente: abbiamo portato avanti per anni la battaglia a favore delle preferenze nella legge elettorale, abbiamo combattuto sempre contro i listini bloccati e imposti dall’alto, e ora poniamo i nostri attivisti davanti a un voto del genere?», ha chiesto. «Credo che non sia affatto corretto presentare un listino bloccato e dare la possibilità di votare solamente Si o No all’intera lista: si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Mi sembra non solo incoerente, ma anche limitante», ha scritto su Fb, Castaldo protestando sulla scelta di far semplicemente ratificare dalla rete i sei facilitatori M5S scelti dal capo politico.

Il capo politico del M5s Luigi Di Maio.

18 FACILITATORI, SEI SCELTI DAL CAPO

Il ragionamento del vicepresidente del parlamento europeo prosegue: «Si sceglie, infatti, una squadra di 18 persone che affiancherà il capo politico del Movimento nei processi decisionali e nelle scelte programmatiche. In questo percorso «sei facilitatori sono indicati direttamente dal capo politico, con funzioni estremamente rilevanti, e oggi si vota anche per confermare o declinare tale scelta». Nel listino, sottolinea l’eurodeputato, ci sono nomi «diversi di assoluto valore per competenze, capacità e impegno dimostrato in questi anni. Ma in tutta franchezza non posso tacere sul fatto che ci sia un problema non tanto di merito, sul quale non voglio esprimermi per non influenzare in alcun modo il vostro giudizio». «Si sarebbe dovuto dare a tutti noi la possibilità di votare individualmente ogni componente di quella squadra. Svolgeranno funzioni molto diverse gli uni dagli altri, pertanto il voto avrebbe dovuto essere sulla competenza dei singoli» sostiene. Il problema, invece, è «di metodo. E per questo vorrei porre una riflessione a tutti noi attivisti».

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Il senatore Ugo Grassi passa dal M5s alla Lega

Nel 2018 difendeva le multe per chi cambia casacca. Salvini lo accoglie a braccia aperte. Di Maio durissimo su Facebook: «Quelli come lui ci dicano quanto costa un senatore al chilo».

Il senatore Ugo Grassi ha lasciato il gruppo parlamentare del M5s per passare a quello della Lega. Il giurista napoletano, eletto nel 2018 nel collegio uninominale di Avellino, l’11 dicembre ha votato in dissenso sulla risoluzione con cui la maggioranza ha dato mandato al premier Giuseppe Conte di proseguire la trattativa sul Mes in sede europea. Altri due senatori pentastellati, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, hanno votato in dissenso e sono passati al gruppo Misto, mentre Gianluigi Paragone ha votato contro ma non ha cambiato gruppo. Lucidi (che in Aula ha detto: «Voglio uscire dalla ruota del criceto») e Urraro potrebbero presto seguire le orme di Grassi. Il quale nel 2018 difendeva le multe per i “trasformisti”, come ha ricordato il sottosegretario agli Interni Carlo Sibilia, ripescando un vecchio post sul Blog delle Stelle. Grassi, per l’esattezza, scriveva che il principio del divieto di mandato imperativo «ha un suo interno limite: quello della lealtà verso l’elettore».

SALVINI LO ACCOGLIE A BRACCIA APERTE

Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha accolto il “disertore” con entusiasmo: «Diamo il benvenuto al senatore Grassi. Porte aperte per chi, con coerenza, competenza e serietà ha idee positive per l’Italia e non è succube del Pd. Sulla riforma della giustizia e sul rilancio delle università italiane col senatore Grassi lavoreremo bene».

DI MAIO FURIOSO SU FACEBOOK

Opposto il commento del capo politico del M5s, Luigi Di Maio, affidato a una diretta video su Facebook: «Senatori come Grassi possono passare alla Lega, ma non raccontino balle. Dicano che il tema non è il Mes, ma che gli hanno proposto altre contropartite. Il mercato delle vacche a cui stiamo assistendo è la solita logica dei voltagabbana che noi abbiamo sempre combattuto. Ci dicano quanto costa un senatore al chilo».

Grassi, da parte sua, ha scritto una lettera per rendere pubblici i motivi che lo avrebbero spinto a cambiare gruppo: «Il mio dissenso non nasce da un mio cambiamento di opinioni, bensì dalla determinazione dei vertici del M5s di guidare il Paese con la granitica convinzione di essere i depositari del vero e di poter assumere ogni decisione in totale solitudine. Gli effetti di questo modo di procedere sono così gravi ed evidenti (a chi vuol vedere), da non dover neppure essere esposti. Basti l’esempio della gestione dell’ex Ilva per dar conto dell’assenza di una programmazione nella gestione delle crisi».

GRASSI: «LA LEGA MI OFFRE UNA SECONDA OPPORTUNITÀ»

Il senatore ha quindi rievocato l’esperienza del governo Conte I, quando avrebbe avuto modo di «comprendere che molti dei miei obiettivi politici erano condivisi dal partito partner di governo», ovvero dalla Lega. Lo stesso partito che oggi «mi offre una seconda opportunità per raggiungere quegli obiettivi, forte di una reciproca stima costruita nei mesi appena trascorsi e a fronte di un evidente fallimento della mia iniziale esperienza». Ma per Di Maio non basta: «Senatori come Grassi dicano semplicemente che vogliono cambiare casacca e tradire il mandato che i cittadini gli hanno dato. Non c’è nulla di male. Ma vadano a casa, altrimenti a quella lettera alleghino anche un listino prezzi sul mercato delle vacche aperto da Salvini in Senato, che ci ricorda lo stesso mercato delle vacche di Silvio Berlusconi ai tempi di Sergio De Gregorio».

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Il senatore Ugo Grassi passa dal M5s alla Lega

Nel 2018 difendeva le multe per chi cambia casacca. Salvini lo accoglie a braccia aperte. Di Maio durissimo su Facebook: «Quelli come lui ci dicano quanto costa un senatore al chilo».

Il senatore Ugo Grassi ha lasciato il gruppo parlamentare del M5s per passare a quello della Lega. Il giurista napoletano, eletto nel 2018 nel collegio uninominale di Avellino, l’11 dicembre ha votato in dissenso sulla risoluzione con cui la maggioranza ha dato mandato al premier Giuseppe Conte di proseguire la trattativa sul Mes in sede europea. Altri due senatori pentastellati, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, hanno votato in dissenso e sono passati al gruppo Misto, mentre Gianluigi Paragone ha votato contro ma non ha cambiato gruppo. Lucidi (che in Aula ha detto: «Voglio uscire dalla ruota del criceto») e Urraro potrebbero presto seguire le orme di Grassi. Il quale nel 2018 difendeva le multe per i “trasformisti”, come ha ricordato il sottosegretario agli Interni Carlo Sibilia, ripescando un vecchio post sul Blog delle Stelle. Grassi, per l’esattezza, scriveva che il principio del divieto di mandato imperativo «ha un suo interno limite: quello della lealtà verso l’elettore».

SALVINI LO ACCOGLIE A BRACCIA APERTE

Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha accolto il “disertore” con entusiasmo: «Diamo il benvenuto al senatore Grassi. Porte aperte per chi, con coerenza, competenza e serietà ha idee positive per l’Italia e non è succube del Pd. Sulla riforma della giustizia e sul rilancio delle università italiane col senatore Grassi lavoreremo bene».

DI MAIO FURIOSO SU FACEBOOK

Opposto il commento del capo politico del M5s, Luigi Di Maio, affidato a una diretta video su Facebook: «Senatori come Grassi possono passare alla Lega, ma non raccontino balle. Dicano che il tema non è il Mes, ma che gli hanno proposto altre contropartite. Il mercato delle vacche a cui stiamo assistendo è la solita logica dei voltagabbana che noi abbiamo sempre combattuto. Ci dicano quanto costa un senatore al chilo».

Grassi, da parte sua, ha scritto una lettera per rendere pubblici i motivi che lo avrebbero spinto a cambiare gruppo: «Il mio dissenso non nasce da un mio cambiamento di opinioni, bensì dalla determinazione dei vertici del M5s di guidare il Paese con la granitica convinzione di essere i depositari del vero e di poter assumere ogni decisione in totale solitudine. Gli effetti di questo modo di procedere sono così gravi ed evidenti (a chi vuol vedere), da non dover neppure essere esposti. Basti l’esempio della gestione dell’ex Ilva per dar conto dell’assenza di una programmazione nella gestione delle crisi».

GRASSI: «LA LEGA MI OFFRE UNA SECONDA OPPORTUNITÀ»

Il senatore ha quindi rievocato l’esperienza del governo Conte I, quando avrebbe avuto modo di «comprendere che molti dei miei obiettivi politici erano condivisi dal partito partner di governo», ovvero dalla Lega. Lo stesso partito che oggi «mi offre una seconda opportunità per raggiungere quegli obiettivi, forte di una reciproca stima costruita nei mesi appena trascorsi e a fronte di un evidente fallimento della mia iniziale esperienza». Ma per Di Maio non basta: «Senatori come Grassi dicano semplicemente che vogliono cambiare casacca e tradire il mandato che i cittadini gli hanno dato. Non c’è nulla di male. Ma vadano a casa, altrimenti a quella lettera alleghino anche un listino prezzi sul mercato delle vacche aperto da Salvini in Senato, che ci ricorda lo stesso mercato delle vacche di Silvio Berlusconi ai tempi di Sergio De Gregorio».

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Radiografia delle fratture e dei riposizionamenti nel M5s

Un senatore è passato ufficialmente alla Lega. Mentre il Movimento è sempre più in balìa di correnti trasversali che si coagulano in gruppi e gruppetti a seconda del tema. Dal Mes fino all’Ilva. Chi sta con chi (fino alla prossima giravolta).

Quando in estate iniziò a concretizzarsi l’ipotesi di un governo giallorosso, in molti teorizzarono che sarebbe durato almeno fino all’implosione del Partito democratico. Il Pd, sebbene svuotato della sua componente renziana e calendiana, sta invece dando prova di una inattesa solidità. Non si può dire lo stesso del Movimento 5 stelle che, sballottato dai tanti inciampi elettorali (la perdita di 6 milioni di voti dalle politiche del 2018 alle europee del 2019 e la sconfitta a ogni tornata regionale cui si è presentato), sembra sempre più diviso in correnti.

Le scissioni sono tante e tali che si potrebbe persino dire che «l’uno vale uno» delle origini sia diventato «ciascun per sé»

Difficile presentare una mappa di ciò che sta avvenendo all’interno dei 5 stelle, galassia giorno dopo giorno più nebulosa. Le scissioni sono tante e tali che si potrebbe persino dire che «l’uno vale uno» delle origini sia diventato «ciascun per sé». Del resto, anche le correnti sono, per usare due termini cari ai grillini, “post ideologiche e trasversali” e si coagulano in gruppi e gruppetti a seconda del tema e, soprattutto, del mal di pancia. E se Luigi Di Maio derubrica tutto alle solite «sparate contro il Movimento» dei «giornaloni», è innegabile che sia proprio la sua leadership uno dei motivi principali delle innumerevoli divisioni. Ma, come vedremo, ricondurre tutto a un confronto serrato tra chi spinge perché l’alleanza con il Pd arrivi fino a fine legislatura e chi invece spera che Di Maio strappi sarebbe riduttivo.

DA FRACCARO A SILVESTRI: I FEDELI A DI MAIO

Anche nel M5s è possibile rinvenire, come nei grandi partiti, un cerchio magico. File che, però, si assottigliano giorno dopo: per un Riccardo Fraccaro (già scivolato nel gruppo dei governisti) che ripete che «la leadership non è in discussione» c’è chi, come Michele Gianrusso, attacca: «Non è vero che solo 10 parlamentari sono contro Di Maio. Semmai in 10 sono rimasti con lui. E se ricomincia a fare coppia con Di Battista, ne resteranno cinque». Si posizionano tra gli ultimi fedelissimi Pietro Dettori (braccio destro di Davide Casaleggio e ciò fa pensare che lo stesso Casaleggio appoggi Di Maio, contrariamente a Beppe Grillo che supporta invece i governisti), la viceministra Laura Castelli, il sottosegretario Manlio Di Stefano e Francesco Silvestri (in bilico tra dimaiani e nuova guardia) che Di Maio voleva capogruppo alla Camera come successore di Francesco D’Uva, così da porre fine al rebus che sta rendendo plateali i disaccordi interni. Ma i deputati si sono rifiutati. Ora Silvestri potrebbe diventare tesoriere.

Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

GIARRUSSO E TIZZINO: GLI OPPOSTI TRA I CRITICI DI DI MAIO

Ben più variegata la fronda di chi si posiziona contro Di Maio. Solo tra i rappresentanti siciliani si va dal già citato Giarrusso, da sempre considerato vicino alla Lega, a Giorgio Trizzino, che negli ultimi giorni oltre ad avere chiesto che il Movimento sia guidato da un organo collegiale, ha più volte fatto sentire la propria voce chiedendo compattezza nell’alleanza con i dem («Il vero nemico nostro e del Paese», ha detto il deputato, «è la destra sovranista»). Insomma, il leader pentastellato prende schiaffi sia da chi contesta la sua linea filo-governativa sia da chi lo accusa di mettere a rischio la tenuta dell’esecutivo.

DI PIAZZA, RICCARDI E QUELLI CHE VOGLIONO UN’ASSEMBLEA

Trizzino non è il solo a chiedere che al vertice di M5s venga istituito un organo corale. Tra questi anche Steni Di Piazza e Riccardo Ricciardi (fichiano) che va oltre e chiede l’«assemblea deliberante». Di Maio dovrebbe insomma sottostare alle decisioni prese dalla maggioranza di deputati e senatori. Ricciardi sarà candidato a vice dell’ex sottosegretario al Mise Davide Crippa nella corsa al posto dei questori alla Camera.

PARAGONE GUIDA LA PATTUGLIA DEGLI ANTI-MES

Sul fronte del Meccanismo europeo di stabilità combattono Elio Lannutti, Gian Luigi Paragone e Raphael Raduzzi. Dalla battaglia sembra invece essersi ritirato Stefano Patuanelli, che lo scorso 19 giugno in Aula oltre a chiedere la riforma del Mes tuonava: «È giusto andare con la schiena dritta a rappresentare le esigenze del nostro Paese, con la forza di un governo che ha una grande maggioranza e ha capito che, soltanto attraverso il cambiamento, si salva non solo l’Italia, ma anche l’Europa». Il tema ha spaccato il M5s, tanto che alcuni senatori hanno minacciato di fare le valigie per passare alla Lega e uno di loro, Ugo Grassi, ha ufficialmente lasciato il gruppo grillino per trasferirsi nel Carroccio.

Alessandro Di Battista.

GRILLO E I GOVERNISTI CONTRO L’ASSE DI MAIO-DI BATTISTA

Tutto ciò accadeva ben prima che Patuanelli ereditasse da Di Maio la poltrona del Mise. Particolare che ha determinato un sostanziale riposizionamento. Oggi, infatti, è tra i governisti assieme a big quali il collega Alfonso Bonafede (Guardasigilli) e all’ultimo arrivato in questo club, il sottosegretario alla Presidenza Fraccaro. Si tratta della compagine sostenuta da Beppe Grillo, il fautore la scorsa estate – assieme a Matteo Renzi – di questo esecutivo. La corrente appoggia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e critica aspramente la ritrovata alleanza tra il ministro degli Esteri e Alessandro Di Battista.

DIBBA, BATTITORE LIBERO FILO-LEGHISTA

Già. E dove si colloca Di Battista? Rimasto fuori dal parlamento, non ha mai fatto mistero di avere simpatie filo-leghiste e di non avere affatto apprezzato la costruzione di un esecutivo con il Pd (del resto, in estate aveva annunciato di essere al lavoro su un libro sulla vicenda di Bibbiano, che l’inattesa alleanza con i dem ha poi fatto saltare). Nelle ultime settimane, il terrore di vedere crollare ulteriormente il proprio consenso tra gli elettori ha spinto Di Maio a riavvicinarsi a Di Battista, battitore libero. Scelta che ha ulteriormente ridotto le schiere dei “dimaiani” nelle Camere: gli onorevoli al secondo – e ultimo – mandato non possono certo guardare con favore i tentativi di accorciare la legislatura.

DA TONINELLI A LEZZI: I “TROMBATI” DEL CONTE 2

Accanto a chi sta concludendo il secondo giro trova posto un’altra categoria di delusi: i ministri del Conte 1 che non sono stati riconfermati nel Conte 2. A iniziare dall’ex titolare del dicastero delle Infrastrutture, Danilo Toninelli. La sua insoddisfazione sarebbe tale che, secondo alcuni, lo avrebbe trasformato in una scheggia impazzita da corteggiare in caso di votazioni ad alto rischio. Seguono Giulia Grillo, Barbara Lezzi e il già citato Crippa (che ha preso il posto di D’Uva come capogruppo raccogliendo consensi proprio tra chi contesta Di Maio).

Barbara Lezzi.

L’EX MINISTRA A CAPO DEI DURI E PURI CONTRO L’ILVA

Ma Lezzi anima un’altra fronda, quella degli esponenti pugliesi che vogliono a tutti i costi mantenere le promesse fatte nelle piazze della regione in campagna elettorale, ovvero la chiusura dell’Ilva senza se e senza ma. Tra i duri e puri, contrari all’ipotesi di qualsiasi scudo a tutela della dirigenza franco-indiana, alla Camera spiccano Giovanni Vianello e Gianpaolo Cassese, mentre al Senato, dove i numeri si fanno insidiosi, i dissidenti sarebbero tra i 13 e i 15.

MANTERO, LA MURA E L’ALA DEI “FICHIANI”

Attorno a Roberto Fico si è raccolta ormai da tempo l’ala “sinistra” del Movimento. Si tratta di una delle correnti più anziane, risalenti a quando si doveva determinare a chi spettasse la leadership. Nell’ultimo periodo i “fichiani” hanno fatto un passo verso la coalizione governativa allontanandosi ulteriormente dalla visione di Di Maio e Di Battista. «Il Parlamento deve continuare a lavorare, ha altri tre anni di vita davanti a sé», ripete come un mantra il presidente della Camera, Fico. Nella sua fronda militano i senatori Matteo Mantero e Virginia La Mura e i deputati Doriana Sarli e Gilda Sportiello.

L’IDENTITÀ A 5 STELLE DI MORRA E COMPAGNIA

Tra i più critici nei confronti della leadership di Di Maio si posiziona senz’altro il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia e tra i primi ad avere deciso di “metterci la faccia”, sfidando apertamente il capo politico. È stato Morra ad avere detto che il Movimento si è «imborghesito». Per questo ha iniziato a indire una serie di riunioni ristrette con altri onorevoli dissidenti volte a riscoprire l’identità delle origini. Da qui il soprannome della sua corrente: Identità a 5 Stelle. Gravitano in quell’area Carla Ruocco, Piera Aiello e Ugo Grassi.

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Il M5s si spacca sul Mes: tre senatori pronti a passare alla Lega

La risoluzione di maggioranza sul fondo salva Stati alla prova di Palazzo Madama. I numeri sono in bilico: almeno quattro pentastellati voteranno contro. A Montecitorio sono mancati 14 voti.

Sarebbero tre, forse quattro, i senatori del M5s pronti a lasciare il Movimento in occasione della presentazione della risoluzione di maggioranza sul Mes in vista del Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre. Per passare, probabilmente, alla Lega. Le voci su questa possibilità stanno circolando con insistenza in Transatlantico a palazzo Madama dove è cominciato il dibattito sul Salva-Stati. «Matteo Salvini ha deciso di aprire il mercato delle vacche. Mi auguro che a questo mercato non partecipi nessuno», ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, rispondendo a Tirana a una domanda sulle voci di transfughi.

NUMERI RISICATI A PALAZZO MADAMA

A palazzo Madama, hanno calcolato alcuni senatori del Movimento, la risoluzione di maggioranza passerebbe a maggioranza ma con un numero di voti ancora in ribasso: potrebbero essere infatti solo 157 i voti a favore. Tra i contrari, sembra ormai certo, i tre senatori M5s che hanno già votato contro la fiducia sul dl sisma: Stefano Lucidi, Francesco Urraro e Ugo Grassi. In molti prevedono il passaggio alla Lega per almeno due di loro. «Se passerò alla Lega? Non ho mai sentito di nessuno che sale sul carro del perdente», ha detto Lucidi intervistato da Tagadà.

SICURO IL VOTO CONTRARIO DI PARAGONE

A questi si aggiunge il voto contrario di Gianluigi Paragone che intende intervenire in dissenso rispetto al documento di maggioranza. Al contrario la maggioranza potrebbe contare sui voti di alcuni deputati del Misto, a partire dagli “esuli” M5s come il comandante Gregorio De Falco ed altri.

A MONTECITORIO MANCANO 14 VOTI

«Oggi 12 colleghi non hanno potuto partecipare alla votazione sulla risoluzione Mes ed hanno comunicato in anticipo al gruppo la loro impossibilità ad essere presenti alla votazione odierna. Fra i motivi delle loro assenze giustificate ci sono, ad esempio, la malattia e la maternità», è quanto affermano in una nota congiunta i tre delegati D’Aula del MoVimento 5 Stelle alla Camera, Cosimo Adelizzi, Daniele Del Grosso e Davide Zanichelli. Al momento del voto finale, tra i pentastellati, si erano registrati 14 non votanti.

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Cosa prevede la risoluzione di maggioranza sul Mes

Accordo chiuso nella notte. Il M5s: «Siamo soddisfatti, ci sarà un nuovo round in parlamento a gennaio».

Accordo chiuso nella notte sul Mes. Oggi la maggioranza è chiamata ad approvare una risoluzione per dare al premier Giuseppe Conte il mandato politico a completare la trattativa in sede europea.

Il M5s aveva minacciato lo strappo, ma l’emergenza almeno per il momento è rientrata: «Siamo soddisfatti, nella risoluzione ci sono le modifiche chieste dal Movimento», hanno fatto sapere fonti pentastellate.

«La logica di pacchetto è stata confermata, ci sarà un nuovo round in parlamento a gennaio, prima del prossimo Eurogruppo, e ci sarà il pieno coinvolgimento dell’Aula. Ogni decisione verrà presa ascoltando le Camere, non firmeremo nulla al buio».

Nella risoluzione di maggioranza sul Mes si chiede di «escludere interventi di carattere restrittivo sulla detenzione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei rischi dei titoli di Stato attraverso la revisione del loro trattamento prudenziale». Oltre a «escludere qualsiasi meccanismo che implichi una ristrutturazione automatica del debito pubblico».

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Il commissario Alitalia lo ha deciso l’ex hostess grillina Lupo

La senatrice con un passato da dipendente sugli aerei ha convinto Patuanelli a scegliere Leogrande. Il che la dice lunga sulle capacità di analisi del ministro. Il nuovo n.1 di Eni verrà nominato da un benzinaio?

Se una hostess indica il commissario straordinario per l’Alitalia è lecito attendersi (per la proprietà transitiva) che il prossimo amministratore delegato dell’Eni venga nominato da un benzinaio. Già, nel mondo del Movimento 5 stelle avviene anche questo. Il principale sponsor di Giuseppe Leogrande quale commissario unico della compagnia aerea è stata Giulia Lupo, senatrice grillina. Ed è a lei che si rivolgono tutti per sapere quale saranno le strategie del governo per l’Alitalia. Persino tra gli addetti ai lavori: risultano, e stupiscono, molte sue interlocuzioni con i diversi candidati alla cordata salvatrice, poi evaporata, a cominciare da Lufthansa.

IL POTERE DELLA LUPO GRAZIE A PATUANELLI

La posizione dell’ineffabile Giulia si è rafforzata dopo che Stefano Patuanelli, suo ex capogruppo a Palazzo Madama, è stato nominato ministro dello Sviluppo economico. Ed è stata proprio questa conoscenza maturata fra i velluti del Senato a far aumentare il peso specifico della Lupo nei confronti del ministro e, quindi, del governo.

Chi è Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico nel Conte bis
Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli.

MA LA SUA ATTIVITÀ PARLAMENTARE NON BRILLA

E pensare che fino alla fine del Conte I la ex hostess non aveva dato una prova brillante della sua attività di parlamentare. Il 30 luglio 2018 aveva presentato un’altisonante proposta di legge delega che si proponeva il riordino del trasporto aereo. Tema talmente urgente che la Commissione Trasporti ha aspettato sei mesi prima di metterla in calendario (l’8 gennaio 2019), un altro mese per indicare un relatore (14 febbraio), e ora giace dimenticata nei cassetti di Palazzo Madama.

L’avvocato Giuseppe Leogrande.

LEOGRANDE ESPERTO DI DIRITTO FALLIMENTARE…

La circostanza che la Lupo abbia convinto Patuanelli a scegliere proprio Leogrande, poi, la dice lunga sulle capacità di analisi del ministro. Non foss’altro per scaramanzia, e senza nulla togliere alle capacità professionali del nuovo commissario unico di Alitalia, ma Leogrande è un esperto di diritto fallimentare: non proprio un buon viatico per una compagnia aerea che ha un piede nella fossa e con l’altro ci sta per entrare. A smentire i superstiziosi non ci sono neppure i risultati – che non sono buoni – di Blue Panorama, la compagnia aerea di cui Leogrande è stato prima commissario, e poi presidente. E comunque, una cosa è Blue Panorama, un’altra è l’Alitalia. Ma questo ai pentastellati frega poco e niente. In attesa che un benzinaio indichi l’amministratore delegato dell’Eni o che un postino faccia il nome per il prossimo numero uno delle Poste.

Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.

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I sondaggi politici elettorali del 9 dicembre 2019

Lega saldamente al primo posto, ma in calo di quasi un punto percentuale. Cresce il Pd, stabile il M5s. Ancora in ascesa il partito di Calenda.

Sondaggi senza grossi scossoni quella pubblicati da Swg per il TgLa7 nella serata del 9 dicembre. Dopo la crescita dell’ultima rilevazione (+0,7%) la Lega di Matteo Salvini fa segnare una nuova battuta d’arresto, ma si conferma comunque al 33% dal 33,8% della settimana precedente. Guadagna ancora terreno, invece, il Partito democratico, che nelle intenzioni di voto degli italiani conquista 0,3 punti percentuali, fermandosi al 18%.

Invariate le preferenze per il Movimento 5 stelle che rimane stabile al 15,5%. Segno negativo invece sia per Fratelli d’Italia che per Italia viva. I partiti di Giorgia Meloni e Matteo Renzi perdono rispettivamente 0,2 e 0,3 punti. In leggera crescita Forza Italia, che recupera 0,2 punti percentuali, al 5,3% dal precedente 5,1%. Andamento positivo anche per il neonato partito Azione di Carlo Calenda, che sale al 3,5%.

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall’altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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Il Mes spacca il M5s, Di Maio a un bivio

Il capo politico vuole evitare di appiattirsi sul Pd presentando una risoluzione solitaria sul Salva Stati. Dall’altro sa che non può tirare troppo la corda. Lo scenario.

Archiviato il braccio di ferro sulla manovra su cui la maggioranza pare essere arrivata a un accordo, Luigi Di Maio deve vedersela con il dossier Mes. Permanenza al governo, tenuta di una leadership sempre più in discussione e sopravvivenza dello stesso Movimento 5 stelle.

Lunedì mattina comincia il conto alla rovescia. I pentastellati hanno 48 ore per cercare di assottigliare il fronte contrario a una risoluzione di maggioranza con il Pd sul fondo Salva Stati. Portare in Aula una risoluzione in solitaria per il M5s equivarrebbe infatti accendere la miccia della crisi di governo.

DI MAIO ABBASSA I TONI

I dissidenti, in Senato e alla Camera, ci sono e ci saranno. E Di Maio lo sa. Tutto dipende dal loro numero. Difficile convincere parlamentari come Paragone, Grassi, Giarrusso, Maniero o Raduzzi, i duri e puri contro il Mes. Giuseppe Conte dal canto suo ostenta sicurezza e tranquillità. Mentre il capo politico M5s, dopo aver teso la mano ad Alessandro Di Battista, abbassando i toni. Né Beppe Grillo, né la maggior parte degli eletti vuole la crisi. Lo confermano le parole di Roberta Lombardi che sabato a SkyTg24 ha difeso il governo chiedendo di fatto a Di Maio «meno tweet e più mediazione». Il capo politico M5s è di fronte a un bivio. Da un lato vuole difendere l’identità del Movimento senza appiattirsi sul Pd, dall’altro sa che è necessario non tirare troppo la corda con gli alleati visto che in caso di una vittoria in Emilia-Romagna Nicola Zingaretti potrebbe rompere facendo di fatto cadere l’esecutivo.

MESSAGGI DI PACE NEL M5S

Un primo risultato Di Maio lo ha raggiunto. In una nota congiunta del vice capogruppo M5s alla Camera Francesco Silvestri e dei 14 capicommissioni viene negata con forza la stesura di un documento politico contro di lui. Resta però «la necessità di un confronto periodico perché ognuno deve essere un pezzo di un ingranaggio collegiale», è la linea dei capicommissione. Una linea che un parlamentare sintetizza così: «Non vogliamo più sapere cosa farà il M5s dai giornali».

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M5s, Lombardi: «Da Di Maio vorrei meno tweet e più mediazione»

La capogruppo pentastellata alla Regione Lazio a SkyTg24 critica l’atteggiamento del capo politico troppo «muscolare».

Luigi Di Maio, sempre più isolato all’interno del M5s, lo ha negato con insistenza: l’idea che il M5s voglia fare cadere il governo «è una sciocchezza», ha ribadito il 6 dicembre a Radio Capital. «Lo abbiamo fatto nascere noi, altrimenti non lo facevamo partire». Eppure le acque pentastellate restano increspate.

LOMBARDI DIFENDE IL GOVERNO CON IL PD

Sabato a lanciare la frecciata quotidiana all’indirizzo del ministro degli Esteri e capo politico del M5s è stata Roberta Lombardi. «Io so che Di Maio sta cercando di porre all’attenzione del governo dei punti di vista tipici del M5s ma preferirei ci fosse molto meno la ricerca del tweet e molto più la voglia di conciliare punti di vista diversi che però hanno pari dignità e devono trovare una forma di mediazione», ha detto la capogruppo pentastellata alla Regione Lazio ospite de L’intervista di Maria Latella su Skytg24. Insomma l’atteggiamento di Di Maio «è quello del capo politico di una forza che sta cercando di mantenere la propria identità all’interno del governo ma», ha messo in chiaro, «lo fa in una modalità molto muscolare che non condivido, preferirei che fosse più mediata».

LOMBARDI: «DIAMO UN’OPPORTUNITÀ A QUESTO PAESE»

Alla domanda su cosa pensi Di Maio di questo governo, Lombardi ha risposto in pieno stile pentastellato delle origini. «Io vengo da una scuola del M5s dove quello che interessa non è l’opinione del singolo. Sono stata uno degli sponsor di questo governo perché ho detto che c’è la possibilità di fare delle cose bene insieme. Diamo un’opportunità a questo Paese, adesso questo governo deve continuare a essere utile». Del resto, ha ricordato la capogruppo 5 stelle alla Pisana, anche il garante Beppe Grillo ha sempre detto che «ci sono dei temi» su cui Pd e M5s possono trovare un punto di accordo. Come M5s, ha aggiunto, «abbiamo fatto un investimento su questo governo perché volevamo fare delle cose utili per il Paese. Quindi sicuramente questo modo continuo di porre dei distinguo, anche semplificando il messaggio politico alla ricerca sempre del titolo o dell’agenzia che ti ponga più in evidenza, è stancante», ha messo in chiaro Lombardi.

«NESSUNA DEROGA SUL SECONDO MANDATO»

Sulla regola del secondo mandato la «rompiscatole» (come lei stessa si definisce) Lombardi ha puntato i piedi. Anche se si tratta di Virginia Raggi. «Nessuna deroga per nessuno. Si può fare politica anche fuori dalle istituzioni, anzi un ricambio generazionale è sano e salutare», ha detto l’ex parlamentare M5s.

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I deputati del M5s pronti a sfiduciare il capo politico Di Maio

Parlamentari pentastellati sul piede di guerra per le posizioni più radicali del ministro degli Esteri. Battaglia sul ritorno di Di Battista e i torni accesi sul Mes.

I mal di pancia e i malumori in casa M5s sono tutt’altro che sotto controllo. Secondo Repubblica in casa grillina sarebbe circolato un messaggio molto duro dei deputati per mettere in guardia il capo politico: «Se i toni non cambiano, se a guidare le danze dev’essere Alessandro Di Battista e i retroscena che ci danno pronti per il voto non vengono smentiti, faremo firmare a tutti un documento per sfiduciare il capo politico».

Secondo la ricostruzione di Repubblica l’ultimatum al ministro degli Esteri sarebbe partito dopo la riunione del 4 dicembre tra i 14 capigruppo nelle diverse commissioni dei parlamentari pentastellato. A inasprire ancora di più i toni è stata la battaglia sul Mes. Molti deputati non hanno mandato giù il tentativo di Di Maio di andare allo scontro dato che il mandato era di trattare con il resto della maggioranza.

A preoccupare è anche l’attivismo e il ritorno di Di Battista, sancito proprio dallo stesso leader a diversi esponenti del Movimento: «Se volete che mi dimetta, dopo di me c’è solo Alessandro». I deputati in un certo senso hanno fatto loro la linea dettata dal fondatore Beppe Grillo che da mesi spinge per legarsi al Pd all’interno del centrosinistra in ottica anti-sovranista.

DI MAIO IN DIFESA DEL DIBBA

Nella mattinata del 6 dicembre Di Maio è intervenuto sulla questione dai microfoni di Radio Capital spiegando che «È sacrosanto che nel movimento non tutti siano d’accordo con me, però trattare Alessandro come un corpo estraneo al movimento mi fa male, abbiamo costruito un pezzo di movimento insieme e se parla di togliere le concessioni a Benetton e che non possiamo firmare al buio un trattato internazionale come il Mes», io «credo che vada sostenuto», ha spiegato.

LA MANCANZA DI UN’ALTERNATIVA

I dissidenti anti-Di Maio, però, sono ancora orfani di un leader alternativo. Si era pensato all’attuale ministro Stefano Patuanelli, già capo gruppo del Movimento al Senato sia perché in sintonia col fondatore, che in buoni rapporti con la famiglia Casaleggio, Gianroberto prima e Davide ora. Ma Patuanelli ha respinto le lusinghe al mittente dicendo di non essere disponibile.

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Il Pd insiste sull’alleanza M5s-sinistra per arginare Salvini

Franceschini: «Costruiamo un campo contro questa destra o ci ritroviamo la Lega a Palazzo Chigi». Ma l’agenzia di rating Fitch: «Le tensioni tra i giallorossi mettono a rischio il governo».

Non riescono a trovare un’intesa sulla riforma della prescrizione. Erano in disaccordo a proposito di legge elettorale, salvo poi trovare una convergenza sul proporzionale. Li divide lo ius soli. E anche in tema di nomine Rai si sono sfidati a colpi di veti incrociati. Nonostante tutto, Partito democratico e Movimento 5 stelle sembrano orientati a prolungare la loro esperienza insieme. Soprattutto da parte piddina. Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo nonché capodelegazione dem nel governo Conte II, ha detto a Porta a porta: «Al di là delle differenze, bisogna arrivare alla prospettiva di un’alleanza M5s-sinistra».

IN COMUNE C’È L’AVVERSARIO DA BATTERE

Un aspetto in comune pare ci sia: l’avversario da battere. «Per fermare questa destra bisogna arrivarci, la partita è troppo delicata per fermarsi. Va costruita questa prospettiva nel Paese, un campo che eviti Matteo Salvini a Palazzo Chigi e abbia alla base dei principi etici e politici», ha aggiunto Franceschini.

«GLI ITALIANI NON SONO DIVENTATI ESTREMISTI»

Poi bisogna sempre fare i conti col consenso elettorale, visto che stando ai sondaggi il centrodestra è a un passo dal 50%. Franceschini però non crede «che gli italiani siano diventati estremisti, intercettano un sentimento, lo cavalcano e i voti vanno in quella direzione. Bisogna costruire un campo competitivo contro quella destra estrema, e siamo competitivi solo stando insieme, lo dicono i numeri».

MA L’INCERTEZZA POLITICA CREA ALLARMI

Il guaio è che stando assieme spesso si finisce a litigare. E non a caso Fitch è preoccupata per il clima di incertezza politica che persiste in Italia e che rappresenta un fattore di rischio per un’economia che resta praticamente in stagnazione. È l’allarme che si legge nel capitolo nel Global Economic Outlook pubblicato dall’agenzia di rating: «I negoziati sulla legge di bilancio del 2020 hanno messo in evidenza le tensioni politiche tra il M5s e il Pd. Le complesse relazioni tra le due formazioni rappresentano un rischio per la durata dell’esecutivo per l’intera legislatura».

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Continua lo scontro sulla prescrizione tra M5s, Pd e Italia viva

I pentastellati premono sui dem: «Siano leali». Ma Marcucci si appella al premier Conte, mentre i renziani sono pronti a sostenere la proposta di Forza Italia.

Se per quanto riguarda la riforma del Mes le tensioni nella maggioranza sembrano destinate a calare, continua invece lo scontro che riguarda l’entrata in vigore – a partire dal primo gennaio 2020 – della nuova legge sulla prescrizione.

Il M5s fa pressione sul Pd: «Con le minacce non si va da nessuna parte. È opportuno, invece, dimostrare chiaramente di essere leali e andare avanti in maniera compatta. Con la riforma della prescrizione abbiamo la possibilità di mettere la parola fine all’era Berlusconi, che ha fatto solo del male al nostro Paese. Siamo certi che il Pd farà la scelta giusta pensando all’interesse dei cittadini».

Ma i dem, attraverso il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, si appellano al premier Giuseppe Conte: «La riforma della prescrizione è nelle mani del presidente Conte, non certo delle veline del M5s. Serve un intervento correttivo, decida Di Maio se vuole condividerlo con la maggioranza o lasciare che il parlamento si esprima liberamente».

ITALIA VIVA MANIFESTA CONTRO LA RIFORMA BONAFEDE

Italia viva, da parte sua, ha manifestato contro la riforma voluta dal ministro Alfonso Bonafede, prendendo parte alla protesta delle Camere penali davanti alla Corte di Cassazione. «Sulla prescrizione noi sosteniamo la proposta di Enrico Costa», ha spiegato la capogruppo dei renziani alla Camera, Maria Elena Boschi. Ovvero la proposta di legge avanzata da Forza Italia, che sta all’opposizione del governo giallorosso e che bloccherebbe gli effetti della riforma, rinviando l’entrata in vigore.

IL PESO DEI RENZIANI ALLA CAMERA

Alla Camera, i voti di Italia viva sono già stati decisivi quando si è votato sulla richiesta di procedura di urgenza per la proposta Costa, respinta dall’Aula. I renziani, dopo un incontro con il premier Conte, si sono astenuti. Ma avrebbero potuto far finire il voto in parità (244 sì e 244 no) o addirittura mandare sotto il governo, potendo contare su una truppa di 25 deputati.

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E ora serve un bel “vaffa” di Zingaretti a Di Maio

Farsi imbottigliare dalle stupidaggini del M5s, che continua a guardare verso destra, è un errore fatale. Meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri.

La cronaca politica propone due domande: ma che cosa vogliono Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? Ovvero vogliono qualcosa? L’unica cosa chiara è che i due baciati in fronte da Beppe Grillo hanno il terrore di finire male.

Per loro finire male significa uscire dall’orbita reale, per l’uno, potenziale per l’altro, del governo. E oggi l’orbita del governo ruota attorno a Salvini-Meloni.

L’altra paura è che hanno la matematica certezza che se non fanno ammuina il loro movimento arriva alle elezioni “sminchiato”, quindi con pochi voti e probabilmente senza quelli che potrebbero eleggere l’uno e l’altro o l’uno o l’altro.

DI MAIO E DI BATTISTA CONTINUANO A GUARDARE A DESTRA

Era sembrato, nelle scorse settimane, che Beppe Grillo riuscisse a portare i pentastellati fuori dall’attrazione pericolosa della destra. Grillo aveva addirittura immaginato di progettare cose in comune con il Pd. Di Maio e Di Battista, e forse Casaleggio, hanno detto di “sì”, ma si sono mossi lungo la strada opposta. Nessuno di noi sa se Matteo Salvini e soprattutto la sua temibile competitrice Giorgia Meloni vorranno aggregare questi due giovani cadaveri della politica nel governo che faranno dopo le elezioni, tuttavia Di Maio e Di Battista, fedeli figli di cotanti padri di destra, cercano da quelle parti la soluzione che li porti ad una più che dignitosa sopravvivenza economica.

Quando cadrà il governo Conte sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto

Il dramma dei cinque stelle, nati sulla base di una cultura che definimmo populista, di decrescita felice, di guerra alla democrazia rappresentativa, è che oggi sono il nulla assoluto. Da quelle parti ci sono solo “no”, sulle cose che capiscono, e ancora “no” su quelle che non capiscono. E tutto ciò accade mentre gran parte del loro elettorato è scappato e altro andrà via quando cadrà il governo Conte e sarà chiaro che la coppia destrorsa del M5s sarà davanti all’uscio di Salvini a chiedere un posto, una sistemazione, una cosa per campare. Sta arrivando il momento in cui la voracità della destra riuscirà a cancellare l’episodio grillino.

LA SINISTRA DEVE MOLLARE IL M5S PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Chi di noi analizzò il fenomeno dei cinque stelle non in base alla composizione sociale ma in relazione alla cultura che esprimevano e alla direzione di marcia che avevano preso, non sono sorpresi né dalla svolta a destra né dalla loro prossima fine. Questo non vorrà dire che il sistema politico si sistemerà. La pattuglia grillina nel prossimo parlamento, a meno che non vengano fatti fuori Di Maio e i suoi e che Di Battista vaghi a fare niente per il mondo, sarà il più massiccio episodio di ascarismo parlamentare. «Accattataville».

Manifestazione delle Sardine in Piazza Duomo a Milano.

Salvini dovrà far digerire ai suoi il ritorno dei traditori, per giunta statalisti. La Meloni non li ha mai sopportati. Resta la sinistra che tarda a comprendere che farsi imbottigliare dalle stupidaggini di Di Maio e Salvini su un fondo salva Stati che quei due conoscevano e che, lo vogliano o no, ci sarà, è un errore, meglio mandarli al diavolo domani, anzi ieri. Perché l’unica campagna elettorale che si può fare richiede di rubare alle sardine il tema della civiltà politica e alla destra “sovranista e antitaliana” la questione dell’onore della patria che la destra attuale vorrebbe nuovamente serva di una potenza straniera.

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Nel M5s Di Battista in soccorso di Di Maio contro il Mes

Dopo il gelo con Conte, il capo politico grillino rialza la testa: «Si firma tutto il pacchetto del Salva-Stati. Saremo noi a decidere se e come passa». E Dibba approva sui social. Ma il Pd: «Non è un governo monocolore». Salvini: «Trattato non emendabile, da bloccare».

Nel day after sul Mes Luigi Di Maio ha provato a rialzare la testa. Dopo l’informativa alle Camere, il gelo col premier Giuseppe Conte e il clima da separati in casa nel governo, con lo spauracchio della crisi che riaffiora costantemente, il capo politico del Movimento 5 stelle è intervenuto su Facebook: «Conte ha detto che tutti i ministri sapevano di questo fondo. Sapevamo che il Mes era arrivato a un punto della sua riforma, ma sapevamo che era all’interno di un pacchetto, che prevede anche la riforma dell’unione bancaria e l’assicurazione sui depositi. Per il M5s queste tre cose vanno insieme e non si può firmare solo una cosa alla volta».

DI BATTISTA: «COSÌ NON CONVIENE ALL’ITALIA»

Col ministro degli Esteri si è schierato anche un altro “big” grillino, Alessandro Di Battista, lui che è stato “accusato” di voler spostare il M5s verso destra proprio assieme a Di Maio. E in un commento social Dibba ha appoggiato la linea del capo: «Concordo. Così non conviene all’Italia. Punto».

DI MAIO: «SIAMO L’AGO DELLA BILANCIA»

Di Maio tra le altre cose ha spiegato che «il M5s dice che c’è una riforma in corso, prendiamoci del tempo per fare delle modifiche che non rendano questo fondo un pericolo. Siamo al governo. Questo significa che abbiamo la possibilità, ma anche la responsabilità, di agire per migliorare le cose». E infine: «Il M5s continua a essere ago della bilancia. Decideremo noi come e se dovrà passare questa riforma del Mes».

MA IL PD LO FRENA: «NON È UN GOVERNO MONOCOLORE»

Non ha proprio la stessa idea degli equilibri di maggioranza il capogruppo del Partito democratico al Senato, Andrea Marcucci. Che intervistato da La Stampa sui pericoli di rottura ha detto: «Inutile ignorare i rischi, io però scommetto sul buon senso». E con Di Maio cosa sta accadendo? «Avute le necessarie spiegazioni dal premier sull’iter del provvedimento, si ravveda. Se non lo facesse, sarebbe chiamato a trarne le conseguenze sulla vita del governo», ha risposto Marcucci, ricordando che «il M5s non è alla guida di un monocolore, questo è un governo di coalizione, dove le posizioni di tutta la maggioranza devono essere tenute in considerazione».

SALVINI: «DA BRUXELLES DICONO CHE IL TRATTATO È CHIUSO»

Dal centrodestra Matteo Salvini ha tenuto la sua linea parlando da Bruxelles: «La nostra posizione è quella dei cinque stelle, il trattato così come è non è accettabile, va visito, ridiscusso, ridisegnato, emendato, che è l’esatto contrario di quello che arrivava da Bruxelles dicendo il pacchetto è chiuso. Mi sembra che il premier abbia diversi problemi, non lo invidio».

Siamo contro le modifiche, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto


Matteo Salvini

Poi ha chiuso ulterioremente ogni margine di trattativa: «Noi non abbiamo cambiato posizione rispetto a sette anni fa, eravamo contro allora e siamo contro le modifiche oggi, dal nostro punto di vista il trattato sul Mes non è emendabile, è da bloccare e punto. Quando parlavo di emendabilità riportavo le parole del vice capogruppo dei cinque stelle Silvestri che esprimeva tutti i suoi dubbi alla Camera. Per noi è una esperienza chiusa, che non è utile né modificare né ripetere».

«NESSUNO MI HA MOSTRATO IL TESTO CON LE MODIFICHE»

Prima, su Rai Radio1 a Radio anch’io, aveva detto: «Stiamo parlando di un trattato che coinvolge 124 miliardi di euro degli italiani con delle regole di distribuzione e di prestito a decenni che in questo momento andrebbero ad avvantaggiare il sistema economico e bancario tedesco. Nessuno mi ha mai fatto vedere il testo delle modifiche di questo trattato. Io non ho mai letto il testo ed è grazie a noi che ne stiamo parlando altrimenti Conte e Gualtieri non sarebbero mai venuti in Aula. Il parlamento deve poter intervenire su quel testo».

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Caos M5s, Di Maio isolato anche dai fedelissimi

Il partito naviga a vista. Anche gli uomini più vicini al capo politico sono preoccupati per la tenuta del governo. Il riavvicinamento alla linea barricadera di Di Battista basterà per restare a galla?

Un uomo solo al comando. Ma in questo caso non è Fausto Coppi e c’è veramente poco di epico. Si tratta infatti di Luigi Di Maio.

Il capo politico M5s è in una condizione di crescente isolamento: addirittura i fedelissimi cominciano a manifestare un certo scetticismo sulle fughe in avanti del ministro degli Esteri. Soprattutto quando filtra l’ipotetica rottura con il Partito democratico.

I MESSAGGI DI BONAFEDE

«Non mi piace questo continuo riferimento a far saltare il governo. Noi siamo al governo per lavorare per i cittadini. Ciascuno si prende le responsabilità politiche delle proposte che porta avanti», ha scandito il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, lanciando un messaggio al Pd (contro le ipotesi di rotture definitive sulla prescrizione), affinché Di Maio intendesse.

Luigi Di Maio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (Getty).

In alcune situazioni, come sullo scudo penale per l’ex Ilva, il capo politico ha pubblicamente evocato la crisi. Altre volte è stata una voce del sen fuggita, e raccolta come indiscrezione, salvo poi essere smentita. Comunque un modo per inviare segnali di fumo ai suoi e agli alleati. E alimentare sospetti.

LEGGI ANCHE: Ilva, manovra, riforma del Mes: gli ostacoli del governo per arrivare a fine 2019

I MALESSERI DI SPADAFORA

La presa di posizione di Bonafede non è passata inosservata. Il Guardasigilli è un fedelissimo del leader che ha voluto confermarlo in via Arenula durante la formazione del Conte II, sfidando le resistenze del Pd. Se uno come lui dissente dalla linea della “minaccia al governo” è una spia che si accende. Le sue affermazioni fanno da sponda alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico, che qualche giorno fa ha invitato a far lavorare il parlamento fino al 2023. Dando una prospettiva di legislatura, l’opzione che preferisce. Un malessere simile è vissuto dal ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, grande sponsor del Conte II e considerato consigliere molto ascoltato da Di Maio.

Luigi Di Maio con Vincenzo Spadafora.

«Ho ascoltato con attenzione e sono rimasto molto affascinato dal racconto dell’astronauta Maurizio Cheli e ci ho trovato molte analogie con la politica di oggi», ha detto Spadafora il 28 novembre, come riportato dalla Dire. «Per esempio è vero che non puoi scegliere sempre con chi lavorare, che devi saper sopportare delle situazioni difficili e, come sullo Shuttle, è vero che basta premere il pulsante sbagliato per far esplodere tutto. Mi sembra un po’ la situazione in cui ci troviamo anche oggi col governo».

ALLA CAMERA IL M5S ANCORA SENZA GUIDA

Per molti ministri sembra il remake del film visto con il Conte I, quello con Matteo Salvini che minacciava un giorno sì e l’altro pure la fine dell’esecutivo. In un clima del genere anche il sottosegretario alla presidenza, Riccardo Fraccaro, appare in difficoltà. Da sempre è considerato un punto fermo del Movimento a trazione dimaiana, alfiere del taglio del numero dei parlamentari: il capo politico ha fatto di tutto pur di averlo a Palazzo Chigi, compresa la minaccia di far saltare la trattativa (già allora) per la nascita del governo. Così il sottosegretario resta prudente, fedele alla linea, annotando però il malcontento generale. A cominciare dall’insofferenza dei parlamentari: l’elezione del capogruppo alla Camera è diventata una telenovela che va avanti da ottobre, quando Francesco D’Uva ha lasciato l’incarico. L’unica certezza è che il prossimo presidente dei deputati avrà posizioni divergenti dalla leadership. Nell’ultima votazione si sono sfidati Davide Crippa e Riccardo Ricciardi, entrambi non proprio etichettabili come fedelissimi di Di Maio. Intanto c’è il concreto rischio di affrontare passaggi delicati a Montecitorio, dal dibattito sul Mes alla Legge di Bilancio, senza una guida riconosciuta.

Beppe Grillo con Luigi Di Maio in un fermo immagine tratto dal Blog delle Stelle.

DI MAIO E LA RITROVATA (E FORZATA) INTESA CON DI BATTISTA

La situazione non è tornata serena nemmeno dopo l’incontro tra Di Maio e il garante Beppe Grillo. Il faccia a faccia non ha prodotto i risultati auspicati. Appena sono finiti il video e le foto di rito, tutto è tornato in un magma indistinto. Così il ministro degli Esteri, avvertito l’isolamento politico, è stato tentato dal ritorno al passato, alla linea barricadera delle origini. In questa ottica viene letta la ritrovata intesa con Alessandro Di Battista, per cui l’alleanza con il Pd resta il male assoluto. Ed ecco che è stata sposata la strategia di attacco sulle concessioni ad Autostrade, sull’Europa matrigna, che mette sul tavolo il Mes, sulla sfida a Matteo Renzi per il caso Open e la questione delle fondazioni

I RIPOSIZIONAMENTI ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO

Continui sommovimenti che preoccupano. «Da noi non esistono correnti», giurano nel M5s. Ed è una realtà: le correnti vere hanno comunque una struttura, dei punti di riferimento. In questo caso è tutto insondabile. Un esempio è il caso del senatore Gianluigi Paragone: sembrava diventato arcinemico di Di Maio, per la sua ostilità all’intesa con i dem. La rinnovata comunanza di vedute con Di Battista modifica però il posizionamento rispetto alla leadership pentastellata. Certo, esiste un’ala riconducibile a Fico, capitanata dal deputato Luigi Gallo, ma non si può definire una rete organizzata. Talvolta, specie sulla riorganizzazione del M5s, le posizioni incrociano quelle dei frondisti, gli ex ministri ed ex sottosegretari che masticano amaro per aver perso il posto al governo. Ma che a differenza di Fico non sono proprio entusiasti del governo con Pd, LeU e Italia Viva. Così diventa difficile avere una mappa chiara degli interlocutori anche per i dem. 

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (Ansa).

SUGGESTIONE PATUANELLI

Di Maio, nel suo essere uomo solo al comando, è inevitabilmente sotto pressione. Tanto che circolano ipotesi di una sostituzione con il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, l’uomo delle emergenze. Da capogruppo al Senato ha risposto colpo su colpo alla Lega, quando l’alleanza era agli sgoccioli, tenendo unito il gruppo. Adesso ha sul tavolo questioni scottanti, come l’ex Ilva e Alitalia, senza subire ricadute di immagine. È pur vero che Patuanelli ha bollato come «gossip» l’ipotesi della sua ascesa alla leadership. Ma non è un mistero che molti, soprattutto i parlamentari, vorrebbero affidargli una nuova emergenza. Il destino del Movimento 5 stelle.

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