Un milione di persone in piazza a Hong Kong

Corteo autorizzato e in partenza pacifico, ma poi è sfociato in scontri con la polizia che hanno portato a 400 arresti. I manifestanti continuano a chiedere elezioni libere e amnistia.

Comincia all’insegna della protesta anche il 2020 a Hong Kong, dove il primo gennaio sono scesi in piazza in massa i manifestanti pro democrazia. Un milione secondo gli organizzatori, per un corteo autorizzato e in partenza pacifico, ma poi sfociato in scontri con le forze dell’ordine finiti con l’arresto di circa 400 persone.

SETTE MESI ININTERROTTI DI MOBILITAZIONE

La gran parte del 2019 è stata segnata dalla protesta, con sette mesi ininterrotti di mobilitazione scanditi da disordini e un’escalation della rivolta che vede ancora contrapposti dimostranti e forze dell’ordine, anche nei cortei di Capodanno: i manifestanti si erano radunati nel Victoria Park per poi marciare attraverso l’isola principale dell’ex protettorato britannico fino a Central, il cuore commerciale dell‘hub finanziario internazionale.

I MANIFESTANTI CHIEDONO ELEZIONI LIBERE E AMNISTIA

Molti esibivano striscioni con le principali richieste, tra cui elezioni totalmente libere, un’inchiesta indipendente sulla gestione della polizia e l’amnistia per le quasi 6.500 persone arrestate durante le proteste. La violenza è però esplosa dopo qualche ora a margine della marcia principale, con scontri fra agenti e dimostranti a volto coperto registrati in più quartieri: la polizia antisommossa ha usato spray urticante e gas lacrimogeni, mentre alcuni manifestanti hanno lanciato molotov.

UN RECORD PER IL MOVIMENTO DI PROTESTA

Dimostranti mascherati di nero si sono inoltre radunati per allestire barricate improvvisate, alcune strutture sono state vandalizzate. È a quel punto che è stato ordinato agli organizzatori di terminare il corteo. Questi ne avevano però già decretato il successo, parlando di una partecipazione record: «Crediamo che l’adesione alla marcia di oggi abbia superato l’1,03 milioni del 9 giugno», con riferimento alla marea umana che era scesa in piazza quel giorno e che aveva di fatto segnato l’inizio del movimento di protesta. Sono cifre che si distaccano notevolmente da quelle indicate dalla polizia, che per la manifestazione di Capodanno segnala soltanto 60 mila partecipanti.

ARRESTATE CIRCA 400 PERSONE

Intanto si ripetono scene fin troppo note e che si sono succedute a più riprese negli ultimi mesi: la polizia in assetto antisommossa che usa spray urticanti, spara lacrimogeni e ricorre a cannoni ad acqua per disperdere la folla, in particolare quei dimostranti irriducibili determinati a fare resistenza, costruendo barricate, dotandosi di Molotov, assaltando esercizi commerciali associati a Pechino. Di qui gli scontri che hanno portato a circa 400 arresti per «raduno illegale e detenzione di armi». Le tensioni verificatesi nelle scorse ore sono comunque circoscritte e limitate rispetto ai momenti più drammatici vissuti nei mesi scorsi.

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Capodanno di proteste e violenze a Hong Kong

Sit-in e barricate nel cuore dell’ex colonia per la fine del nuovo anno. Gruppi di manifestanti sono stati poi dispersi dall’intervento della polizia. Timori per la manifestazione del primo gennaio.

La polizia di Hong Kong ha sparato gas lacrimogeni sui manifestanti pro democrazia poco dopo lo scoccare del Capodanno 2020, una scadenza che gli attivisti hanno trasformato in una occasione di protesta. Lo riportano i media internazionali. I manifestanti hanno organizzato raduni a tarda sera salutando il nuovo anno in piazza, in vista di un corteo di massa previsto per il primo gennaio. Poco prima della mezzanotte, migliaia di persone si sono radunate nel quartiere degli affari, lungo il lungomare di Victoria Harbour e nella zona della movida di Lan Kwai Fong.

BARRICATE INCENDIATE A MONG KOK

Il gruppo concentrato al porto ha inneggiato un conto alla rovescia verso il nuovo anno cantando: «Dieci! Nove! Liberate Hong Kong, la rivoluzione ora!» ondeggiando i telefoni accesi. Gruppi più piccoli di manifestanti hanno eretto barricate nel distretto di Mong Kok e le hanno incendiate, ed è stato qui che la polizia antisommossa ha scatenato, in risposta, le prime raffiche di gas lacrimogeni del 2020. Mancavano invece pochi secondi alla mezzanotte quando la polizia ha usato i cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti in una zona attigua, mentre nel vicino quartiere Principe Edoardo gli agenti hanno arrestato diversi manifestanti che avevano organizzato una veglia a lume di candela. All’inizio della serata, migliaia di persone hanno inscenato catene umane che si estendevano per miglia lungo le trafficate strade dello shopping e i quartieri residenziali. Il tradizionale spettacolo pirotecnico dei fuochi d’artificio della vigilia di Capodanno è stato annullato per motivi di sicurezza; ammessi solo spettacoli di luci e fuochi d’artificio a dimensione familiare.

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Poveri, disabili, anziani: le voci degli ultimi di Hong Kong

Mentre le proteste infuriano, lontano dallo sguardo delle telecamere un popolo di dimenticati fatica a sopravvivere, tra affitti fuori portata e sussidi insufficienti. In un contesto economico sempre più deteriotato. Il reportage.

Poveri, disabili, anziani: sono loro le voci dimenticate delle proteste di Hong Kong. Mentre il mondo intero guardava preoccupato ai disordini e al crescere della violenza nell’ex colonia, mentre lo sguardo dei media internazionali si focalizzava su ciò che stava accadendo dentro i campus universitari della città, dove i più irriducibili tra gli studenti in lotta restavano asserragliati, braccati e circondati dalle forze dell’ordine, c’era qualcuno di cui nessuna testata o televisione si preoccupava. In una metropoli che è considerata, a tutti gli effetti, la Montecarlo dell’Asia, dove l’affitto di un miniappartamento in centro può costare molte decine di migliaia di euro al mese e dove ancora oggi si immatricolano più Ferrari, Rolls Royce e Mercedes che in qualsiasi altra parte del mondo, esiste un popolo di dimenticati, che devono sopravvivere nella città più costosa del globo con quelli che qui sono poco più di una manciata di spiccioli.

Per esempio chi, nonostante il caos e il pericolo, dietro le barricate del campus ormai quasi vuoto dell’Università di Hong Kong ha continuato a lavorare. Perché, molto semplicemente, non aveva scelta. Come Mak Hon Kau, che ha proseguito diligentemente a fare il suo lavoro di giardiniera, spazzando foglie e piantando fiori sotto il sole rovente in quello che, un attimo prima, era un cortile dall’aspetto sereno e un attimo dopo era diventato un campo di battaglia, cercando riparo in qualche modo. Mak, una lavoratrice a contratto, è tra le migliaia di poveri di Hong Kong le cui vite sono state duramente colpite da sei mesi di proteste sempre più violente le quali, a loro volta, hanno innescato una crisi economica senza precedenti per la città-stato.

So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?

Mak Hon Kau, 68 anni, giardiniera

«So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?», dice a Lettera43.it Mak, 68 anni, che guadagna circa 6 mila dollari di Hong Kong (poco più di 650 euro) al mese. Uno stipendio con il quale si potrebbe anche sopravvivere in maniera dignitosa in Italia, ma non qui. «Sono un lavoratore a contratto», ripete lei, «non posso scegliere dove mi mandano a lavorare. Anche se è un posto pericoloso».

UN’ECONOMIA IN CADUTA LIBERA

In una città in cui una persona su cinque (ovvero quasi 1 milione e mezzo di persone) vive al di sotto della soglia di povertà assoluta, calcolata in 4 mila dollari di Hong Kong (meno di 500 euro) al mese per famiglia, la vita, per questo esercito di “ultimi”, di “dimenticati”, ignoti alle cronache delle proteste, sta diventando una scommessa sempre più difficile. La rivolta ha colpito duramente l’economia della città, con il turismo in caduta libera, le compagnie aeree come la Cathay Pacific costrette a tagliare stipendi e “bonus di fine anno” (la nostra 13esima), aziende che licenziano personale ogni giorno e le vendite al dettaglio che precipitano. La città è entrata in una recessione tecnica, con l’economia in calo del 3,2% nel terzo trimestre. Le cifre fanno paura: le esportazioni sono diminuite del 9,2% in ottobre, mentre gli arrivi turistici sono crollati sotto il 50% nella prima metà del mese. Gli esperti prevedono che il Pil di Hong Kong diminuirà dell’1,4% quest’anno.

UNA LOTTA QUOTIDIANA PER RESTARE A GALLA

I più colpiti sono quelli che vivono ai margini di questa società basata sull’opulenza e la ricchezza: anziani, disabili, minoranze etniche e lavoratori poveri, mentre la loro lotta quotidiana per rimanere a galla in un ambiente di estrema disuguaglianza diventa ancora più dura. E mentre i ristoranti chiudono, gli eventi vengono annullati e i cantieri sospesi, molti lavoratori a tempo parziale e a basso salario hanno subito un colpo terribile; altri sono stati colpiti dall’aumento dei costi, con le proteste che paralizzano regolarmente la città. Per i pendolari che ogni giorno devono recarsi al lavoro nelle zone centrali, dai distretti popolari dove vivono, spostarsi è diventato un affare costoso e complicato. Molti pazienti anziani non sono stati in grado di rispettare gli appuntamenti in ospedale. O sono troppo spaventati per uscire di casa.

Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati

Lee, 60 anni, disoccupata

La signora Lee, una ex lavapiatti di circa 60 anni, si è trasferita a Hong Kong dal Guangdong due decenni fa. Lei e il figlio ormai adulto dormono su letti adiacenti in un minuscolo monolocale di Shau Kei Wan, dove riuscire a pagare il pur minimo affitto mensile pari a 200 euro è sempre stata un’autentica lotta. «Non lavoro più», dice con la voce rotta dal pianto, «ma se qualcuno mi offrisse un posto lo prenderei al volo». «Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati». Lee vive ormai solo dei suoi risparmi e con i pochi aiuti pubblici che le vengono dati. Dopo aver pagato l’affitto, le restano poco più di 100 euro per vivere tutto il mese: una sfida impossibile in una città cara come Hong Kong.

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI NON BASTANO

Samson Tse, professore nel dipartimento di assistenza sociale e amministrazione sociale dell’Università di Hong Kong, afferma che le statistiche del governo sulla povertà offrono un quadro solo parziale del fenomeno dei “nuovi poveri”. «La definizione data dal governo della soglia di povertà non descrive l’intero problema o la piena complessità delle difficoltà che queste persone affrontano», dice. «Il povero farà sempre più fatica a rimanere a galla durante questi periodi di estrema contrazione economica. Non c’è rete di sicurezza, non ci sono ammortizzatori sociali che bastino», conclude Tse.

IN FILA PER IL CIBO GRATIS FUORI DAI RISTORANTI

Proprio dietro l’angolo del fabbricato popolare dove vivono la signora Lee e il figlio, un gruppo formato da una dozzina di persone anziane è in fila fuori dal ristorante Ho Win Roasted Meat, in attesa delle scatole per il pranzo gratuite che vengono distribuite tre volte alla settimana. Una signora sulla settantina, di nome Lo, è arrivata con tre ore di anticipo per assicurarsi di ottenere almeno una delle scatole. La dividerà in due e ne rivenderà una parte per circa tre euro. Col rimanente dovrà nutrirsi per due giorni. «Certo, la mia vita è stata influenzata dalle proteste», dice Lo, che vorrebbe lasciare il suo monolocale nella vicina Chai Wan, spesso interessata dai violenti scontri tra polizia e manifestanti. «Il gas lacrimogeno mi fa stare male e i giovani si feriscono», dice, mentre sembra più preoccupata per loro che per se stessa.

DISEGUAGLIANZE SEMPRE PIÙ MARCATE

Eugene Chan, ex candidato del consiglio distrettuale di Shau Kei Wan, spiega che le interruzioni del traffico causate dalle proteste hanno reso più difficile per gli oltre 30 mila anziani nella sua zona recarsi al vicino Pamela Nethersole Eastern Hospital. «Il livello di povertà qui è significativo», afferma Chan, aggiungendo che la maggior parte dei residenti anziani nell’area guadagna meno del reddito medio della città – stimato in circa 2 mila euro al mese – e si affida all’assistenza sanitaria per anziani sovvenzionata dal governo. Il cosiddetto “Voucher Scheme” per il pagamento delle spese mediche. «Questa tragedia è reale», conclude Chan. «Sei mesi di proteste ci hanno lasciato una società devastata, dove le disuguaglianze sono diventate ancora più drammatiche e profonde. Quando tutto questo finirà, dovremo affrontarne le conseguenze».

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Poveri, disabili, anziani: le voci degli ultimi di Hong Kong

Mentre le proteste infuriano, lontano dallo sguardo delle telecamere un popolo di dimenticati fatica a sopravvivere, tra affitti fuori portata e sussidi insufficienti. In un contesto economico sempre più deteriotato. Il reportage.

Poveri, disabili, anziani: sono loro le voci dimenticate delle proteste di Hong Kong. Mentre il mondo intero guardava preoccupato ai disordini e al crescere della violenza nell’ex colonia, mentre lo sguardo dei media internazionali si focalizzava su ciò che stava accadendo dentro i campus universitari della città, dove i più irriducibili tra gli studenti in lotta restavano asserragliati, braccati e circondati dalle forze dell’ordine, c’era qualcuno di cui nessuna testata o televisione si preoccupava. In una metropoli che è considerata, a tutti gli effetti, la Montecarlo dell’Asia, dove l’affitto di un miniappartamento in centro può costare molte decine di migliaia di euro al mese e dove ancora oggi si immatricolano più Ferrari, Rolls Royce e Mercedes che in qualsiasi altra parte del mondo, esiste un popolo di dimenticati, che devono sopravvivere nella città più costosa del globo con quelli che qui sono poco più di una manciata di spiccioli.

Per esempio chi, nonostante il caos e il pericolo, dietro le barricate del campus ormai quasi vuoto dell’Università di Hong Kong ha continuato a lavorare. Perché, molto semplicemente, non aveva scelta. Come Mak Hon Kau, che ha proseguito diligentemente a fare il suo lavoro di giardiniera, spazzando foglie e piantando fiori sotto il sole rovente in quello che, un attimo prima, era un cortile dall’aspetto sereno e un attimo dopo era diventato un campo di battaglia, cercando riparo in qualche modo. Mak, una lavoratrice a contratto, è tra le migliaia di poveri di Hong Kong le cui vite sono state duramente colpite da sei mesi di proteste sempre più violente le quali, a loro volta, hanno innescato una crisi economica senza precedenti per la città-stato.

So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?

Mak Hon Kau, 68 anni, giardiniera

«So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?», dice a Lettera43.it Mak, 68 anni, che guadagna circa 6 mila dollari di Hong Kong (poco più di 650 euro) al mese. Uno stipendio con il quale si potrebbe anche sopravvivere in maniera dignitosa in Italia, ma non qui. «Sono un lavoratore a contratto», ripete lei, «non posso scegliere dove mi mandano a lavorare. Anche se è un posto pericoloso».

UN’ECONOMIA IN CADUTA LIBERA

In una città in cui una persona su cinque (ovvero quasi 1 milione e mezzo di persone) vive al di sotto della soglia di povertà assoluta, calcolata in 4 mila dollari di Hong Kong (meno di 500 euro) al mese per famiglia, la vita, per questo esercito di “ultimi”, di “dimenticati”, ignoti alle cronache delle proteste, sta diventando una scommessa sempre più difficile. La rivolta ha colpito duramente l’economia della città, con il turismo in caduta libera, le compagnie aeree come la Cathay Pacific costrette a tagliare stipendi e “bonus di fine anno” (la nostra 13esima), aziende che licenziano personale ogni giorno e le vendite al dettaglio che precipitano. La città è entrata in una recessione tecnica, con l’economia in calo del 3,2% nel terzo trimestre. Le cifre fanno paura: le esportazioni sono diminuite del 9,2% in ottobre, mentre gli arrivi turistici sono crollati sotto il 50% nella prima metà del mese. Gli esperti prevedono che il Pil di Hong Kong diminuirà dell’1,4% quest’anno.

UNA LOTTA QUOTIDIANA PER RESTARE A GALLA

I più colpiti sono quelli che vivono ai margini di questa società basata sull’opulenza e la ricchezza: anziani, disabili, minoranze etniche e lavoratori poveri, mentre la loro lotta quotidiana per rimanere a galla in un ambiente di estrema disuguaglianza diventa ancora più dura. E mentre i ristoranti chiudono, gli eventi vengono annullati e i cantieri sospesi, molti lavoratori a tempo parziale e a basso salario hanno subito un colpo terribile; altri sono stati colpiti dall’aumento dei costi, con le proteste che paralizzano regolarmente la città. Per i pendolari che ogni giorno devono recarsi al lavoro nelle zone centrali, dai distretti popolari dove vivono, spostarsi è diventato un affare costoso e complicato. Molti pazienti anziani non sono stati in grado di rispettare gli appuntamenti in ospedale. O sono troppo spaventati per uscire di casa.

Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati

Lee, 60 anni, disoccupata

La signora Lee, una ex lavapiatti di circa 60 anni, si è trasferita a Hong Kong dal Guangdong due decenni fa. Lei e il figlio ormai adulto dormono su letti adiacenti in un minuscolo monolocale di Shau Kei Wan, dove riuscire a pagare il pur minimo affitto mensile pari a 200 euro è sempre stata un’autentica lotta. «Non lavoro più», dice con la voce rotta dal pianto, «ma se qualcuno mi offrisse un posto lo prenderei al volo». «Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati». Lee vive ormai solo dei suoi risparmi e con i pochi aiuti pubblici che le vengono dati. Dopo aver pagato l’affitto, le restano poco più di 100 euro per vivere tutto il mese: una sfida impossibile in una città cara come Hong Kong.

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI NON BASTANO

Samson Tse, professore nel dipartimento di assistenza sociale e amministrazione sociale dell’Università di Hong Kong, afferma che le statistiche del governo sulla povertà offrono un quadro solo parziale del fenomeno dei “nuovi poveri”. «La definizione data dal governo della soglia di povertà non descrive l’intero problema o la piena complessità delle difficoltà che queste persone affrontano», dice. «Il povero farà sempre più fatica a rimanere a galla durante questi periodi di estrema contrazione economica. Non c’è rete di sicurezza, non ci sono ammortizzatori sociali che bastino», conclude Tse.

IN FILA PER IL CIBO GRATIS FUORI DAI RISTORANTI

Proprio dietro l’angolo del fabbricato popolare dove vivono la signora Lee e il figlio, un gruppo formato da una dozzina di persone anziane è in fila fuori dal ristorante Ho Win Roasted Meat, in attesa delle scatole per il pranzo gratuite che vengono distribuite tre volte alla settimana. Una signora sulla settantina, di nome Lo, è arrivata con tre ore di anticipo per assicurarsi di ottenere almeno una delle scatole. La dividerà in due e ne rivenderà una parte per circa tre euro. Col rimanente dovrà nutrirsi per due giorni. «Certo, la mia vita è stata influenzata dalle proteste», dice Lo, che vorrebbe lasciare il suo monolocale nella vicina Chai Wan, spesso interessata dai violenti scontri tra polizia e manifestanti. «Il gas lacrimogeno mi fa stare male e i giovani si feriscono», dice, mentre sembra più preoccupata per loro che per se stessa.

DISEGUAGLIANZE SEMPRE PIÙ MARCATE

Eugene Chan, ex candidato del consiglio distrettuale di Shau Kei Wan, spiega che le interruzioni del traffico causate dalle proteste hanno reso più difficile per gli oltre 30 mila anziani nella sua zona recarsi al vicino Pamela Nethersole Eastern Hospital. «Il livello di povertà qui è significativo», afferma Chan, aggiungendo che la maggior parte dei residenti anziani nell’area guadagna meno del reddito medio della città – stimato in circa 2 mila euro al mese – e si affida all’assistenza sanitaria per anziani sovvenzionata dal governo. Il cosiddetto “Voucher Scheme” per il pagamento delle spese mediche. «Questa tragedia è reale», conclude Chan. «Sei mesi di proteste ci hanno lasciato una società devastata, dove le disuguaglianze sono diventate ancora più drammatiche e profonde. Quando tutto questo finirà, dovremo affrontarne le conseguenze».

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Dite a Giorgia Meloni che in Cina non c’è più Mao

La leader di FdI dopo la querelle sulla videoconferenza di Joshua Wong attacca Pechino e diventa paladina dei diritti civili dei manifestanti di Hong Kong. Viene il dubbio che sia ancora convinta di avere a che fare con uno Stato comunista.

Giorgia Meloni è un fenomeno virale, come dimostra il successo del video tormentone-rap Io sono Giorgia.

Da qualche tempo però Giorgia-madre-donna-cristiana sta spopolando online, e non solo, anche in una nuova e davvero inedita veste: si è lanciata a testa bassa – sembrerebbe – in una strenua lotta per la difesa della democrazia e della libertà in …. Cina.  

Già, proprio così. E in un certo senso non ci sarebbe nemmeno tanto da meravigliarsi, di fronte all’evidente inadeguatezza della sinistra italiana che riesce ormai a farsi “sorpassare” (almeno a parole…) dalla destra persino su un terreno di lotta storico, come quello della difesa dei diritti civili e umani. Ma andiamo per ordine, e cerchiamo di capire da dove ha origine questo nuovo exploit di Giorgia-madre-donna-cristiana.  

IL VISTO NEGATO A JOSHUA WONG

Tutto nasce dalla lontana Hong Kong e dalle dichiarazioni del giovane leader alla guida della rivolta che infiamma l’ex colonia britannica ormai da giugno, Joshua Wong. Wong era stato invitato in Italia dalla Fondazione Feltrinelli per partecipare a un convegno sui temi della democrazia a fine mese, ma il governo di Hong Kong gli aveva prontamente negato il permesso di espatrio con la scusa che il ragazzo è in libertà vigilata, in attesa di giudizio con l’accusa di “manifestazione non autorizzata”. A quel punto, alcuni parlamentari italiani, con Meloni in testa, hanno organizzato un incontro con lui in Senato. Ovviamente in videoconferenza. La Cina, com’era prevedibile, non ha gradito, e l’ambasciatore cinese in Italia si è fatto prendere molto poco diplomaticamente dal nervoso e l’ha fatta, decisamente, fuori dal vaso, attaccando i parlamentari colpevoli, a sentire Pechino, di avere tenuto un «comportamento irresponsabile» dando voce a un «pericoloso agitatore» (!) come il giovane e occhialuto – e davvero inoffensivo – Wong.

IL TWEET DI MELONI CONTRO LA CINA

A quel punto Meloni ha tirato fuori le unghie e per tutta risposta, in un tweet di fuoco, ha rispedito al mittente le «dichiarazioni arroganti e intollerabili» della Cina. «Noi siamo un Paese sovrano e democratico» ha tuonato più o meno la leader di Fratelli d’Italia, «e non permettiamo  a nessuno di interferire negli affari interni del nostro parlamento e di dettare l’agenda ai nostri parlamentari»!  E fin qui… come darle torto? 

Ma il trionfo della nuova Super-Giorgia, neo-paladina della democrazia e dei diritti (dei cinesi e dei parlamentari italiani) non si è esaurito lì, perché lo stesso Joshua Wong ha addirittura ritwittato il tutto. Insomma, pare che ormai dietro alla porta Meloni ci sia la fila di attivisti provenienti da ogni parte del globo dove la democrazia è a rischio, per pregarla di indossare il suo super-mantello e intervenire subito.

A QUANDO LE CRITICHE A PUTIN E ORBAN?

Questo idilliaco, quanto inedito, quadretto, però, non ha convinto tutti – compreso chi scrive – e ha spinto più d’uno a domandarsi cosa hanno in comune la difesa della libertà di pensiero e di espressione con una forza politica di destra che spesso e volentieri ha chiuso un occhio sui raduni di neofascisti, l’esibizione di striscioni inneggianti a Mussolini, i saluti romani, le violenze razziste, l’antisemitismo, la xenofobia, e così via. Adesso siamo tutti in trepidante attesa di nuove dichiarazioni al calor bianco della neo-paladina pro-democrazia contro i metodi decisamente poco democratici di Vladimir Putin – per esempio – nei confronti degli oppositori politici e dei giornalisti  scomodi o dell’amico Viktor Orban che ha appena vietato la diffusione nel suo Paese dei report di Amnesty International. E invece silenzio assoluto, invece, ieri come oggi e sicuramente domani.

IL PARTITO COMUNISTA DI CINESE È TALE SOLO DI NOME

Sorge spontaneo a questo punto domandarsi: ma non sarà che Meloni si sia tanto infervorata contro Pechino per via del fatto che, in Cina, il Partito al potere si chiama ancora comunista mentre, come è evidente a tutti, di comunista gli è rimasto ormai poco o niente, anzi proprio niente? Insomma: gliel’avranno detto che è da un pezzo che in Cina non governano più i comunisti di Mao Zedong?

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A Hong Kong manifestanti di nuovo in piazza e chiedono aiuto a Trump

Non si ferma la protesta pro-democrazia. In molti hanno marciato con bandiere americane e slogan in favore del tycoon. Intanto Pechino critica l’Onu per le parole di Michelle Bachelet.

Anche il primo dicembre i manifestanti di Hong Kong sono scesi in piazza per protestare a favore della democrazia. Un ritorno che fa seguito alle due settimane di pausa elettorale. Non sono mancate neanche questa volta attimi di tensione con le forze dell’ordine. In particolare nella tarda notte dove un gruppo di facinorosi è entrato in contatto con la polizia. Lo scontro è stato inevitabile ma non ci sarebbero stati feriti.

L’APPELLO A DONALD TRUMP

Nel corso della manifestazione, oltre agli immancabili slogan contro la censura cinese, in molti hanno marciato con la bandiera americana posta sui cappelli o disegnata sulle maschere che coprono i volti. Ci sono stati anche svariati ed espliciti appelli a Donald Trump. Tra i più gettonati quello in cui si chiedeva al presidente degli Stati Uniti d’America di liberare Hong Kong dal gioco cinese. Mentre un altro recitava «Make Hong Kong Great Again», rimodellando in chiave asiatica il motto con cui il tycoon ha vinto le elezioni presidenziali (Make America Great Again). Alcune centinaia di dimostranti si sono simbolicamente anche diretti al consolato Usa.

PECHINO ATTACCA L’ONU

Intanto Pechino ha accusato l’Alto commissario Onu per i Diritti dell’Uomo, Michelle Bachelet, di «fomentare la violenza radicale a Hong Kong». Bachelet in un editoriale apparso sul South China Morning Post nella giornata di sabato 30 novembre, aveva raccomandato che la governatrice Carrie Lam avviasse un’indagine imparziale sulla polizia per «uso eccessivo della forza» contro i manifestanti e contestualmente aprisse una linea di dialogo con il movimento di protesta per risolvere la crisi. Immediata la replica della Cina che attraverso l’ambasciata di Ginevra, dove si trova la sede dell’agenzia Onu, ha accusato Michelle Bachelet di «esercitare pressione sul governo (autonomo) e avrà il risultato di fomentare i facinorosi a condurre azioni di violenza ancora più radicale».

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La conferenza stampa di Wong fa litigare Italia e Cina

Il collegamento video dell’attivista di Hong Kong fa irritare Pechino. Che definisce «irresponsabili» i parlamentari che l’hanno organizzato. La Farnesina: «Ingerenza inaccettabile».

Duro botta e risposta tra Italia e Cina su Hong Kong. Al centro del contendere, la conferenza stampa in collegamento video tenuta il 28 novembre dall’attivista e volto delle manifestazioni pro-democrazia nell’ex colonia britannica Joshua Wong. Conferenza che ha irritato non poco Pechino. «Wong ha distorto la realtà, legittimato la violenza e chiesto l’ingerenza di forze straniere negli affari di Hong Kong», ha attaccato l’ambasciata cinese in un tweet. «I politici italiani che hanno fatto la videoconferenza con lui hanno tenuto un comportamento irresponsabile».

Pronta la replica della Farnesina. «Dichiarazioni quali quelle rese dal portavoce dell’ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Roma sono del tutto inaccettabili e totalmente irrispettose della sovranità del parlamento italiano», hanno dichiarato fonti della Farnesina sentite dall’Ansa, spiegando che all’ambasciatore cinese a Roma è stato espresso «forte disappunto per quella che è considerata una indebita ingerenza nella dialettica politica e parlamentare italiana».

Non siamo una provincia cinese, anche se magari Grillo la pensa così

Matteo Salvini

Sulla questione è intervenuto anche il leader della Lega Matteo Salvini, che non ha perso l’occasione per polemizzare con il Movimento 5 stelle, e in particolare col suo fondatore: «Non siamo una provincia cinese (anche se magari Grillo la pensa così) e per noi Democrazia, Libertà e Diritti Umani sono dei valori irrinunciabili».

LA CONFERENZA STAMPA ORGANIZZATA DA FDI E RADICALI

La conferenza stampa di Wong, tenuta nella Sala Caduti di Nassirya del Senato della Repubblica, è stata organizzata da Fratelli d’Italia e dal Partito Radicale e promossa dal senatore di FdI e vicepresidente del Copasir, Adolfo Urso, da Laura Harth, rappresentante del Partito Radicale presso l’Onu, e da Giulio Terzi di Sant’Agata, diplomatico e già ministro degli Esteri nel governo Monti. Sono intervenuti, tra gli altri, anche i parlamentari Enrico Aimi (Forza Italia) e Valeria Fedeli (Partito Democratico).

La Via della Seta non è altro che una strategia della Cina per influenzare i Paesi

Joshua Wong

Tra le altre cose, nel suo collegamento Wong ha accusato l’Italia di fornire alla polizia di Hong Kong mezzi per la «repressione» dei manifestanti; al tempo stesso, ha messo in guardia il governo di Roma, invitandolo a «stare attento in particolare al progetto Belt and Road Inititative, la Via della Seta. Non è altro che una strategia della Cina per influenzare i Paesi».

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L’attivista Wong: «L’Italia sostiene la repressione a Hong Kong»

Il fondatore di Demosisto: «Il vostro Paese fornisce mezzi e armi alla polizia». Poi la stoccata a Di Maio: «Deluso dalla sua indifferenza».

Doveva parlare dal vivo a Milano, ma non gli è stato concesso di lasciare Hong Kong. Joshua Wong, però, ha trovato comunque il modo di far arrivare le sue parole in Italia. L’attivista, fondatore del partito Demosisto e tra i volti più noti delle proteste pro-democrazia che da mesi attraversano l’ex colonia britannica, ha parlato in un collegamento video col nostro Paese, a cui non ha risparmiato dure critiche.

WONG: «L’ITALIA FACCIA COME GLI USA»

«Da cinque mesi viviamo la brutalità della polizia, che ormai usa armi da fuoco contro i manifestanti», ha detto. «Peraltro, ci sono anche aziende italiane che contribuiscono, e forniscono loro mezzi, tra cui autovetture. Credo che un Paese responsabile come l’Italia dovrebbe dimostrare quanto tenga alla libertà e prendere misure adeguate a questo riguardo». Wong ha invitato Roma «a prendere delle iniziative, per quanto riguarda l’esportazione di armi anti-sommossa e i mezzi utilizzati dalla polizia a Hong Kong, e di adottare misure simili al provvedimento approvato dagli Stati Uniti, con un chiaro messaggio da parte dell’Italia di fermare le violazioni dei diritti umani».

L’Italia rimanga fedele alle promesse fatte all’Unione europea, Ue che ha giurato che i diritti umani sono alla sua base

Joshua Wong

L’attivista ha poi criticato l’atteggiamento del ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Sono rimasto piuttosto deluso nel leggere le sue dichiarazioni indifferenti sulla terribile situazione dei diritti umani a Hong Kong», ha detto. «Sono consapevole che gli imprenditori e i leader politici abbiano paura di sollevare preoccupazioni sui diritti umani con Pechino, temendo che questo possa in qualche modo andare contro i loro interessi economici. La mia richiesta umile è che l’Italia rimanga fedele alle promesse fatte all’Unione europea, Ue che ha giurato che i diritti umani sono alla sua base e che non incoraggerà mai violazioni. Chiedo all’Unione europea e all’Italia di non chiudere gli occhi dinanzi alla crisi umanitaria Hong Kong».

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Trump firma la legge a favore delle proteste di Hong Kong

Il presidente Usa sfida Pechino e dà l’ok al pacchetto di misure a sostegno dei manifestanti. La Cina minaccia «decise contromisure».

Donald Trump ha firmato la legge varata dal Congresso americano che sostiene le proteste per la democrazia a Hong Kong. Il presidente americano in una dichiarazione ha auspicato quindi che le autorità cinesi e di Hong Kong siano in grado di trovare una soluzione amichevole che porti alla pace e alla prosperità di tutti.

IL GOVERNO DI HONG KONG DICE NO ALLE INTERFERENZE

Il governo di Hong Kong ha espresso «rammarico» per la firma di Trump al pacchetto di misure a sostegno delle proteste, in corso da oltre cinque mesi nell’ex colonia. La normativa, si legge in una nota, manda «un segnale sbagliato ai manifestanti», oltre a «interferire negli affari interni di Hong Kong» e «a essere priva di fondamento».

LA CINA MINACCIA CONTROMISURE

La Cina ha minacciato di essere pronta ad adottare «decise contromisure» dopo la firma. «La natura di ciò è estremamente abominevole e nasconde assolutamente intenzioni minacciose», si legge in una nota del ministero degli Esteri, «avvisiamo gli Usa di non procedere ostinatamente sulla sua strada, altrimenti la Cina adotterà decise contromisure e gli Usa dovranno rispondere di tutte le relative conseguenze».

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Hong Kong, Carrie Lam tira dritto dopo le elezioni distrettuali

La governatrice fa mea culpa, ma senza concessioni ai manifestanti. Mentre si alza la tensione tra Cina e Usa sul testo approvato dal Congresso statunitense.

Un mea culpa a metà. Il 27 novembre la governatrice di Hong Kong Carrie Lam ha preso atto dell’insoddisfazione emersa domenica 24 novembre dal voto locale distrettuale che ha visto il campo pro-democrazia vincere quasi il 90% dei seggi e il tracollo dei candidati pro-Pechino, ma non ha fatto concessioni. L’esito, ha affermato in conferenza stampa, riversa i timori sulle «carenze del governo, inclusa l’insoddisfazione per il tempo preso per occuparsi dell’attuale situazione instabile e, naturalmente, per far finire le violenze». Il governo «rifletterà seriamente» sull’esito del voto «migliorando la governance». Nessun passo, però, verso i manifestanti.

LA CINA CONVOCA L’AMBASCIATORE STATUNITENSE

Nel frattempo, prosegue lo scontro diplomatico tra Stati Uniti e Cina sul testo a favore del movimento pro-democrazia dell’ex colonia che, approvato dal Congresso, attende la firma del presidente Donald Trump per l’efficacia. Il viceministro degli Esteri cinese Zheng Zeguang ha convocato l’ambasciatore Usa a Pechino, Terry Branstad, chiedendo il ritiro dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act of 2019. Zheng ha sollecitato la correzione «immediata degli errori» e la fine delle interferenze negli affari interni della Cina. Altrimenti, Washington dovrà «farsi carico di ogni conseguenza».

Qualsiasi tentativo di spingere Hong Kong nel caos e di distruggere la sua stabilità e prosperità è destinato a fallire

Zheng Zeguang, viceministro degli Esteri cinese

Zheng ha accusato il Congresso Usa di tralasciare i fatti e la verità, e di essere connivente e di supportare i violenti crimini e l’azione degli agitatori. «È una grave violazione delle leggi internazionali e delle norme di base che governano le relazioni internazionali. La Cina esprime forte condanna e vi si oppone», ha detto il viceministro. «Qualsiasi tentativo di spingere Hong Kong nel caos e di distruggere la sua stabilità e prosperità è destinato a fallire».

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Hong Kong canta Bella ciao e spaventa il gigante Cina

Il risultato del voto contro Pechino ha una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica per l’ex colonia. Non era mai successo prima che i rappresentanti filo-cinesi venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.

Più che una vittoria elettorale è stato un plebiscito. Il 24 novembre il popolo di Hong Kong si è messo in fila, pazientemente, per strada, di fronte alle scuole, agli uffici governativi, ovunque ci fosse un seggio elettorale.

Si è alzato molto presto al mattino, il popolo di Hong Kong, malgrado fosse domenica, per arrivare prima, per cercare di creare il minor disturbo possibile, visto che già si poteva immaginare che l’affluenza sarebbe stata alta, anzi altissima, straordinaria: quasi il 72% degli aventi diritto al voto.

E senza aggressività, senza clamore – dopo settimane, mesi, di proteste, violenze e disordini – ha messo in pratica quello che di buono l’Occidente – gli inglesi in questo caso – in 150 anni di dominio coloniale gli hanno insegnato. La loro «migliore eredità»: la democrazia.

PER LA PRIMA VOLTA I PARITI FILO-CINESI SONO ESIGUA MINORANZA

E la democrazia ha vinto, a Hong Kong. I candidati anti-Pechino e pro-democrazia hanno conquistato il 90 % dei seggi, stravincendo in 17 dei 18 distretti in cui si divide l’ex colonia britannica. Si dirà che queste elezioni hanno carattere locale, che non cambieranno radicalmente gli equilibri politici all’interno del LegCo, il Legislative Council o “mini parlamento” di Hong Kong, che resterà comunque ancora dominato dai rappresentanti imposti da Pechino. Ma l’importanza del risultato elettorale riveste comunque una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica. Non era mai successo prima che, praticamente nell’intera struttura distrettuale di Hong Kong, i rappresentanti Pro-Pechino venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.

Supporter democratici esultano dopo il voto del 24 novembre a Hong Kong.

IL PARTITO COMUNISTA CINESE HA ACCUSATO IL COLPO

Ora, probabilmente, è troppo presto per cantare vittoria. Certo, all’indomani della disfatta del fronte pro-Pechino, anche l’inetta governatrice-fantoccio di Hong Kong, la contestatissima Carrie Lam, ha dovuto prendere atto del risultato. E della storica dèbacle. Persino a Pechino, i burocrati del Partito comunista cinese che continuano a governare questo immenso Paese con il pugno sempre più di ferro, strangolando ogni minimo sussulto democratico, hanno accusato il colpo. La prima ha dichiarato a caldo di volere «con umiltà ascoltare le opinioni dei cittadini», ma Geng Shuang, portavoce del ministro degli Esteri cinese, si è subito affrettato a dichiarare minacciosamente che «Hong Kong resta parte della Cina, a prescindere da qualsiasi risultato elettorale». Ma oggi queste parole aggressive e autoritarie, alle quali il gigante illiberale cinese ci ha abituato, suonano vuote, sembrano dette in affanno, per parare un colpo.

LA RESISTENZA DI HONG KONG PUÒ INCEPPARE LA PROPAGANDA CINESE

Forse anche l’onnipotente presidente-a-vita Xi Jinping ha già capito che la piccola Hong Kong potrebbe essere il sassolino che rischia di far saltare l’immenso e fino a oggi imbattibile ingranaggio repressivo cinese? Forse. Ma certo non accadrà domani. La ferrea censura cinese riesce ancora a mantenere nell’ignoranza e a manipolare quel miliardo e rotti di cittadini che ascoltano solo la versione dei fatti artefatta dall’efficiente macchina della propaganda di Pechino. La voglia, anzi la pretesa di democrazia, che si è affermata a Hong Kong senza se e senza ma, potrà piano piano “sgocciolare” dentro questa macchina propagandistica e distruggerla? Ce lo auguriamo, e chiunque abbia a cuore i valori non negoziabili della democrazia e dei diritti umani dovrebbe augurarselo. Ma è ancora troppo presto per dire se e quando ciò accadrà.

Cittadini di Hong Kong in fila durante le elezioni.

UN VOTO CHE DÀ ANCORA PIÙ VALORE ALLE PROTESTE

Intanto i cittadini di Hong Kong – lasciati soli, totalmente e colpevolmente soli nella loro lotta, dall’intero Occidente, che ha preferito girare la testa dall’altra parte e continuare ad allungare la mano per arraffare i soldi cinesi – hanno dato a tutti una straordinaria lezione di perseveranza, orgoglio, rappresentanza e democrazia. Grazie al loro voto, tutto il mondo ha potuto vedere che i manifestanti che combattevano da mesi, mettendo a ferro a fuoco le eleganti vie della ex colonia, non erano – come qualcuno, anche da noi, sosteneva in aperta cattiva fede – una «sparuta minoranza di violenti», avversati dalla maggioranza della popolazione di Hong Kong che in realtà sarebbe stata tutta a favore di Pechino. Al contrario, il risultato elettorale ha dimostrato che essi erano l’avanguardia di un fronte immenso, condiviso, maggioritario, che unisce nell’amore per la propria città e nella richiesta di democrazia, giovanissimi studenti, impiegati pubblici, professionisti, uomini d’affari, commercianti e casalinghe. Il popolo di Hong Kong, insomma. Quello che «una mattina, si è svegliato».

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Hong Kong canta Bella ciao e spaventa il gigante Cina

Il risultato del voto contro Pechino ha una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica per l’ex colonia. Non era mai successo prima che i rappresentanti filo-cinesi venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.

Più che una vittoria elettorale è stato un plebiscito. Il 24 novembre il popolo di Hong Kong si è messo in fila, pazientemente, per strada, di fronte alle scuole, agli uffici governativi, ovunque ci fosse un seggio elettorale.

Si è alzato molto presto al mattino, il popolo di Hong Kong, malgrado fosse domenica, per arrivare prima, per cercare di creare il minor disturbo possibile, visto che già si poteva immaginare che l’affluenza sarebbe stata alta, anzi altissima, straordinaria: quasi il 72% degli aventi diritto al voto.

E senza aggressività, senza clamore – dopo settimane, mesi, di proteste, violenze e disordini – ha messo in pratica quello che di buono l’Occidente – gli inglesi in questo caso – in 150 anni di dominio coloniale gli hanno insegnato. La loro «migliore eredità»: la democrazia.

PER LA PRIMA VOLTA I PARITI FILO-CINESI SONO ESIGUA MINORANZA

E la democrazia ha vinto, a Hong Kong. I candidati anti-Pechino e pro-democrazia hanno conquistato il 90 % dei seggi, stravincendo in 17 dei 18 distretti in cui si divide l’ex colonia britannica. Si dirà che queste elezioni hanno carattere locale, che non cambieranno radicalmente gli equilibri politici all’interno del LegCo, il Legislative Council o “mini parlamento” di Hong Kong, che resterà comunque ancora dominato dai rappresentanti imposti da Pechino. Ma l’importanza del risultato elettorale riveste comunque una valenza incredibile, che non è esagerato definire storica. Non era mai successo prima che, praticamente nell’intera struttura distrettuale di Hong Kong, i rappresentanti Pro-Pechino venissero ridotti a una esigua minoranza, come invece è accaduto.

Supporter democratici esultano dopo il voto del 24 novembre a Hong Kong.

IL PARTITO COMUNISTA CINESE HA ACCUSATO IL COLPO

Ora, probabilmente, è troppo presto per cantare vittoria. Certo, all’indomani della disfatta del fronte pro-Pechino, anche l’inetta governatrice-fantoccio di Hong Kong, la contestatissima Carrie Lam, ha dovuto prendere atto del risultato. E della storica dèbacle. Persino a Pechino, i burocrati del Partito comunista cinese che continuano a governare questo immenso Paese con il pugno sempre più di ferro, strangolando ogni minimo sussulto democratico, hanno accusato il colpo. La prima ha dichiarato a caldo di volere «con umiltà ascoltare le opinioni dei cittadini», ma Geng Shuang, portavoce del ministro degli Esteri cinese, si è subito affrettato a dichiarare minacciosamente che «Hong Kong resta parte della Cina, a prescindere da qualsiasi risultato elettorale». Ma oggi queste parole aggressive e autoritarie, alle quali il gigante illiberale cinese ci ha abituato, suonano vuote, sembrano dette in affanno, per parare un colpo.

LA RESISTENZA DI HONG KONG PUÒ INCEPPARE LA PROPAGANDA CINESE

Forse anche l’onnipotente presidente-a-vita Xi Jinping ha già capito che la piccola Hong Kong potrebbe essere il sassolino che rischia di far saltare l’immenso e fino a oggi imbattibile ingranaggio repressivo cinese? Forse. Ma certo non accadrà domani. La ferrea censura cinese riesce ancora a mantenere nell’ignoranza e a manipolare quel miliardo e rotti di cittadini che ascoltano solo la versione dei fatti artefatta dall’efficiente macchina della propaganda di Pechino. La voglia, anzi la pretesa di democrazia, che si è affermata a Hong Kong senza se e senza ma, potrà piano piano “sgocciolare” dentro questa macchina propagandistica e distruggerla? Ce lo auguriamo, e chiunque abbia a cuore i valori non negoziabili della democrazia e dei diritti umani dovrebbe augurarselo. Ma è ancora troppo presto per dire se e quando ciò accadrà.

Cittadini di Hong Kong in fila durante le elezioni.

UN VOTO CHE DÀ ANCORA PIÙ VALORE ALLE PROTESTE

Intanto i cittadini di Hong Kong – lasciati soli, totalmente e colpevolmente soli nella loro lotta, dall’intero Occidente, che ha preferito girare la testa dall’altra parte e continuare ad allungare la mano per arraffare i soldi cinesi – hanno dato a tutti una straordinaria lezione di perseveranza, orgoglio, rappresentanza e democrazia. Grazie al loro voto, tutto il mondo ha potuto vedere che i manifestanti che combattevano da mesi, mettendo a ferro a fuoco le eleganti vie della ex colonia, non erano – come qualcuno, anche da noi, sosteneva in aperta cattiva fede – una «sparuta minoranza di violenti», avversati dalla maggioranza della popolazione di Hong Kong che in realtà sarebbe stata tutta a favore di Pechino. Al contrario, il risultato elettorale ha dimostrato che essi erano l’avanguardia di un fronte immenso, condiviso, maggioritario, che unisce nell’amore per la propria città e nella richiesta di democrazia, giovanissimi studenti, impiegati pubblici, professionisti, uomini d’affari, commercianti e casalinghe. Il popolo di Hong Kong, insomma. Quello che «una mattina, si è svegliato».

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A Hong Kong i candidati democratici conquistano il 90% dei voti

Affluenza al 71,2%. La governatrice Lam ha assicurato di ascoltare «con umiltà le opinioni dei cittadini». Ma da Pechino ricordano che l’ex colonia è parte della Cina «a prescindere dal risultato elettorale».

I candidati democratici in corsa alle elezioni distrettuali di Hong Kong hanno conquistato quasi il 90% dei seggi. L’affluenza è stata del 71,2%. Ascolteremo «certamente con umiltà le opinioni dei cittadini» ha assicurato la governatrice Lam. «Hong Kong è parte integrante della Cina, a prescindere dal risultato elettorale», si appresta a commentare Pechino tramite il ministro degli Esteri cinese Wang Yi.

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Cosa sappiamo sui metodi di tortura impiegati dalla Cina

Il caso del dipendente consolare Cheng è solo l’ultimo in ordine di tempo. Le testimonianze passate hanno permesso di mettere in fila circa 100 tecniche. Dai morsi di serpente alla famigerata “Panchina della tigre”.

Dominic Raab, segretario di Stato per gli Affari esteri del Regno Unito, non ha usato mezze parole: «Il trattamento della Cina nei confronti del signor Cheng equivale a tortura». Così il caso di Simon Cheng, ex dipendente del consolato britannico di Hong Kong, arrestato lo scorso agosto e riapparso dopo essere rimasto nelle mani della Polizia cinese per 15 giorni, rischia di creare un incidente diplomatico tra Pechino e Londra. In un’intervista esclusiva al Wall Street Journal, Cheng ha dichiarato che la polizia segreta cinese lo ha picchiato, privato del sonno e incatenato a bocca aperta mentre cercava di estorcergli informazioni sugli attivisti che guidano le proteste democratiche a Hong Kong. Ma il suo non è certo il primo caso che testimonia dell’uso abituale della tortura da parte del regime cinese, un sistema largamente praticato per estorcere informazioni e false confessioni.

Arrestato a Pechino all’inizio di gennaio 2016 e tenuto in cattività per 23 giorni, anche l’attivista svedese Peter Dahlin ha subito un simile calvario in Cina, quasi tre anni prima che i canadesi Michael Kovrig e Michael Spavor venissero arrestati (sono attualmente ancora detenuti dalle autorità cinesi ormai da quasi un anno). Dahlin, co-fondatore di China Action, una Ong che supporta molti avvocati per i diritti umani in Cina, sostiene che Kovrig – il quale, come lui, è stato catturato a Pechino – sia attualmente detenuto nella stessa struttura in cui avevano rinchiuso lui: una prigione segreta, con quattro piani e due ali indipendenti, nella parte meridionale della capitale cinese. Spavor invece, che viveva e operava nella Cina nordorientale, sarebbe tenuto prigioniero in una struttura diversa.

LA TESTIMONIANZA DELL’ATTIVISTA SVEDESE DAHLIN

Secondo la testimonianza di Dahlin, ai prigionieri vengono applicate diverse forme di tortura. Due poliziotti, alternandosi nel ruolo consolidato di “poliziotto buono e poliziotto cattivo”, lo hanno interrogato in continuazione per giorni. Nella rare pause, due guardie nella sua cella osservavano ogni sua minima mossa, come girarsi nel letto. «Pesanti tende impediscono totalmente alla luce del giorno di penetrare nella cella, mentre le luci restano sempre accese, giorno e notte, privando il detenuto nella nozione del tempo e della possibilità di dormire», ha raccontato. Secondo quando dichiarato da Farida Deif, direttore dell’ufficio canadese di Human Rights Watch (Hrw) “tenere le luci accese con la conseguente privazione del sonno è una delle forme più pesanti di tortura fisica e mentale”.

ALCUNI DETENUTI MUOIONO PER LE TORTURE

Sempre secondo le testimonianze raccolte da Human Rights Watch, il regime cinese usa ogni mezzo a sua disposizione «per mettere a tacere chiunque non sia un cieco sostenitore del Partito comunista al potere». Ai detenuti in Cina vengono somministrate con la forza anche droghe psicotrope. Alcuni vengono stuprati, legati in posizioni dolorose per giorni, affamati, denudati ed esposti al freddo gelido per ore e anche colpiti da forti scariche con bastoni elettrici, per citare solo alcuni deli metodi utilizzati dagli aguzzini cinesi. Applicando una scarica elettrica che può raggiungere i 300 mila volt, i bastoni vengono impiegati per ottenere il massimo effetto su parti sensibili del corpo come la bocca, i genitali, il collo e la pianta dei piedi. In alcuni casi i prigionieri perdono coscienza e muoiono per le conseguenze.

Amnesty ha raccolto dirette testimonianze di quasi 100 diversi metodi di tortura

Secondo le organizzazioni per i diritti umani, l’uso della tortura e degli abusi in Cina contro i gruppi perseguitati rimane dilagante. Alcuni dei metodi di tortura possono essere fatti risalire al Medioevo, mentre altre forme di abuso, come il prelievo forzato di organi, non hanno precedenti nella storia. Il rapporto di Amnesty International intitolato No End in Sight: Torture and Forced Confessions in China ha raccolto dirette testimonianze di quasi 100 diversi metodi di tortura. Questi includono anche alimentazione forzata con urina o feci, ustioni da sigaretta, infezioni di scabbia, isolamento totale, perforatura delle unghie con bastoncini di bambù affilati e morsi di cani o serpenti.

I NOMI IN CODICE DELLE TORTURE

Molti dei metodi di tortura hanno persino dei nomi specifici, come “Piccola gabbia” (la persona viene ammanettata all’interno di una piccola gabbia in modo tale che non possa stare in piedi o sedersi); “Hell Confinement” (un dispositivo costituito da legacci e manette applicato in modo tale che le vittime non possano camminare, sedersi, usare il bagno o nutrirsi); “Covering a Shed” (soffocamento) e “Tortura del trascinamento” (le vittime vengono trascinate ripetutamente su terreni accidentati). C’è poi il metodo considerato il più terribile di tutti, la famigerata “Panchina della tigre“, dove la vittima si siede con le gambe distese e legate strette alla panchina con delle cinghie. Mattoni, o altri oggetti, vengono posti sotto i talloni della vittima, con più strati aggiunti fino a quando le cinghie si rompono, causando un dolore insopportabile.

ANCHE I CRISTIANI “NON ALLINEATI” NEL MIRINO

Il target preferito dai torturatori cinesi è rappresentato, tra gli altri, dai cristiani “non allineati” (quelli che si rifiutano di sottomettersi alla Chiesa di Stato gestita dal Partito Comunista), i buddisti tibetani, i musulmani uiguri, i seguaci del Falun Dafa e gli attivisti democratici o chiunque sospettato di «attività anti-governativa», come i due canadesi ancora detenuti in Cina. L’artista e scultore canadese di origine cinese Kunlun Zhang, che è riuscito a sopravvivere alle torture e a ritornare in Canada, ha raccontato che le guardie gli ripetevano: «Possiamo fare di te qualsiasi cosa senza essere ritenuti responsabili. Se muori, ti seppelliremo e diremo a tutti che ti sei suicidato perché avevi paura di un’accusa criminale».

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Lo scontro Usa-Cina ora si sposta su Hong Kong

Dura presa di posizione di Pechino contro la risoluzione del Congresso americano sull’ex colonia britannica. «Pronti al contrattacco».

La Cina è pronta a prendere misure «per contrattaccare con vigore» in risposta al Congresso Usa che ha dato il via libera all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, il provvedimento a sostegno delle proteste dell’ex colonia, ora all’esame della firma di Donald Trump per la sua efficacia. «Condanniamo con forza e ci opponiamo con decisione alla approvazione di queste leggi», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang, nel corso della conferenza stampa quotidiana.

PECHINO: «PRONTI A FORTI CONTROMISURE»

Geng ha ribadito l’invito a optare per il blocco dell’iter legislativo chiedendo a Trump di opporre il veto e di non firmare il testo varato dal Congresso, creando un caso piuttosto singolare vista la unanimità espressa dal Senato che è anche a controllo repubblicano. Il portavoce ha minacciato imprecisate «forti contromisure» se il provvedimento diventerà effettivo. «Sollecitiamo la parte Usa a capire la situazione, a fermare gli errori prima che sia troppo tardi e a evitare che questo atto diventi legge, smettendo di interferire negli affari di Hong Kong che sono questioni interne della Cina», ha detto ancora Geng. «Se gli Usa continuano ad adottare le azioni sbagliate, la Cina sarà costretta a prendere di sicuro forti contromisure», ha concluso Geng.

WANG: «CONNIVENZA COI CRIMINALI»

Il Congresso Usa, col via libera del provvedimento, «manda il segnale sbagliato di connivenza coi criminali violenti», ha rincarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, per il quale la «sua essenza è di confondere e addirittura di distruggere Hong Kong. Questa è un’interferenza manifesta negli affari interni della Cina e un grave disservizio a comuni e fondamentali interessi di un ampio numero di compatrioti di Hong Kong».

LEGGI ANCHE: Perché Trump e il Congresso Usa non sono allineati su Hong Kong

Wang ha espresso le sue critiche durante un incontro con l’ex segretario alla Difesa americano William Cohen, ribadendo che la normativa costituisce un atto di interferenza negli affari interni della Cina. «Come possiamo parlare di democrazia? Come possiamo parlare di diritti umani quando ignoriamo i danni causati da azioni violente e illegali? La Cina si oppone fermamente a tutto questo non permetteremo mai ad alcun tentativo di minare la prosperità e la stabilità di Hong Kong, e di minacciare il sistema ‘un Paese, due sistemi’», ha concluso Wang.

COSA C’È NEL PROVVEDIMENTO

Il provvedimento mandato alla firma del presidente americano Donald Trump prevede l’approvazione di sanzioni a carico dei unzionari, di Hong Kong o cinesi, ritenuti colpevoli di abusi sui diritti e richiede la revisione annuale del riconoscimento dello status di partner speciale della città nei rapporti con gli Usa. Altre norme, invece, pribiscono l’export a favore della polizia locale di munizioni non letali o di altri sistemi antisommossa, tra lacrimogeni, spray al peperoncino, proiettili di gomma e taser.

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Lo scontro Usa-Cina ora si sposta su Hong Kong

Dura presa di posizione di Pechino contro la risoluzione del Congresso americano sull’ex colonia britannica. «Pronti al contrattacco».

La Cina è pronta a prendere misure «per contrattaccare con vigore» in risposta al Congresso Usa che ha dato il via libera all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, il provvedimento a sostegno delle proteste dell’ex colonia, ora all’esame della firma di Donald Trump per la sua efficacia. «Condanniamo con forza e ci opponiamo con decisione alla approvazione di queste leggi», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang, nel corso della conferenza stampa quotidiana.

PECHINO: «PRONTI A FORTI CONTROMISURE»

Geng ha ribadito l’invito a optare per il blocco dell’iter legislativo chiedendo a Trump di opporre il veto e di non firmare il testo varato dal Congresso, creando un caso piuttosto singolare vista la unanimità espressa dal Senato che è anche a controllo repubblicano. Il portavoce ha minacciato imprecisate «forti contromisure» se il provvedimento diventerà effettivo. «Sollecitiamo la parte Usa a capire la situazione, a fermare gli errori prima che sia troppo tardi e a evitare che questo atto diventi legge, smettendo di interferire negli affari di Hong Kong che sono questioni interne della Cina», ha detto ancora Geng. «Se gli Usa continuano ad adottare le azioni sbagliate, la Cina sarà costretta a prendere di sicuro forti contromisure», ha concluso Geng.

WANG: «CONNIVENZA COI CRIMINALI»

Il Congresso Usa, col via libera del provvedimento, «manda il segnale sbagliato di connivenza coi criminali violenti», ha rincarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, per il quale la «sua essenza è di confondere e addirittura di distruggere Hong Kong. Questa è un’interferenza manifesta negli affari interni della Cina e un grave disservizio a comuni e fondamentali interessi di un ampio numero di compatrioti di Hong Kong».

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Wang ha espresso le sue critiche durante un incontro con l’ex segretario alla Difesa americano William Cohen, ribadendo che la normativa costituisce un atto di interferenza negli affari interni della Cina. «Come possiamo parlare di democrazia? Come possiamo parlare di diritti umani quando ignoriamo i danni causati da azioni violente e illegali? La Cina si oppone fermamente a tutto questo non permetteremo mai ad alcun tentativo di minare la prosperità e la stabilità di Hong Kong, e di minacciare il sistema ‘un Paese, due sistemi’», ha concluso Wang.

COSA C’È NEL PROVVEDIMENTO

Il provvedimento mandato alla firma del presidente americano Donald Trump prevede l’approvazione di sanzioni a carico dei unzionari, di Hong Kong o cinesi, ritenuti colpevoli di abusi sui diritti e richiede la revisione annuale del riconoscimento dello status di partner speciale della città nei rapporti con gli Usa. Altre norme, invece, pribiscono l’export a favore della polizia locale di munizioni non letali o di altri sistemi antisommossa, tra lacrimogeni, spray al peperoncino, proiettili di gomma e taser.

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Perché Trump e il Congresso Usa non sono allineati su Hong Kong

Da una parte, lo schiaffo del Senato alla Cina. Dall’altra, la cautela del presidente. Che teme la polarizzazione dello scontro. E vuole tener fede alla propria retorica sovranista. v

Schiaffo del Congresso americano alla Cina. Il Senato ha approvato un disegno di legge a favore dei dimostranti di Hong Kong, spingendo così la Casa Bianca a imporre delle sanzioni ai funzionari del governo cinese che violino i diritti umani. Il testo prevede, tra l’altro, che venga elaborata una strategia per tutelare i cittadini statunitensi nell’ex colonia britannica. «Il Senato degli Stati Uniti ha preso una posizione a sostegno del popolo di Hong Kong», ha affermato il senatore repubblicano Jim Risch in un comunicato. «Approvare questo disegno di legge è un importante passo avanti nel ritenere il Partito comunista cinese responsabile della sua erosione dell’autonomia di Hong Kong e della sua repressione delle libertà fondamentali». Parole condivise anche dal collega democratico, Ben Cardin.

Durissima la reazione di Pechino, con il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, che ha sostenuto che la norma «viola gravemente il diritto internazionale e le leggi basilari che regolano i rapporti internazionali. La Cina lo condanna e si oppone fermamente». Lo scorso ottobre, la Camera dei Rappresentanti aveva già approvato un provvedimento simile a larghissima maggioranza. I due rami del Congresso dovranno quindi ora ratificare un testo comune da inviare a Donald Trump, il quale dovrà a sua volta decidere se concedere la propria firma o porre il veto.

LA SVOLTA DEL 2008 NEI RAPPORTI CON LA CINA

Che il Campidoglio fosse abbastanza agguerrito nei confronti di Pechino sulla questione di Hong Kong non è del resto esattamente una novità: a partire da alcuni settori del Partito Repubblicano, che vedono nella Repubblica Popolare un crescente pericolo. Si tratta d’altronde di una linea che non nasce oggi ma che affonda, se vogliamo, le proprie radici soprattutto nella crisi economica del 2008. Sino ad allora, i repubblicani avevano mantenuto un atteggiamento relativamente aperto nei confronti della Cina, soprattutto in ossequio a logiche economiche energicamente liberoscambiste. E, in tal senso, avevano in gran parte spalleggiato a livello parlamentare la politica di amichevolezza commerciale condotta negli Anni 90 dall’allora presidente democratico, Bill Clinton. Beninteso, questo non vuol dire che non si siano verificati anche attriti (basti pensare al delicato dossier di Taiwan). Ma, in generale, l’Elefantino tendeva a mostrare un atteggiamento di apertura.

LA LINEA DURA DEL PARTITO REPUBBLICANO

A seguito della recessione, la situazione è mutata, con molti repubblicani che hanno iniziato a vedere nella Cina un pericoloso concorrente sul piano geopolitico, militare ed economico. In particolare, negli ultimissimi anni, a risultare decisamente attivi nella linea dura contro Pechino si sono rivelati i senatori repubblicani Ted Cruz, Tom Cotton e Marco Rubio. Proprio quest’ultimo è stato del resto tra i principali promotori dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, approvato al Senato.

Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta

A fronte di questa postura non poco assertiva da parte del Congresso, la Casa Bianca ha finora scelto una linea molto più cauta. Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta. Pur sostenendo di non escludere alcuna opzione (soprattutto qualora la Cina ricorresse all’intervento dell’esercito), il capo del Dipartimento di Stato ha tuttavia affermato di voler tutelare il principio “un Paese, due sistemi”. Trump teme d’altronde che un’eccessiva sottolineatura della questione dei diritti umani possa portare a una polarizzazione dello scontro tra Washington e Pechino. Senza poi contare che un intervento diretto sul dossier di Hong Kong rischierebbe per così dire di inficiare la sua dottrina di politica estera: una dottrina che ha sempre trovato il proprio centro gravitazionale nella difesa e nel rispetto del principio di sovranità nazionale.

I TIMORI DI TRUMP E L’IMPASSE DEL 1989

Pur condividendo con i senatori repubblicani preoccupazione e ostilità nei confronti di Pechino, l’inquilino della Casa Bianca è rimasto finora convinto che la leva principale da usare nel confronto con la Cina debba infatti essere quella della pressione commerciale. In altre parole, nella sua ottica realista, Trump teme che una battaglia in gran parte incentrata sui diritti umani rischi di far deragliare completamente le relazioni con la Repubblica Popolare. Il presidente americano potrebbe quindi dover affrontare un’impasse simile a quella in cui si ritrovò George H. W. Bush nel 1989, ai tempi delle proteste di Piazza Tienanmen, quando – come racconta Henry Kissinger nel suo libro On China – dovette barcamenarsi tra le esigenze del realismo geopolitico e le istanze di chi – soprattutto al Congresso – invocava la linea dura contro Pechino.

trump xi jinping
I presidenti di Cina e Usa, Xi Jinping e Donald Trump.

Tutto questo non deve comunque portare automaticamente a ritenere che il realismo politico equivalga ipso facto a un disinteresse nei confronti dei manifestanti dell’ex colonia britannica. L’estate scorsa, l’inquilino della Casa Bianca ha infatti vincolato i progressi nelle trattative commerciali anche alle reazioni del governo cinese verso i dimostranti. Sotto questo aspetto, non bisogna trascurare un elemento importante. La guerra dei dazi in corso tra Washington e Pechino ha determinato duri contraccolpi per entrambi i Paesi: se gli Stati Uniti stanno soffrendo soprattutto nel settore agricolo, la Cina ha riscontrato forti problemi nel manifatturiero. Il punto è che, a causa di queste tensioni commerciali, la Repubblica Popolare sta iniziando a dover affrontare anche questioni legate alla disoccupazione e a un welfare state in affanno: due fattori, questi ultimi, che rischiano di produrre serie conseguenze anche sul piano della politica interna cinese.

LE DIFFICOLTÀ DI XI E IL BIVIO DI DONALD

Tutto ciò evidenzia come, quello attuale, non possa esattamente definirsi un periodo felice per il presidente Xi Jinping: se i fatti di Hong Kong lo hanno posto sotto i riflettori di una sempre più critica opinione pubblica internazionale, le tensioni commerciali con Washington possono determinare un’erosione del suo potere interno. Trump, dal canto suo, è chiamato a scegliere quale strategia adottare. Rompere con il Congresso (come accaduto sullo Yemen). Oppure cercare un’articolata coordinazione, che permetta agli Stati Uniti di portare compattamente avanti il confronto con Pechino, pur su piani differenti.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell’ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell’ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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Proteste e torture: alta tensione tra Cina, Usa e Uk su Hong Kong

Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell’ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell’ex colonia denuncia di essere stato torturato.

Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».

IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE

Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.

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No di Hong Kong al ricorso di Wong: non sarà in Italia

L’attivista è sotto indagine per le manifestazioni e il governo dell’isola ha vietato l’espatrio: «Siamo in una crisi umanitaria, Roma ci sostenga».

L’Alta Corte di Hong Kong ha respinto il ricorso di Joshua Wong, attivista di punta pro-democrazia, contro la richiesta di espatrio per un viaggio in Europa a causa del pericolo di fuga. Lo riferisce un post sull’account di Telegram di Demosisto, il partito da lui co-fondato. Wong, libero su cauzione da fine agosto, è sotto indagine per la partecipazione a manifestazioni non autorizzate. Wong avrebbe dovuto recarsi anche in Italia, ospite il 27 novembre a Milano della Fondazione Feltrinelli.

«MODELLO DI HONG KONG VICINO AL COLLASSO»

«Privandomi della libertà di movimento, la Corte ha imposto una punizione aggiuntiva prima che sia provata la colpevolezza», ha detto Wong in un commento sui social. «È chiaro che il modello ‘un Paese, due sistemi’ sia vicino al collasso e sforzi concordati sono necessari per aiutare Hong Kong», ha poi aggiunto Wong, assicurando che continuerà a chiedere il sostegno internazionale.

«SIAMO IN UNA CRISI UMANITARIA»

«Chiediamo al governo italiano che sostenga il processo di democratizzazione, perché non stanno prendendo di mira solo i manifestanti, ma anche giornalisti, soccorritori, infermieri, dottori. Stiamo soffrendo una crisi umanitaria», ha detto l’attivista a Sky TG24 aggiungendo che «da sei mesi a oggi hanno arrestato 5 mila persone, da sabato ne sono arrestate 1.500. Questo dimostra la violazione dei diritti umani, le persone di Hong Kong sono state rapite e portate in Cina».

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