Il Senato statunitense ha approvato un pacchetto di norme in favore dell’ex colonia. Intanto un ex dipendente del consolato britannico dell’ex colonia denuncia di essere stato torturato.
Altissima tensione tra Cina e Usa su Hong Kong. Il senato americano ha infatti approvato all’unanimità un pacchetto di norme a sostegno dei manifestanti pro-democrazia dell’ex colonia britannica. Pechino «condanna con forza e si oppone con determinazione» alla mossa Usa, che definisce un’interferenza negli affari interni della Cina».
IL DIPENDENTE DEL CONSOLATO BRITANNICO DENUNCIA TORTURE
Intanto Simon Cheng, ex dipendente del consolato Gb a Hong Kong scomparso ad agosto per giorni durante un viaggio a Shenzhen, ha denunciato di essere stato torturato e accusato dalle autorità cinesi di alimentare le proteste pro-democrazia nell’ex colonia. Cheng, 29 anni, ha spiegato ai media stranieri di essere stato bendato e picchiato nella detenzione dalla polizia cinese, ritenendo che identica sorte sia capitata ad altri di Hong Kong. Per la vicenda, il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha convocato l’ambasciatore cinese Liu Xiaoming.
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Mentre il New York Times pubblica documenti che dimostrano la ferocia di Pechino contro gli uiguri dello Xinjiang, l’articolo di Parenti sposa la propaganda di Pechino. E bolla l’inchiesta come una fake news frutto di un complotto.
Il contenuto dell’articolo è a dir poco sconcertante. È firmato da Fabio Massimo Parenti, professore associato dell’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici a Firenze, che cita a sua volta un libro scritto proprio sullo Xinjiang da Maria Morigi (i due spesso scrivono insieme), archeologa e insegnante, la quale ha sostenuto, in una recente intervista, che nella regione ci sarebbe «una buona convivenza tra han e uiguri e non si percepisce alcun tipo di discriminazione» («come si legge continuamente sulla stampa occidentale», chiosa di suo Parenti). Mentre, sempre Morigi dice: «Sono rimasta colpita dal plurilinguismo adottato metodicamente in segnali stradali, avvisi, musei, parchi e luoghi pubblici»; «ho verificato che nelle scuole è praticato il bilinguismo per facilitare anche altre minoranze, oltre a quella uigura; assistendo a lezioni collettive in preparazione di eventi pubblici, ho notato quanto i piccoli studenti e gli educatori si impegnino a dare il meglio di sé»… Il Paese dei Balocchi, insomma, altro che feroce repressione!
«NESSUNA PIETÀ»: GLI ORDINI DI XI JINPING
Tra le carte diffuse dal Nyt, invece, ci sono anche alcuni discorsi del presidente Xi Jinping che nel 2014 esortò a non avere «alcuna pietà» nei confronti degli uiguri, e persino un sorta di “manuale” a uso della polizia politica dello Xinjiang per spiegare agli studenti perché i loro cari fossero spariti da casa. Al rientro dal semestre scolastico, gli studenti venivano avvicinati dai poliziotti già alla stazione, dove veniva loro detto che i genitori si trovavano in “scuole di addestramento” del governo, dove non potevano vederli. Nel caso di insistenza dei ragazzi, gli agenti erano autorizzati a minacciarli, per fare loro capire senza troppe allusioni che «dal loro comportamento sarebbe dipesa la lunghezza della permanenza dei genitori nelle “scuole”».
L’articolo sul blog di Grillo, invece, si spinge fino ad affermare che «non vi sono corrispondenze reali alle accuse di repressione, se non addirittura di genocidio culturale», svelando poi la tesi finale: le denunce, dicono i due, sono veicolate dalle organizzazioni umanitarie in quanto strumenti di un complotto anti-cinese ordito dagli Stati Uniti. E infatti un capitolo del libro dell’archeologa si intitola «Ong e interventismo umanitario». Tutto dunque sarebbe soltanto una grande operazione di disinformazione americana, ovviamente legata alla competizione commerciale (la cosiddetta guerra dei dazi) in corso tra le due potenze. Insomma, curiosamente, il Blog diffonde ai simpatizzanti del comico genovese una visione distorta della repressione messa in atto da Pechino che corrisponde esattamente a quella veicolata dalla propaganda cinese, riguardo i molti dossier legati a violazioni dei diritti umani in Cina, dallo Xinjiang a Hong Kong.
IL FALLIMENTARE VIAGGIO DI DI MAIO IN CINA
La tesi ricorda curiosamente molto da vicino quella propagandata dai sovranisti sul complotto delle ong che salvano i migranti in mare, che sarebbero in realtà manovrate da potentati stranieri ostili (con a capo, ovviamente, il “solito” Soros) per un folle progetto di “sostituzione etnica” nel nostro Paese. Idiozie, per essere educati, si diranno in molti, nell’uno e nell’altro caso. Ma certo non sembra causale che l’articolo-farsa sul Blog di Grillo esca proprio poco dopo il recente – e per più versi fallimentare- viaggio di Luigi di Maio in Cina, dove il nostro ineffabile ministro degli Esteri si è distinto in dichiarazioni sui fatti di Hong Kong capaci di far arrossire Ponzio Pilato («la politica dell’Italia è quella della non interferenza negli affari interni di alti Paesi» ha detto).
LE VISITE “GUIDATE” DEL GOVERNO DI PECHINO
Ovviamente la realtà della tragedia del popolo uiguro in Cina è ben diversa da quanto propagandata da Grillo & Co. Sulla base delle denunce, ben più articolate e documentate dell’articolo su citato, che si basano su informazioni verificate, sui numerosi dossier di ong e sulle testimonianze dirette raccolte dai giornalisti (tutte «credibili» a parere dell’Onu), la Cina sta portando avanti da anni nella regione un piano per la detenzione di massa e la trasformazione socio-culturale, con tutte le caratteristiche del vero e proprio genocidio. La cosa più incredibile è che nessuno dei due studiosi, autori delle sconcertanti dichiarazioni contenute nell’articolo apparso sul Blog di Grillo, ha mai potuto visitare autonomamente la regione, quindi non ha mai avuto la possibilità di verificare la versione del governo cinese. Parenti, infatti, ammette con imbarazzante candore di essere stato nello Xinjiang recentemente, nel corso di un viaggio di quattro giorni «organizzato dal governo cinese», dove – manco a dirlo – non avrebbe notato «niente di particolarmente rilevante». Dal canto suo, Morigi scrive direttamente di avere avuto «anche l’opportunità di visitare varie moschee e un importante istituto di studi islamici» e di essere venuta a conoscenza «del fatto che in Xinjiang esistono più moschee pro capite che in qualsiasi altro Paese al mondo». Tutto a posto dunque.
L’ESEMPIO DELLA COREA DEL NORD
Nessuno dei due studiosi, insomma, sembra essere stato sfiorato dal dubbio che nei viaggi organizzati dal governo cinese siano stati manovrati dall’efficiente macchina della propaganda che ha mostrato loro solo ciò che voleva far vedere e ha “venduto” notizie e dati “politicamente opportuni”. Un po’ come faceva la Corea del Nord quando invitava i giornalisti nei rari viaggi-stampa dove facevano incontrare solo nordcoreani belli, puliti e felici, che ripetevano a memoria la favoletta della Nord Corea «paradiso socialista del Pianeta». E dire che – per quell’ironia sicuramente involontaria che spesso ci mette lo zampino – l’articolo del blog di Grillo è pubblicato proprio nella sezione che si chiama: “Cervelli”.
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Bloccati su YouTube e social network, diversi utenti hanno iniziato a pubblicare sulla piattaforma per adulti video contro i manifestanti pro-democrazia.
La propaganda cinese ha trovato nuovo veicolo: PornHub. Twitter, Facebook e YouTube da mesi chiudono profili di giovani cinesi impegnati a diffondere online propaganda contro i manifestanti di Hong Kong. Per questo molti di loro hanno scelto di passare al sito per adulti più frequentato del mondo.
Pechino da mesi è impegnata in una vasta campagna di disinformazione contro gli attivisti pro-democrazia, che da giugno presidiano le strade dell’ex colonia per chiedere maggiore democrazia. Fin dalle prime manifestazioni i media di Stato cinesi hanno descritto tutti i manifestanti come violenti separatisti. Quasi subito le principali piattaforme hanno bloccato l’onda della Repubblica popolare, in particolare YouTube ha chiuso oltre 210 canali che diffondevano video che suggerivano un coordinamento internazionale delle proteste in ottica anti-cinese.
DECINE DI FILMATI SUI MANIFESTANTI
Il 12 novembre, ha scritto Quartz, Shu Chang, nota commentatrice con oltre 3 milioni di follower sul social cinese Weibo, ha raccontato che lei e altri utenti cinesi hanno iniziato a caricare filmati patriottici direttamente su PornHub. «YouTube non ci lasciava caricare questo genere di video, quindi non potevamo fare altro che passare su PornHub», ha spiegato Chang. Effettivamente navigando nel sito con chiavi di ricerca del tipo “Hong Kong rioters” si trovano decine di video che mostrano manifestanti in azione o scene di guerriglia.
IL PROFILO CHE SI DICHIARA VICINO ALLA GIOVENTÚ COMUNISTA
Uno dei profili più attivi è “CCYL_central“. Secondo la scheda presente nel sito, la pagina è stata creata tre mesi fa e stando al nome indicato farebbe capo alla “Lega della Gioventù Comunista Cinese“, anche se non è possibile stabilire un vero legame con l’organizzazione giovanile della Repubblica popolare. In totale, il profilo ha caricato 11 video tra i quali stralci di servizi della tivù di Stato cinese, la Cctv, frammenti di manifestazioni pro-Pechino per le vie di Hong Kong e video di propaganda dell’esercito. Fra gli altri dati disponibili anche quello del libro preferito, indicato come The Governance of China, opera del presidente cinese Xi Jinping.
L’ATTIVISMO DELL’AMERICANO NATHAN RICH
Nella piattaforma, ha notato Quartz, è presente anche un video dal titolo Rioters (Cockroach) in Hong Kong, già apparso su YouTube per mano di Nathan Rich, un americano che vive in Cina e da tempo diffonde video critici contro i manifestanti. Il filmato mostra uno degli episodi più gravi dell’11 novembre quando un cittadino pro-Pechino è stato dato alle fiamme da alcuni manifestanti. «I cittadini cinesi», dice Rich nel video, «rischiano la vita se mostrano di essere in disaccordo con i fascisti di Hong Kong», apostrofati poi anche come «terroristi».
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L’evoluzione da provocatore adolescenziale a lobbista internazionale e politico emergente fa della sua biografia un caso davvero unico. Per questo il giovane attivista di Hong Kong è tra i più temuti dal regime di Pechino.
Magro, quasi esile. A 23 anni ha sempre la stessa faccia da adolescente di quando ne aveva soltanto 15 e già era alla guida di un movimento politico senza precedenti. Lo sguardo però, quello si è indurito da allora.
Sarà stato il carcere, dove chi aveva paura di lui, il governo di Hong Kong, è riuscito a rinchiuderlo per un po’. Sarà perché ormai teme per la propria vita. I suoi occhi non hanno più quell’incoscienza di allora, quella degli inizi, dell’epoca della cosiddetta Rivolta degli ombrelli.
Joshua Wong, questo giovane uomo, dall’aspetto di eterno ragazzino, ha paura ormai. Perché a sua volta fa paura a un gigante mondiale che si chiama Cina.
IL BOICOTTAGGIO COSTANTE DI PECHINO
Wong, con quel suo aspetto sempre un po’ sparuto, vagamente etereo, ormai è considerato il nemico pubblico numero 1 del regime più potente del Pianeta, che è anche uno dei più repressivi. Tanto che una sua visita in Italia, annunciata per la fine del mese alla Feltrinelli di Milano, nei giorni scorsi aveva subito provocato una reazione durissima del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, che si era lamentato formalmente con il nostro Paese affermando tra l’altro – senza mai nominarlo per nome – che «questa persona, invitata da parte italiana, è un attivista per l’indipendenza di Hong Kong, e noi ci opponiamo fermamente a ogni ingerenza straniera negli affari interni della Cina. Hong Kong è una questione interna cinese e fa parte della Cina!».
Non c’è dubbio, il timido Joshua fa paura: molta paura
Il 12 novembre al nostro ministero degli Esteri è arrivata la comunicazione ufficiale che il tribunale di Hong Kong ha negato a Wong – che tecnicamente si trova in «libertà su cauzione» accusato di «manifestazione non autorizzata» – il permesso di espatrio per venire in Europa. Qualche settimana fa aveva escluso la sua candidatura alle prossime elezioni distrettuali del 24 novembre.
La vetrina di una banca vandalizzata durante le proteste a Hong Kong (foto Epa/Jerome Favre).
Non c’è dubbio, il timido Joshua fa paura: molta paura. A settembre, invitato in Germania, una sua stretta di mano con il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, aveva scatenato l’ira dei cinesi, al punto che Pechino aveva subito convocato l’ambasciatore per protesta. La visita in Italia rischiava di causare più di qualche imbarazzo al governo italiano, specie a Luigi Di Maio, che a Shanghai, dove aveva incontrato di recente il presidente cinese Xi Jinping, si era esibito in una pilatesca dichiarazione, liquidando la questione di Hong Kong come problema «interno alla Cina, nel quale noi non vogliamo interferire».
LA CARRIERA DA DISSIDENTE COMINCIATA A 15 ANNI
Ma chi è Joshua Wong e perché riesce a fare tanta paura a Pechino? L’evoluzione da provocatore adolescenziale a lobbista internazionale e politico emergente fa della sua biografia un caso davvero unico. La lotta per il futuro di Hong Kong attraversa praticamente tutta la giovane vita di Joshua. Nato nell’ottobre del 1996, un anno prima che l’ex colonia britannica venisse restituita alla Cina attraverso un accordo che garantiva alla regione amministrativa speciale mezzo secolo di autonomia relativa, non ha potuto conoscere il dominio inglese e avrà cinquant’anni quando quel tempo finirà e Hong Kong entrerà in un’era imprevedibile.
La nostra guerra continuerà finché non avremodemocrazia rappresentativa e garanzie sulle libertà fondamentali a Hong Kong
Joshua Wong
Nessuno sa se, nel 2047, Hong Kong manterrà le sue libertà uniche o sarà obbligata a un più stretto allineamento con le regole estremamente restrittive delle libertà fondamentali in vigore nella madrepatria cinese. Le dimostrazioni di quest’anno sono l’ultimo atto di un malessere dalle radici remote: il malessere di una generazione che ha conosciuto il sapore della democrazia e non vuole – e non sa – più farne a meno. «Finché Xi Jinping, governerà la Cina, noi non vediamo nessuna soluzione», ha detto di recente Wong, «la nostra guerra continuerà finché non avremo democrazia rappresentativa e garanzie sulle libertà fondamentali a Hong Kong. Se necessario, andrà avanti all’infinito».
Joshua Wong (ANSA/AP Photo/Michael Sohn, File).
Nel 2011 Wong ha 15 anni, studia in un liceo cristiano e fonda insieme ad altri il movimento Scholarism per opporsi alla riforma dell’istruzione detta «Educazione Morale Nazionale». Secondo Joshua si tratta di un progetto di «lavaggio del cervello» per rendere inoffensive le nuove generazioni di Hong Kong inculcando negli studenti i valori del Partito comunista cinese e il rifiuto di un sistema democratico. Così lui e altri adolescenti cominciano a raccogliere firme per strada, varano campagne di protesta, usano i social, dove un post di Joshua ottiene centinaia di migliaia di like. Incontra C.Y. Leung, allora a capo del LegCo, il Legislative Council o “miniparlamento” di Hong Kong, sempre controllato da Pechino. Il movimento ottiene un primo importante risultato: la riforma scolastica viene ritirata. Ma è poca cosa, Joshua e i ragazzi di Hong Kong vogliono di più.
IL CARCERE NEL 2018 E LA NOMINA PER IL NOBEL PER LA PACE
Nel giro di due anni sarà sempre lui a guidare la più imponente protesta nella storia della città: Il Movimento degli Ombrelli, che scuote le fondamenta di Hong Kong. Il 29 settembre 2014, dopo un discorso incendiario pronunciato da Joshua la sera prima, un centinaio di studenti occupa la centralissima piazza dove si trova palazzo del governo, e subito scendono in strada migliaia di persone. La polizia usa lacrimogeni, gli studenti rispondono riparandosi dietro gli ombrelli. Bloccheranno il centro di Hong Kong per mesi.
Man mano che la sua fama e influenza crescevano all’estero, secondo molti osservatori la sua leadership in patria diminuiva
Joshua Wong viene arrestato e imprigionato con l’accusa di assemblea illegale, accusato da Pechino di essere un agente degli Stati Uniti e nominato per il premio Nobel per la pace nel 2018. L’anno prima Il filmmaker Joe Piscatella gli aveva dedicato un bellissimo documentario – disponibile su Netflix – Joshua: Teenager vs. Superpower, vincitore del World Cinema Audience Award al Sundance Festival. Da allora il destino e l’immagine di Wong hanno subito un curioso paradosso: man mano che la sua fama e influenza crescevano all’estero, secondo molti osservatori la sua leadership in patria diminuiva.
AD HONG KONG LA SPIRALE DI VIOLENZA AUMENTA
Gran parte del lavoro di Wong in questi ultimi mesi, del resto, si è rivolto verso un pubblico internazionale, nella speranza di ottenere dall’estero il sostegno necessario al movimento, per una svolta decisiva. Ma le notizie degli ultimi giorni, terribili, drammatiche, dicono che le speranze che ciò accada si affievoliscono ogni giorno di più mentre ormai la protesta si incancrenisce, alimentando una spirale di violenza che sembra senza via d’uscita.
Ormai Wong ha assunto il ruolo di una sorta di statista o portavoce internazionale del movimento
Antony Dapiran, scrittore di Hong Kong
Antony Dapiran, scrittore di Hong Kong che ha pubblicato per Penguin La Città della protesta, storia del dissenso a Hong Kong, dice: «Mentre durante le precedenti campagne Wong era stato visto da molti come un leader, questa volta non è stato visto in quel modo dai manifestanti sul campo. Ormai ha assunto il ruolo di una sorta di statista o portavoce internazionale del movimento». Un ruolo che evidentemente fa molta paura al gigante cinese, al punto da spingerlo fino alle dichiarazioni ufficiali contro di lui, alle proteste diplomatiche.
Un manifestante di Hong Kong dà fuoco a un cumulo di rifiuti.
Poco dopo essere stato rilasciato dal carcere e in procinto di partire per gli Stati Uniti e la Germania, rispondendo in fretta alle domande dei giornalisti, che insistevano perché concedesse più tempo, Wong ha risposto: «Non abbiamo più tempo. Siamo in emergenza, le banche e i negozi chiudono e le persone fanno provviste di cibo in casa. Ci sono file ai per ottenere denaro dai bancomat… Se La Cina non capisce che deve darci ascolto, che deve sedersi a un tavolo e dialogare con i cittadini di Hong Kong, finiremo tuti insieme nel baratro, noi e loro. Per questo lo slogan che urliamo nelle manifestazioni dice: “Se brucio io, bruci con me!”».
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Accusati di aver ostacolato i lavori parlamentari durante la discussione sulla legge sull’estradizione in Cina, sono stati rilasciati dopo qualche ora su cauzione. Se condannati, rischiano fino a un anno di carcere.
Sei parlamentari pro-democrazia sono stati arrestati ad Hong Kong con l’accusa di aver ostacolato i lavori parlamentari a maggio 2019, quando era discussione la contestata legge sull’estradizione in Cina che ha innescato cinque mesi di proteste e violenze tra polizia e manifestanti nell’ex colonia britannica. Nonostante siano stati rilasciati su cauzione dopo qualche ora, la mossa, all’indomani della morte di uno studente ferito nelle manifestazioni, rischia di far crescere ulteriormente la rabbia nell’attesa dell’11 novembre, giorno in cui i parlamentari dovranno presentarsi in tribunale. Se saranno condannati, rischiano fino ad un anno di carcere.
PREGHIERE, FIORI E CANDELE PER LO STUDENTE MORTO
Il 9 novembre la collera ha lasciato il posto al dolore per Chow Tsz-lok, lo studente di 22 anni morto per le gravi ferite riportate alla testa cadendo da un parcheggio una settimana prima, durante l’ennesima notte di scontri con la polizia. Migliaia di persone si sono riunite in preghiera e hanno lasciato candele, fiori bianchi e gru di carta, diventate uno dei simboli della proteste. «Hong Kong libera», «La gente di Hong Kong vuole vendetta», gridavano i partecipanti tra i quali qualche irriducibile col volto coperto. «La gente di Hong Kong può essere colpita ma mai sconfitta», ha detto uno di questi rivolgendosi alle persone riunite. La veglia, una delle poche autorizzate dalle forze dell’ordine nelle ultime settimane di manifestazioni, si è svolta in modo pacifico nonostante la notizia poche ore prima dell’arresto dei sei parlamentari, rilasciati poche ore dopo su cauzione. Un settimo, Lam Cheuk-ting, è stato invitato a presentarsi in una stazione di polizia ma si è rifiutato. «Se credete che io abbia violato qualche legge, venite a prendermi», ha dichiarato alla stampa accusando la polizia di aver agito ad arte per posporre o cancellare le elezioni per il rinnovo del consiglio distrettuale in programma il 24 novembre, considerato un banco di prova per il governo di Carrie Lam e un messaggio a Pechino. Accusa alla quale ha replicato il ministro di Hong Kong per gli affari costituzionali, Patrick Nip, spiegando come gli arresti siano stati eseguiti sulla base di indagini e non hanno nulla a che vedere col voto.
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Dopo tanti annunci roboanti, il ministro degli Esteri è tornato da Shanghai con un pugno di mosche in mano. Intanto la Cina continua la sua campagna acquisti in Italia.
Giggino è stato a Shanghai. Anzi, il nostro ministro degli Esteri, capo della Farnesina, Luigi Di Maio (detto “Giggino”, ma lui si arrabbia se lo si chiama così) nei giorni scorsi è volato in Cina a capo della delegazione ufficiale italiana alla grande fiera del commercio di Xi Jinping.
Gli annunci che hanno preceduto questa missione cinese sono stati a dir poco mirabolanti: ecco finalmente l’occasione per mettere a frutto le intese firmate a suo tempo con Pechino – l’ormai famosa “fuga in avanti” del passato governo, che ha provocato la ferma l’opposizione del nostro principale alleato, gli Usa e praticamente di tutta l’Unione Europea – intese commerciali, export di pomodori campani, arance napoletane… e questo mondo e quest’altro!
In realtà il povero Di Maio se ne ritorna tutto triste e quatto-quatto da Shanghai con poco più di un pugno di mosche in mano: una manciata di riso e un po’ di carne da vendere in Cina. Ignorato un po’ da tutti e umiliato, tra l’altro, dal presidente francese Emmanuel Macron, che invece ha calcato da protagonista la scena degli incontri cinesi.
DI MAIO HA IGNORATO IL FASTIDIO DEGLI USA PER I RAPPORTI ITALIA-CINA
Insomma, della famosa e contestata Nuova Via della seta tra Pechino e Roma questo è quel che è rimasto? Riso e carne da vendere in Cina, un po’ di turisti cinesi da portare in Italia: nient’altro? E le migliaia di container che dovevano viaggiare pieni di merci prelibate italiane lungo il nuovo asse ferroviario Italia/Europa-Cina, e che invece tornano per il 99% vuoti verso la Cina (mentre lì arrivano strapieni di export da piazzare da noi, in Europa)? Di Maio sembra ignorare questa e molte altre realtà (o forse nessuno del suo staff gliel’ha detto…) intenzionato ad andare avanti imperterrito sulla strada degli investimenti cinesi in Italia, convinto – in modo del tutto irragionevole – di non doversi aspettare nuove tensioni con l’alleato americano.
Gi avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco
«Trump è uno che capisce le ragioni del business», ha dichiarato ai giornalisti italiani a Shanghai, incalzato sull’argomento, «e gli americani non ci hanno mai fatto arrivare nessuna protesta per gli accordi della Via della seta», ha insistito. «La loro preoccupazione era tutta concentrata sul 5G, e ora in Italia abbiamo la normativa più restrittiva d’Europa al riguardo, che si applica a tutte le società senza discriminazioni». Sarà. Peccato però che non sia vero niente: gli avvertimenti americani sulla Belt and Road ci sono stati, e molto decisi, a dir poco. C’è da chiedersi in quale universo politico e su quale scenario internazionale viva di Maio, a questo punto.
LA CAMPAGNA ACQUISTI CINESE IN ITALIA È GIÀ INIZIATA
Sul tavolo shanghaiese di Di Maio c’era poi un altro dossier delicato, per noi: la penetrazione dei capitali cinesi in Italia e la massiccia campagna acquisti che le imprese cinesi stanno facendo nei nostri porti. L’attenzione di Washington per la presenza cinese nel Mediterraneo, infatti, è altissima. Trieste ha chiuso di recente un mega accordo con il colosso di Stato Cccc per costruire in Cina piattaforme logistiche per convogliare export made in Italy. Una buona cosa, in teoria, peccato che in realtà si tratti solo della prima fase di un progetto che prevede l’ingresso massiccio, a gamba tesa, dell’azienda statale cinese nel sistema ferroviario dello scalo triestino.
Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio durante un brindisi in occasione di una cena con investitori cinesi e rappresentanti di aziende cinesi, a Shanghai.
Ma il nostro ministro degli Esteri non sembra rendersi conto dei rischi di questa massiccia campagna acquisti cinese in Italia, e invece di frenare e magari preoccuparsi, rilancia: «I progetti di investimento lungo la Via della seta marittima non finiscono qui», dice: «Il porto di Genova è abbastanza avanti e c’è un interesse anche su quello di Taranto». Ma allora dategli l’Ilva, piuttosto, per scongiurare il disastro che si sta annunciando! A questo punto, sarebbe il male minore.
PECHINO PUÒ SANZIONARE LE IMPRESE ESTERE A SUA DISCREZIONE
Del resto non bisogna mai dimenticare che quello con il colosso-Cina, per un piccolo e geopoliticamente insignificante Paese come il nostro – l’abbiamo detto e scritto molte volte – rischia sempre di trasformarsi in un abbraccio mortale. Per questo la prudenza e l’attenzione devono essere massime. Per esempio sul delicatissimo tema dei cosiddetti crediti sociali, che si sta rivelando uno dei principali ostacoli al raggiungimento dell’auspicato e molto necessario accordo sugli investimenti bilaterali, a cui Cina e Unione Europea lavorano ormai dal 2013. Il sistema dei crediti sociali, secondo i cinesi, mira a creare una società basata «sull’onestà» dispensando premi e punizioni a seconda di come i singoli e anche le aziende si comportano.
Risulta impossibile tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina
Ma secondo un recente rapporto della Camera di Commercio europea, in realtà espone le imprese straniere che operano in Cina a pesanti ritorsioni – fino all’espulsione dal mercato cinese – semplicemente per un commento sgradito o una scritta su una maglietta che i solerti censori pechinesi giudichino – a loro insindacabile giudizio – «lesiva dell’onorabilità e della sovranità del popolo e della nazione cinese». Risulta impossibile, insomma, tutelare seriamente gli investimenti e le aziende straniere operanti in Cina, a causa della discrezionalità con cui Pechino si arroga il diritto di sanzionare chiunque tocchi il tasto dolente dei diritti umani o metta in dubbio la sovranità cinese su Hong Kong, Xinjiang,Taiwan, Tibet, mar cinese e qualsiasi altro tema considerato sensibile dai burocrati del Partito comunista. E Dolce e Gabbana, Tiffany, la Nba (per citarne solo alcuni, la lista delle “vittime” si allunga ogni giorno di più) lo sanno bene.
Questa è la triste storia di Giggino che se ne torna tutto solo sulla via della Seta. Nel suo fagotto sulla spalla porta un manciata di riso è un po’ di carne, molte dichiarazioni sbagliate e una serie di gaffe a dir poco imbarazzanti. L’ultima quando a Shanghai gli è stato chiesto di esprimersi sulle proteste pro-democrazia di Hong Kong: «Abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi», ha risposto. Il vuoto assoluto.
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I ragazzi sotto i 18 anni dovranno registrarsi con la vera identità e non potranno giocare su Internet dalle 22 alle 8. La misura estrema per prevenire i fenomeni di dipendenza.
Le autorità cinesi hanno varato una serie di norme restrittive sull’accesso ai giochionline da parte dei minorenni per cercare di prevenire i fenomeni di dipendenza. I ragazzi sotto i 18 anni non potranno giocare a videogame online dalle 22 alle 8. In settimana, avranno a disposizione 90 minuti per giocare di giorno, un limite che viene dilatato a tre ore nei fine settimana e nelle feste. Le nuove regole, emanate dall’Amministrazione nazionale per la stampa e l’editoria, pongono l’accento sulla condivisione delle responsabilità tra i provider di giochi, le agenzie governative e gli attori sociali nella gestione e nel governo di questo fenomeno.
TUTTI I MINORENNI DOVRANNO REGISTRARSI
In base alle normative, tutti gli utenti di giochi online dovranno registrarsi con la propria identità
LIMITAZIONI PER I PAGAMENTI
Il documento vieta inoltre l’accesso ai giochi a pagamento online agli utenti di età inferiore agli 8 anni e pone un limite su base giornaliera e mensile alle somme di denaro che i minori di età superiore agli 8 anni possono spendere per questi servizi. I provider di giochi online dovranno inoltre impostare una serie di promemoria dedicati agli utenti di diverse fasce di età. Qualsiasi contenuto pericoloso compresa la pornografia, la violenza e il giocod’azzardo è proibito nei giochi destinati ai minori.
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