Perché crescono le tensioni extra calcio nel Clásico Barcellona-Real

Sentimento indipendentista della Catalogna contro la squadra del governo di Madrid. Da sempre, ma ancora di più ora dopo il referendum del 2017, gli arresti e le proteste di piazza che hanno fatto rinviare la partita di ottobre. Storia di una sfida mai normale.

La Spagna si ferma, col fiato sospeso, in uno strano mercoledì che non è di coppa come da abitudine, e nemmeno un turno infrasettimanale di campionato di quelli che vanno di moda negli ultimi anni. La Spagna si ferma, col fiato sospeso, per una partita che attende da 53 giorni. La partita. Il Clásico, nella sua versione più estrema e politicizzata di sempre, che doveva essere giocato il 26 ottobre ma saltò perché nella città catalana migliaia di persone protestavano contro il governo di Madrid.

GLI INCROCI DI FUOCO NEL 2014 E NEL 2017

Un match ancora più delicato di quello del dicembre del 2017, poco dopo il referendum in Catalogna dichiarato illegale da Madrid, con i leader indipendentisti in carcere e il presidente Carles Puigdemont autoesiliato (o in fuga, a seconda dei punti di vista) in Belgio. Più di quello che si disputò il 26 ottobre del 2014, due settimane prima della consultazione simbolica convocata dal governo di Artur Mas dopo il no della Corte costituzionale a un referendum vero.

ALLERTA PER L’ORDINE PUBBLICO

Barcellona e Real Madrid arrivano alla sfida del Camp Nou appaiate in testa alla classifica della Liga, 35 punti ciascuna. Ma il calcio sembra passare del tutto in secondo piano. Dalla capitale temono per la tenuta dell’ordine pubblico e la sicurezza di giocatori, dirigenti e tifosi madridisti. Il movimento catalanista Tsunami Democrátic ha annunciato una mobilitazione. Si temono assalti al pullman del Real, a quello dell’arbitro, e invasioni di campo.

Contro l’Atletico, il Barça è tornato a indossare la maglia a strisce gialle e rosse che riprende i colori della senyera catalana

Il Camp Nou, secondo gli opinionisti dei quotidiani vicini al Madrid, è da anni rifugio per tutto ciò che è stato definito incostituzionale, di istanze indipendentiste e bandiere estreladas. Nella recente trasferta al Wanda Metropolitano contro l’Atletico, il Barça è tornato a indossare la maglia a strisce gialle e rosse che riprende i colori della senyera catalana.

Lionel Messi con la maglia “indipendentista” esibita contro l’Atletico Madrid. (Ansa)

MÉS QUE UN CLUB DAL 1968

Non può che essere così, il Barcellona è més que un club, più di un club, e lo è da ben prima che Narcís de Carreras pronunciasse, nel 1968, la frase che sarebbe finita stampata sulle maglie da gioco blaugrana e sugli spalti del Camp Nou. Il Barça ha scelto chiaramente da che parte stare un secolo fa, a 20 anni esatti dalla sua fondazione avvenuta nel 1899 a opera di un gruppo di commercianti stranieri trapiantati in Catalogna, e quella parte è quella del catalanismo indipendentista e repubblicano. È così dal 1919, quando l’allora presidente del club Ricard Graells organizzò la Diada (Festa nazionale) dell’11 settembre per commemorare il 205esimo anniversario della caduta di Barcellona nelle mani delle truppe borboniche di Filippo V di Spagna.

FISCHI ALL’INNO NAZIONALE SPAGNOLO

Ci sarebbero voluti soltanto altri sei anni perché si introducesse un nuovo rito catartico catalano e catalanista, quello dei fischi alla Marcha Real, l’inno nazionale spagnolo accompagnato dalla disapprovazione del pubblico blaugrana ogni volta che viene eseguito prima di una finale di Copa del Rey. Era il 24 giugno del 1925 e il Barça aveva organizzato nel campi di Les Corts una partita contro l’Fc Jupiter. Il generale Primo de Rivera aveva preso il potere in Spagna due anni prima, instaurando una dittatura militarista e di estrema destra.

VILIPENDIO ED ESPULSIONE DEL PRESIDENTE GAMPER

Ogni partita del Barcellona, già all’epoca, era vista come riunione sediziosa, e per questo aveva bisogno di un permesso speciale per essere giocata. Il nulla osta, quel giorno, arrivò in extremis, con il pubblico ammassato fuori dallo stadio in attesa di poter entrare. Quando l’orchestra della Marina militare britannica cominciò a suonare, i fischi dei tifosi del Barça coprirono le note della Marcha Real. Un vilipendio che il Barça avrebbe pagato con l’espulsione del presidente Gamper e la sospensione delle attività per sei mesi.

SOTTO I COLPI DELLA DITTATURA DI FRANCO

Il Barcellona aveva preso una strada che non avrebbe più abbandonato e che anzi si sarebbe rinforzata nei 39 anni di governo di Francisco Franco, sotto i colpi di un regime che cancellò le autonomie e la lingua catalana, imponendo il castigliano come unico idioma legale, cambiando il nome della società da Foot-Ball Club Barcelona in Club de Futbol Barcelona e rimuovendo dal suo stemma i riferimenti all’identità catalana. Un regime cui il Barcellona pagò un pegno salato con l’uccisione del suo presidente repubblicano e di sinistra Josep Sunyol i Garriga nell’agosto del 1936, vittima di un’imboscata falangista in piena Guerra civile.

MA LA VERA SQUADRA DEL REGIME È L’ATLETICO

Dall’altra parte il Madrid avrebbe iniziato a costruirsi la fama di club fascista per via della presenza sempre più frequente del Generalisimo sugli spalti del Chamartín e del Santiago Bernabéu poi. E poco importa se la realtà forse fu un po’ diversa, un po’ più sfumata, se il vero e autentico club del regime fu l’Atletico Madrid, squadra dell’aviazione, se persino un grande intellettuale come Javier Marías ha dedicato un pezzo importante della sua attività a cercare di raccontare e far emergere il lato repubblicano del Madrid.

LA “VISITA” FALANGISTA NELLO SPOGLIATOIO BLAUGRANA

Il mito, si sa, è più forte della storia. E quello del Barcellona antifascista contro il Real di Franco si alimentò ulteriormente di episodi e aneddoti eloquenti. Come quell’11-1 con cui il Real Madrid superò il Barça nel ritorno della semifinale di Copa del Generalisimo del 1943, un risultato che ribaltò il 3-0 dell’andata e – si narra – arrivò a seguito di una visita di poca cortesia da parte di un manipolo di bravi falangisti nello spogliatoio blaugrana.

Il Real Madrid. (Ansa)

UNA CONTESA DI MERCATO SU DI STEFANO

O come il caso di mercato che segnò gli Anni 50, col passaggio di Alfredo Di Stefano al Real Madrid al termine di una lunga querelle coi blaugrana, che ritenevano di aver acquisito i diritti del giocatore prima dei rivali. Un equivoco che in realtà sarebbe nato dalla particolare situazione contrattuale di Di Stefano, che giocava in Colombia coi Millonarios (con cui si accordò il Barcellona) ma era tesserato per il River Plate (col quale negoziò il Real), ma che in Catalogna viene ancora oggi addebitato alle ingerenze e preferenze calcistiche di Franco.

A PIEDI CONTRO I RINCARI DEI BIGLIETTI DEL TRAM

Negli Anni 70, mentre la dittatura andava a spegnersi con le condizioni di salute del Caudillo, Manuel Vázquez Montalbán coniò l’espressione “esercito disarmato della Catalogna” per descrivere il Barcellona. Lo stesso Barcellona i cui tifosi, nel 1951, tornarono a casa a piedi dopo una partita vinta contro il Santander, facendo chilometri sotto la pioggia battente, per non prendere i tram i cui biglietti avevano appena subito un forte rincaro per decisione del governo nazionale.

LAPORTA E IL RITORNO DEL SENTIMENTO CATALANO

Un ruolo che il Barça aveva rivestito, volente o nolente, nel corso della sua storia, e che sarebbe diventato di fatto inscindibile dai suoi colori, a prescindere dalle intenzioni e dai programmi dei suoi presidenti. Josep Lluìs Núñez, presidente per 22 anni tra il 1978 e il 2000, tentò di allontanare il club dalle influenze politiche indipendentiste e di sinistra, per trasformarlo semplicemente in una fortissima polisportiva. Ci riuscì, almeno in parte, diventando il presidente più vincente nella storia del Barcellona, ma fu travolto dal ritorno del sentimento catalano che portò nel 2003 all’elezione del suo grande oppositore Joan Laporta.

L’ORGOGLIO DI GUARDIOLA DOPO LA COPPA DEI CAMPIONI

Nei sette anni di Laporta il Barça è tornato a essere tutt’uno con la causa catalana, impersonata in campo da una squadra che aveva ritrovato nel suo settore giovanile la sua forza principale e nell’allenatore catalano e catalanista Pep Guardiola il suo alfiere. Nel 1992, quando da giocatore fu protagonista della prima Coppa dei Campioni vinta dal Barça, Guardiola si sporse dal balcone della Generalitat, la sede del sistema amministrativo-istituzionale del governo catalano, e disse: «Ciutadans de Catalunya, ja la tenim aquí» («Cittadini di Catalogna, finalmente l’abbiamo qui»). Non era una frase qualunque, ma una citazione dell’ex presidente catalano Josep Tarradellas, fuggito in Francia durante il franchismo. Tarradellas, che nel 1979 avrebbe messo la sua firma sull’Estatut che sanciva il ritorno dell’autonomia catalana, rientrando nel 1977 a Barcellona dopo un esilio lungo 38 anni, pronunciò dallo stesso balcone: «Ciutadans de Catalunya, ja sóc aquí» («Cittadini di Catalogna, sono finalmente qui»).

Pep Guardiola ai tempi in cui giocava col Barcellona. (Ansa)

BARTOMEU DECISAMENTE PIÙ TIEPIDO

Il clima non è cambiato nemmeno con la fine dell’era Laporta. Anzi, il precipitare della questione catalanista, coi due referendum già citati e una dichiarazione di indipendenza unilaterale, con l’incarceramento e la condanna dei leader indipendentisti e il commissariamento della Generalitat, ha finito per trascinare il club e la sua dirigenza sempre più dentro l’agone politico. Una posizione in cui, probabilmente, il presidente Josep Bartomeu, decisamente più tiepido di Laporta sulla causa indipendentista, avrebbe preferito non trovarsi, ma dalla quale non è potuto scappare. Quando nel 2014 fu convocato il primo referendum, contro il parere della Corte costituzionale, il Barça fu uno degli ultimi club ad appoggiare pubblicamente la causa, preceduto persino dai rivali cittadini che portano gli aggettivi Real ed Espanyol nel loro nome e che tradizionalmente sono identificati con la parte fedele alla monarchia della metropoli. Eppure il Barcellona è ancora lì, a rappresentare l’esercito disarmato della Catalogna, così come Vázquez de Montalbán l’aveva dipinto quasi mezzo secolo fa. Portatore di un’identità diventata più grande di ogni altra cosa, persino dei trofei vinti e dei reali programmi di chi lo dirige. Tutt’uno con la causa catalana e nemico di Madrid. Non solo sul campo.

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Dodici nomi per raccontare 120 anni di Barcellona

Dal fondatore Gamper alla Pulce Lionel Messi, passando per Cruijff e Guardiola: i personaggi e i fatti che hanno segnato la storia del “més que un club”.

Centoventi anni di storia, di trofei, di gol e di bandiere sventolate al vento. Quelle blaugrana e quelle gialle e rosse della Catalogna. Sul collo dei giocatori del Barcellona è impressa una frase, “més que un club”, più che un club. Perché il Barça non è solo una squadra di calcio, non è solo un diversivo per i mercoledì di coppa e le domeniche di campionato. Il Barça è storia, una storia lunga 120 anni, segnata dai volti e dai nomi che l’hanno scritta. Ne abbiamo scelti 12, uno per ogni decennio di vita del club.

1899-1909: JOAN GAMPER

Il Barcellona nasce ufficialmente il 29 novembre del 1989, con una riunione dei primi soci al Gimnasio Sole. Nasce grazie a un annuncio pubblicato poco più di un mese prima, il 22 ottobre, sul settimanale Los Deportes: «Il nostro amico e compagno Sig. Kans Kamper, della sezione Calcio della “Sociedad Los Deportes” e già campione svizzero, volendo organizzare alcune partite a Barcellona, chiede che chiunque ami questo sport lo contatti recandosi nel suo ufficio il martedì o il venerdì sera dalle 9 alle 11». Kans Kamper ha 21 anni, è nato in Svizzera, opera nel commercio e ha già girato mezza Europa prima di fermarsi a Barcellona. Ha una grande passione per il calcio e la voglia di fondare un club. Nel giro di un mese arrivano le prime adesioni, con Kamper, che negli anni successivi cambierà nome e cognome catalanizzandoli in Joan Gamper, ci sono Walter Wil (che sarà nominato primo presidente), Lluís d’Ossó, Bartomeu Terradas, Otto Kunzle, Otto Maier, Enric Ducal, Pere Cabot, Carles Pujol, Josep Llobet, John Parsons e William Parsons. Una squadra e un club che fin dall’inizio mostrano la loro vocazione internazionale e internazionalista.

1910-1919: JUAN DE GARCHITORENA

Nel suo primo decennio di vita, il Barcellona vince una Copa Macaya, una Copa Barcelona e due volte il Campionato di Catalogna. I soci continuano ad aumentare e nel 1908, quando il club si trova davanti al bivio tra il salto di qualità definitivo (con importanti investimenti finanziari) e la scomparsa, Gamper prende in mano le redini diventando per la prima volta presidente. Lo sarà per 25 anni complessivi, a periodo alterni, facendosi da parte e tornando 1uasi sempre per guidare il club nei suoi momenti più turbolenti. Come nel 1917, quando il presidente Gaspar Rosés si dimette a seguito del caso Garchitorena. Juan de Garchitorena è un giovane attaccante di 18 anni quando arriva al Barcellona. Il club lo tessera come spagnolo, dal momento che nessuno straniero può giocare entro i confini nazionali, ma lui è nato nelle Filippine. Quando l’Espanyol lo scopre, fa ricorso alla Federazione, presieduta dallo stesso uomo che guida il Barcellona, Gaspar Rosés. Rosés cerca una mediazione, propone la ripetizione delle partite in cui è stato schierato Garchitorena, ma a ribellarsi è il direttivo del Barcellona, che preferisce perdere a tavolino gli incontri e il campionato di Catalogna piuttosto che piegare la testa a un principio che ritiene ingiusto, quello che vieta ai giocatori stranieri di disputare il campionato. Rosés, umiliato e isolato, si dimette da entrambi gli incarichi.

Diego Armando Maradona con la maglia del Barcellona nel 1984.

1920-1929: PAULINO ÁLCANTARA

A proposito di filippini… Il Barça ne ha avuto un altro nella sua storia, di origini catalana e quindi naturalizzato. Nessun rischio Garchitorena, dunque. Il suo nome era Paulino Álcantara, cominciò a giocare nel Barcellona appena 15enne, nel 1912, poi nel 1916 fu costretto a lasciare la Spagna per seguire la famiglia nelle Filippine. Dopo due anni e dopo aver contratto la malaria, riuscì a convincere i genitori a lasciarlo tornare in Catalogna, per giocare di nuovo col Barcellona, dove restò fino al 1927, segnando 200 gol in 177 partite. Al suo esordio, a 15 anni, segnò una tripletta. Con 5 Coppe di Spagna e 10 campionati catalani, Álcantara segnò la storia del club a cavallo di due decenni, diventando grande protagonista soprattutto negli Anni ’20, gli stessi che videro la costruzione dello stadio di Les Corts, nel 1922, e la nascita del nomignolo culé per i tifosi blaugrana che si assiepavano sugli spalti e a cavalcioni sulla rete di recinzione mostrando le terga ai passanti. Il 24 giugno del 1925 il Barcellona organizzò a Les Corts una partita contro l’Fc Jupiter. La Spagna era da due anni sotto il regime del generale Primo de Rivera e decine di migliaia di tifosi si assieparono fuori dal campo in attesa che arrivasse il via libera alla partita da parte della dittatura. Quando i cancelli furono aperti e l’orchestra della Marina Militare Britannica attaccò a suonare gli inni, il pubblico catalano coprì con sonori fischi la Marcia Reale spagnola, accompagnando poi con gli applausi God Save the King. Fu l’inizio di un’usanza che prosegue ancora oggi. Ma durante il regime quel vilipendio fu pagato a carissimo prezzo, con l’espulsione di Gamper e di tutto il direttivo e la chiusura dell’attività del club per sei mesi.

1930-1939: JOSEP SUNYOL

Il Barça riprese a camminare, il regime cadde, Primo de Rivera morì e nel 1931 si instaurò la seconda Repubblica spagnola. I cambiamenti politici portarono alla guida del club un presidente convintamente repubblicano e di sinistra, Josep Sunyol. Un uomo di calcio che pagò con la vita il suo impegno politico. Nel 1936, all’inizio della guerra civile che avrebbe portato Francisco Franco al potere, Sunyol fu vittima di un’imboscata mentre si recava a Madrid in auto. La vettura fu fermata da una banda armata di franchisti in una strada di campagna e tutti gli occupanti, Sunyol compreso, vennero fucilati. A Barcellona, per giorni, non seppero nulla del presidente scomparso. L’annuncio della sua morte arrivò in ritardo. Fu l’inizio del durissimo conflitto tra il Barcellona e il potere politico franchista, che sarebbe durato fino alla morte del Caudillo, nel 1975.

1940-1949: ENRIQUE PINEIRO

Il Barcellona patì in particolar modo l’avvento del Franchismo. Il regime commissariò di fatto il club, gli tolse la sua identità cambiandone nome (che da Football Club Barcelona passò al più spagnolo Club de Futbol Barcelona), sigla e persino scudetto, con la rimozione di tre delle cinque bande rosse in sfondo giallo che rappresentavano la bandiera catalana. La squadra restò comunque competitiva, nonostante le intromissioni di Franco, e persino i più diligenti franchisti posti alla sua presidenza finirono per farsi rapire dal suo fascino. Accadde a Enrique Pineiro, marchese della Mesa de Asta, amico personale di Franco che con lui ingaggiò una personalissima sfida nella sfida tra il club catalano e il Real Madrid.

Nel 1943, dopo aver vinto per 3-0 l’andata della semifinale della Copa del Generalisimo, Pineiro inviò un telegramma a Franco per invitarlo come suo ospite alla finale

Nel 1943, dopo aver vinto per 3-0 l’andata della semifinale della Copa del Generalisimo (l’ex Copa del Rey), Pineiro inviò un telegramma a Franco per invitarlo come suo ospite alla finale. Il dittatore non la prese bene e mentre i giocatori si cambiavano negli spogliatoi per scendere in campo nella gara di ritorno, ricevettero la visita di un piccola squadriglia che li minacciò di gravi ritorsioni se non avessero ceduto il passaggio del turno al Madrid. Il Barcellona, la stessa squadra che all’andata aveva dominato vincendo 3-0, perse 11-1 una partita che ancora oggi rappresenta il Clásico col più ampio margine di scarto tra le due squadre. Pineiro non tollerò l’episodio e annunciò direttamente a Franco le proprie dimissioni da presidente del Barcellona.

1950-1959: LAZSLÓ KUBALA

Il Barcellona tornò comunque grande e prima della fine degli Anni 40 vinse tre volte il Campionato di Spagna, due volte la Copa Eva Duarte e il suo primo titolo internazionale, la Coppa Latina. Il club rilanciò le proprie ambizioni e nel 1951 ingaggiò un giocatore che ne avrebbe segnato la storia. Lazsló Kubala era fuggito dall’Ungheria comunista nel 1949, dopo essersi fatto reclutare nei reparti di confine. Era passato dall’Italia, dove la Pro Patria lo aveva tesserato senza poterlo schierare per via della squalifica internazionale legata al ricorso presentato dall’Ungheria dopo la sua fuga, aveva sfiorato la tragedia di Superga dopo aver rinunciato, per impegni familiari, a indossare la maglia del Grande Torino nell’amichevole di Lisbona contro il Benfica, ed era arrivato in Spagna. Il Real Madrid di Santiago Bernabéu gli aveva messo gli occhi addosso, strappando anche un accordo di massima per il suo ingaggio, ma Pep Samitier, ex attaccante, ex allenatore e ora dirigente del Barcellona, riuscì a strapparlo alla concorrenza con un’abile mossa. Kubala giocò a Barcellona tra il 1951 e il 1961, segnando 131 gol in 186 partite e ingaggiando una sfida personale e di squadra con Alfredo Di Stefano, che il Barça fu sul punto di affiancargli ma che si sarebbe accasato al Real Madrid dopo una lunga ed estenuante battaglia legale tra i due club. Vinse quattro volte il Campionato spagnolo, cinque la Copa del Generalisimo, due la Copa Eva Duarte.

1960-1969: CARLES REXACH

Gli Anni 60 cominciarono con il grande sacrificio di Luis Suarez, ceduto all’Inter per ottenere i fondi per completare il Camp Nou, e proseguirono con una serie di vittorie in Coppa (due del Generalisimo e una delle Fiere) ma senza nemmeno un titolo di campione di Spagna. Nel 1961 i blaugrana disputarono e persero contro il Benfica anche la loro prima finale di Coppa dei Campioni. Nell’ottica di un decennio tutto sommato negativo, il Barça trovò nuovo slancio sul finale della decade, con l’approdo in prima squadra di Carles Rexach. Prodotto del vivaio, Rexach sarebbe stato protagonista col Barça prima in campo, fino al 1981, poi in panchina, quindi da dirigente. Sarebbe stato lui, più di 30 anni dopo, a far firmare a Lionel Messi il famoso tovagliolo su cui fu redatta la prima bozza di contratto tra il calciatore argentino e la squadra catalana.

1970-1979: JOHAN CRUIJFF

Il Barcellona tornò a vincere il campionato di Spagna 14 anni dopo l’ultima volta, poco prima della metà degli Anni 70. E ci riuscì grazie all’arrivo in Catalogna di uno dei più grandi fuoriclasse della sua storia. Johan Cruijff firmò per il Barça nel 1973, dopo tre Coppe dei Campioni di fila vinte con l’Ajax. Accolse la sfida di un club che desiderava tornare grande e di una città in perenne lotta contro la dittatura di Franco, che di lì a due anni sarebbe caduta con la morte del Caudillo. Nella prima stagione di Cruijff, i blaugrana conquistarono il titolo dopo aver battuto il Real Madrid a domicilio per 5-0 e sempre contro i Blancos persero per 4-0 la finale di Copa del Generarlisimo, nella quale non potevano essere schierati stranieri. Cruijff segnò 86 gol nelle sue 5 stagioni in Catalogna, vinse un campionato e una Copa del Rey, ma soprattutto divenne simbolo di un club a cui si legò così tanto da tornarci poi, per cambiarlo e riportarlo a vincere, da allenatore, e di una terra che amò così profondamente da chiamare il proprio figlio Jordi, come il santo patrono di Barcellona, in un’epoca in cui i nomi catalani erano ancora vietati dalla legge della dittatura.

1980-1989: DIEGO ARMANDO MARADONA

Passarono altri 11 anni prima che il Barcellona, che continuava a fare incetta di coppe nazionali, potesse festeggiare un nuovo titolo di campione di Spagna. Dieci anni nei quali, tra le altre cose, al Camp Nou trovò casa per due stagioni colui che presto avrebbe lasciato lo status di uomo per trasformarsi in leggenda. Diego Armando Maradona arrivò in Europa nell’estate del 1982, quella dopo i Mondiali, non ancora 21enne. Giocò in Catalogna due stagioni, vincendo soltanto una Coppa di Spagna, giocando 58 partite e segnando 38 gol. Mostrò tutta la sua classe ma non riuscì mai ad ambientarsi, frenato anche dagli infortuni.

Gli Anni 90 furono quelli della seconda era Cruijff, quella da allenatore, e dell’avvio di un ciclo vincente che, con alti e bassi, continua fino a oggi

Il più grave fu quello procuratogli alla quinta giornata del campionato 1983-84 da un’entrataccia di Andoni Goikoetxea, difensore dell’Athletic Bilbao. Maradona fu operato alla caviglia e rientrò all’inizio del 1984. La partita di ritorno contro l’Athletic è ricordata per una delle più violente risse nella storia del calcio, avviata proprio dalla vendetta personale di Maradona, che si avventò su Goikoetxea al termine della finale di Copa del Rey vinta dai baschi per 1-0. Calci, pugni, schiaffi e spintoni coinvolsero tutte le rose delle due squadre. A fine stagione Maradona lasciò il Barcellona per firmare col Napoli.

1990-1999: RONALD KOEMAN

Gli Anni 90 furono quelli della seconda era Cruijff, quella da allenatore, e dell’avvio di un ciclo vincente che, con alti e bassi, continua fino a oggi. Il Barça uscì dal complesso di inferiorità nei confronti del Madrid e cominciò a proporre una sua personale evoluzione del calcio totale. Nel 1992 conquistò la sua prima Coppa dei Campioni battendo in finale la Sampdoria di Mancini e Vialli. Protagonista della partita fu Ronald Koeman, autore su punizione del gol decisivo. È ufficialmente iniziata l’era del Dream Team.

Pep Guardiola in una foto del 2000.

2000-2009: PEP GUARDIOLA

Il nuovo millennio ha portato il momento più ricco e felice della storia blaugrana. E a segnarlo è stato senza dubbio Pep Guardiola. Mentre si avvicina la primavera del 2008, con la consapevolezza che l’era Rijkaard, che ha portato la seconda Champions League nella storia del club, si è ormai chiusa, il presidente Joan Laporta è alle prese con la scelta del nuovo allenatore. Sono giorni convulsi, una parte del club vorrebbe il ritorno di José Mourinho, già visto al Camp Nou prima da traduttore di Robson e poi da assistente di van Gaal. Ma il profilo del portoghese non è il migliore secondo il direttore sportivo Txiki Begiristain, che sponsorizza un ex compagno di squadra ai tempi del Dream Team di Cruijff. Pep Guardiola sta conducendo la squadra B alla vittoria del gruppo catalano della Tercera División. Non ha esperienza ma ha un’idea di calcio già piuttosto chiara, definita, accattivante. È la stessa di Cruijff, solo aggiornata ai tempi che cambiano, riproposta con una difesa a quattro e non a tre, ma comunque destinata a passare attraverso il dominio del pallone e il pressing. Laporta lo convoca nel suo ufficio e gli chiede se si senta pronto per allenare la prima squadra, lui fissa i suoi occhi in quelli del presidente e gli risponde: «Io sì, sei tu che non hai le palle». È la frase che convince definitivamente Laporta. Il calcio di Guardiola riempie le pagine dei quotidiani sportivi di tutto il mondo, lo chiamano tiqui-taca, anche se anni dopo il tecnico rivelerà di non amare particolarmente quel nome. Al primo anno arriva il triplete. Il Barcellona che aveva chiuso la stagione precedente a 18 punti di distanza dal Real Madrid vince Liga, Copa del Rey e Champions League. In quattro anni arriveranno altri due campionati, un’altra coppa nazionali, un’altra Champions League, tre Supercoppe di Spagna, due Supercoppe europee e due Mondiali per club.

2010-2019: LIONEL MESSI

L’ascesa di Guardiola coincide con quella di Lionel Messi, il cui talento già evidente esplode definitivamente sotto la guida del tecnico catalano. La Pulce si sposta verso il centro dell’attacco, comincia a segnare a ripetizione, nei quattro anni di Guardiola monopolizza letteralmente il Pallone d’Oro, vincendone quattro di fila. L’addio di Pep rende ancora più evidente la sua leadership sulla squadra. Messi comincia ad avere voce in capitolo sull’allenatore da scegliere e sui compagni di squadra. Fa fuori Ibrahomovic e salva Villa, promuove Neymar e più volte ottiene la conferma di Mascherano. Nel frattempo gli altri grandi del ciclo, Xavi e Iniesta, lasciano il Barcellona. Persino Neymar se ne va e Messi rimane da solo a guidare una squadra che è sempre più dipendente da lui. Nel 2012 realizza il record del maggior numero di gol segnati in un anno solare (91). Nel 2015, dopo il secondo triplete sotto la guida di Luis Enrique, arriva anche il quinto Pallone d’Oro, quest’anno potrebbe essere la volta del sesto. Supera Cesar Sanchez e diventa il giocatore con più gol nella storia del Barcellona, è il bomber del Clásico e il giocatore che ha vinto più trofei, l’unico ad aver segnato almeno 40 gol per 10 stagioni consecutive. E la lista dei record è ancora lunga e in continuo aggiornamento. Come la storia del Barcellona.

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Cosa sapere delle elezioni in Spagna del 10 novembre

Il 10 novembre il Paese torna al voto. I socialisti di Sanchez in vantaggio sono ancora lontani dalla maggioranza. Occhi puntati sull’estrema destra di Vox che potrebbe diventare la terza forza del Paese cavalcando la crisi catalana. Una guida.

Domenica 10 novembre la Spagna torna al voto per la seconda volta nel 2019 (e per la quarta in 4 anni). Il socialista Pedro Sanchez, vincitore alle elezioni dello scorso aprile, non è infatti riuscito a formare un governo con la coalizione di sinistra Unidas Podemos.

Pedro Sanchez, leader socialista e premier uscente.

I CANDIDATI IN CORSA

A sfidare il premier uscente Pedro Sánchez (Partito socialista), ci sono: Pablo Casado (Partito Popolare), Pablo Iglesias (leader di Podemos), Albert Rivera (che guida i liberali di Ciudadanos) e Santiago Abascal, fondatore del partito di estrema destra Vox.

LA CRESCITA DELL’ESTREMA DESTRA DI VOX NEI SONDAGGI

Secondo i recenti sondaggi di Politico.eu difficilmente dalle urne uscirà una maggioranza chiara. I blocchi di centrodestra e centrosinistra sostanzialmente si equivalgono: i primi veleggiano intorno al 44% e i secondi al 42%. Il Psoe è dato comunque per favorito al 27%, i Popolari sono al 21%, Podemos al 12% e Ciudadanos al 9%. La vera novità di questa tornata elettorale è però rappresentata da Vox che potrebbe passare dal 10% delle scorse elezioni al 14%. Se così fosse scalzerebbe Ciudadanos diventando la terza forza politica del Paese. Dopo una frenata alle Europee, Vox ha ripreso a crescere nei sondaggi con l’inasprirsi, sostengono diversi osservatori, della crisi catalana.

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LA CATALOGNA AL CENTRO DEL VOTO

La nuova ondata di proteste indipendentiste, dopo le pesanti condanne ai 12 leader indipendentisti protagonisti dell’insurrezione dell’ottobre 2017, ha catalizzato il dibattito nazionale. E sarà l’ago della bilancia di queste elezioni. Sanchez, rivendicando la linea della fermezza, ha insistito sulla necessità di dialogo. «Abbiamo bisogno di aprire un nuovo capitolo basato sulla coesistenza pacifica in Catalogna attraverso il dialogo nei limiti della legge e della Costituzione spagnola», aveva detto in tivù a metà ottobre. «Nessuno è al di sopra della legge. In Spagna non ci sono prigionieri politici ma piuttosto alcuni politici in prigione per aver violato leggi democratiche». Sul tema Ciudadanos e Vox hanno mostrato i muscoli. Abascal, nell’ultimo confronto tivù, si è spinto oltre: non solo ha chiesto di revocare l’autonomia alla Generalitat ma ha anche accusato Sanchez di appoggiare di fatto un «colpo di Stato permanente» in Catalogna.

La bandiera catalana all’aeroporto di Barcellona durante la manifestazione del 14 ottobre.

Non solo. La recente proposta di Vox di bandire i partiti indipendentisti è stata approvata dall’Assemblea di Madrid con i voti del Partido Popular e di Ciudadanos, in una sorta di patto delle destre che ha fatto scattare più di un allarme in casa socialista. «Cominciamo a essere testimoni di cose preoccupanti», ha commentato il primo ministro in un’intervista a Cadena Ser, definendo la risoluzione una «deriva reazionaria molto pericolosa».

INCOGNITA ASTENSIONISMO

Sanchez deve vedersela anche con un altro concorrente: l’astensionismo, vista l’esasperazione degli elettori dopo il mancato accordo di governo tra Psoe e sinistra. L’affluenza dal 76% di aprile potrebbe così scendere intorno al 70% e a farne maggiormente la spese potrebbe essere proprio il Psoe di Pedro Sanchez.

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Cosa sapere delle elezioni in Spagna del 10 novembre

Il 10 novembre il Paese torna al voto. I socialisti di Sanchez in vantaggio sono ancora lontani dalla maggioranza. Occhi puntati sull’estrema destra di Vox che potrebbe diventare la terza forza del Paese cavalcando la crisi catalana. Una guida.

Domenica 10 novembre la Spagna torna al voto per la seconda volta nel 2019 (e per la quarta in 4 anni). Il socialista Pedro Sanchez, vincitore alle elezioni dello scorso aprile, non è infatti riuscito a formare un governo con la coalizione di sinistra Unidas Podemos.

Pedro Sanchez, leader socialista e premier uscente.

I CANDIDATI IN CORSA

A sfidare il premier uscente Pedro Sánchez (Partito socialista), ci sono: Pablo Casado (Partito Popolare), Pablo Iglesias (leader di Podemos), Albert Rivera (che guida i liberali di Ciudadanos) e Santiago Abascal, fondatore del partito di estrema destra Vox.

LA CRESCITA DELL’ESTREMA DESTRA DI VOX NEI SONDAGGI

Secondo i recenti sondaggi di Politico.eu difficilmente dalle urne uscirà una maggioranza chiara. I blocchi di centrodestra e centrosinistra sostanzialmente si equivalgono: i primi veleggiano intorno al 44% e i secondi al 42%. Il Psoe è dato comunque per favorito al 27%, i Popolari sono al 21%, Podemos al 12% e Ciudadanos al 9%. La vera novità di questa tornata elettorale è però rappresentata da Vox che potrebbe passare dal 10% delle scorse elezioni al 14%. Se così fosse scalzerebbe Ciudadanos diventando la terza forza politica del Paese. Dopo una frenata alle Europee, Vox ha ripreso a crescere nei sondaggi con l’inasprirsi, sostengono diversi osservatori, della crisi catalana.

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LA CATALOGNA AL CENTRO DEL VOTO

La nuova ondata di proteste indipendentiste, dopo le pesanti condanne ai 12 leader indipendentisti protagonisti dell’insurrezione dell’ottobre 2017, ha catalizzato il dibattito nazionale. E sarà l’ago della bilancia di queste elezioni. Sanchez, rivendicando la linea della fermezza, ha insistito sulla necessità di dialogo. «Abbiamo bisogno di aprire un nuovo capitolo basato sulla coesistenza pacifica in Catalogna attraverso il dialogo nei limiti della legge e della Costituzione spagnola», aveva detto in tivù a metà ottobre. «Nessuno è al di sopra della legge. In Spagna non ci sono prigionieri politici ma piuttosto alcuni politici in prigione per aver violato leggi democratiche». Sul tema Ciudadanos e Vox hanno mostrato i muscoli. Abascal, nell’ultimo confronto tivù, si è spinto oltre: non solo ha chiesto di revocare l’autonomia alla Generalitat ma ha anche accusato Sanchez di appoggiare di fatto un «colpo di Stato permanente» in Catalogna.

La bandiera catalana all’aeroporto di Barcellona durante la manifestazione del 14 ottobre.

Non solo. La recente proposta di Vox di bandire i partiti indipendentisti è stata approvata dall’Assemblea di Madrid con i voti del Partido Popular e di Ciudadanos, in una sorta di patto delle destre che ha fatto scattare più di un allarme in casa socialista. «Cominciamo a essere testimoni di cose preoccupanti», ha commentato il primo ministro in un’intervista a Cadena Ser, definendo la risoluzione una «deriva reazionaria molto pericolosa».

INCOGNITA ASTENSIONISMO

Sanchez deve vedersela anche con un altro concorrente: l’astensionismo, vista l’esasperazione degli elettori dopo il mancato accordo di governo tra Psoe e sinistra. L’affluenza dal 76% di aprile potrebbe così scendere intorno al 70% e a farne maggiormente la spese potrebbe essere proprio il Psoe di Pedro Sanchez.

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