L’allarme del 2007 sul rischio coronavirus in wet market e laboratori

Nell’ottobre del 2007, lo scienziato Kwok Yung Yuen definiva i coronavirus una bomba a orologeria. Citando animali e laboratori come possibili fonti di contagio. Un avvertimento che oggi suona come una drammatica premonizione caduta nel vuoto.

«I coronavirus sono una bomba a orologeria». Così, nell’ottobre del 2007, scriveva lo scienziato Kwok Yung Yuen, microbiologo a capo del Dipartimento di malattie infettive emergenti presso l’università di Hong Kongin uno studio post-Sars. L’articolo, frutto di un lavoro effettuato con altri tre ricercatori e pubblicato sulla rivista scientifica Clinical Microbiology Reviews, parlava chiaro: «I coronavirus sono ben noti per le ricombinazioni genetiche che possono portare a nuovi genotipi ed epidemie. La presenza di una larga riserva di coronavirus nei pipistrelli ferro di cavallo e la cultura di mangiare mammiferi esotici nel sud della Cina creano una “bomba a orologeria”. La possibilità che si ripresenti la Sars o nuovi altri virus da animali o da laboratori, e dunque la necessità di essere pronti, non dovrebbe essere ignorata». Un avvertimento che oggi suona come una drammatica premonizione caduta nel vuoto. Già, perché il professore cinese citava proprio le due possibili fonti di contagio sul tavolo anche per l’attuale pandemia: animali o laboratori. Come mai?

LA NECESSITÀ DI RAFFORZARE LE MISURE DI BIOSICUREZZA

Se la maggioranza degli scienziati propende per l’origine naturale del Sars-CoV-2 (di nuovo un salto di specie da pipistrello a uomo attraverso un ospite intermedio, in un primo momento identificato nel pangolino poi scagionato), il presidente americano Donald Trump ha accusato più volte Pechino sostenendo di avere le prove – in realtà, senza mai fornirle – che questo coronavirus è frutto di ingegneria genetica. Nel mirino, l’istituto di virologia di Wuhan (WTV), una struttura che rivendica di avere laboratori con il massimo livello di biosicurezza internazionale (Bsl-4) ma che una recente inchiesta del Washington Post ha rivelato essere al centro di grossi timori dell’ambasciata degli Stati Uniti a Pechino (che, per questo, aveva inviato ripetutamente diplomatici scientifici statunitensi nel centro di ricerca) fin dal 2018. È un fatto che una relazione della Commissione europea nel 2004 riferiva che, sebbene dal 5 luglio 2003 l’Organizzazione mondiale della sanità non avesse registrato nuovi casi di Sars, i contagi erano riapparsi in almeno quattro occasioni fra la fine di agosto 2003 e il 2004: una volta nella città di Guangzhou – ancora nel sud della Cina – nella provincia di Guangdong (un’infezione trasmessa da un animale ma contenuta ad appena quattro contagi), altre tre volte a Singapore, Taipei e Pechino. In tutti questi casi, si trattava di incidenti di laboratorio che avevano coinvolto 13 persone: sei mentre conducevano esperimenti sul virus della Sars (Sars CoV), i restanti sette per esposizione a uno dei contagiati. I servizi di Bruxelles annotavano la necessità di prepararsi a un possibile ritorno dell’epidemia e di rafforzare le misure di biosicurezza dei centri di ricerca. Ma che cosa era successo?

LE INDAGINI DELL’OMS A SINGAPORE

Un team internazionale dell’Oms si recò a Singapore per un’indagine sul campo su uno dei nuovi casi registrati, quello di un ventisettenne al suo terzo anno di dottorato in microbiologia presso l’università nazionale di Singapore. Gli 11 esperti, guidati dal virologo Antony Della-Porta, giunsero alla conclusione che la contaminazione era avvenuta probabilmente in modo accidentale per un mancato rispetto delle regole. In pratica, l’esperimento avrebbe dovuto svolgersi in un laboratorio diverso ma, un giorno, lo specializzando era stato lasciato solo dal suo tutor perché era sabato mattina (il giorno delle riunioni dello staff). Le rilevazioni mostrarono che mancavano standard e linee guida di biosicurezza adeguati, un’idonea formazione dei ricercatori e l’istituto necessitava di svariati interventi strutturali. A Taipei, invece, l’incidente si era verificato in un laboratorio di massima sicurezza perché lo scienziato (in questo caso di grande esperienza) non aveva seguito la procedura per la decontaminazione della strumentazione e aveva effettuato la pulizia senza idonee protezioni per le vie aeree. Ma, una volta accusati i sintomi di crisi respiratoria, incredibilmente, l’uomo non era stato visitato e monitorato nei giorni di assenza per malattia con il rischio di contagiare altre persone. Ad aprile 2004, infine, due ricercatori dello staff del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie di Pechino avevano contratto la Sars, contagiando sette persone esterne (una delle quali morì). Eppure, nessuno di loro lavorava sul virus della Sars (probabilmente, c’era stata una contaminazione in uno dei laboratori poi usati dagli altri).

LA “MORATORIA” DI OBAMA DEL 2014

Nel 2014 è la volta degli Stati Uniti. Nei centri per la prevenzione e il controllo delle malattie di Atlanta – uno dei luoghi strategici per la lotta a contagi ed epidemie – si verificano vari incidenti gravi che coinvolgono il laboratorio dove si studia l’antrace e quello del virus H5N1, l’influenza aviaria. Il direttore, Thomas Frieden, è costretto ad ammettere che gli errori avrebbero potuto, in teoria, uccidere sia i ricercatori dello staff sia persone comuni fuori dal centro. In un episodio, almeno 62 tecnici risultano a rischio, essendo stati esposti al batterio dell’antrace privi dell’adeguato equipaggiamento. Le strutture vengono chiuse e il presidente Barack Obama decide di imporre una “moratoria” di un anno a questo tipo di esperimenti (i cosiddetti «Gain-of-Function» ovvero quelli finalizzati ad accrescere la virulenza o trasmissibilità dei patogeni), tagliando i fondi alla ricerca su Sars, Mers e altri coronavirus o virus influenzali. Obama invita gli scienziati americani a una pausa volontaria da studi del genere finché non si stabiliranno regole di biosicurezza più stringenti ma nella comunità scientifica riprende quota l’annoso (e, in realtà, mai sopito) dibattito: i ricercatori si dividono fra chi ritiene che creare patogeni in laboratorio in grado di scatenare potenziali pandemie è troppo rischioso per la salute umana e chi, viceversa, lo giudica indispensabile proprio per trovare nuove terapie. Così è. Ma, alla fine, l’errore non si può mai escludere.

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Poveri, disabili, anziani: le voci degli ultimi di Hong Kong

Mentre le proteste infuriano, lontano dallo sguardo delle telecamere un popolo di dimenticati fatica a sopravvivere, tra affitti fuori portata e sussidi insufficienti. In un contesto economico sempre più deteriotato. Il reportage.

Poveri, disabili, anziani: sono loro le voci dimenticate delle proteste di Hong Kong. Mentre il mondo intero guardava preoccupato ai disordini e al crescere della violenza nell’ex colonia, mentre lo sguardo dei media internazionali si focalizzava su ciò che stava accadendo dentro i campus universitari della città, dove i più irriducibili tra gli studenti in lotta restavano asserragliati, braccati e circondati dalle forze dell’ordine, c’era qualcuno di cui nessuna testata o televisione si preoccupava. In una metropoli che è considerata, a tutti gli effetti, la Montecarlo dell’Asia, dove l’affitto di un miniappartamento in centro può costare molte decine di migliaia di euro al mese e dove ancora oggi si immatricolano più Ferrari, Rolls Royce e Mercedes che in qualsiasi altra parte del mondo, esiste un popolo di dimenticati, che devono sopravvivere nella città più costosa del globo con quelli che qui sono poco più di una manciata di spiccioli.

Per esempio chi, nonostante il caos e il pericolo, dietro le barricate del campus ormai quasi vuoto dell’Università di Hong Kong ha continuato a lavorare. Perché, molto semplicemente, non aveva scelta. Come Mak Hon Kau, che ha proseguito diligentemente a fare il suo lavoro di giardiniera, spazzando foglie e piantando fiori sotto il sole rovente in quello che, un attimo prima, era un cortile dall’aspetto sereno e un attimo dopo era diventato un campo di battaglia, cercando riparo in qualche modo. Mak, una lavoratrice a contratto, è tra le migliaia di poveri di Hong Kong le cui vite sono state duramente colpite da sei mesi di proteste sempre più violente le quali, a loro volta, hanno innescato una crisi economica senza precedenti per la città-stato.

So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?

Mak Hon Kau, 68 anni, giardiniera

«So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?», dice a Lettera43.it Mak, 68 anni, che guadagna circa 6 mila dollari di Hong Kong (poco più di 650 euro) al mese. Uno stipendio con il quale si potrebbe anche sopravvivere in maniera dignitosa in Italia, ma non qui. «Sono un lavoratore a contratto», ripete lei, «non posso scegliere dove mi mandano a lavorare. Anche se è un posto pericoloso».

UN’ECONOMIA IN CADUTA LIBERA

In una città in cui una persona su cinque (ovvero quasi 1 milione e mezzo di persone) vive al di sotto della soglia di povertà assoluta, calcolata in 4 mila dollari di Hong Kong (meno di 500 euro) al mese per famiglia, la vita, per questo esercito di “ultimi”, di “dimenticati”, ignoti alle cronache delle proteste, sta diventando una scommessa sempre più difficile. La rivolta ha colpito duramente l’economia della città, con il turismo in caduta libera, le compagnie aeree come la Cathay Pacific costrette a tagliare stipendi e “bonus di fine anno” (la nostra 13esima), aziende che licenziano personale ogni giorno e le vendite al dettaglio che precipitano. La città è entrata in una recessione tecnica, con l’economia in calo del 3,2% nel terzo trimestre. Le cifre fanno paura: le esportazioni sono diminuite del 9,2% in ottobre, mentre gli arrivi turistici sono crollati sotto il 50% nella prima metà del mese. Gli esperti prevedono che il Pil di Hong Kong diminuirà dell’1,4% quest’anno.

UNA LOTTA QUOTIDIANA PER RESTARE A GALLA

I più colpiti sono quelli che vivono ai margini di questa società basata sull’opulenza e la ricchezza: anziani, disabili, minoranze etniche e lavoratori poveri, mentre la loro lotta quotidiana per rimanere a galla in un ambiente di estrema disuguaglianza diventa ancora più dura. E mentre i ristoranti chiudono, gli eventi vengono annullati e i cantieri sospesi, molti lavoratori a tempo parziale e a basso salario hanno subito un colpo terribile; altri sono stati colpiti dall’aumento dei costi, con le proteste che paralizzano regolarmente la città. Per i pendolari che ogni giorno devono recarsi al lavoro nelle zone centrali, dai distretti popolari dove vivono, spostarsi è diventato un affare costoso e complicato. Molti pazienti anziani non sono stati in grado di rispettare gli appuntamenti in ospedale. O sono troppo spaventati per uscire di casa.

Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati

Lee, 60 anni, disoccupata

La signora Lee, una ex lavapiatti di circa 60 anni, si è trasferita a Hong Kong dal Guangdong due decenni fa. Lei e il figlio ormai adulto dormono su letti adiacenti in un minuscolo monolocale di Shau Kei Wan, dove riuscire a pagare il pur minimo affitto mensile pari a 200 euro è sempre stata un’autentica lotta. «Non lavoro più», dice con la voce rotta dal pianto, «ma se qualcuno mi offrisse un posto lo prenderei al volo». «Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati». Lee vive ormai solo dei suoi risparmi e con i pochi aiuti pubblici che le vengono dati. Dopo aver pagato l’affitto, le restano poco più di 100 euro per vivere tutto il mese: una sfida impossibile in una città cara come Hong Kong.

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI NON BASTANO

Samson Tse, professore nel dipartimento di assistenza sociale e amministrazione sociale dell’Università di Hong Kong, afferma che le statistiche del governo sulla povertà offrono un quadro solo parziale del fenomeno dei “nuovi poveri”. «La definizione data dal governo della soglia di povertà non descrive l’intero problema o la piena complessità delle difficoltà che queste persone affrontano», dice. «Il povero farà sempre più fatica a rimanere a galla durante questi periodi di estrema contrazione economica. Non c’è rete di sicurezza, non ci sono ammortizzatori sociali che bastino», conclude Tse.

IN FILA PER IL CIBO GRATIS FUORI DAI RISTORANTI

Proprio dietro l’angolo del fabbricato popolare dove vivono la signora Lee e il figlio, un gruppo formato da una dozzina di persone anziane è in fila fuori dal ristorante Ho Win Roasted Meat, in attesa delle scatole per il pranzo gratuite che vengono distribuite tre volte alla settimana. Una signora sulla settantina, di nome Lo, è arrivata con tre ore di anticipo per assicurarsi di ottenere almeno una delle scatole. La dividerà in due e ne rivenderà una parte per circa tre euro. Col rimanente dovrà nutrirsi per due giorni. «Certo, la mia vita è stata influenzata dalle proteste», dice Lo, che vorrebbe lasciare il suo monolocale nella vicina Chai Wan, spesso interessata dai violenti scontri tra polizia e manifestanti. «Il gas lacrimogeno mi fa stare male e i giovani si feriscono», dice, mentre sembra più preoccupata per loro che per se stessa.

DISEGUAGLIANZE SEMPRE PIÙ MARCATE

Eugene Chan, ex candidato del consiglio distrettuale di Shau Kei Wan, spiega che le interruzioni del traffico causate dalle proteste hanno reso più difficile per gli oltre 30 mila anziani nella sua zona recarsi al vicino Pamela Nethersole Eastern Hospital. «Il livello di povertà qui è significativo», afferma Chan, aggiungendo che la maggior parte dei residenti anziani nell’area guadagna meno del reddito medio della città – stimato in circa 2 mila euro al mese – e si affida all’assistenza sanitaria per anziani sovvenzionata dal governo. Il cosiddetto “Voucher Scheme” per il pagamento delle spese mediche. «Questa tragedia è reale», conclude Chan. «Sei mesi di proteste ci hanno lasciato una società devastata, dove le disuguaglianze sono diventate ancora più drammatiche e profonde. Quando tutto questo finirà, dovremo affrontarne le conseguenze».

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Poveri, disabili, anziani: le voci degli ultimi di Hong Kong

Mentre le proteste infuriano, lontano dallo sguardo delle telecamere un popolo di dimenticati fatica a sopravvivere, tra affitti fuori portata e sussidi insufficienti. In un contesto economico sempre più deteriotato. Il reportage.

Poveri, disabili, anziani: sono loro le voci dimenticate delle proteste di Hong Kong. Mentre il mondo intero guardava preoccupato ai disordini e al crescere della violenza nell’ex colonia, mentre lo sguardo dei media internazionali si focalizzava su ciò che stava accadendo dentro i campus universitari della città, dove i più irriducibili tra gli studenti in lotta restavano asserragliati, braccati e circondati dalle forze dell’ordine, c’era qualcuno di cui nessuna testata o televisione si preoccupava. In una metropoli che è considerata, a tutti gli effetti, la Montecarlo dell’Asia, dove l’affitto di un miniappartamento in centro può costare molte decine di migliaia di euro al mese e dove ancora oggi si immatricolano più Ferrari, Rolls Royce e Mercedes che in qualsiasi altra parte del mondo, esiste un popolo di dimenticati, che devono sopravvivere nella città più costosa del globo con quelli che qui sono poco più di una manciata di spiccioli.

Per esempio chi, nonostante il caos e il pericolo, dietro le barricate del campus ormai quasi vuoto dell’Università di Hong Kong ha continuato a lavorare. Perché, molto semplicemente, non aveva scelta. Come Mak Hon Kau, che ha proseguito diligentemente a fare il suo lavoro di giardiniera, spazzando foglie e piantando fiori sotto il sole rovente in quello che, un attimo prima, era un cortile dall’aspetto sereno e un attimo dopo era diventato un campo di battaglia, cercando riparo in qualche modo. Mak, una lavoratrice a contratto, è tra le migliaia di poveri di Hong Kong le cui vite sono state duramente colpite da sei mesi di proteste sempre più violente le quali, a loro volta, hanno innescato una crisi economica senza precedenti per la città-stato.

So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?

Mak Hon Kau, 68 anni, giardiniera

«So che lavorare qui potrebbe essere pericoloso, ma ho bisogno di soldi e nessun altro mi assumerà a questa età, quale alternativa ho?», dice a Lettera43.it Mak, 68 anni, che guadagna circa 6 mila dollari di Hong Kong (poco più di 650 euro) al mese. Uno stipendio con il quale si potrebbe anche sopravvivere in maniera dignitosa in Italia, ma non qui. «Sono un lavoratore a contratto», ripete lei, «non posso scegliere dove mi mandano a lavorare. Anche se è un posto pericoloso».

UN’ECONOMIA IN CADUTA LIBERA

In una città in cui una persona su cinque (ovvero quasi 1 milione e mezzo di persone) vive al di sotto della soglia di povertà assoluta, calcolata in 4 mila dollari di Hong Kong (meno di 500 euro) al mese per famiglia, la vita, per questo esercito di “ultimi”, di “dimenticati”, ignoti alle cronache delle proteste, sta diventando una scommessa sempre più difficile. La rivolta ha colpito duramente l’economia della città, con il turismo in caduta libera, le compagnie aeree come la Cathay Pacific costrette a tagliare stipendi e “bonus di fine anno” (la nostra 13esima), aziende che licenziano personale ogni giorno e le vendite al dettaglio che precipitano. La città è entrata in una recessione tecnica, con l’economia in calo del 3,2% nel terzo trimestre. Le cifre fanno paura: le esportazioni sono diminuite del 9,2% in ottobre, mentre gli arrivi turistici sono crollati sotto il 50% nella prima metà del mese. Gli esperti prevedono che il Pil di Hong Kong diminuirà dell’1,4% quest’anno.

UNA LOTTA QUOTIDIANA PER RESTARE A GALLA

I più colpiti sono quelli che vivono ai margini di questa società basata sull’opulenza e la ricchezza: anziani, disabili, minoranze etniche e lavoratori poveri, mentre la loro lotta quotidiana per rimanere a galla in un ambiente di estrema disuguaglianza diventa ancora più dura. E mentre i ristoranti chiudono, gli eventi vengono annullati e i cantieri sospesi, molti lavoratori a tempo parziale e a basso salario hanno subito un colpo terribile; altri sono stati colpiti dall’aumento dei costi, con le proteste che paralizzano regolarmente la città. Per i pendolari che ogni giorno devono recarsi al lavoro nelle zone centrali, dai distretti popolari dove vivono, spostarsi è diventato un affare costoso e complicato. Molti pazienti anziani non sono stati in grado di rispettare gli appuntamenti in ospedale. O sono troppo spaventati per uscire di casa.

Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati

Lee, 60 anni, disoccupata

La signora Lee, una ex lavapiatti di circa 60 anni, si è trasferita a Hong Kong dal Guangdong due decenni fa. Lei e il figlio ormai adulto dormono su letti adiacenti in un minuscolo monolocale di Shau Kei Wan, dove riuscire a pagare il pur minimo affitto mensile pari a 200 euro è sempre stata un’autentica lotta. «Non lavoro più», dice con la voce rotta dal pianto, «ma se qualcuno mi offrisse un posto lo prenderei al volo». «Mio figlio è stato licenziato dal ristorante di dim sum dove lavorava come sguattero perché gli affari andavano male. Siamo disperati». Lee vive ormai solo dei suoi risparmi e con i pochi aiuti pubblici che le vengono dati. Dopo aver pagato l’affitto, le restano poco più di 100 euro per vivere tutto il mese: una sfida impossibile in una città cara come Hong Kong.

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI NON BASTANO

Samson Tse, professore nel dipartimento di assistenza sociale e amministrazione sociale dell’Università di Hong Kong, afferma che le statistiche del governo sulla povertà offrono un quadro solo parziale del fenomeno dei “nuovi poveri”. «La definizione data dal governo della soglia di povertà non descrive l’intero problema o la piena complessità delle difficoltà che queste persone affrontano», dice. «Il povero farà sempre più fatica a rimanere a galla durante questi periodi di estrema contrazione economica. Non c’è rete di sicurezza, non ci sono ammortizzatori sociali che bastino», conclude Tse.

IN FILA PER IL CIBO GRATIS FUORI DAI RISTORANTI

Proprio dietro l’angolo del fabbricato popolare dove vivono la signora Lee e il figlio, un gruppo formato da una dozzina di persone anziane è in fila fuori dal ristorante Ho Win Roasted Meat, in attesa delle scatole per il pranzo gratuite che vengono distribuite tre volte alla settimana. Una signora sulla settantina, di nome Lo, è arrivata con tre ore di anticipo per assicurarsi di ottenere almeno una delle scatole. La dividerà in due e ne rivenderà una parte per circa tre euro. Col rimanente dovrà nutrirsi per due giorni. «Certo, la mia vita è stata influenzata dalle proteste», dice Lo, che vorrebbe lasciare il suo monolocale nella vicina Chai Wan, spesso interessata dai violenti scontri tra polizia e manifestanti. «Il gas lacrimogeno mi fa stare male e i giovani si feriscono», dice, mentre sembra più preoccupata per loro che per se stessa.

DISEGUAGLIANZE SEMPRE PIÙ MARCATE

Eugene Chan, ex candidato del consiglio distrettuale di Shau Kei Wan, spiega che le interruzioni del traffico causate dalle proteste hanno reso più difficile per gli oltre 30 mila anziani nella sua zona recarsi al vicino Pamela Nethersole Eastern Hospital. «Il livello di povertà qui è significativo», afferma Chan, aggiungendo che la maggior parte dei residenti anziani nell’area guadagna meno del reddito medio della città – stimato in circa 2 mila euro al mese – e si affida all’assistenza sanitaria per anziani sovvenzionata dal governo. Il cosiddetto “Voucher Scheme” per il pagamento delle spese mediche. «Questa tragedia è reale», conclude Chan. «Sei mesi di proteste ci hanno lasciato una società devastata, dove le disuguaglianze sono diventate ancora più drammatiche e profonde. Quando tutto questo finirà, dovremo affrontarne le conseguenze».

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Il nazionalismo di Modi sta trascinando l’India nel caos

Una legge discriminatoria nei confronti della minoranza musulmana ha fatto esplodere violente proteste in tutto il Paese. Con il suo continuo favorire la maggioranza Indu, il premier rischia di riportare il subcontinente al 1947.

Altissima tensione in India, dove le proteste contro la nuova legge sulla cittadinanza voluta dal premier Narendra Modi, discriminatoria nei confronti dei musulmani (nel subcontinente sono 200 milioni), ha innescato duri scontri. Con un bilancio di almeno sei morti, centinaia di feriti e di arresti in cinque giorni, soprattutto nello stato nordorientale dell’Assam. La legge, il Citizens Amendment Act, prevede un percorso strutturato per concedere la cittadinanza ai migranti Indu, Sikh, Parsi, Buddhisti e Cristiani, escludendo solo quelli di religione islamica.

Il governo si è giustificato dicendo che l’intenzione è quella di tutelare le minoranze storicamente più discriminate, ma la ratio della legge è quella di regolarizzare milioni di Indu immigrati dal Bangladesh e contemporaneamente avere carta bianca per poter espellere i musulmani irregolari. Il focolaio del malcontento che nel weekend ha visto gli studenti contrapporsi con la polizia nel campus Jamia Millia Islamia di Delhi, si è esteso a tutto il Paese. Con l’opposizione a fare da sponda ai manifestanti. La leader del Bengala occidentale, Mamata Banerjee è scesa in strada a Calcutta alla testa di un massiccio corteo mentre Priyanka e Sonia Gandhi, si sono sedute sotto l’India Gate in un sit-in pacifico. Il portavoce delle opposizioni in parlamento, Ghulam Nabi Azad, ha detto che non solo il suo partito, il Congresso, ma tutte le opposizioni sono unite nella condanna alle azioni della polizia.

IL NAZIONALISMO DEL PREMIER MODI

La norma voluta dal premier, rieletto a larga maggioranza a maggio del 2019, è l’ultima di una serie di misure nazionalistiche che gli hanno permesso di ottenere i voti della grande maggioranza degli Indu. Una strategia che ha pagato in termini elettorali, ma che sta riaprendo la ferita della guerra civile tra Indu e musulmani scoppiata dopo la partizione del 1947.

L’IRRUZIONE DELLA POLIZIA ALLA JAMIA MILLIA ISLAMIA

L’intrusione violenta della polizia nel campus della Jamia Millia Islamia, ha visto gli agenti lanciare lacrimogeni, picchiare coi manganelli studenti e studentesse, insultare le ragazze barricate nei bagni, dove era stata fatta saltare la luce, e devastare una biblioteca e una sala adibita a moschea. Almeno un centinaio di feriti sono stati ricoverati negli ospedali, qualcuno anche ferito da pallottole, mentre una cinquantina di arrestati non hanno potuto incontrare per ore i legali e gli attivisti dei diritti civili. Fondata nel 1931 la Jamia è una delle università più prestigiose del Paese. L’irruzione, documentata da video rilanciati immediatamente sui social, è stata uno choc per il campus, con il vice rettore che ha denunciato la polizia, e per l’India intera. Se non è chiara la dinamica dell’accaduto, che verrà discussa alla Corte suprema, è chiaro l’intento della polizia di reprimere la protesta a tutti i costi.

LE PROTESTE SI DIFFONDONO A MACCHIA D’OLIO

La domenica nera della Jamia ha acceso un fuoco che si è allargato alle università di tutto il Paese: mentre i 50 fermati venivano liberati, decine di migliaia di altri studenti sono scesi in strada dall’Iis di Bengaluru, ai due principali istituti di Mumbai, il Tiss e la Bombay University, ai college di Chennai, Madurai, Pondicherry, in Tamil Nadu, a Hyderabad, all’Università gemella della Jamia, in Uttar Pradesh. Il premier Modi ha cercato di placare gli animi con un tweet in cui dice che nessun indiano sarà toccato dalla nuova legge «che riguarda solo i rifugiati perseguitati per motivi religiosi».

Ma gli studenti che contestano la cittadinanza basata sull’appartenenza religiosa con l’esclusione dei musulmani, e gli indiani del Nord Est (dell’Assam, Tripura e Meghalaya, che si sentono minacciati nelle loro identità dagli immigrati dal Bangladesh), non la pensano come lui. I più delusi dal premier e dal governo nell’Asam dove continuano le manifestazioni e regna il coprifuoco, con il governo che ha inviato alcune migliaia di agenti di sicurezza ed ha sospeso internet fino a domani, creando un “Kashmir dell’Est“.

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Rohingya: Suu Kyi difende la Birmania al tribunale dell’Aja

La leader del Myanmar, un tempo celebrata come paladino della democrazia, ha difeso i militari – gli stessi che l’hanno reclusa ai domiciliari per anni- dalle accuse di genocidio nei confronti della minoranza musulmana.

La leader birmana Aung San Suu Kyi, un tempo celebrata dall’Occidente come paladino della democrazia, ha sostenuto oggi davanti alla Corte penale internazionale dell’Onu all’Aja che l’accusa di ‘genocidio‘ nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya è «incompleta ed errata». L’Onu ha apertamente accusato il Myanmar (Birmania) di pulizia etnica.

I problemi nello Stato di Rakhine, dove vivono molti Rohingya, risalgono a centinaia di anni fa, ha commentato Aung San Suu Kyi. La leader birmana, nella sua veste di testimone, ha poi riconosciuto che i militari del Paese (gli stessi che l’hanno tenuta ai domiciliari per anni) potrebbero avere usato una forza sproporzionata a volte, sottolineando che se hanno commesso crimini di guerra «verranno perseguiti».

La Birmania è impegnata nel rimpatrio in sicurezza dei Rohingya che hanno lasciato Rakhine, ha proseguito Suu Kyi, esortando la Corte ad evitare di prendere qualsiasi misura che potrebbe aggravare il conflitto.

Come è noto, migliaia di Rohingya sono stati uccisi e oltre 700.000 si sono rifugiati nel vicino Bangladesh durante la repressione del 2017 nel Paese a maggioranza buddista. Il governo ha sempre sostenuto di dover far fronte alla minaccia di estremisti nello Stato di Rakhine e Suu Kyi ha appoggiato questa versione, definendo le violenze un «conflitto armato interno provocato da attacchi contro postazioni di polizia». La premio Nobel per la pace, che di fatto è la leader del Paese dall’aprile 2016, non ha il controllo sui militari ma è stata accusata dall’Onu di essere loro «complice».

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A Hong Kong manifestanti di nuovo in piazza e chiedono aiuto a Trump

Non si ferma la protesta pro-democrazia. In molti hanno marciato con bandiere americane e slogan in favore del tycoon. Intanto Pechino critica l’Onu per le parole di Michelle Bachelet.

Anche il primo dicembre i manifestanti di Hong Kong sono scesi in piazza per protestare a favore della democrazia. Un ritorno che fa seguito alle due settimane di pausa elettorale. Non sono mancate neanche questa volta attimi di tensione con le forze dell’ordine. In particolare nella tarda notte dove un gruppo di facinorosi è entrato in contatto con la polizia. Lo scontro è stato inevitabile ma non ci sarebbero stati feriti.

L’APPELLO A DONALD TRUMP

Nel corso della manifestazione, oltre agli immancabili slogan contro la censura cinese, in molti hanno marciato con la bandiera americana posta sui cappelli o disegnata sulle maschere che coprono i volti. Ci sono stati anche svariati ed espliciti appelli a Donald Trump. Tra i più gettonati quello in cui si chiedeva al presidente degli Stati Uniti d’America di liberare Hong Kong dal gioco cinese. Mentre un altro recitava «Make Hong Kong Great Again», rimodellando in chiave asiatica il motto con cui il tycoon ha vinto le elezioni presidenziali (Make America Great Again). Alcune centinaia di dimostranti si sono simbolicamente anche diretti al consolato Usa.

PECHINO ATTACCA L’ONU

Intanto Pechino ha accusato l’Alto commissario Onu per i Diritti dell’Uomo, Michelle Bachelet, di «fomentare la violenza radicale a Hong Kong». Bachelet in un editoriale apparso sul South China Morning Post nella giornata di sabato 30 novembre, aveva raccomandato che la governatrice Carrie Lam avviasse un’indagine imparziale sulla polizia per «uso eccessivo della forza» contro i manifestanti e contestualmente aprisse una linea di dialogo con il movimento di protesta per risolvere la crisi. Immediata la replica della Cina che attraverso l’ambasciata di Ginevra, dove si trova la sede dell’agenzia Onu, ha accusato Michelle Bachelet di «esercitare pressione sul governo (autonomo) e avrà il risultato di fomentare i facinorosi a condurre azioni di violenza ancora più radicale».

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No di Hong Kong al ricorso di Wong: non sarà in Italia

L’attivista è sotto indagine per le manifestazioni e il governo dell’isola ha vietato l’espatrio: «Siamo in una crisi umanitaria, Roma ci sostenga».

L’Alta Corte di Hong Kong ha respinto il ricorso di Joshua Wong, attivista di punta pro-democrazia, contro la richiesta di espatrio per un viaggio in Europa a causa del pericolo di fuga. Lo riferisce un post sull’account di Telegram di Demosisto, il partito da lui co-fondato. Wong, libero su cauzione da fine agosto, è sotto indagine per la partecipazione a manifestazioni non autorizzate. Wong avrebbe dovuto recarsi anche in Italia, ospite il 27 novembre a Milano della Fondazione Feltrinelli.

«MODELLO DI HONG KONG VICINO AL COLLASSO»

«Privandomi della libertà di movimento, la Corte ha imposto una punizione aggiuntiva prima che sia provata la colpevolezza», ha detto Wong in un commento sui social. «È chiaro che il modello ‘un Paese, due sistemi’ sia vicino al collasso e sforzi concordati sono necessari per aiutare Hong Kong», ha poi aggiunto Wong, assicurando che continuerà a chiedere il sostegno internazionale.

«SIAMO IN UNA CRISI UMANITARIA»

«Chiediamo al governo italiano che sostenga il processo di democratizzazione, perché non stanno prendendo di mira solo i manifestanti, ma anche giornalisti, soccorritori, infermieri, dottori. Stiamo soffrendo una crisi umanitaria», ha detto l’attivista a Sky TG24 aggiungendo che «da sei mesi a oggi hanno arrestato 5 mila persone, da sabato ne sono arrestate 1.500. Questo dimostra la violazione dei diritti umani, le persone di Hong Kong sono state rapite e portate in Cina».

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Sarà Giacarta la prima città vittima dei cambiamenti climatici

La capitale dell’Indonesia affonda di 25 cm l’anno. Il governo indonesiano ha già stanziato 40 miliardi di dollari. Ma non può salvarla: è costretto a spostarla di migliaia di chilometri.

Affonda al ritmo di 25 centimetri all’anno. E ormai quasi metà della città di trova sotto il livello del mare. Periodicamente una larga parte dell’abitato finisce sott’acqua, paralizzando ogni cosa e provocando danni incalcolabili.

Le autorità hanno messo in campo ormai da tempo un piano ambizioso, il cui costo stimato sfiora già oggi i 40 miliardi di dollari, per correre ai ripari, ben consci che i cambiamenti climatici non aspettano e non daranno tregua alla loro città. Purtroppo non stiamo parlando di Venezia, la città che non appartiene solo all’Italia ma all’intera umanità, invasa e ferita – forse in modo irreparabile – da una marea fuori controllo.

Siamo a oltre 10 mila chilometri di distanza, in un altro Stato – la nazione musulmana più popolosa del mondo – in un altro continente e di fronte a un problema che colpisce quasi 10 milioni di persone (32 considerando i sobborghi): siamo a Giacarta, capitale dell’Indonesia, che ormai da anni affonda lentamente ma inesorabilmente e rischia di diventare la prima “vittima eccellente” del disastro climatico alle porte.

TANTE CITTÀ DEL SUD EST ASIATICO A RISCHIO

La soluzione studiata dalle autorità indonesiane, però, non ha nulla a che fare con il discusso ed eternamente incompiuto Mose. Laggiù stanno già preparando tutto per fare qualcosa che – sicuramente – a Venezia non si potrà mai fare: trasferire totalmente la capitale qualche migliaio di chilometri più a Est, nell’immensa e ancora in buona parte selvaggia provincia del Kalimantan. Per gli scienziati non ci sono soluzioni. Così ministeri e ambasciate si sposteranno nell’isola del Borneo.

Giacarta, Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione

E la capitale dell’Indonesia non è nemmeno l’unica grande metropoli ad essere ad alto rischio “annegamento”: insieme ad essa anche Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione, ad ogni marea, rese sempre più imponenti e minacciose dagli sconvolgimenti causati dal riscaldamento globale, finisco a mollo ogni volta di più, ogni vota più disastrosamente.

Tangerang, area vicina a Giacarta, dopo l’alluvione del 2009 (foto BERRY/AFP via Getty Images).

La situazione di Giacarta, però, appare davvero apocalittica: il 40% della città è già sotto il livello dell’oceano che circonda l’isola di Giava. La zona rivierasca settentrionale è affondata di 2,5 metri nell’ultimo decennio. Come sempre accade, l’intervento umano ha peggiorato la situazione: le “fondamenta” geologiche su cui poggia la città, infatti, sono state indebolite anche dal pompaggio indiscriminato delle falde acquifere. Il governo stima in 7 miliardi di dollari all’anno il danno economico causato da questa situazione.

IN INDONESIA SONO TUTTI D’ACCORDO: AGIRE SUBITO SUL RISCALDAMENTO CLIMATICO

Il presidente Joko “Jokowi” Widodo, in un discorso televisivo, ha spiegato di recente che il governo presenterà al parlamento un disegno di legge per il trasferimento della capitale, iniziando con il trasferimento di uffici e sedi istituzionali, entro il 2024. Il nome della nuova capitale non è stato ancora rivelato, ma il progetto è estremamente ambizioso e il suo costo enorme verrà finanziato per il 19% dallo Stato e il resto attraverso la creazione di partnership miste pubblico-privato o direttamente da privati. A trasferimento avvenuto, non prima di cinque anni, nella nuova capitale abiteranno e lavoreranno circa un milione e mezzo di funzionari pubblici.

In Indonesia sono tutti d’accordo: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo

Secondo Heri Andreas, scienziato del Bandung Institute of Technology indonesiano, «l’innalzamento costante del livello del mare causato dal riscaldamento globale ha già fatto sì che alcune zone della città vengano periodicamente invase da più di 4 metri d’acqua. Non c’è più tempo, dobbiamo intervenire subito per evitare una catastrofe planetaria. Tutti i governi del mondo dovrebbero essere pronti a mettere da parte i loro interessi locali per unirsi nella lotta contro quella che rischia di essere un’autentica apocalisse prossima ventura».

Le strade di Giacarta dopo gli allagamenti avvenuti nell’aprile del 2019.

In Indonesia, un enorme Paese dal passato e dal presente politico spesso turbolento anche più di quello italiano, sono tutti d’accordo sul punto: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo. A Venezia anche l’aula consiliare dove si tenevano i lavori si è allagata qualche giorno fa, e tutti i consiglieri sono dovuto scappare in gran fretta per mettersi in salvo dall’acqua alta eccezionale. Giusto due minuti dopo che la maggioranza, formata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia aveva bocciato gli emendamenti per contrastare i cambiamenti climatici, presentati dall’opposizione.

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Nuove proteste a Hong Kong, migliaia di manifestanti in piazza

Torna la tensione dopo gli scontri dell’11 novembre. La polizia usa i lacrimogeni. Gli Usa: «Condanniamo le violenze».

Le proteste a Hong Kong continuano anche all’indomani dei violenti scontri tra manifestanti e polizia, con una nuova chiamata allo sciopero generale: migliaia di persone si sono ritrovate nelle strade di Central sfruttando la pausa pranzo, bloccando l’area tra Des Voeux Road Central e Pedder Street, a replicare una mossa già vista l’11 novembre. I servizi di trasporto sono tornati sotto pressione, funzionando male e a singhiozzo, mentre piccoli gruppi di giovani attivisti con mascherina sono tornati ad affacciarsi per le strade.

IL FINANCIAL DISTRICT A FIANCO DEI MANIFESTANTI

Nel pomeriggio, la polizia ha usato i lacrimogeni in Central al fine di disperdere i manifestanti pro-democrazia ai quali si erano anche uniti per solidarietà molti dei dipendenti degli uffici del financial district. Il raduno si è concentrato a Pedder Street dove sono stati intonati slogan come «Liberate Hong Kong», «Sciogliete la polizia di Hong Kong, subito!» e il tradizionale «Cinque richieste, non una in meno!». I manifestanti hanno tenuto cortei spontanei come quello di Kwun Tong su Wai Yip Street.

GLI STATI UNITI: «GRANDE PREOCCUPAZIONE, BASTA VIOLENZE»

Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno espresso «forte preoccupazione» sulla violenza crescente di Hong Kong e chiesto maggiore misura sia alle forze di sicurezza sia ai manifestanti. «Gli Usa seguono la situazione con forte preoccupazione», ha commentato in una nota la portavoce del Dipartimento di Stato, Morgan Ortagus, invitando le parti al dialogo. «Condanniamo la violenza di ogni parte, esprimiamo vicinanza alle vittime a prescindere dalle loro inclinazioni politiche e invitiamo tutte le parti – polizia e manifestanti – all’esercizio di maggiore moderazione».

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