La tela è stata rinvenuta nell’intercapedine di una parete della Galleria d’arte moderna Ricci Oddi. L’ipotesi è che si tratti di “Ritratto di Signora”, e che i ladri non l’abbiano mai recuperata.
Potrebbe essere stato ritrovato il dipinto di Gustav KlimtRitratto di Signora rubato nel 1997 alla Galleria d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza. Durante i lavori di ripulitura di un’edera che copriva una parete esterna della stessa Galleria, si è scoperta un’intercapedine chiusa da uno sportello, all’interno della quale c’era un sacco, con dentro il quadro. Una prima expertise, a quanto si apprende, avrebbe confermato che si tratta dell’opera rubata, una delle più ricercate al mondo. Sono in corso ulteriori analisi per certificarne l’autenticità.
L’incredibile ipotesi alla quale stanno
lavorando gli inquirenti è quindi che la tela non si sia mai mossa
dal suo luogo di appartenenza. Il primo obiettivo sarà quello di
confermare la veridicità della tela, ma il direttore della galleria
piacentina Massimo Ferrari ha anticipato alla Libertà che «i
timbri e la ceralacca sono originali».
I ladri potrebbero aver nascosto il quadro nell’intercapedine sul
muro esterno per poi recuperarlo qualche giorno dopo. Poi, però,
forse anche per l’attenzione mediatica e la sorveglianza delle forze
dell’ordine, non ci sono riusciti. Il quadro, insomma, una delle
opere d’arte più ricercate del mondo, potrebbe essere stato nascosto
per 22 anni sul muro esterno della galleria dove era stato rubato,
senza che nessuno lo trovasse e senza che nessuno che era a
conoscenza del nascondiglio andasse a prenderselo.
Il furto, o presunto tale, venne
scoperto il 22 febbraio 1997. L’opera sparì in un uno dei tre giorni
precedenti. La scoperta fu tardiva a causa di un trasloco di questa e
altre nella vicina piazza Cavalli per una mostra su Klimt a Palazzo
Gotico. Da subito apparvero moltissime le zone d’ombra: non fu mai
chiaro se il capolavoro venne fatto uscire dal tetto (la cornice
venne trovata vicino al lucernario) o se i ladri passarono
dall’ingresso principale. Le indagini dei carabinieri del Reparto
operativo di Piacenza portarono a indagare sui custodi della
galleria, la cui posizione venne però ben presto archiviata dal gip
per mancanza di prove. Nel 2016 l’inchiesta venne riaperta dopo il
ritrovamento di tracce del Dna di uno dei ladri sulla cornice. Una
testimonianza parlò addirittura di una pista esoterica, secondo la
quale sarebbe stato utilizzato per un rito satanico.
Il capolavoro fa parte di un gruppo di
ritratti femminili fatti da Klimt negli ultimi anni della sua
attività (tra il 1916 e il 1918), alcuni dei quali rimasti
incompiuti. Il quadro porta con sé un’altra storia: è stato
dipinto sopra un altro ritratto di donna con un cappello, esposto a
Dresda nel 1912, poi dato per disperso. In realtà il maestro
austriaco lo aveva ritoccato trasformandolo nel quadro sparito a
Piacenza nel 1997.
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I richiami al Ready-Made di Duchamp. Gli incroci e le contaminazioni con dadaismo e spazialismo. Storia e significato delle opere dell’artista italiano.
La banana di Maurizio Cattelan affonda le radici in una ruota di bicicletta e in uno scolabottiglie. Centosei anni fa, nel 1913, con la “Ruota di bicicletta” Marcel Duchamp diede inizio all’arte Ready-Made: un tipo di arte in cui l’artista si appropria di un oggetto già disponibile sul mercato, trasformandolo in opera d’arte con la sua firma. Molti storici dell’arte ritengono però che non si trattasse di Ready-Made puro, dal momento che c’era stata manipolazione. Quella ruota, del diametro di 63,8 cm, era stata stata tolta dal mezzo cui era appartenuta e montata su uno sgabello in legno verniciato attraverso le forcelle del telaio. Un “esperimento personale” realizzato a New York, e interpretato come una parodia delle statue classiche. Così anche Cattelan ha preso una banana, l’ha attaccata a un muro con uno spesso nastro adesivo grigio e la ha esposta alla fiera d’arte contemporanea Art Basel Miami col titolo di “Commediante”, vendendola per 120 mila dollari.
L’OGGETTO COMUNE DIVENTA ARTE
La “Ruota di bicicletta”, dunque, sarebbe una premessa allo “Scolabottiglie” del 1914, sempre di Duchamp. L’artista nativo di Blainville-Crevon, in Francia, lo comprò in un negozio. Poi andò negli Stati Uniti e nel 1915 la sorella lo buttò, facendo pulizia nel suo studio. Lui allora, semplicemente, ne comprò un altro. Allo stesso modo, anche la banana originale è stata distrutta. In questo caso non per ignoranza dell’arte, ma come contro-esibizione artistica di David Datuna, che si è fatto filmare. “Artista Affamato”, sarebbe il titolo dell’arte che ha distrutto l’arte. Subito la banana è stata sostituita con un’altra. A trasformare l’oggetto comune in arte è la firma: in questo caso, assieme a un certificato di autenticità, che autorizza l’acquirente al “ricambio” del frutto, quando questo marcisce.
LA “FONTANA” DI DUCHAMP E “AMERICA” DI CATTELAN
A un secolo di distanza, Duchamp dà la mano a Cattelan anche attraverso la parentela che c’è la tra la funzione originale della “Fontana” e di “America”. La prima (Duchamp, 1917) è un orinatoio rovesciato. Come lo Scolabottiglie è stato visto come simbolo alchemico di un albero. La “Fontana” rappresenterebbe l’utero femminile. Non a caso Duchamp l’ha firmata con lo pseudonimo “R.Mutt”, che traslitterato evoca il sostantivo tedesco Mutt(e)R, ossia Madre. Altri pensano invece a un francese muter: cambiare, defunzionalizzare e rifunzionalizzare appunto. Quasi un secolo dopo, “America” (Cattelan, 2016), un gabinetto di oro massiccio. Realizzato da una fonderia di Firenze e collocato in un bagno del Solomon R. Guggenheim Museum per essere utilizzato dai visitatori, è stato rubato il 14 settembre mentre era esposto nel Regno Unito in quel Blenheim Palace dove nacque Winston Churchill.
LA STOCCATA DI MANZONI ALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI
In questo gioco di rimandi, orinatoi e gabinetti evocano la “Merda d’Artista” realizzata il 21 maggio 1961 da Piero Manzoni. Che non è tecnicamente Ready-Made. Primo, perché non c’è acquisto dell’oggetto. Secondo, perché con l’inscatolamento c’è stata una manipolazione. Analoga è però la provocazione, con l’etichetta-certificato di autenticità, in varie lingue. “Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”, è la versione in italiano. E sulla parte superiore è apposto un numero progressivo da 1 a 90, insieme alla firma dell’artista. Il prezzo corrispondente a 30 grammi di oro rappresentava una satira del modo in cui la società dei consumi può far diventare di valore qualunque cosa. Ma in effetti i 220 mila euro cui il barattolo 69 è arrivato il 6 dicembre 2016 in un’asta a Milano vanno ben oltre questo stesso sberleffo. Un amico di Manzoni ha garantito che in realtà dentro c’è solo gesso. Ma nessuno si è mai azzardato a verificare.
GLI INCROCI CON DADAISMO E WHITE PAINTING
Duchamp è stato spesso accostato al dadaismo, ma essendo quel movimento nato nel 1916 ne sarebbe piuttosto un anticipatore. Un dadaista doc come Man Ray nel 1921 realizzò un famoso Ready-Made: “Il dono”, un ferro da stiro con 14 chiodi a testa piatta incollati alla suola. Non solo. Dopo aver realizzato la “Fontana” Duchamp andò per due anni in Argentina. Terra natale di Lucio Fontana, il cui movimento spazialista realizzava un’operazione dalla portata provocatoria parallela al Ready-Made, anche se di tipo diverso. Fontana, infatti, non si affidava a oggetti comuni, ma tornava alla tela dei pittori. Solo che invece di dipingerla la fendeva con coltelli, rasoi e seghe: i suoi famosi “Concetti spaziali”. Più radicale ancora, il White painting neanche dipinge, ma lascia la tela in bianco. Dal “Bianco su Bianco” realizzato nel 1918 dal russo Kazimir Malevich ai “Dipinti Bianchi” fatti dall’americano Robert Rauchsenber nel 1951, l’artista scompare per spiegare che l’arte non deve per forza indicare qualcos’altro. Come spiegava Frank Stella, «quel che vedi è quel che vedi».
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Per cinque secoli il disegno ha nascosto un inganno: è stato realizzato per dare forma in modo criptato alla formula aritmetica e geometrica della divina proporzione, che le botteghe tramandavano solo fra di loro. La scoperta di Roberto Concas.
Trent’anni di riflessione, sette di ricerche per capire che l’Uomo Vitruviano di Leonardo è l’immagine dell’algoritmo segreto che gli artisti hanno usato dal IV al XVIII Secolo per ”certificare” le proprie opere come ispirate dalla divina proporzione.
In altre parole, per cinque secoli il celebre disegno ha nascosto un inganno. È stato realizzato per dare forma in modo criptato alla formula aritmetica e geometrica che le botteghe usavano e tramandavano solo fra di loro, in osservanza dei parametri imposti dalla Chiesa.
Sono queste le conclusioni cui è giunta la ricerca di Roberto Concas, storico dell’arte già direttore dei Musei Nazionali di Cagliari. Il suo lavoro, anticipato in esclusiva all’agenzia di stampa Ansa, sarà oggetto di due volumi editi da Giunti e di una grande mostra che avrà luogo a Cagliari a maggio del 2020, organizzata dal Polo Museale Statale della Sardegna. Tutto con il titolo ”L’inganno dell’Uomo Vitruviano. L’algoritmo della divina proporzione”.
IL DISEGNO VA GUARDATO ALLO SPECCHIO
Ma non finisce qui. Concas si è infatti accorto che il disegno realizzato da Leonardo nel 1490 in realtà contiene due uomini in due diverse età della vita – forse addirittura tre – e va guardato allo specchio per riportare alla luce l’immagine vera del disegno e dare un senso a quelli che finora erano considerati dei semplici errori.
LA GENESI DELLA SCOPERTA DI CONCAS
Concas ha spiegato così la genesi della sua scoperta: «Tutto è iniziato dalle domande che mi sono posto sui Retabli della Sardegna, le caratteristiche pale d’altare. “Perché, mi chiedevo, hanno questa forma particolare a tre?”. Non c’erano risposte. Ho cercato per 30 anni. Poi a un certo punto trovo l’algoritmo che mi fa capire quale sia la parte centrale e quale quella laterale. Ma era solo l’inizio. Nel 2012, guardando il disegno dell’Uomo Vitruviano, noto una proporzione simile nella riga sotto: due parti più piccole, una centrale più grande. È faticoso spiegarlo, ma è stato come aprire una scatola dopo l’altra, ogni soluzione me ne apriva tre insieme, una casistica. Ho iniziato a capire che il disegno contiene due volti. L’occhio destro è di un uomo maturo,quello a sinistra di un volto più giovane. Mi è venuta un’intuizione. Leonardo ha sempre scritto a sinistra e ha imparato usando lo specchio. Anche qui usa lo specchio per ricostruire la figura completa. E le misure mi hanno dato ragione».
PERCHÉ LE MISURE DELLE BRACCIA SONO DIVERSE
Quindi due uomini, e con lo specchio si vede bene, di età diversa, ma disegnati per rappresentare quella che il frate matematico Luca Pacioli definiva come la scienza segretissima della divina proporzione. Un sistema d’insieme «rilevabile con misure micrometriche, regole della geometria piana, calcoli aritmetici e infine con l’uso di una banalissimo specchio», prosegue Concas. Ad esempio «le misure delle braccia, che sono diverse, vengono dal concetto di un numero generatore, 225,5 e 180,5. Facendo sottrazioni o divisioni si ottengono tutte le misure esatte delle due braccia».
LA REGOLA CHE NON DOVEVA ANDARE PERDUTA
Leonardo «temeva che potesse perdersi per stradaquella regola che era stata usata da architetti, artisti, letterati e poeti. Usata per la prima volta nell’Arco di Costantino, nel 315-325 dopo Cristo. Ma anche nella Pietà di Michelangelo e ovviamente nella Gioconda. Erano regole semplici in fondo, come quelle del gioco del calcio, 17 regole semplici. Così anche Raffaello faceva capolavori stando nelle regole. L’algoritmo, dal IV secolo fino al XVIII, serviva a diffondere e difendere le corporazioni. Per essere riconoscibili e certificarsi non bastava disegnare una Madonna, andava fatto secondo le regole segrete, che in modo semplificato si potrebbero definire della doppia spirale, che ha un significato filosofico molto antico». Se Leonardo avesse svelato che L’Uomo Vitruviano conteneva questo segreto, racconta ancora Concas, «lo avrebbero messo al rogo». Un mistero smarrito «quando con l’Illuminismo ha avuto termine il potere della Chiesa e il laicismo ha preso spazio. Ma se ci guardiamo intorno ne troviamo tracce, finora a noi incomprensibili, ovunque».
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La rapina alla Camera del Tesoro del palazzo reale è un attacco al patrimonio culturale della città tedesca. Già ampiamente distrutto e trafugato nella Seconda guerra mondiale. Le opere e la storia.
Non sarà il «furto spettacolare di un miliardo di euro» sparato dai tabloid tedeschi, ma è un altro saccheggio per Dresda, un nuovo furto del secolo. «Una perdita di valore inestimabile, storico e artistico. Per gioielli del genere non esiste un valore finanziario», raccontano dal museo dei Tesori del Castello che fu la residenza dei principi e dei re di Sassonia. Le sue sale dalle Volte verdi (Grünes Gewölbe) dal 2006 sono tornate lo scrigno della maggiore collezione di gioielli in Europa: la volle nel 1723 Augusto II il Forte, il principe (poi re di Polonia) che rese la città “la Firenze sull’Elba“. Da una vetrina spaccata nella notte tra il 24 e il 25 novembre sono sparite proprio tre parure di diamanti e brillanti, in tutto un centinaio di pezzi, del tesoro del principe del rinascimento della Sassonia. Tra i gioielli più pregiati si è salvato il grande diamante verde da 41 carati, al Metropolitan di New York dal 18 novembre.
NELLE VOLTE VERDI 3 MILA GIOIELLI
I tesori del palazzo reale di Dresda contano più di 4 mila gioielli, circa 3 mila dei quali (non tutti esposti) nelle sale della Grünes Gewölbe, con altre opere in oro, argento e preziosi. Per la Germania, e più che mai per la città, la rapina nel museo è uno choc dopo lo choc: Dresda fu rasa al suolo durante la Seconda guerra mondiale, anche parte rilevante del castello andò distrutta e i tesori furono portati a Mosca dall’Armata rossa. Solo anni dopo i gioielli furono restituiti alla Ddr, e le sale interamente ricostruite all’inizio del 2000. Per il museo della Grünes Gewölbe sono stati spesi 45 milioni di euro: con la Pinacoteca dello Zwinger è diventata la maggiore attrazione dei visitatori di Dresda, ma la storia tormentata dei suoi tesori non ha avuto fine. Per i cristiano-democratici che governano il Land la rapina è «un attentato all’identità culturale di tutta la Sassonia».
I PRECEDENTI DEI MUNCH E DEI VAN GOGH RECUPERATI
L’allarme del furto è partito all’alba, attorno alle 5. La Bild ha riportato l’indiscrezione (non confermata) di una centralina elettrica collegata al complesso sabotata nella notte. I ladri – «un gruppo di diversi sconosciuti», ha comunicato il governo del Land – sarebbero poi entrati da una finestra nel museo. Anche per la polizia criminale il caso è «grosso». Ma non è il furto più eclatante di opere d’arte, neanche negli ultimi decenni: fece scalpore, nel 2004, l’assalto al Museo Munch di Stoccolma, da parte di due uomini armati, sotto gli occhi dei visitatori. L’Urlo fu recuperato, ma i danni alla tela si sono rivelati irreparabili. Un altro furto spettacolare fu messo a segno nel 1991 al Van Gogh Museum di Amsterdam, dove un rapinatore chiuso in bagno riuscì a trafugare 20 dipinti del genio olandese, con l’aiuto di un basista. Quadri ritrovati poche ore dopo in un’auto.
La Monna Lisa di Leonardo da Vinci fu portata via dal Louvre nel 1911 dal decoratore italiano Vincenzo Peruggia
LA GIOCONDA RUBATA E RITROVATA
Altri capolavori rubati da gallerie o musei sono riemersi tempo dopo, su segnalazioni o alle aste. Accadde così anche per il furto d’arte di tutti i secoli: la Monna Lisa di Leonardo da Vinci portata via dal Louvre nel 1911. Il decoratore italiano Vincenzo Peruggia si infilò in uno sgabuzzino del museo, dopo la chiusura sfilò la Gioconda dalla cornice e se la infilò sotto il camice, scappando da una porta sul retro. Un atto di «patriottismo», dichiarò un paio di anni dopo, intercettato mentre tentava di rivenderla agli Uffizi. Un altro da Vinci, valutato 70 milioni di euro, sparì da un castello scozzese nel 2003 e fu rinvenuto in una perquisizione a Glasgow nel 2007. Altre opere non sono invece mai tornate a casa, come il Manet e il Vermeer trafugati nel 1990 al Gardner Museum di Boston. O come, a proposito di Germania, la moneta d’oro da 100 chili sparita nel 2017 dal Bode Museum di Berlino.
IL RINASCIMENTO SULL’ELBA
O almeno non sono ancora tornati, ma gli inquirenti dubitano di ritrovare Big Maple Leaf. I quattro autori sono stati arrestati in un mega blitz, ma è probabile che il quintale d’oro da un milione di euro sia stato fuso appena dopo il furto. Anche in questo caso, i ladri sarebbero entrati di notte da una finestra, beffando in un modo o nell’altro il sistema d’allarme: si parlò del «colpo alla moneta più grande del mondo». Quanto al palazzo reale di Dresda, ospita una collezione di gioielli meno nota, per esempio, della Camera del tesoro imperiale di Vienna. Ma come quella dell’Hofburg tra le più antiche e belle d’Europa. Lo splendore neoclassico e barocco, anche degli edifici della città, voluto da Augusto II il Forte ha molto dell’Italia: sotto il suo assolutismo la città sull’Elba visse un rinascimento. Il principe commissionò i lavori ad architetti che avevano studiato il barocco a Firenze, da Michelangelo e dal Bernini.
La Sempergalerie della pinacoteca Zwinger fu progettata ricalcando gli Uffizi, per ospitare centinaia di opere d’arte del 1400, 1550 e 1600
I PALAZZI IN STILE FIORENTINO
Per la cattedrale cattolica, che nella cripta ospita Augusto II il forte e altri membri della casata, fu incaricato l’architetto Gaetano Chiaveri che per il cantiere trasferì a Dresda tutte le maestranze. Diverse ville e palazzi della nobiltà, bombardati nei raid del 1945, furono costruiti sul modello dei palazzi fiorentini. La Sempergaleriedella pinacoteca Zwinger fu progettata ricalcando gli Uffizi, per ospitare centinaia di opere d’arte del 1400, 1550 e 1600, diverse anche del Rinascimento italiano. Della collezione inestimabile di Dresda fanno parte capolavori di Tiziano, Raffaello, del Correggio e del Mantegna: opere accumulate nei palazzi, come i gioielli della Camera del tesoro, per la sete estetica anche del figlio e successore di Augusto II il forte, Augusto III. La rapina al palazzo reale è una nuova ferita per Dresda, per la Germania il «furto peggiore dalla Seconda guerra mondiale».
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La cecità di istituzioni e politica sta condannando a morte un ecosistema che va dalla Laguna ai quadri di Tiziano. Non ha dubbi lo storico dell’arte: «Ci stiamo baloccando con il Mose da 35 anni, quando senza Grandi navi qualcosa potrebbe cambiare».
I marmi della Basilica di San Marco erano appena stati restaurati dopo l’acqua alta del 30 ottobre 2018, quando la marea invase alcune decine di metri quadrati del millenario pavimento a mosaico, di fronte all’altare della Madonna Nicopeia, inondando completamente il battistero e bagnando i portoni in bronzo e le colonne. È passato un anno e San Marco è «a un passo dall’Apocalisse», come ha detto il procuratore della Basilica Pierpaolo Campostrini commentando la marea che ha coperto l’80% della città, una devastazione che ha riportato alla memoria l’Acqua Granda del 1966.
La Basilica è stata invasa dalle acque sei volte negli ultimi 1.200 anni, tre negli ultimi 20. Un dato che dà la tara sul rischio che corre la città «i cui fondali», spiega a Lettera43.it Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa e autore del volume Se Venezia muore (Einaudi), «negli ultimi decenni sono stati scavati fino a 60 metri per far transitare petroliere e grandi navi, senza tener conto degli effetti che questo avrebbe causato sulla dinamica delle maree».
DOMANDA. Eppure sembra ci si accorga delle condizioni in cui versa questa città solo adesso. RISPOSTA. Venezia oggi è una città stesa sul letto di morte, in agonia. E non è colpa solo dei cambiamenti climatici o del destino cinico e baro. È colpa in primis degli uomini che hanno fatto la politica nazionale, delle istituzioni internazionali come l’Unesco e non ultimo del Comune.
Cosa intende? Negli anni c’è stata una incapacità di affrontare i problemi nel modo giusto e questo è evidente non solo da quanto abbiamo visto in questi giorni ma anche dallo svuotamento della città: nel 1955 la Venezia lagunare contava 176 mila abitanti, oggi ce sono appena 51 mila. Una città che perde abitanti è una città condannata. Si registrano circa 1000 abitanti in meno, ogni anno. A Venezia c’è una farmacia che ha un contatore luminoso che tiene conto dei nati e dei morti in città. Ebbene, quel contatore è costantemente in rosso.
Senza abitanti, restano in pochi a prendersi cura della città. Esattamente. Negli anni, nonostante una situazione così allarmante, non si è fatta alcuna operazione a favore dei giovani, per ripopolare la città, o per ridurre il numero delle seconde case. A Venezia ci sono centinaia di appartamenti vuoti. Chi ha una seconda casa a Venezia ci sta mediamente due giorni e mezzo l’anno. Chi ci vive così poco, non può rendersi conto dei problemi. Mi viene in mente Woody Allen: ha un palazzo sul Canal Grande ma ci va pochissimo. Senza scomodare i grandi nomi: se una città non la si abita, come si può prendersene cura?
Un’acqua così alta non la si vedeva dal 1966. L’Acqua Granda, come la chiamano a Venezia, del 1966, fu più alta di 10 centimetri rispetto a quanto abbiamo visto ora. E venne causata dal fatto che si decise di scavare il Canale dei Petroli, per permettere il passaggio delle petroliere dirette a Marghera. Nell’ultimo secolo non si è tenuto conto della condizione delicata di Venezia che ha un rapporto di simbiosi con la laguna: è un ecosistema di cui fanno parte pesci, alghe, vegetazioni, isole, esseri umani e monumenti. Tra un quadro di Tiziano e la Laguna c’è una continuità. Ora negli ultimi decenni si sono scavate le bocche di porto, si è passati da una profondità intorno ai 10 metri a circa 60. E questo perché? Per far transitare prima le petroliere verso Marghera, poi le Grandi navi, per permettere ai turisti di guardare piazza San Marco dall’alto. E questa è una forma di turismo vergognosa. Se mettiamo insieme tutti questi fattori ci rendiamo conto che la vera essenza di Venezia non è più curata da molto tempo.
Quali sono gli effetti dell’acqua di mare sui Beni artistici della città?L’acqua di mare contiene salsedine, capace di corrodere e rovinare normalmente edifici e opere. A questo vanno aggiunti i rifiuti che l’acqua porta con sé, le polveri sottili. A Venezia possiamo dire che è a rischio tutto. La ragione per cui ci occupiamo della Basilica di San Marco è perché è uno dei monumenti più famosi al mondo, ma tutta la città rischia di morire. Secondo il letterato inglese John Ruskin, vissuto a metà Ottocento, la Basilica di San Marco è «il termometro del mondo». Ebbene, con questa invasione delle acque questa affermazione risulta lampante. La piazza e la Basilica sono tra le zone più soggette all’acqua alta ma tutti i monumenti e i palazzi di Venezia sono a rischio.
Nel 1955 la Venezia lagunare contava 176 mila abitanti, oggi ce sono appena 51 mila. Una città che perde abitanti è una città condannata
Gli edifici della città lagunare sorgono su palafitte che formano una vera e propria rete nel terreno e sono soggette a logoramento. Un logoramento che può certamente essere corretto ma con la dovuta manutenzione. E sono decisioni che vanno prese subito. Adesso. C’è un rapporto Unesco del 2011 che non è mai stato veramente reso pubblico, secondo cui prima del 2050 l’acqua alta a Venezia potrebbe essere perpetua e sarà necessario spostarsi e muoversi con le barche in tutta la città. Con l’innalzamento dei mari uno dei primi porti a essere danneggiati sarà proprio quello Venezia, tutto è più a rischio specialmente se è più in basso.
Da 30 anni si parla del Mose come dell’opera che avrebbe risolto o quantomeno arginato il problema dell’acqua alta a Venezia. L’idea del Mose poteva forse essere una buona idea ma è finita per essere una scusa per uno straordinario episodio di corruzione. Non ho un giudizio tecnico sul Mose, però dico alcune cose: doveva essere inaugurato, lo annunciò Bettino Craxi, prima del 1995. Adesso dicono che sarà finito tra altri tre, forse cinque anni. Il costo doveva essere di circa 2 miliardi, siamo arrivati a quasi 8. Secondo un calcolo fatto da un economista come Francesco Giavazzi, di questi 8 miliardi, 2 sono finiti in corruzione. Infine, ho letto sui giornali, una parte di queste barriere sono state costruite anni fa e sarebbero già rovinate ed è possibile che quando sarà inaugurato, sarà subito necessario fare manutenzione alle paratie. E anche su questo aspetto nessuno ha dato cifre certe sui costi annui.
Si è avuta fretta di permettere il passaggio delle Grandi navi ma non di tutelare la città… Questo governo dovrebbe avere il coraggio di nominare una commissione internazionale di altissimo livello incaricata di studiare gli atti relativi al Mose e nel giro di due mesi o tre mesi dire se quest’opera possa davvero funzionare. Ci stiamo baloccando con il Mose da 35 anni. E di contro se non transitassero più le Grandi navi, si potrebbero riportare le bocche di porto all’altezza originaria e forse qualcosa potrebbe cambiare.
Tutti pensano agli effetti del turismo delle Grandi navi, ma non pensano all’inquinamento, al rischio che una di queste navi possa sventrare Palazzo ducale
Alcuni tra gli ultimi sindaci però sulle Grandi navi non hanno mai voluto sentire ragioni. L’attuale sindaco di centrodestra Luigi Brugnaro è un fautore delle Grandi navi. Ma l’altro principale sponsor negli anni scorsi è stato Paolo Costa, ex sindaco che viene dal Pd. Questa armonia tra destra e sinistra ci dice molto del perché Venezia vada puntualmente sott’acqua.
L’obiezione principale è relativa all’indotto in termini di supporto all’economia locale, creato dal turismo delle migliaia di persone che scendono dalle navi da crociera e si riversano in città. Tutti pensano agli effetti presunti del turismo delle Grandi navi, da cui in realtà spesso non scende nemmeno la metà dei turisti, ma non pensano all’inquinamento, al rischio che una di queste navi possa sventrare il Palazzo ducale. E anche ultimamente si è andati vicino a incidenti di questo tipo. Oggi si discute del biglietto di accesso a Venezia che considero una stupidaggine, ma non si pensa a bloccare le Grandi navi. E invece di riportare l’altezza delle bocche di porto alla profondità originaria, c’è qualcuno che vorrebbe costruire un secondo canale verso Marghera. Con tale cecità ci stanno obbligando al fatto che Venezia morirà domani.
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La cecità di istituzioni e politica sta condannando a morte un ecosistema che va dalla Laguna ai quadri di Tiziano. Non ha dubbi lo storico dell’arte: «Ci stiamo baloccando con il Mose da 35 anni, quando senza Grandi navi qualcosa potrebbe cambiare».
I marmi della Basilica di San Marco erano appena stati restaurati dopo l’acqua alta del 30 ottobre 2018, quando la marea invase alcune decine di metri quadrati del millenario pavimento a mosaico, di fronte all’altare della Madonna Nicopeia, inondando completamente il battistero e bagnando i portoni in bronzo e le colonne. È passato un anno e San Marco è «a un passo dall’Apocalisse», come ha detto il procuratore della Basilica Pierpaolo Campostrini commentando la marea che ha coperto l’80% della città, una devastazione che ha riportato alla memoria l’Acqua Granda del 1966.
La Basilica è stata invasa dalle acque sei volte negli ultimi 1.200 anni, tre negli ultimi 20. Un dato che dà la tara sul rischio che corre la città «i cui fondali», spiega a Lettera43.it Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa e autore del volume Se Venezia muore (Einaudi), «negli ultimi decenni sono stati scavati fino a 60 metri per far transitare petroliere e grandi navi, senza tener conto degli effetti che questo avrebbe causato sulla dinamica delle maree».
DOMANDA. Eppure sembra ci si accorga delle condizioni in cui versa questa città solo adesso. RISPOSTA. Venezia oggi è una città stesa sul letto di morte, in agonia. E non è colpa solo dei cambiamenti climatici o del destino cinico e baro. È colpa in primis degli uomini che hanno fatto la politica nazionale, delle istituzioni internazionali come l’Unesco e non ultimo del Comune.
Cosa intende? Negli anni c’è stata una incapacità di affrontare i problemi nel modo giusto e questo è evidente non solo da quanto abbiamo visto in questi giorni ma anche dallo svuotamento della città: nel 1955 la Venezia lagunare contava 176 mila abitanti, oggi ce sono appena 51 mila. Una città che perde abitanti è una città condannata. Si registrano circa 1000 abitanti in meno, ogni anno. A Venezia c’è una farmacia che ha un contatore luminoso che tiene conto dei nati e dei morti in città. Ebbene, quel contatore è costantemente in rosso.
Senza abitanti, restano in pochi a prendersi cura della città. Esattamente. Negli anni, nonostante una situazione così allarmante, non si è fatta alcuna operazione a favore dei giovani, per ripopolare la città, o per ridurre il numero delle seconde case. A Venezia ci sono centinaia di appartamenti vuoti. Chi ha una seconda casa a Venezia ci sta mediamente due giorni e mezzo l’anno. Chi ci vive così poco, non può rendersi conto dei problemi. Mi viene in mente Woody Allen: ha un palazzo sul Canal Grande ma ci va pochissimo. Senza scomodare i grandi nomi: se una città non la si abita, come si può prendersene cura?
Un’acqua così alta non la si vedeva dal 1966. L’Acqua Granda, come la chiamano a Venezia, del 1966, fu più alta di 10 centimetri rispetto a quanto abbiamo visto ora. E venne causata dal fatto che si decise di scavare il Canale dei Petroli, per permettere il passaggio delle petroliere dirette a Marghera. Nell’ultimo secolo non si è tenuto conto della condizione delicata di Venezia che ha un rapporto di simbiosi con la laguna: è un ecosistema di cui fanno parte pesci, alghe, vegetazioni, isole, esseri umani e monumenti. Tra un quadro di Tiziano e la Laguna c’è una continuità. Ora negli ultimi decenni si sono scavate le bocche di porto, si è passati da una profondità intorno ai 10 metri a circa 60. E questo perché? Per far transitare prima le petroliere verso Marghera, poi le Grandi navi, per permettere ai turisti di guardare piazza San Marco dall’alto. E questa è una forma di turismo vergognosa. Se mettiamo insieme tutti questi fattori ci rendiamo conto che la vera essenza di Venezia non è più curata da molto tempo.
Quali sono gli effetti dell’acqua di mare sui Beni artistici della città?L’acqua di mare contiene salsedine, capace di corrodere e rovinare normalmente edifici e opere. A questo vanno aggiunti i rifiuti che l’acqua porta con sé, le polveri sottili. A Venezia possiamo dire che è a rischio tutto. La ragione per cui ci occupiamo della Basilica di San Marco è perché è uno dei monumenti più famosi al mondo, ma tutta la città rischia di morire. Secondo il letterato inglese John Ruskin, vissuto a metà Ottocento, la Basilica di San Marco è «il termometro del mondo». Ebbene, con questa invasione delle acque questa affermazione risulta lampante. La piazza e la Basilica sono tra le zone più soggette all’acqua alta ma tutti i monumenti e i palazzi di Venezia sono a rischio.
Nel 1955 la Venezia lagunare contava 176 mila abitanti, oggi ce sono appena 51 mila. Una città che perde abitanti è una città condannata
Gli edifici della città lagunare sorgono su palafitte che formano una vera e propria rete nel terreno e sono soggette a logoramento. Un logoramento che può certamente essere corretto ma con la dovuta manutenzione. E sono decisioni che vanno prese subito. Adesso. C’è un rapporto Unesco del 2011 che non è mai stato veramente reso pubblico, secondo cui prima del 2050 l’acqua alta a Venezia potrebbe essere perpetua e sarà necessario spostarsi e muoversi con le barche in tutta la città. Con l’innalzamento dei mari uno dei primi porti a essere danneggiati sarà proprio quello Venezia, tutto è più a rischio specialmente se è più in basso.
Da 30 anni si parla del Mose come dell’opera che avrebbe risolto o quantomeno arginato il problema dell’acqua alta a Venezia. L’idea del Mose poteva forse essere una buona idea ma è finita per essere una scusa per uno straordinario episodio di corruzione. Non ho un giudizio tecnico sul Mose, però dico alcune cose: doveva essere inaugurato, lo annunciò Bettino Craxi, prima del 1995. Adesso dicono che sarà finito tra altri tre, forse cinque anni. Il costo doveva essere di circa 2 miliardi, siamo arrivati a quasi 8. Secondo un calcolo fatto da un economista come Francesco Giavazzi, di questi 8 miliardi, 2 sono finiti in corruzione. Infine, ho letto sui giornali, una parte di queste barriere sono state costruite anni fa e sarebbero già rovinate ed è possibile che quando sarà inaugurato, sarà subito necessario fare manutenzione alle paratie. E anche su questo aspetto nessuno ha dato cifre certe sui costi annui.
Si è avuta fretta di permettere il passaggio delle Grandi navi ma non di tutelare la città… Questo governo dovrebbe avere il coraggio di nominare una commissione internazionale di altissimo livello incaricata di studiare gli atti relativi al Mose e nel giro di due mesi o tre mesi dire se quest’opera possa davvero funzionare. Ci stiamo baloccando con il Mose da 35 anni. E di contro se non transitassero più le Grandi navi, si potrebbero riportare le bocche di porto all’altezza originaria e forse qualcosa potrebbe cambiare.
Tutti pensano agli effetti del turismo delle Grandi navi, ma non pensano all’inquinamento, al rischio che una di queste navi possa sventrare Palazzo ducale
Alcuni tra gli ultimi sindaci però sulle Grandi navi non hanno mai voluto sentire ragioni. L’attuale sindaco di centrodestra Luigi Brugnaro è un fautore delle Grandi navi. Ma l’altro principale sponsor negli anni scorsi è stato Paolo Costa, ex sindaco che viene dal Pd. Questa armonia tra destra e sinistra ci dice molto del perché Venezia vada puntualmente sott’acqua.
L’obiezione principale è relativa all’indotto in termini di supporto all’economia locale, creato dal turismo delle migliaia di persone che scendono dalle navi da crociera e si riversano in città. Tutti pensano agli effetti presunti del turismo delle Grandi navi, da cui in realtà spesso non scende nemmeno la metà dei turisti, ma non pensano all’inquinamento, al rischio che una di queste navi possa sventrare il Palazzo ducale. E anche ultimamente si è andati vicino a incidenti di questo tipo. Oggi si discute del biglietto di accesso a Venezia che considero una stupidaggine, ma non si pensa a bloccare le Grandi navi. E invece di riportare l’altezza delle bocche di porto alla profondità originaria, c’è qualcuno che vorrebbe costruire un secondo canale verso Marghera. Con tale cecità ci stanno obbligando al fatto che Venezia morirà domani.
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