L’appuntamento è per il 10 gennaio, poco dopo le 18. L’evento durerà circa quattro ore e sarà visibile dall’Italia.
Il 2020 inizia con un fenomenoastronomico spettacolare. Il 10 gennaio, infatti, poco dopo le 18, ci sarà la prima eclissilunare dell’anno. E sì, sarà visibile dall’Italia. In pratica, questa sera, la Luna sembrerà offuscata da un velo che ne indebolirà la luce, generando un effetto suggestivo. Sarà infatti un’eclissi lunare di penombra, che si verifica quando la Luna passa attraverso la parte più esterna del cono d’ombra che la Terra proietta nello spazio. Il fenomeno astronomico, visibile da Europa, Asia e Africa, durerà circa quattro ore: comincerà alle 18.07, con l’effetto di affievolimento della luce lunare che inizierà sul lato sinistro della Luna, avrà il suo culmine alle 20.10 e terminerà alle 22.10.
SI OFFUSCHERÀ IL 90% DEL DISCO LUNARE
Sarà una delle migliori eclissi lunari di penombra possibili perché al momento massimo dell’evento circa il 90% del disco lunare sembrerà offuscarsi: «Quella è in pratica la percentuale del disco lunare che si troverà all’interno della penombra della Terra», ha detto all’AnsaPaoloVolpini, dell’Unione astrofili italiani (Uai).
LE QUATTRO ECLISSI LUNARI DI PENOMBRA DEL 2020
Quella del 10 gennaio è la prima delle quattroeclissi di penombra previste nel 2020, le altre si verificheranno il 5 giugno, il 5 luglio e il 30 novembre. Quest’anno non ci saranno eclissi lunari parziali o totali che si verificano quando la Luna entra parzialmente o totalmente nel cono d’ombra della Terra.
CHE COS’È L’ECLISSI LUNARE PENOMBRALE
L’eclissi lunare penombrale avviene quando la Luna transita solo ed esclusivamente per la penombra della Terra, senza però essere nascosta dall’ombra. Ci sono due tipi diversi di eclissi lunare penombrale: totale, quando è visibile una piccolissima parte dell’ombra, ma solo se la Luna transita completamente all’interno della penombra; parziale, quando ne viene oscurata solo una parte.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Resi pubblici documenti e mail in cui alcuni dipendenti prendevano in giro le autorità e insabbiavano i difetti di progettazione dell’aereo delle tragedie.
Nuova grana per la Boeing. Dopo le dimissioni il 23 dicembre scorso dell’amministratore delegato Dennis Muilenburg a causa della crisi del 737 Max, sono stati resi pubblici migliaia di email e documenti interni contenenti critiche e prese in giro alle autorità e non solo proprio sul 737 Max, l’aereo ormai a terra da mesi dopo due incidenti mortali che sono costati la vita a 346 persone.
Il 737 Max è stato «progettato da clown e controllato da scimmie», si legge in una delle email dalle quali emerge anche come i dipendenti di Boeing abbiano convinto, anche ricorrendo ad alcuni trucchi, le compagnie aeree e le autorità che non fosse necessario alcun addestramento con simulatori per i piloti del velivolo. Alcuni dipendenti del colosso Usa dunque erano a conoscenza dei difetti di progettazione del Max737. «Non sono ancora stato perdonato da Dio per tutto l’insabbiare che ho dovuto fare l’anno scorso», è scritto in un messaggio del 2018.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
L’isola ribelle al voto, con lo spettro di Hong Kong. Favorita la presidente uscente Tsai Ing-wen sfidata da Han Kuo-yu, leader del Kuomintang filo-Pechino, e dal terzo incomodo James Soong, appoggiato dal patron Foxconn. Le cose da sapere.
Sabato 11 gennaio, quella che per la Cina resta ancora oggi “l’isola ribelle” per antonomasia, Taiwan, andrà al voto per eleggere il presidente della Repubblica.
La Republic of China (ROC, in sigla) – come si auto denominò ai tempi della fuga del “generalissimo” Chang Chai Shek di fronte alle truppe comuniste di Mao Zedong, in contrapposizione all’allora nascente (e vittoriosa) People Republic of China (PRC) che prendeva vita a Pechino – resta ancora oggi la spina nel fianco più dolorosa per il regime cinese.
TAIWAN, LA NAZIONE CHE NON C’È
Una nazione che in realtà assomiglia sempre di più, almeno dal punto di vista del diritto internazionale, a una “nazione che non c’è”, grazie al feroce ostracismo di Pechino che ha praticamente imposto con ogni mezzo ai governi del Pianeta di non riconoscerla ufficialmente, se si eccettuano poco più di una quindicina di Paesi, per lo più staterelli dei Caraibi e africani.
Anche il Vaticano, che da sempre manteneva salde relazioni diplomatiche con Taipei e non con Pechino, ormai stregato anch’esso dal fascino ammaliante della nuova superpotenza globale, pare si appresti a cambiare presto barricata.
A Taipei, capitale di quella che, ai tempi del dominio spagnolo sull’isola, si chiamava Formosa (da hermosa, bella, in spagnolo appunto), non sembrano preoccuparsene più di tanto, mentre ormai la campagna elettorale è alle ultimissime battute.
I TRE CANDIDATI ALLA PRESIDENZA
I due partiti che ancora una volta si fronteggiano sono il vecchio, pluri-trasformista e ormai apertamente filocinese Kuomintang o Partito nazionalista (Kmt), fondato all’epoca proprio da Chang Chai Shek, con il suo candidato, Han Kuo-yu, e il Partito democratico progressista (Dpp) a vocazione fortemente indipendentista guidato della attuale presidente in carica e candidata, Tsai Ing-wen, data per favorita fino al silenzio pre-elettorale imposto ai sondaggi con l’arrivo del nuovo anno. Una donna combattiva e risoluta che ha sempre messo molta paura e procurato molti fastidi a Pechino nel corso del suo mandato. A fare da terzo incomodo, il piccolo ma agguerrito People First Party (Pfp), con candidato James Soong.
TSAI ING-WEN DATA PER FAVORITA
L’andamento del dibattito pre-elettorale in corso ha fatto emergere la differente situazione in cui si trovano Tsai e Han. La presidente, che fino alla sofferta designazione a candidata da parte del suo partito, il Dpp, era apparsa in serio svantaggio nei sondaggi, oggi viene considerata protagonista di una sensazionale rimonta.
La presidente uscente e candidata del Democratic Progressive Party, Tsai Ing-wen (Getty Images).
Secondo gli ultimi dati disponibili (ricordiamo che dal primo gennaio è scattato appunto il divieto di pubblicazione) Tsai sarebbe sopra in vantaggio su Han di circa 10 punti.
IL PATRON DI FOXCONN SOSTIENE SOONG
A scompigliare le carte di questa campagna elettorale taiwanese già di per sé agguerritissima, c’è poi il convitato di pietra, il potentissimo uomo d’affari Terry Gou, l’uomo più ricco di Taiwan, proprietario del colosso cinese Foxconn, prima azienda al mondo nella produzione di componentistica per apparecchiature elettroniche, che tempo fa ha annunciato il suo supporto al candidato presidente James Soong e al suo People First Party.
Il leader del People First Party, James Soon (Getty).
Una presa di posizione davvero ingombrante, che ha pesato molto nel dibattito elettorale e che Gou ha motivato facendo riferimento alla corruzione e all’incapacità di garantire la sicurezza di Taiwan dei due maggiori partiti in lizza, il Dpp e il Kmt.
L’OMBRA DI HONG KONG E IL PESO GEOPOLITICO DEL VOTO
Queste elezioni a Taipei rivestono un ruolo per nulla marginale sugli equilibri geopolitici del triangolo Taiwan-Pechino-Washington, considerando che, oltre al nuovo presidente, verranno eletti anche i componenti del nuovo parlamento.
Si delineerà insomma l’assetto politico di Taiwan per i prossimi quattro anni: un periodo che si prevede cruciale per l’area asiatica, e non solo. Molte cose che avvengono a Taiwan, infatti, disturbano e irritano apertamente la leadership di Pechino, proprio a partire dalla possibilità di svolgere libere elezioni. Il richiamo alla ribelle Hong Kong, che ormai da oltre sei mesi protesta riempendo le strade, proprio per richiedere altrettanta autonomia elettorale e di governo, è fin troppo esplicito, e urticante per Pechino.
Han Kuo-yu, il candidato del filocinese Kuomintang (Getty Images).
INVESTIMENTI ESTERI E LAVORO: LA DOTE DI TSAI
Tra i due candidati principali in lizza, la signora Tsai ha puntato su una situazione economica nel complesso positiva e in crescita, attribuendosene il merito. Gli investimenti esteri a Taiwan sono in forte aumento: i dati forniti dal ministero per gli Affari economici parlano di un +20% su base annua nel periodo gennaio-novembre. Il programma di incentivi per il rientro in patria di aziende che avevano delocalizzato in Cina viene presentato da Tsai come un successo personale: oltre 150 aziende hanno aderito, contribuendo così alla creazione di molti nuovi posti di lavoro. A livello politico, nonostante la perdita di ulteriori alleati diplomatici passati dalla parte della Cina, Taiwan ha visto addirittura rafforzato il sostegno degli Usa a livello politico e militare.
HAN COSTRETTO A DIFENDERE LA SOVRANITÀ DELL’ISOLA
Han, un leader dotato senz’altro di altrettanto – se non persino maggiore, per certi versi – carisma della Tsai, ha assistito invece allo spegnersi inesorabile dei primitivi exploit nei sondaggi della scorsa primavera. A fronte dei successi politici ed economici rivendicati dall’attuale presidente e candidata, nelle ultime settimane si è dovuto piuttosto preoccupare di ribadire come, se eletto, non sarebbe un presidente arrendevole nei confronti della Cina. Nel corso del dibattito elettorale infatti, si è visto più volte costretto ad affermare pubblicamente che la sua priorità sarà quella di difendere la sovranità di Taiwan. La crisi di Hong Kong infatti lo ha messo in seria difficoltà, consentendo a Tsai di ergersi a difensore dell’integrità taiwanese nei confronti della Cina.
PECHINO PER ORA “TOLLERA” LE INTEMPERANZE
In questo scenario il ruolo della potente Cina sembra essere quello, in qualche modo paternalistico, del gigante buono che tollera pazientemente le intemperanze di una provincia ribelle, aspettando il momento in cui le cose – inevitabilmente, secondo i burocrati di Pechino – ritorneranno “al loro stato naturale” e la ribelle Taiwan tornerà nell’abbraccio della madrepatria. Solo il futuro dirà se questa loro convinzione uscirà rafforzata o indebolita dal risultato elettorale a Taipei.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
A seguito del decreto del ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, che stanziando un finanziamento dà il concreto avvio all’istituzione dell’Area marina protetta di Maratea, l’assessore regionale all’Ambiente ed Energia, Gianni Rosa, ha incontrato questa mattina il sindaco Daniele Stoppelli, per approfondire la notizia e condividere un percorso anche informativo che coinvolga la cittadinanza.
L’obiettivo – è stato evidenziato durante la riunione – è arrivare a stabilire insieme, attivando una forte sinergia tra Regione e Comune, una strategia indirizzata ad ottenere le migliori ricadute sul territorio.
Se da un lato vi è sicuramente il valore della tutela dell’ambiente, dall’altro – hanno rimarcato Rosa e Stoppelli – bisogna capire come la nascita dell’area protetta possa diventare un’ulteriore occasione di sviluppo per questa meravigliosa parte della Basilicata.
Al termine, è stato concordato che saranno programmati nuovi incontri e iniziative finalizzate all’approfondimento e alla condivisione di ciò che può significare l’’area protetta per la costa di Maratea e l’intera regione.
Alcune delle più note firme italiane hanno voluto salutare così l’ex presidente della Banca centrale Europea.
Con una pagina a pagamento su il Sole 24 Ore alcune delle più importanti firme del giornalismo nostrano hanno voluto ringraziare Mario Draghi, ex presidente della Banca centrale Europea, per – come si legge – «la grande disponibilità avuta nei confronti dei giornalisti di tutto il mondo». I ringraziamenti sono stati firmati da Giulio Anselmi, Mario Calabresi, Massimo Gramellini, Paolo Mieli, Gianni, Riotta, Gian Antonio Stella, Stella Aneri e Giancarlo Aneri.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Sono 71 le sottoscrizioni depositate in Cassazione. Fonti M5s: «A quanto pare, è arrivato “l’aiutino” della Lega».
Al Senato è stato raggiunto e superato il numerominimo di firme per presentare il quesito del referendum contro il tagliodeiparlamentari. Sono in totale 71 le sottoscrizioni (ne servivano 64) che AndreaCangini (FI), TommasoNannincini (Pd) e NazarioPagano (FI), i tre promotori della consultazione, hanno depositato in Cassazione nel pomeriggio. Secondo fonti parlamentari, in mattinata, sarebbe arrivato un sostanzioso appoggio anche da parte di senatorileghisti.
Dopo la rinuncia di sette senatori a sottoscrivere la richiesta di referendum per il taglio del parlamentari, sono 12 le “new entry” che hanno deciso di aderire, consentendo così la possibilitàdi depositare il quesito in Cassazione. Hanno aggiunto le loro firme: cinque senatori di Forza Italia (Francesco Battistoni, Dario Damiani, Maria Alessandra Gallone, Marco Siclari e Roberta Toffanin), sei della Lega (Claudio Barbaro, Massimo Candura, William De Vecchis Roberto Marti, Enrico Montani e Pasquale Pepe) e uno di Liberi e uguali (Francesco La Forgia).
Come riporta l’Ansa, fonti del Movimento 5 stelle hanno commentato subito l’appoggio dei senatori leghisti alla raccoltafirme per il referendum: «Non hanno resistito alla voglia di tenersi strette le poltrone e a quanto pare è arrivato “l’aiutino” della Lega. Non vediamo l’ora di dare il via alla campagna referendaria per spiegare ai cittadini che ci sono parlamentari che vorrebbero bloccare questo taglio, fermando così il risparmio di circa 300mila euro al giorno per gli italiani che produrrebbe l’eliminazione di 345 poltrone».
MARA CARFAGNA (FI) ATTACCA: «È UN REFERENDUM SALVA-POLTRONE»
«Quello sul taglio dei parlamentari è un referendum salva-poltrone», ha scritto in una nota MaraCarfagna, vicepresidentedellaCamera e deputata di ForzaItalia. «Siamo e saremo sempre all’opposizione di questo governo dannoso, vogliamo andare al voto anche domani, ma vogliamo farlo in totale trasparenza eleggendo da subito un Parlamento più snello. Non abbiamo alcun interesse a sostenere un finto referendum, vogliamo dire la verità agli italiani. Per questo ai colleghisenatori che mi hanno chiesto un parere ho detto: non prestatevi a un giochino di Palazzo che screditerà la politica, squalificherà Forza Italia, resusciterà il populismo», ha proseguito la vicepresidente della Camera nel documento. La Carfagna ha ricordato anche che «la riduzione dei parlamentari è stata approvata con il sì di Forza Italia appena tre mesi fa, dopo quattro letture» e che il partito è «sempre favorevole al taglio delle poltrone» e che il presidente SilvioBerlusconi «è stato tra i primi a volere una riforma costituzionale di questo tipo». Mara Carfagna ha poi concluso: «Chi vuole il referendum per rimandare il taglio dei parlamentari lo dica apertamente, ci metta la faccia e non utilizzi giochi di palazzo».
SUL REFERENDUMStamattina ho ritirato la firma sul referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. L'ho ritirata,…
CHI HA RITIRATO LA FIRMA PER IL REFERENDUM SUL TAGLIO DEI PARLAMENTARI
C’è anche chi ci ha fatto dietrofront, ritirando la propria firma, come i senatori Mario Michele Giarrusso (M5s), FrancescoVerducci (Pd) e VincenzoD’Arienzo (Pd). «Stamattina ho ritirato la firma sul referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. L’ho ritirata, perché la mia posizione è stata strumentalizzata da alcuni e travisata da altri», ha scritto il senatore pentastellato. Al contrario, i dem hanno cambiato idea in conseguenza «di un fatto politico nuovo» e cioè la presentazione di quella proposta di legge elettorale proporzionale, che fin dall’inizio era stata chiesta dal Pd in relazione al taglio dei parlamentari.
LA RACCOLTA FIRME DEI RADICALI
Intanto il Partitoradicale ha raccolto 669 firme per promuovere un referendum sulla riforma che taglia il numero dei parlamentari. Peccato che ne sarebbero servite 500 mila. Le sottoscrizioni sono state comunque depositate in Cassazione. «Abbiamo voluto verbalizzare la violenta censura attuata dai media e dal servizio pubblico – ha spiegato MaurizioTurco, il segretario del Partito radicale – ai quali si era rivolto per la prima volta nel discorso di fine anno il Presidente della Repubblica». Turco si è anche detto contrario alla riforma «che prevede la cessione di rappresentanza da parte dei cittadini».
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Dopo essere volato in Siria e in Turchia, il presidente russo ha incontrato Merkel e si prepara a ospitare a Mosca l’incontro tra Haftar e al Serraj. Un iper-attivismo che condivide con Erdogan, nonostante siano spesso su fronti contrapposti. E che è convinto di poter esercitare anche con Teheran.
Dopo aver portato a casa con l’incontro con Recep Tayyip Erdogan il cessate il fuoco in Libia in cambio al non casuale via operativo al gasdotto russo-turco TurkStream, e aver visto Angela Merkel e il suo ministro tedesco degli Esteri Heiko Maas, ora Vladimir Putin si appresta a ospitare a Mosca Khalifa Haftar e Fayez al-Serraj per firmare i termini della tregua.
LO ZAR IN SIRIA POI A ISTANBUL
L’agenda di inizio 2020 del presidente russo è stata fitta: prima dell’incontro con Merkel, il 7 gennaio era volato a sorpresa in Siria, a parlare con il presidente Bashar al Assad, alleato del regime filo-iraniano. L’indomani aveva poi raggiunto Istanbul per mediare con l’omologo turco una spartizione della Libia, sulla falsariga di quanto concordato sulla Siria. Il prezzo dei negoziati politici attraverso l’hub del Cremlino è sempre economico e militare: un’arma di ricatto che i diplomatici degli altri governi e dell’Onu non hanno con gli interlocutori. Perciò sulla Libia come per il conflitto siriano, Erdogan e Putin si sono trovati immediatamente d’accordo, nonostante armino da tempo fronti contrapposti.
Erdogan e Putin.
IL PATTO LIBICO TRA ERDOGAN E PUTIN
Per attenuare l’appoggio degli islamisti di Tripoli e di Misurata, sotto il cartello della Fratellanza musulmana, il leader turco chiede la garanzia di conservare e allargare l’influenza neo-ottomana in Libia su una fetta accettabile di territori, almeno nella Tripolitania. E, quel che più conta, di bloccare il gasdotto concorrente EastMed con il TurkStream per portare gas russo all’Europa dalla Turchia.
L’altra pipeline è concepita per far arrivare il gas in Europa (attraverso Grecia e Cipro) dai nuovi giacimenti offshore israeliani. Una parte di mare ricca di risorse inesplorate dove, più a Ovest, opera anche Eni con concessioni di Cipro. E, più a Sud, nel maxi giacimento egiziano di Zohr.
LA CORSA TURCA AL GAS OFFSHORE
Più che qualche pozzo in Libia, il colpo azzardato da Erdogan è sfilare il gas offshore nel Mediterraneo al blocco avversario che arma il generale libico Khalifa Haftar. Arrivato all’offensiva finale contro il governo di Tripoli, Haftar ha dalla sua parte l’aviazione dell’Egitto e degli Emirati Arabi, finanziati dall’Arabia Saudita. Ma da qualche anno è anche la Russia a far avanzare l’ex comandante gheddafiano, sia con materiale bellico sia con mercenari russi della Wagner Group. Certo non prenderà bene una spartizione turco-russa della Libia, ma Haftar dipende anche dalle armi del Cremlino. E a lungo termine il metano dalla Turchia all’Ue vale più delle commesse di armi.
Vladimir Putin e Hassan Rohani, presidenti di Russia e Iran.
IL POTERE DELLE ARMI DI RUSSIA E TURCHIA
Il potere militare di Putin e di Erdogan in Libia ha reso ininfluenti i summit con Haftar di Giuseppe Conte. Di conseguenza il premier rivale di Tripoli Fayez al-Serraj lo ha disertato. Anche Erdogan, in sfida alla Nato, negli ultimi anni è diventato un acquirente dei sistemi antimissili e di altri armamenti dalla Russia. Ma più in generale Turchia, Russia e Iran sono storici partner commerciali ed economici: non a caso, Putin ed Erdogan si sono ricompattati anche nel condannare lo strike di Donald Trump contro Qassem Soleimani. Ben più di Ankara, Teheran è un alleato dell’asse dei non allineati capeggiato da Mosca. Ma paradossalmente per Putin sarà più dura incidere sulla crisi con l’Iran.
LA DIFFICILE MEDIAZIONE CON L’IRAN
La Repubblica islamica si espande militarmente in Medio Oriente in modo autonomo dal Cremlino, attraverso le forze d’élite all’estero (al Quds) dei Guardiani della rivoluzione che erano guidate da Soleimani. Propaga nella regione un sistema religioso radicalmente diverso dal modello culturale russo. Il punto di contatto con Putin è l’autoritarismo. Quello di distacco un orgoglioso nazionalismo. L’ateismo russo è da sempre profondamente contestato dagli ayatollah sciiti, gelosi della loro sovranità. Ma Putin è convinto di avere margini di mediazione anche con Teheran, mantenendo aperto il canale dell’Iran con l’Ue che vuole evitare l’uscita annunciata dall’accordo internazionale sul nucleare del 2015.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
In caso di fumata nera, scatterà la prorogatio del presidente in carica. Non mancano le candidature e le auto-candidature. Da Melandri, Bray e Rutelli fino a Boeri, Christillin e Cicutto.
Ultima riunione venerdì 10 dicembre del Cda della Biennale in carica. Dalla prossima settimana scatta la prorogatio del presidente Paolo Baratta e dei consiglieri, soluzione di ripiego per una politica che non riesce a trovare l’intesa su nulla, dalle nomine Rai (bloccate da mesi) ai vertici delle Autoritàdella Privacy e Tlc.
Riunione veneziana last minute dunque necessaria per nominare il curatore della Biennale Arte 2021, nomina rimandata da novembre scorso in attesa delle scelte del governo sui vertici di Ca’ Giustinian ma non più rinviabile visti i tempi necessari per selezionare in giro per il mondo gli artisti che esporranno all’Arsenale e ai Giardini.
I PAPABILI: DA MELANDRI A BRAY, FINO A BOERI E CHRISTILLIN
Nel frattempo, pur nelle nebbie partitiche, fioccano le candidature e le auto-candidature alla presidenza. Ex ministri come Giovanna Melandri, Massimo Braye Francesco Rutelli. Personaggi noti come l’architetto Stefano Boeri e la torinese Evelina Christillin. Esperti come il presidente dell’Istituto Luce Roberto Cicutto. Tutti stanno cercando di convincere il ministro della Cultura Dario Franceschini a rompere il ghiaccio e a procedere con le nomine.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
L’azienda grafica campana Agb, controllata dal presidente di Confindustria, si trova infatti in cattive acque. Avviato un piano di ristrutturazione.
Arti Grafiche Boccia alle prese col debito. L’azienda grafica campana controllata dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia si trova infatti in cattive acque. Tanto che a inizio 2020, come riporta il quotidiano Milano Finanza, a Salerno nella sede legale di Agb è stata indetta una riunione del consiglio d’amministrazione presieduta dal presidente Orazio Boccia che di Vincenzo è il padre. All’incontro erano presenti anche i due figli: il già citato presidente di Confindustria e Maurizio.
COSA RIGUARDAVA LA RIUNIONE DI AGB
Durante il meeting si è deciso di, vista la crisi societaria in cui si trova Agb, di depositare in tribunale una domanda ex articolo 182 della legge fallimentare «affinché possa essere concesso dal tribunale competente il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione non concordati». La società ha intanto avviato un percorso di ristrutturazione attraverso un nuovo piano industriale e finanziario. Nel 2017, ultimo bilancio disponibile, l’Agb con una perdita di 3 milioni di euro.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Il ministro dell’Economia, in cambio del suo appoggio alla nomina, ottiene il sostegno di Italia viva alla sua candidatura nel collegio Roma 1 per trovare il sostituto di Gentiloni. Elezioni che però si terranno dopo le Regionali. E tutto può ancora succedere.
Luigi Di Maio ha formalmente messo il veto sul ritorno di Ernesto Maria Ruffini alla guida dell’Agenzia delle Entrate. E per questo rischia di perdere ancora una volta a faccia.
Il leader 5 stelle ha fatto sapere per le vie brevi al ministro dell’Economia che è nettamente contrario al rientro di Ruffini nell’Agenzia. E Roberto Gualtieri, sulle prime, non sapeva come uscirne. Poi, tutto è cambiato grazie a uno scambio.
LA COMPENSAZIONE CHIESTA DAL MINISTRO DELL’ECONOMIA
Quale compensazione per spedire Ruffini all’Agenzia delle Entrate, Gualtieri ottiene il sostegno di Italia viva alla sua candidatura nel collegio Roma 1. E le elezioni si terranno il primo marzo prossimo. Serviranno per trovare un sostituto di Paolo Gentiloni spedito a Bruxelles.
Ruffini, infatti, non ha mai fatto mistero della sua amicizia con Matteo Renzi. E forte di questo sostegno ha finora fatto la voce grossa al ministero. Vuole assolutamente tornare sulla poltrona dalla quale è stato cacciato con l’epurazione avviata dal Conte 1. Ora, però, vorrebbe costringere il Conte 2 a rimangiarsi gli atti dell’estate del 2018, vista la circostanza che “Giuseppi” si regge in piedi anche con i voti di Renzi. Sottobanco, però, ha lavorato a favore della candidatura di Gualtieri in sostituzione di Gentiloni. Un’azione, a vantaggio della sua nomina, resa più agevole dalla scelta di Palazzo Chigi di scaricare (solo formalmente) la patata bollente sul Mef.
A complicare le cose, poi, ci s’era messo il veto di Di Maio. A risolvere la questione (in chiave anti Giggino) è arrivato Renzi. Che pur di vedere Ruffini sulla poltrona delle Entrate, e pur di rinsaldare i rapporti con il Pd, ha promesso il suo sostegno a Gualtieri. Nella sostanza si tratta di incassare subito la nomina di Ruffini e di promettere, in futuro, il voto di Italia viva a Gualtieri.
LO SPARTIACQUE DELLE REGIONALI
Calendario alla mano, il voto di Roma 1 arriva dopo il 26 gennaio. E tutto può ancora succedere. Nell’incertezza, le nomine delle agenzie fiscali restano al palo. A cominciare da quella di Alessandra Dal Verme per il Demanio, che spinge non fosse altro per potersi avvicinare a casa, luogo nel quale è solita tornare a metà giornata per un pranzo frugale e un pisolino. Al ministero dell’Economia, come a Palazzo Chigi, sperano di affrontare il tema dopo le elezioni regionali. Come se queste fossero lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Tant’è che al Mef, su indicazioni del Pd, sono alla disperata ricerca di iniziative e misure a sostegno dell’Emilia-Romagna, visto che considerano la Calabria ormai persa. Lo stesso Gualtieri si spenderà per la campagna elettorale di Stefano Bonaccini, anche se non si capisce a quale titolo, visto che il governatore uscente ha tolto il simbolo del Pd dai suoi manifesti.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Se volete evitare il fallimento di una banca aumentate le quote di partecipazione degli istituti al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi. Perché stare sul mercato è una cosa seria e richiede correttezza, professionalità e onestà.
La Divina Commedia è sempre attuale. Ma gli ultimi capitoli non sono stati scritti da Dante ma dalla storia (e dalla cronaca) e riguardano i nostri banchieri, peccatori condannati, in base alla legge del contrappasso, a scontare una pena simile alla colpa. È quanto sta avvenendo negli ultimi anni per le banche che hanno dovuto aderire obbligatoriamente al Fondo interbancario di Tutela dei Depositi.
Ricordiamo che il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd) è un consorzio di diritto privato, disciplinato dal Decreto Legislativo 24 marzo 2011, n.49, che ha recepito la Direttiva 2009/14/CE, supervisionato dalla Banca d’Italia, cui devono obbligatoriamente aderire tutte le banche italiane aventi come forma societaria la Società per Azioni, e le banche extracomunitarie (che hanno filiali in Italia) che non aderiscano a sistemi di garanzia equivalenti. Non vi devono aderire le banche di Credito Cooperativo, che devono però al Fondo di Garanzia dei Depositanti del Credito Cooperativo, regolato dalla stessa normativa e con funzioni analoghe.
La finalità del Fondo è di tutelare i risparmi (non gli investimenti) dei clienti di banche che dovessero trovarsi in situazioni di insolvenza, quindi depositi in conto corrente, conti di deposito, certificati di deposito nominativi, libretti di risparmio nominativo e assegni circolari, garantiti in caso di fallimento dell’istituto di credito fino a 100 mila euro. Azioni, obbligazioni, pronti conto termine emessi dalla banca in liquidazione coatta, non rientrano nell’oggetto della tutela offerta dal Fitd. Nessuna scelta, nessuna opzione. Se un tuo collega, caro banchiere, ha gestito male (eufemismo) la sua banca, tu sei costretto a pagare le sue inefficienze! Il meccanismo del consorzio prevede infatti che le banche versino i loro contributi soltanto in caso di necessità (“ex post”) a chiamata entro 48 ore. L’impegno oscilla tra lo 0,4% e lo 0,8% dei fondi rimborsabili (la massa totale dei depositi presenti nelle filiali degli istituti italiani) di tutte le consorziate.
IL MERCATO NON DEVE PRIVATIZZARE GLI UTILI E SOCIALIZZARE LE PERDITE
In questi giorni ho sentito i direttori generali di due piccole banche che smadonnavano per dover assicurare la sopravvivenza di Banca Popolare di Bari con un contributo di circa 100 mila euro ciascuno. E si tratta di due piccole banche sane ed efficienti. Immaginate quanto possa pesare nel conto economico di grandi banche in difficoltà il salvataggio di una consorella in default? Milioni di euro che mettono in pericolo la vita della stessa banca soccorrente! E se, tra le varie misure più volte proposte su queste colonne, si pensasse di regolamentare un settore praticamente devastato anche aumentando la quota di partecipazione delle banche al Fondo e riducendo al minimo l’intervento dello Stato?
Se una banca è fuori mercato, allora fatela salvare dalle altre banche. Altrimenti che fallisca!
In tal modo aumenterebbero le pene all’interno del girone dantesco. La legge del contrappasso rappresenterebbe una sorta di “mano invisibile”, grazie alla quale, in una economia liberista, la ricerca egoistica del proprio interesse gioverebbe a se stessi e all’interesse dell’intero settore tentando di riequilibrarlo attraverso organi di controllo ricettivi agli input che vengono da quei manager che oggi bestemmiano turco perché efficienti, liberi, indipendenti e creditori nei confronti di Bankitalia che ha, invece, chiuso più di un occhio, ad esempio nella individuazione dei requisiti di onorabilità, nei confronti della mala gestione della maggior parte dei banchieri.
Ribadiamo che il mercato non deve più essere il luogo dove si privatizzano gli utili e si socializzano le perdite. Se una banca è fuori mercato, allora fatela salvare dalle altre banche. Altrimenti che fallisca! La prossima volta si eviterà di gestirla in maniera scorretta, spavalda e clientelare. Lo Stato non può fare tutto, né può continuare a essere il padre generoso che salva i suoi figli spericolati e scapestrati. È arrivato il momento di far capire che stare sul mercato è una cosa seria e richiede correttezza, professionalità e onestà. Perché poi lo Stato siamo noi che pagheremo le tasse per salvare quelle catapecchie che sono ormai diventate le banche del nostro Paese.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Germanicum. Jobs Act. Articolo 18. Dossier Alitalia e Autostrade. Tutti i mal di pancia della sinistra, socia di minoranza del governo giallorosso.
All’improvviso, l’emergenza più impellente da risolvere in casa giallorossa nei primi giorni del 2020 è diventata trovare una nuova legge elettorale per pensionare il Rosatellum, la norma vigente che ha avuto la sua epifania alle Politiche del 2018 mentre ora viene disconosciuta da tutti, a iniziare dal Pd.
Al fotofinish il Partito democratico e il Movimento 5 stelle sono riusciti a presentare il testo alla Camera prima che la Corte Costituzionale si pronunci sull’ammissibilità del referendum leghista con l’obiettivo di disinnescare una potenzialmente insidiosa consultazione popolare finalizzata a ripristinare il maggioritario.
La bozza, però, non piace a tutti gli alleati: a puntare i piedi è Liberi e uguali, l’alleato finora più fedele e oscurato dalle continue rivendicazioni di Italia viva. Qualcosa, invece, si muove anche alla sinistra del Pd e la legge elettorale potrebbe non essere l’unico fronte che potrebbe aprirsi nel corso dell’anno.
I DUBBI SULLA LEGGE ELETTORALE
La deadline è appunto il 15 gennaio, termine entro cui è prevista la pronuncia della Consulta. Da qui la necessità di anteporre il tema su tutti gli altri che affollano l’agenda di una maggioranza ancora in cerca d’autore. L’anno è iniziato da sole 96 ore e già Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati a Palazzo Chigi proprio per discutere della riforma, già ribattezzata Germanicum. Un vertice di appena 45 minuti senza renziani e senza Leu, utile a comunicare che tra i due principali azionisti del Conte bis c’è la comune volontà di disegnare assieme le future regole del gioco. Regole che rischiano di escludere però Liberi e uguali, che da mesi ribadisce la propria predilezione per un impianto spagnolo (inviso però a Italia viva) e, soprattutto, teme le conseguenze dello sbarramento al 5%.
Un timore che lo ha portato ad addurre motivazioni peculiari. La senatrice di Leu Loredana De Petris qualche tempo fa aveva dichiarato: «L’ultima volta, con la soglia al 3%, siamo passati solo noi. Alzandola al 5, in quanti entrerebbero in parlamento? Cinque? Anche Forza Italia sarebbe a rischio…».
LAVORO: RIPRISTINO DELL’ART. 18 E SUPERAMENTO DEL JOBS ACT
Potrebbe essere stata proprio la decisione del Pd di sacrificare Leu sull’altare della speditezza dei lavori a spingere il ministro della Salute Roberto Speranza a riaprire l’annosa questione della regolamentazione del diritto del lavoro. «Al tavolo della verifica dovremo trovare il coraggio di correggere radicalmente gli errori commessi sul mercato del lavoro», ha dichiarato al Corsera.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro della Salute Roberto Speranza.
L’accondiscendenza dimostrata finora da Leu non paga e Speranza lo dice a chiare lettere: «Renzi chiede di rivedere reddito e Quota 100 e i 5 stelle non sono contenti. Io chiedo di rivedere il Jobs act. Non siamo un governo monocolore». E sono proprio i renziani, artefici della riforma, i più risentiti, come dimostra l’avvertimento arrivato, sempre dalle colonne del Corriere della Sera, dalla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova: «La priorità è far ripartire il lavoro e l’economia, non gingillarsi con il Jobs Act che il lavoro lo ha creato. Non servono slogan, servono soluzioni».
MES, L’OLTRANZISMO SOVRANISTA DI FASSINA
C’è poi un altro tema che potrebbe tornare a tenere banco nelle prossime settimane, quando si acuirà lo scontro in vista delle Regionali emiliano-romagnole e calabresi: la nostra eventuale adesione al Meccanismo europeo di stabilità (Mes). A dicembre la maggioranza aveva solo rinviato all’anno nuovo la decisione se continuare a fare parte o uscire dal Fondo salva-Stati. Decisione che adesso dovrà essere presa: il 20 gennaio prossimo, infatti, dovrebbe tenersi l’Eurogruppo per procedere con la ratifica dei Paesi interessati e non sembrano esserci spazi né per un ulteriore rinvio né per eventuali correzioni. Il presidente dell’organismo, l’economista portoghese Mario Centeno, era stato chiaro: «La decisione era stata presa in giugno. Il testo non si tocca, non c’è motivo per farlo, c’è già l’accordo politico». La firma potrebbe esporre il governo alle facili bordate di Lega e Fratelli d’Italia. E se il M5s potrebbe ingoiare la pillola amara, non è del medesimo avviso Leu, almeno per voce di Stefano Fassina che, è noto, negli ultimi tempi ha lavorato sodo per dare una casa, Movimento patria e costituzione, ai sovranisti di sinistra (ammesso esistano).
Su Twitter l’ex viceministro all’Economia parla di «potenziali gravi conseguenze per i lavoratori» e sostiene che la riforma «renda il default e la ristrutturazione del debito non l’eccezione ma uno strumento ordinario», spronando il Pd a essere «meno subalterno all’Europa».
SU AUTOSTRADE E ALITALIA ASSE LEU E M5S
Ci sono poi altri due possibili punti di frizione tra i dem e Leu che rischiano di avvicinare gli esponenti di Liberi e uguali ai 5 stelle: il dibattito sulla possibile revoca delle concessioni ad Autostrade e quello sul futuro di Alitalia. Quanto al primo, benché lo stesso Giuseppe Conte sembri sposare la proposta del Pd e di Italia viva – una maximulta da fare pagare alla società del gruppo Atlantiacontrollata dalla famiglia Benetton -, Liberi e uguali non demorde. Sempre Fassina ha definito «immorali» le concessioni vigenti, in quanto «fatte scrivere a garanzia di enormi rendite». Quindi, via Twitter, ha definito la linea, mai così vicina a quella dei pentastellati più oltranzisti: «Avanti tutta con le revoche!».
Situazione simile su Alitalia dove, seppur in formula temporanea (ma in Italia, si sa, non c’è nulla di più permanente di ciò che nasce come provvisorio), Leu batte la strada della nazionalizzazione. Fassina, intervistato da Radio Radicale, ha chiesto di «chiudere l’amministrazione straordinaria e costituire una Newco in cui partecipi allo Stato per procedere entro 24 mesi alla scelta di un partner strategico», ritenendo il piano industriale del consorzio Ferrovie dello Stato, Atlantia e Delta «un “piano biennale di fallimento”, nonostante l’enorme numero di esuberi che prevedrebbe».
I TENTATIVI DI DIALOGO DEL PD
Insomma, le convergenze tra Leu e M5s potrebbero impensierire il Pd che, da parte sua, non ha mancato di fare arrivare segnali di disgelo che non si vedevano dai tempi della fuoriuscita di Bersani & Co dalla Ditta. Come per esempio la recente partecipazione di alcuni dem di spicco (su tutti Graziano Delrio e Andrea Orlando) a un seminario su Stato e mercato organizzato da Alfredo D’Attorre. L’intenzione sembra quella di evitare che Leu si avvicini troppo ai 5 stelle, ricordando all’alleato le origini comuni. E, soprattutto, ricordandogli che ormai Matteo Renzi è uscito dal Partito democratico.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Il parlamento del Regno Unito ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico del programma. Un nuovo accordo andrà rinegoziato.
Arrivederci Erasmus. Nelle ore in cui è arrivato il via libera definitivo alla Brexit, il parlamento britannico ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito il rinnovo automatico dello storico programma di scambio tra studenti europei dopo l’uscita dall’Unione europea. Non è un addio, si è affrettato a precisare il governo di Londra bersagliato dalle critiche, ma quasi. Con il voto di ieri sera, oscurato dall’annuncio shock di Meghan e Harry, Erasmus+ (come si chiama da qualche anno) finirà nel calderone dei dossier da affrontare nei futuri negoziati con Bruxelles. In pratica, il girone infernale del periodo di transizione, quando ci saranno questioni ben più impellenti da risolvere. Il voto ai Comuni era atteso ed in linea con la promessa del premier Boris Johnson di mettere fine alla libertà di movimento dopo la Brexit.
LA PROTESTA DA ENTRAMBE LE SPONDE DELLA MANICA
E tuttavia ha suscitato reazioni di protesta da entrambi i lati della Manica. Scatenando l’indignazione soprattutto di chi l’Erasmus l’ha vissuto e lo ricorda a distanza di anni come l’esperienza più formativa della propria vita. «Ho trascorso un anno incredibile a Friburgo nel 1999. Sono così arrabbiata che questa possibilità sia stata strappata agli studenti britannici», scrive Laura su Twitter. «Grazie all’Erasmus sono riuscita a studiare a Parigi e trovare il mio primo lavoro da giornalista. Ha trasformato la timida ventenne che ero…», racconta Ros. «L’Erasmus mi ha resa quella che sono oggi. Ho il cuore spezzato», dice la professoressa Tanja Bueltmann.
LONDRA PROVA AD ABBASSARE I TONI
Il governo britannico, prima per bocca del sottosegretario all’Istruzione Chris Skidmore, poi con un comunicato ufficiale, ha provato a placare gli animi. «C’è l’impegno a mantenere i rapporti accademici con l’Ue anche attraverso l’Erasmus+. Vogliamo assicurarci che gli studenti britannici e quelli europei possano continuare a beneficiare dei rispettivi sistemi educativi», è scritto nella nota dove tuttavia si precisa «se sarà nei nostri interessi farlo». Al programma partecipano anche Paesi non membri dell’Unione europea come Norvegia, Serbia e Turchia, oltre a Paesi partner che prendono parte solo ad alcune attività come Albania, Egitto, Israele, Russia. Ma non potendo usufruire dei fondi comunitari, i Paesi che decidono di aderire devono stanziare finanziamenti di tasca propria. Sarà «nell’interesse» del Regno Unito farlo?
NO COMMENT DA BRUXELLES
Da Bruxelles nessun commento sulla decisione, a larghissima maggioranza, dei Comuni. Lo scorso marzo, in prossimità della prima scadenza della Brexit e per fronteggiare un eventuale no-deal, il Consiglio europeo aveva adottato un pacchetto di misure d’emergenza che garantivano agli studenti Erasmus di concludere il loro percorso. Ma solo fino alla fine del 2020. Nessuno sa cosa accadrà alla scadenza del periodo di transizione.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
A tre giorni dalla scadenza del 12 gennaio, si tirano indietro quattro senatori di Forza Italia vicini a Mara Carfagna. Ma le defezioni sono almeno otto. Ora diventa cruciale il ruolo della Lega, che potrebbe decidere di invertire la rotta.
Il destino del referendum contro il taglio dei parlamentari è appeso a una manciata di firme. A tre giorni dalla scadenza del termine per la presentazione della richiesta, prevista per il 12 gennaio, si sono infatti tirati indietro quattro senatori di Forza Italia vicini a Mara Carfagna. Ma le defezioni sarebbero di più, almeno otto. E sono pronti al ritiro anche tre senatori del Pd.
La consultazione rischia quindi di saltare: se ciò accadesse, la legge entrerebbe subito in vigore. Ma a “salvare” il referendum potrebbero pensarci altri senatori di Forza Italia, o più probabilmente della Lega. Perché in un intrecciopericolossimo per le sorti del governo, solo se ci sarà il referendum sul taglio dei parlamentari ha buone probabilità di tenersi anche il referendum promosso dal Carroccio per il maggioritario in tema di legge elettorale, su cui il 15 gennaio è chiamata a esprimersi la Corte Costituzionale.
La maggioranza vuole provare a evitarli entrambi. Da una parte pressa i senatori per il ritiro delle firme, dall’altra deposita il “Germanicum”, una proposta di legge elettorale proporzionale. Mentre prosegue il lavoro sotterraneo per “blindare” la maggioranza e metterla al riparo dagli smottamenti nel M5s, magari con l’ingresso di un gruppetto di senatori in uscita da Forza Italia.
LE APERTURE DI CONTE
Tra i parlamentari non sono passate inosservate le parole con cui il premier Giuseppe Conte ha risposto a una domanda del quotidiano IlFoglio sulla possibilità che una parte degli azzurri possa appoggiare maggioranza, votando con Pd e M5s come già avvenuto al parlamento europeo: «Se si dovesse verificare questa condizione la valuteremo. Sarebbe un passaggio senz’altro significativo». Antonio Tajani ha subito parlato di «ipotesi dell’irrealtà», ma di un gruppo di deputati e senatori cosiddetti “responsabili” si vocifera con insistenza.
IL GESTO DEGLI AZZURRI VICINI ALLA CARFAGNA
Del resto i quattro senatori Franco Dal Mas, Massimo Mallegni, Laura Stabile e Barbara Masini, che hanno annunciato di aver ritirato le firme sulla richiesta di referendum per «impedire a qualcuno di farsi prendere dalla tentazione di andare a votare senza ridurre prima il numero degli eletti», sono tutti di Forza Italia. Il gesto prelude allo sbarco in maggioranza degli azzurri che fanno riferimento a Mara Carfagna? Fonti vicine alla vice presidente della Camera, per il momento, negano: «Voce libera vuole che il governo cada. Ma non si può andare a votare con mille parlamentari, alimentando ancora il M5s anti casta».
I CALCOLI CHE STANNO DIETRO AI GIOCHI POLITICI
La tesi prevalente è che se venisse indetto il referendum, si aprirebbe una finestra per far saltare il governo e andare a votare per eleggere 630 deputati e 315 senatori, prima che vengano ridotti a 400 e 200. In tal caso chi vince vincerebbe di più, e chi perde perderebbe di meno. Ma nei giochi politici di queste ore viene fatto anche un altrocalcolo: per un cavillo giuridico, se verrà indetto il referendum costituzionale, avrà più probabilità di essere ammesso anche il referendum promosso dalla Lega per una legge elettorale maggioritaria. A quel punto potrebbe essere indetto un election day capace di far fibrillare l’esecutivo, in coincidenza con le elezioni regionali di primavera.
LA MAGGIORANZA PROVA A SMINARE IL CAMPO SULLA LEGGE ELETTORALE
«Rischierebbe di essere un mega-referendum su Salvini», osservano fonti del Pd. E anche per non dare all’ex ministro dell’Interno altre armi di propaganda, il governo prova a tenersi fuori dalla battaglia. Conte e i capi delegazione di maggioranza hanno deciso infatti di non costituire l’esecutivo in giudizio di fronte alle Corte costituzionale. Per “sminare” la questione e dimostrare alla Consulta che sul sistema di voto sta già legiferando il parlamento, è stata accelerata anche la presentazione del Germanicum, nato da un primo accordo di maggioranza che non convice in pieno Liberi e uguali.
IL SEGNALE SALVINI: «FAREI REFERENDUM SU TUTTO»
Il testo è stato depositato da Giuseppe Brescia del M5s. Prevede un sistema con soglia di sbarramento al 5% (nell’iter parlamentare, complici i voti segreti, c’è il rischio che scenda) e diritto di tribuna per i piccoli partiti. Anche in nome di questa prima bozza di legge elettorale tre senatori del Pd, Roberto Rampi e gli orfiniani Francesco Verducci e Vincenzo D’Arienzo, potrebbero ritirare le firme sul taglio dei parlamentari. I senatori dem che hanno firmato in tutto sono sette, gli altri quattro resistono. Il 10 gennaio anche i Radicali presenteranno i risultati della loro raccolta. Ma adesso sarà determinante il ruolo della Lega: «Io farei referendum su tutto», ha detto in serata Salvini. E sembra un segnale chiaro rivolto ai suoi: invertire la rotta sul tema della riduzione del numero dei parlamentari, firmare e metterci la faccia.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Testa a testa tra Bonaccini e Borgonzoni a 18 giorni dal voto: il candidato di centrosinistra dato tra il 45 e il 49% dei consensi, quella di centrodestra tra il 43 e il 47%.
Nell’ultimo sondaggio prima delle elezioni in Emilia Romagna è testa a testa tra il candidato di centrosinistra Stefano Bonaccini e la rivale di centrodestra Lucia Borgonzoni, con il primo dato tra il 45 e il 49% dei consensi e la seconda tra il 43 e il 47%. Lo fa sapere una rilevazione di Swg per il TgLa7.
Un risultato simile emerge da un sondaggio realizzato da Emg Acqua. Bonaccini, infatti, è indicato al 46,5% delle preferenze degli elettori, mentre Borgonzoni insegue con il 43,5%. Molto staccato il candidato del Movimento 5 Stelle Simone Benini, fermo al 6,5%. Le liste che sostengono i due principali candidati sono invece al 45%. La Lega si confermerebbe primo partito, superando il Pd (29,5% contro il 28%). La lista ‘Bonaccini presidente’ è accreditata di un 12%, mentre le altre liste di centrosinistra sono date al 5%. All’8% è data Fratelli d’Italia, mentre Forza Italia al 4%, la lista civica di Borgonzoni al 3% e le altre allo 0,5%. Il Movimento 5 Stelle è segnalato al 7%, le altre liste al 3,5%.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Accordo tra il ministero dell’Interno e l’Anci: agli agenti funzioni di controllo della viabilità locale. Mentre i prefetti dovranno mappare i luoghi più a rischio. Coinvolti anche i gestori dei locali.
Ci sono gli ultimi casi eclatanti: da Gaia e Camilla, le due ragazze investite a Ponte Milvio a Roma, ai sette turisti tedeschi travolti a Lutago, in Alto Adige. Ma anche le statistiche segnalano una crescita delle vittime della strada nel 2019. E la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha deciso di correre ai ripari lanciando due iniziative di contrasto: da una parte arruolando anche gli agenti delle Municipali per i servizi di polizia stradale, dall’altra invitando i prefetti a mappare i luoghi più a rischio per predisporre controlli adeguati.
L’ACCORDO FIRMATO AL VIMINALE
Per quanto riguarda il coinvolgimento delle polizie municipali, un accordo quadro è stato siglato al Viminale dalla ministra Lamorgese e dal presidente dell’Anci, Antonio Decaro. Gli agenti avranno un ruolo di primo piano nel controllo della viabilità locale e nella rilevazione degli incidenti. La novità riguarderà innanzitutto le 14 città metropolitane e i capoluoghi in grado di organizzare i servizi, poi sarà estesa ad altre città, a partire da quelle con più di 100 mila abitanti.
IL RUOLO DEI GESTORI DEI LOCALI
Lamorgese e Decaro hanno anche condiviso la necessità di coinvolgere le associazioni dei gestori dei locali di intrattenimento per rafforzare la prevenzione, soprattutto nei riguardi dei più giovani, attraverso iniziative di sensibilizzazione su ciò che può accadere mettendosi alla guida sotto l’effetto di alcol e droga, la distribuzione di etilometri e la messa in sicurezza di parcheggi e aree di collegamento con i locali.
LA MAPPATURA AFFIDATA AI PREFETTI
Per quanto riguarda invece la mappatura dei tratti stradali più esposti al rischio incidenti, ai prefetti è stato chiesto di segnalare entro il 20 gennaio innanzitutto quelli più vicini ai luoghi di aggregazione e ai locali di intrattenimento. Sulle aree individuate andranno concentrati i controlli delle forze di polizia e, in sinergia con le amministrazioni locali, sviluppate misure per la messa in sicurezza dell’ambiente stradale, come il miglioramento della segnaletica, dell’illuminazione e degli attraversamenti.
I COMUNI CHIEDONO GARANZIE
La priorità, per Lamorgese, è «dare una risposta immediata e concreta per migliorare la sicurezza della circolazione stradale, che passa attraverso maggiori controlli ma anche iniziative di sensibilizzazione». Decaro, da parte sua, si è detto «convinto dell’utilità di affidare alle polizie locali la sicurezza stradale, come previsto da questo accordo». Ma ha evidenziato come sia «indispensabile che i Comuni che hanno bisogno di più personale per assicurare questa funzione ricevano garanzie dallo Stato. Il successo dell’accordo dipenderà da una collaborazione piena tra Comuni e ministero dell’Interno, sia in tema di organici degli agenti locali, sia rispetto all’accessibilità delle banche dati».
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Abdicazioni, rinunce, scandali: i terremoti che hanno scosso la famiglia reale britannica prima del caso Harry e Meghan.
Fra abdicazioni, rinunce e allontanamenti, la famiglia reale britannica può allineare più di un precedente, nella storia moderna, della presa di distanza annunciata l’8 gennaio dai duchi di Sussex, Harry e Meghan; seppure in contesti e circostanze assai diverse fra loro. Eccone una lista, da Edoardo VIII a oggi, passando per la compianta Lady D.
EDOARDO VIII
Fu indubbiamente il protagonista della vicenda più grave mai capitata in casa Windsor, per la portata dei fatti, l’impatto sui tempi, il contesto storico drammatico e il suo ruolo di sovrano regnante, non di semplice principe cadetto come Harry. Nato con il nome di David, fratello maggiore del padre di Elisabetta II, il futuro Giorgio VI, Edoardo – in seguito sospettato pure di simpatie filo naziste – rinunciò al trono nel 1936 per sposare la borghese Wallis Simpson, americana e divorziata al pari di Meghan Markle, ma in un mondo diverso; un gesto romantico e folle, nella percezione dell’epoca, che né il governo né la Chiesa di Stato anglicana poterono accettare e che causò uno scandalo enorme, al punto da mettere a repentaglio il futuro medesimo della dinastia e dell’istituzione monarchica.
LADY DIANA
Madre del principe Harry (e del fratello maggiore William), fu al centro di un distacco dalla Royal Family consumatosi in due tempi, prima di tramutarsi in un autentico terremoto per la corte e per la regina Elisabetta al momento della morte prematura della ‘principessa del popolo’. Nel 1993 il primo passo fu quello di un suo allentamento degli impegni ufficiali di corte – un po’ come quello annunciato dai duchi di Sussex – dopo il clamoroso suo divorzio (inizialmente presentato come “amichevole”) dal principe Carlo. Nel 1996 il secondo fu invece la revoca di ogni incarico residuo di rappresentanza, con annessa perdita del titolo di Sua Altezza Reale, ordinata dalla sovrana dopo la messa in scena pubblica in tv delle recriminazioni coniugali contro l’erede al trono.
FERGIE
Sarah Ferguson, duchessa di York, fu a sua volta al centro, nel 1996, di uno scandaloso divorzio condito da tradimenti incrociati dal principe Andrea, fratello minore di Carlo e terzogenito della regina e di Filippo duca d’Edimburgo; messa da parte quasi subito dal casato a causa degli imbarazzi provocati, in quello che la regina ebbe a definire il primo “annus horribilis” del suo lungo regno, Fergie la Rossa continuò del resto anche in seguito a farsi parlare dietro. Fra sospetti di affarucoli spregiudicati, con tanto di presunti tentativi di sfruttamento del ‘brand’ reale. Salvo riavvicinarsi più di recente ad Andrea e alla famiglia regnante, al fianco delle figlie Beatrice e Eugenie, nipoti molto amate da Elisabetta II.
ANDREA, DUCA DI YORK
Il suo ritiro dalla scena pubblica è un fatto di poche settimane fa e non è stato volontario. Bensì un benservito imposto da circostanze di opportunità (e deciso dalla regina su pressione di Carlo, secondo alcuni media) in seguito al riemergere delle denunce sui vecchi rapporti di frequentazione dell’ex marito di Fergie con Jeffrey Epstein: il miliardario Usa, amico di molti ricchi e potenti, accusato di abusi sessuali su ragazze giovani e giovanissime e morto infine in un carcere americano, ufficialmente suicida.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Il documento verrà presentato all’assemblea congiunta degli eletti pentastellati. Si domanda anche di togliere il controllo della piattaforma Rousseau alla Casaleggio Associati.
Abolire la figura del capo politico, togliere alla Casaleggio Associati il controllo della piattaforma Rousseau e lasciare a Beppe Grillo soltanto il ruolo di presidente, non più quello di garante del M5s: sono le proposte che un gruppo di senatori pentastellati – capitanati da Primo Di Nicola, Emanuele Dessì e Mattia Crucioli – ha messo nero su bianco e intende presentare all’assemblea congiunta degli eletti in programma nella serata del 9 gennaio.
IL TESTO HA GIÀ RACCOLTO UNA DECINA DI FIRME
Come riferisce Il Fatto Quotidiano, che per primo ha dato la notizia, il testo è già stato sottoscritto da una decina di senatori. L’obiettivo è di raccogliere più firme possibili e far partire il dibattito interno. Nel frattempo anche i deputati Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri hanno deciso di passare al gruppo Misto, facendo scendere a 211 il numero totale dei pentastellati che siedono a Montecitorio.
SI PUNTA SU UNA MAGGIORE «DEMOCRAZIA INTERNA»
Nel documento si chiede di ristrutturare profondamente la “governance” del M5s. Prevedendo una gestione collegiale della futura linea politica e diverse modalità di rendicontazione per la restituzione parziale degli stipendi. Su quest’ultimo punto, in particolare, si propone che in caso di scioglimento del Comitato rendicontazioni le giacenze non vengano più destinate all’Associazione Rousseau, bensì direttamente al Fondo per il Microcredito. Nessun attacco, tuttavia, alla tenuta del governo giallorosso presieduto da Giuseppe Conte, che anzi «non deve saltare». Il messaggio è dunque rivolto ai vertici del M5s e in primis a Luigi Di Maio, cui si domanda un cambiamento radicale in direzione di una «maggiore democrazia interna».
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
I giornalisti proclamano tre giorni di sciopero dopo la decisione della società di procedere alla richiesta di Cassa integrazione guadagni straordinaria a zero ore per riorganizzazione aziendale.
L’8 gennaio 2020 la società editoriale News3.0 ha presentato ai redattori un documento scritto sull’apertura della procedura di richiesta della Cassa integrazione guadagni straordinaria a zero ore per riorganizzazione aziendale. Un provvedimento pronto a colpire otto giornalisti sugli attuali 14 assunti, che con le dimissioni di un altro lavoratore ridurrebbero l’organico a sole cinque unità.
La redazione considera gravissime e sproporzionate le misure, che tra l’altro non sono stato oggetto di discussione o trattativa con l’azienda per cercare eventuali alternative possibili. In gioco, oltre al posto dei giornalisti, c’è anche la sopravvivenza delle testate Lettera43.it e LetteraDonna.it che dopo anni di lavoro vengono così di fatto smantellate o chiuse.
Le motivazioni addotte alla decisione di chiedere la Cigs, e cioè la necessità di sistemare i conti in un contesto di crisi generalizzata del settore dell’editoria, vengono usate come scuse per nascondere incapacità manageriali e per falcidiare in questa misura il corpo redazionale, che tra l’altro negli anni e tra diverse difficoltà, ripetute riduzioni di organico e licenziamenti improvvisi non ha mai fatto mancare il suo apporto e la sua professionalità, a ogni ora del giorno e della notte, in ogni giorno dell’anno e fuori dalle mansioni contrattuali.
Ora i redattori pagano sulla loro pelle le ripercussioni di vecchie esperienze fallimentari, come FreeJourn, Pagina99, Sextelling, ExpoNotizie e altri progetti abortiti negli anni che hanno portato allo sperpero di risorse e alla perdita di opportunità di investimenti, a cui si sono sommate le ultime scelte che si sono rivelate profondamente sbagliate, come la decisione di affidarsi a un inefficace restyling del sito e a un disastroso Content management system che ha impattato negativamente sulle prestazioni del quotidiano online, sul lavoro dei giornalisti e sui risultati in termini di traffico, mentre nessuno di chi ha preso le suddette decisioni ha subìto conseguenze.
La società nella sua comunicazione si è data l’obiettivo di recuperare con il nuovo assetto un «gap di competenze» identificando «personale con soft skill» legate all’«ambiente digitale», che però la redazione attuale possiede già, a differenza di quanto dimostrato dalla dirigenza negli anni.
La redazione, già in stato di agitazione da mesi dopo la richiesta mai soddisfatta di ottenere un piano editoriale, condanna la decisione presa dall’azienda, che nelle figure del direttore e dell’amministratore delegato non ha avuto neanche la decenza di comunicare direttamente ai redattori l’avvento della Cigs, e proclama sciopero per le giornate di venerdì 10 gennaio, lunedì 13 e martedì 14.
Il cdr di Lettera43.it e LetteraDonna.it
LA RISPOSTA DELL’AZIENDA
Prendiamo atto del comunicato della redazione, non ne condividiamo ovviamente l’analisi e soprattutto le conseguenze adombrate sul futuro della casa editrice, che non ha alcuna intenzione di chiudere. Anzi, il ricorso alla cassa integrazione a fronte del progressivo deterioramento del settore è un modo per assicurarne la continuità. Ricordiamo alla redazione che ne suoi oramai dieci anni di vita questa azienda non è mai ricorsa a nessun ammortizzatore, caso forse unico nel panorama editoriale italiano, né ha goduto di finanziamenti pubblici. Il comunicato della redazione, nei toni e nella strumentalità delle accuse, preclude evidentemente qualsiasi forma di dialogo.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it
Per i giudici l’ex terrorista fornì supporto logistico a Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
Condanna all’ergastolo per l’ex terrorista dei Nar GilbertoCavallini, nel processo sulla Strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. La sentenza è stata letta dalla Corte di assise, dopo sei ore e mezza di camera di consiglio.
SODDISFAZIONE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME
Alla lettura della sentenza l’imputato, in semilibertà nel carcere di Terni, non era più presente in aula. In mattinata aveva fatto dichiarazioni spontanee. Erano presenti invece una trentina di familiari delle vittime, tra i banchi del pubblico, che hanno accolto il verdetto in maniera composta, con evidente soddisfazione. Presente anche la presidente dei familiari delle vittime della Banda della Uno Bianca, Rosanna Zecchi.
Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it