I due past president più influenti di Viale dell’Astronomia si dividono sul dopo Boccia. Il primo punta su Bonomi, la seconda incoraggia Mattioli. Ma manda segnali di fumo anche a Illy e Pasini.
Mentre s’intensificano le grandi manovre per la successione di Vincenzo Boccia, le strade dei due past president più influenti di Confindustria, Emma Marcegaglia e Luigi Abete, si sono divaricate in maniera probabilmente irreversibile dopo una vita di “convergenze parallele”.
ABETE PIAZZA LE SUE FICHE SU BONOMI
Abete, riattaccando i cocci di un rapporto che si era rotto proprio in occasione dell’elezione di Boccia, ha deciso di sposare il suggerimento di Aurelio Regina e di piazzare le sue fiche sull’elezione di Carlo Bonomi. E su questa posizione sta convincendo a spostarsi anche i suoi amici fidati, dal vicepresidente nazionale Maurizio Stirpe al presidente di Roma Filippo Tortoriello, dai marchigiani che tengono ai rapporti con la famigliaMerloni e con Diego della Valle ai tanti che non sono insensibili al suo ruolo di presidente della Bnl. Insieme a Regina, poi, Abete sta lavorando per portare a Bonomi i voti degli esponenti delle aziende pubbliche, e in particolare quelli dell’Enel, dove si registra una divergenza di vedute tra la presidente Patrizia Grieco, che ha dato la sua parola a Licia Mattioli, e l’amministratore delegato Francesco Starace, che è con il presidente di Assolombarda.
LA PARTITA DI MARCEGAGLIA
Viceversa, Marcegaglia non si è ancora dichiarata esplicitamente, ma in un incontro riservato avvenuto prima di Natale con Mattioli, ha speso parole di incoraggiamento alla candidatura dell’imprenditrice torinese. La quale, però, pur potendo contare sull’appoggio di Boccia – maturato dopo il ritiro dalla corsa di Edoardo Garrone – e del conforto morale di Franco Caltagirone, convinto dalle parole spese per Mattioli dalla sua amica Paola Severino, oltre che del voto dei piemontesi (ma non tutti, però, per esempio il novarese Carlo Robiglio, presidente nazionale della Piccola industria, è con Bonomi), nella conta dei voti appare decisamente indietro. Tanto che la furba Marcegaglia – che peraltro ha da giocare in parallelo la partita della sua eventuale riconferma alla presidenza dell’Eni – starebbe già facendo marcia indietro, mandando segnali di fumo sia a Giuseppe Pasini che ad Andrea Illy, gli altri due candidati (il quinto, il modenese Emanuele Orsini, presidente di Federlegno, secondo gli ultimi rumors sarebbe stato convinto dagli imprenditori emiliano-romagnoli a ritirarsi). Peraltro Mattioli ha un’alternativa alla candidatura alla presidenza di Confindustria che le interessa non di meno: succedere a Francesco Profumo alla presidenza della Compagnia Sanpaolo, cosa che le darebbe un peso notevole in Banca Intesa. La sindaca di Torino, Chiara Appendino, è pronta a indicarla, e lei deve sciogliere la riserva entro la fine di gennaio. Proprio quando, dopo la nomina dei saggi, si dovranno formalizzare le candidature in Confindustria.
Quello di cui si occupa la rubrica Corridoi lo dice il nome. Una pillola al giorno: notizie, rumors, indiscrezioni, scontri, retroscena su fatti e personaggi del potere.
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I due past president più influenti di Viale dell’Astronomia si dividono sul dopo Boccia. Il primo punta su Bonomi, la seconda incoraggia Mattioli. Ma manda segnali di fumo anche a Illy e Pasini.
Mentre s’intensificano le grandi manovre per la successione di Vincenzo Boccia, le strade dei due past president più influenti di Confindustria, Emma Marcegaglia e Luigi Abete, si sono divaricate in maniera probabilmente irreversibile dopo una vita di “convergenze parallele”.
ABETE PIAZZA LE SUE FICHE SU BONOMI
Abete, riattaccando i cocci di un rapporto che si era rotto proprio in occasione dell’elezione di Boccia, ha deciso di sposare il suggerimento di Aurelio Regina e di piazzare le sue fiche sull’elezione di Carlo Bonomi. E su questa posizione sta convincendo a spostarsi anche i suoi amici fidati, dal vicepresidente nazionale Maurizio Stirpe al presidente di Roma Filippo Tortoriello, dai marchigiani che tengono ai rapporti con la famigliaMerloni e con Diego della Valle ai tanti che non sono insensibili al suo ruolo di presidente della Bnl. Insieme a Regina, poi, Abete sta lavorando per portare a Bonomi i voti degli esponenti delle aziende pubbliche, e in particolare quelli dell’Enel, dove si registra una divergenza di vedute tra la presidente Patrizia Grieco, che ha dato la sua parola a Licia Mattioli, e l’amministratore delegato Francesco Starace, che è con il presidente di Assolombarda.
LA PARTITA DI MARCEGAGLIA
Viceversa, Marcegaglia non si è ancora dichiarata esplicitamente, ma in un incontro riservato avvenuto prima di Natale con Mattioli, ha speso parole di incoraggiamento alla candidatura dell’imprenditrice torinese. La quale, però, pur potendo contare sull’appoggio di Boccia – maturato dopo il ritiro dalla corsa di Edoardo Garrone – e del conforto morale di Franco Caltagirone, convinto dalle parole spese per Mattioli dalla sua amica Paola Severino, oltre che del voto dei piemontesi (ma non tutti, però, per esempio il novarese Carlo Robiglio, presidente nazionale della Piccola industria, è con Bonomi), nella conta dei voti appare decisamente indietro. Tanto che la furba Marcegaglia – che peraltro ha da giocare in parallelo la partita della sua eventuale riconferma alla presidenza dell’Eni – starebbe già facendo marcia indietro, mandando segnali di fumo sia a Giuseppe Pasini che ad Andrea Illy, gli altri due candidati (il quinto, il modenese Emanuele Orsini, presidente di Federlegno, secondo gli ultimi rumors sarebbe stato convinto dagli imprenditori emiliano-romagnoli a ritirarsi). Peraltro Mattioli ha un’alternativa alla candidatura alla presidenza di Confindustria che le interessa non di meno: succedere a Francesco Profumo alla presidenza della Compagnia Sanpaolo, cosa che le darebbe un peso notevole in Banca Intesa. La sindaca di Torino, Chiara Appendino, è pronta a indicarla, e lei deve sciogliere la riserva entro la fine di gennaio. Proprio quando, dopo la nomina dei saggi, si dovranno formalizzare le candidature in Confindustria.
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Da anni si cerca di normare i rapporti tra i portatori di interesse e i decisori istituzionali ma mai nessuna proposta di legge ha concluso il suo iter. Ad oggi, sono tre le iniziative legislative al vaglio del parlamento che fanno riaccendere la speranza a tutti gli esperti del settore.
Nuovo anno, stesse tematiche: i nodi relativi al dibattito sulla regolamentazione della rappresentanza di interessi sembrano ben lontani dall’essere sciolti. In un contesto in cui diventa sempre più difficile per i politici prescindere dall’aiuto e dalle competenze dei portatori di interessi, i termini lobby e lobbista, in Italia rimangono ancora avvolti da un alone di mistero.
Eppure, già nell’America degli Anni 60, sotto la presidenza Kennedy, i lobbisti erano considerati professionisti che in «10 minuti e cinque fogli di carta» riuscivano a portare all’attenzione dei decisori le istanze di determinate categorie. Alla luce di questa profonda lacuna che caratterizza il nostro Paese rispetto ad altri, come scrivevo su questa stessa rubrica quasi due anni fa, una chiara ed efficiente regolamentazione del rapporto tra decisori pubblici e lobbisti risulta essere fondamentale e necessaria.
Questa, infatti, non può rimanere nelle mani di singole iniziative politiche, che rischiano di trovare soluzioni estemporanee e poco stringenti, tanto più che nell’approvare il reato di traffico di influenza il parlamento si impegnò, e siamo nel 2012, a varare rapidamente una legge di regolamentazione della lobby, proprio per distinguere in modo chiaro il lavoro proprio da quello improprio.
L’ITALIA HA ANCORA PREGIUDIZI NEI CONFRONTI DEI LOBBISTI
Nel corso di questi anni, nonostante persistano i pregiudizi nei confronti dei lobbisti, sembra che qualcosa, anche in Italia, stia iniziando a cambiare. Infatti, se da un lato il termine lobbying non gode ancora di un adeguato riconoscimento, l’espressione Public Affairs va sempre più diffondendosi e registra un costante aumento di interesse nei confronti dei media e del pubblico poiché considerata meno ambigua e più politically correct. Ma ciò non basta. È evidente che l’incertezza normativa in cui verte il settore rappresenti un dato sconfortante nei confronti del funzionamento democratico del Paese e incida in negativo sul valore strategico delle policy adottate.
È necessario che anche i lobbisti e le istituzioni pubbliche e private si impegnino a migliorare le proprie azioni
Sono i cittadini, insieme ai professionisti del settore, a pagare l’incapacità di colmare questo vuoto legislativo, rendendo la partecipazione alla vita pubblica sempre più controversa. Alla luce di ciò, è necessario che anche i lobbisti e le istituzioni pubbliche e private si impegnino a migliorare le proprie azioni e i propri mezzi di comunicazione per interpretare e rispondere alle esigenze del nuovo contesto nel migliore dei modi.
TANTI TENTATIVI, POCHE AZIONI CONCRETE
I tentativi di disciplinare in modo onnicomprensivo i rapporti tra portatori di interessi e decisori pubblici sono, a oggi, oltre 65: il primo risale addirittura all’VIII legislatura quando è stata presentata al Senato della Repubblica, nel 1979, la proposta di legge Riconoscimento delle attività professionali di relazioni pubbliche a firma dei senatori democristiani Salerno, De Zan, Carollo e Mezzapesa, mai discussa. Ulteriori proposte di legge, talvolta neppure esaminate, sono state poi depositate nel corso di tutte le successive legislature. Gli stessi governi che si sono susseguiti hanno manifestato la necessità di regolamentare il lavoro dei lobbisti, in particolare attraverso la presentazione del disegno di legge del presidente del Consiglio Romano Prodi e del ministro per l’Attuazione del programma di governo Giulio Santagata; l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite (nell’ambito della cosiddetta legge Severino) durante il Governo Monti, d ulteriori tentativi di disciplinare l’attività di rappresentanza degli interessi nel corso degli esecutivi guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi.
TRE PROPOSTE DI LEGGE IN DISCUSSIONE DALL’11 DICEMBRE
Nonostante questo, il quadro normativo risulta essere molto frammentato. Se alla Camera, da quasi due anni, è stato istituito un registro pubblico dei lobbisti, che regola l’accesso alle stanze di Montecitorio, non è accaduto lo stesso al Senato. Esistono poi le iniziative di singoli ministri che, negli anni, hanno istituito registri e agende per la trasparenza, talvolta disattese dai loro successori. Tale assetto, non interessando l’intero perimetro delle istituzioni e non attribuendo pari dignità e grado a tutti gli attori del processo decisionale, ha determinato delle asimmetrie che non sono certamente di buon auspicio. Tuttavia, qualcosa dalla pubblicazione del mio ultimo articolo sulla questione sta cambiando. Da marzo 2018, nel corso della XVIII legislatura, sono state presentate ben nove proposte di legge in materia, di cui sei al Senato e tre alla Camera. L’11 dicembre scorso è iniziato, presso la I Commissione Affari Costituzionali, l’iter per la discussione di quelle alla Camera a firma di Fracesco Silvestri del Movimento 5 stelle, Silvia Fregolent di Italia viva e Marianna Madia del Partito democratico.
OLTRE ALLA REGOLAMENTAZIONE SI CAMBINO STRATEGIE DI COMUNICAZIONE
In linea generale, seppur con modalità talvolta diverse, i tre progetti di legge in questione intendono favorire la trasparenza e la partecipazione ordinata ai processi decisionali, migliorare la qualità della legislazione e prevenire episodi di corruzione. È previsto l’obbligo di iscrizione a un Registro ad accesso pubblico, che ogni lobbista dovrà aggiornare con l’agenda dettagliata dei propri incontri, un Codice deontologico in cui sono elencate le modalità di comportamento e un organo di sorveglianza ad hoc.
Bisogna garantire un flusso trasparente della comunicazione tra cittadini e istituzioni
Le proposte contemplano anche la possibilità di svolgere pubbliche consultazioni e relative norme sanzionatorie, che vanno dall’ammonizione alla cancellazione dal Registro e individuano, inoltre, alcuni casi di esclusione e incompatibilità, in particolare per giornalisti, rappresentanti dei governi e dei partiti o movimenti politici, esponenti di organizzazioni sindacali e imprenditoriali connessi alla contrattazione. Quel che è certo è che, se i lobbisti e gli esperti del settore sono pronti ad accogliere una precisa regolamentazione, devono anche essere disposti a impostare strategie di comunicazione multidirezionali, efficaci ed innovative per garantire un flusso trasparente della comunicazione tra cittadini e istituzioni. Che il nuovo decennio porti fortuna?
Gianluca Comin è professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma.
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L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu per scongiurare l’escalation.
Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».
LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN
Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.
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L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu per scongiurare l’escalation.
Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».
LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN
Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.
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La giornata di Piazza Affari e degli altri listini europei. In attesa di Wall street. La diretta dai mercati.
Apertura in rialzo per la Borsa italiana l’8 gennaio. Con gli investitori che confidano nel fatto che non ci sarà escalation tra Usa e Iran. Positive anche le Borse europee con Francoforte che corre (+1,16%) grazie al dato sulla produzione industriale tornato positivo. Bene anche Parigi (+0,59%) e Londra (+0,44%).
SPREAD STABILE A 162,3 PUNTI BASE
Lo spread tra Btp e Bund apre stabile. Il differenziale è a 162,3 punti base, dai 162 della chiusura di ieri, con un tasso di rendimento per il decennale italiano dell’1,41%.
SU I LISTINI ASIATICI
Intanto è rally per i listini asiatici sull’onda del recupero di Wall Street, dopo che le quotazioni del greggio hanno annullato la recente corsa, grazie ai toni tutto sommato moderati usati da Donald Trump sull’Iran, che hanno allontanato i timori di un inasprimento del conflitto armato. Tokyo ha messo a segno un rialzo del 2,31% e a seduta ancora in corso è bene intonata anche Hong Kong (+1,28%). Bene hanno fatto i listini cinesi di Shanghai (+0,91%) e Shenzhen (+1,76%) mentre sono stati diffusi i dati sull’inflazione e in attesa della visita del capo negoziatore Liu He a Washington fra il 13 e il 15 gennaio per l’accordo sui dazi. Forte anche Seul (+1,63%).
I MERCATI IN DIRETTA
9.20 – CORRE FRANCOFORTE, BENE ANCHE PARIGI
Avvio all’insegna dei rialzo per i listini europei. In un clima rasserenato sull’evoluzione dello scontro Usa-Iran corre Francoforte (+1,16%) grazie al dato sulla produzione industriale tornato positivo a novembre dopo due mesi di cali. Bene anche Parigi (+0,59%) e, con meno impeto, Londra che alle prime battute segna un rialzo dello 0,44%.
9.10 – APERTURA IN RIALZO PER LA BORSA DI MILANO
Avvio positivo per Piazza Affari. L’ indice Ftse Mib segna un rialzo dello 0,62% a 23.979 punti a ridosso della soglia 24.000.
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SPREAD STABILE A 162,3 PUNTI BASE
Lo spread tra Btp e Bund apre stabile. Il differenziale è a 162,3 punti base, dai 162 della chiusura di ieri, con un tasso di rendimento per il decennale italiano dell’1,41%.
SU I LISTINI ASIATICI
Intanto è rally per i listini asiatici sull’onda del recupero di Wall Street, dopo che le quotazioni del greggio hanno annullato la recente corsa, grazie ai toni tutto sommato moderati usati da Donald Trump sull’Iran, che hanno allontanato i timori di un inasprimento del conflitto armato. Tokyo ha messo a segno un rialzo del 2,31% e a seduta ancora in corso è bene intonata anche Hong Kong (+1,28%). Bene hanno fatto i listini cinesi di Shanghai (+0,91%) e Shenzhen (+1,76%) mentre sono stati diffusi i dati sull’inflazione e in attesa della visita del capo negoziatore Liu He a Washington fra il 13 e il 15 gennaio per l’accordo sui dazi. Forte anche Seul (+1,63%).
I MERCATI IN DIRETTA
9.20 – CORRE FRANCOFORTE, BENE ANCHE PARIGI
Avvio all’insegna dei rialzo per i listini europei. In un clima rasserenato sull’evoluzione dello scontro Usa-Iran corre Francoforte (+1,16%) grazie al dato sulla produzione industriale tornato positivo a novembre dopo due mesi di cali. Bene anche Parigi (+0,59%) e, con meno impeto, Londra che alle prime battute segna un rialzo dello 0,44%.
9.10 – APERTURA IN RIALZO PER LA BORSA DI MILANO
Avvio positivo per Piazza Affari. L’ indice Ftse Mib segna un rialzo dello 0,62% a 23.979 punti a ridosso della soglia 24.000.
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Ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità. Un esempio di leader che risolvei problemi, privo di rabbie personali e concreto, concretissimo. La sinistra lo prenda a modello.
Chissà che pensieri ha al mattino, appena sveglio, Stefano Bonaccini, candidato del Pd (ma non si può dire) per la guida dell’Emilia-Romagna.
Sulle sue spalle, che sembrano molto attrezzate, c’è il destino politico di un Paese, di un governo e di un paio di personaggi della politica che sono arrivati all’ultimo miglio.
Se Bonaccini perde, viene giù tutto. Cade il governo anche se non subito, i cinque stelle vanno per prati, il Pd o si rifonda o si rifonda. Se Bonaccini, invece, vince, Giuseppe Conte può pensare di avere vita più lunga, Luigi Di Maio respira, Nicola Zingaretti apparirà come il salvatore del Pd dopo gli anni di Matteo Renzi, ma soprattutto Matteo Salvini, assediato dalla coriacea Giorgia Meloni, si chiuderà in una birreria e da lì non uscirà più senza che alcuno vada a cercarlo.
LA BATTAGLIA DI BONACCINI CONTRO LA STRANA COPPIA
La battaglia di Bonaccini è stata seria. Non ha voluto compagnia, ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità di lavoro e soprattutto ha a che fare con un signore che parla all’Emilia-Romagna come se fosse una trincea di guerra e non una regione pacifica (forse non più pacificata, ma pacifica) e con una signora che visibilmente sa appena dire il proprio nome e cognome.
Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire
Se questa strana coppia vincerà bisognerà riflettere bene su quanti disastri anche emotivi ha combinato la sinistra in questi decenni. Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire. E allora muoia. Tuttavia non accadrà.
UN MODELLO DI LEADERSHIP DA IMITARE
Il prode Bonaccini al mattino si sveglia, secondo me, “senza pnzier”, tranne quello di quali cittadini incontrare e di cosa dire. Quello sbevazza e fa casino, quell’altra fa la bella donna in tivù, lui fa l’operaio della politica che monta i pezzi che si sono rotti, fa funzionare la casa, ti fa stare tranquillo. Può perdere? In fondo, lo dico prima di sapere come andrà a finire, il modello di leadership di Bonaccini, ma penso anche a Beppe Sala e a tanti altri – non a Michele Emiliano – dovrebbe essere il modello di sinistra vincente. Cioè leader, uomini o donne, che risolvono i problemi, che sono pieni di umanità, privi di rabbie personali, riconciliati con il mondo e concreti, concretissimi.
Da sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, assieme al sindaco di Milano Giuseppe Sala.
Caro Bonaccini, io tifo per Lei (un tempo ti avrei detto tifo per te, ma oggi vale il titolo della canzone di Richy Gianco: «Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo» e quindi ti do del Lei), mi faccia questa cortesia di non mollare in queste settimane, non legga i giornali, lasci stare Rete 4 diventata una specie di astanteria di esagitati, tranne Barbara Balombelli, e vada avanti. Quel voto in più che la farà restare alla guida della sua Regione è lì, veda di prenderlo.
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Ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità. Un esempio di leader che risolvei problemi, privo di rabbie personali e concreto, concretissimo. La sinistra lo prenda a modello.
Chissà che pensieri ha al mattino, appena sveglio, Stefano Bonaccini, candidato del Pd (ma non si può dire) per la guida dell’Emilia-Romagna.
Sulle sue spalle, che sembrano molto attrezzate, c’è il destino politico di un Paese, di un governo e di un paio di personaggi della politica che sono arrivati all’ultimo miglio.
Se Bonaccini perde, viene giù tutto. Cade il governo anche se non subito, i cinque stelle vanno per prati, il Pd o si rifonda o si rifonda. Se Bonaccini, invece, vince, Giuseppe Conte può pensare di avere vita più lunga, Luigi Di Maio respira, Nicola Zingaretti apparirà come il salvatore del Pd dopo gli anni di Matteo Renzi, ma soprattutto Matteo Salvini, assediato dalla coriacea Giorgia Meloni, si chiuderà in una birreria e da lì non uscirà più senza che alcuno vada a cercarlo.
LA BATTAGLIA DI BONACCINI CONTRO LA STRANA COPPIA
La battaglia di Bonaccini è stata seria. Non ha voluto compagnia, ha detto «combatto da solo», presenta risposte già date e quelle pronte per le domande di domani, sa tutto, ha una enorme capacità di lavoro e soprattutto ha a che fare con un signore che parla all’Emilia-Romagna come se fosse una trincea di guerra e non una regione pacifica (forse non più pacificata, ma pacifica) e con una signora che visibilmente sa appena dire il proprio nome e cognome.
Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire
Se questa strana coppia vincerà bisognerà riflettere bene su quanti disastri anche emotivi ha combinato la sinistra in questi decenni. Mettere insieme due incapaci contro un uomo di qualità e vederli vincere darebbe l’immagine di un Paese che vuole morire. E allora muoia. Tuttavia non accadrà.
UN MODELLO DI LEADERSHIP DA IMITARE
Il prode Bonaccini al mattino si sveglia, secondo me, “senza pnzier”, tranne quello di quali cittadini incontrare e di cosa dire. Quello sbevazza e fa casino, quell’altra fa la bella donna in tivù, lui fa l’operaio della politica che monta i pezzi che si sono rotti, fa funzionare la casa, ti fa stare tranquillo. Può perdere? In fondo, lo dico prima di sapere come andrà a finire, il modello di leadership di Bonaccini, ma penso anche a Beppe Sala e a tanti altri – non a Michele Emiliano – dovrebbe essere il modello di sinistra vincente. Cioè leader, uomini o donne, che risolvono i problemi, che sono pieni di umanità, privi di rabbie personali, riconciliati con il mondo e concreti, concretissimi.
Da sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, assieme al sindaco di Milano Giuseppe Sala.
Caro Bonaccini, io tifo per Lei (un tempo ti avrei detto tifo per te, ma oggi vale il titolo della canzone di Richy Gianco: «Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo» e quindi ti do del Lei), mi faccia questa cortesia di non mollare in queste settimane, non legga i giornali, lasci stare Rete 4 diventata una specie di astanteria di esagitati, tranne Barbara Balombelli, e vada avanti. Quel voto in più che la farà restare alla guida della sua Regione è lì, veda di prenderlo.
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Il ministro degli Esteri in una lettera a Repubblica: «Inaccettabile polarizzare il dibattito attorno al dualismo della paura. Siamo in ritardo, avremo un ruolo solo facendo squadra».
«Dopo anni di immobilismo e difficoltà del sistema Italia, siamo di fronte a un bivio importante: o iniziamo a fare squadra, oppure ci relegheremo in un angolo senza via d’uscita». Lo scrive il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in una lettera a Repubblica in cui si dice «convinto che l’Italia, dopo qualche silenzio di troppo, oggi abbia ancora molto da dire. Deve solo ritrovare fiducia in se stessa, abbandonare i colori delle proprie bandierine politiche e giocare da squadra. Solo a quel punto riusciremo a misurare realmente il nostro valore nel mondo».
«INACCETTABILE POLARIZZARE IL DIBATITO»
«Non è accettabile che in merito ai focolai di questi giorni, qualcuno tenti di polarizzare il dibattito pubblico intorno al dualismo emotivo della paura e, dunque, della violenza», scrive Di Maio. «Non ci sono parti in causa per cui tifare. Sussistono bensì alleanze, come quella Atlantica, che contribuiscono a tracciare la strada da seguire. E sussiste la volontà di porsi come mediatori e facilitatori di un dialogo che, soprattutto in Libia, non deve e non può restare ancorato al palo. La Libia» – sottolinea – è per il nostro Paese un tema di sicurezza nazionale».
«LAVORARE INSIEME A UN EMBARGO TOTALE»
«Stati Uniti, Russia, Turchia ed Egitto, tra tutti, sono e debbono continuare ad essere per l’Ue degli interlocutori. Riunirsi a Bruxelles è stata un’occasione importante per ribadirlo», evidenzia Di Maio, secondo il quale «solo ricongiungendo tutti sotto l’ombrello europeo riusciremo a porre un freno alle interferenze dei singoli Stati, per poi lavorare insieme a un embargo totale via terra, via mare e via aerea che porti la Libia quanto meno verso una tregua».
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Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei..
Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei nostri consumi). Al contrario degli americani che con il fracking, il petrolio dal gas scisto delle rocce, stanno estraendo olio nero negli Usa, gli italiani dipendono quasi totalmente dalle importazioni straniere di greggio. La fragilità dell’Italia negli attacchi tra l’Iran e gli Stati Uniti, e nella contemporanea escalation della guerra in Libia, è prima di tutto nelle conseguenze economiche che una crisi petrolifera come quelle degli Anni 70 avrebbe sul Paese a un passo dalla recessione. Dallo strike degli Usa contro il generale iraniano Qassem Soleimani, le Borse sono in calo e il prezzo del greggio è volato sopra 70 dollari al barile. La pioggia di razzi iraniani in Iraq dell’8 gennaio, in rappresaglia, ha provocato una nuova impennata.
DIPENDENTI USA VIA DAI GIACIMENTI IN IRAQ
Dopo le basi militari, i siti petroliferi degli americani in Iraq – dove c’è anche l’Eni a Zubair, vicino a Bassora – e negli altri Stati del Golfo sono i primi target degli attacchi di Teheran. Un assaggio in questo senso è stato il raid messo a segno nel settembre scorso dagli iraniani agli impianti petroliferi più grandi al mondo, in Arabia Saudita. La regia dell’attacco con droni dall’Iran o dallo Yemen, che bloccò il 6% della produzione petrolifera globale mostrando la vulnerabilità di Raid, fu con ogni probabilità del generale Soleimani, da più di 20 anni a capo delle forze d’élite all’estero (al Quds) dei pasdaran. Dopo il suo omicidio mirato del 3 gennaio, le major americane hanno imbarcato i connazionali impiegati nei campi estrattivi del Sud dell’Iraq e del Kurdistan iracheno su voli verso gli Emirati e il Qatar, ha confermato il ministero del Petrolio di Baghdad.
Il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco President Recep Tayyip Erdogan discutono di Libia, Iran… e petrolio. GETTY.
LA MINACCIA DEL BLOCCO DELLO STRETTO DI HORMUZ
I mercati sono in fibrillazione anche per la minaccia iraniana, mai così concreta, di bloccare alle petroliere loStretto di Hormuz, controllato dai pasdaran, nel Golfo persico. Dalla più importante arteria di transito globale del greggio passa un terzo dell’export totale del petrolio via mare (il 29% verso l’Italia), da tutti i Paesi del Golfo esclusi lo Yemen e l’Oman; e anche tutto il gas naturale liquefatto del Qatar. La possibilità di una crisi energetica per l’Italia è aggravata dalla guerra in Libia diventata aperta tra potenze straniere. Forze rivali libiche e rinforzi arrivati dalla Turchia da una parte e da russi, emiratini ed egiziani dall’altra si dirigono verso la battaglia finale di Tripoli. In Libia gli introiti dell’export del greggio, redistribuite dalla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e dalla Banca centrale libica a tutte le fazioni in campo, sono il carburante del conflitto.
L’uscita o un’estromissione del Cane a quattro zampe dalla Libia è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.
LO STOP DEL GREGGIO DA IRAN E VENEZUELA
Come in Iraq, i vertici delle compagnie rassicurano che le estrazioni proseguono ai livelli invariati del 2019 «attraverso il personale locale». In Libia, a dicembre la produzione nazionale di greggio era arrivata al massimo (1,25 milioni di barili al giorno) da sette anni. Cioè dalla precedente escalation tra il 2013 e il 2014 che sfociò nella battaglia all’aeroporto di Tripoli. Le turbolenze concomitanti in Nord Africa e in Medio Oriente cadono durante un import-export del greggio già rallentato da mesi per le sanzioni massime di Trump all’Iran e dall’embargo totale al Venezuela, maggiore riserva mondiale di petrolio. Se dal 2018 Eni e le altre compagnie occidentali sono uscite dai contratti di esplorazione e di sfruttamento appena avviati con Teheran, dopo l’accordo sul nucleare, in Libia l’uscita o un’estromissione del Cane a sei zampe è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’omologo greco Kyriakos Mitsotakis discutono del gasdotto EastMed. GETTY.
L’ACCORDO TURCO-LIBICO PER SPARTIRSI IL MEDITERRANEO
Eni è la prima e storica compagnia straniera a essere entrata ell’ex colonia italiana, negli Anni 50. Un partner strategico consolidato, sopravvissuto nell’Est all’avanzata del generale filorusso Khalifa Haftar e ben impiantato nella Tripoli islamista, sostenuta da anni dalla Turchia e dal Qatar. Con il Noc gestisce il complesso di raffineria di petrolio e gas a Mellitah, terminal delgreenstream che porta il gas libico verso l’Italia, i contratti con le società petrolifere durano decenni, e parte del gas di Eni serve le centrali elettriche dei libici. In compenso gli italiani rischiano molto nella corsa alle riserve di gas nel Mediterraneo orientale. Con un colpo di spugna, a novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha stretto un accordo bilaterale e arbitrario con la Libia sulla giurisdizione delle acque che spacca in due il mare nostrum, violando il diritto marittimo internazionale.
La disputa sul gas si concentra soprattutto sulle riserve attorno all’isola di Cipro contesa dalla Turchia
TURCHIA CONTRO ITALIANI E FRANCESI A CIPRO
In cambio di armi e rinforzi a terra a Tripoli e Misurata, Erdogan intende accaparrarsi i giacimenti al largo della Grecia e di Cipro, nelle acque dell’Egitto dove l’Eni ha scoperto e sfrutta il grande campo offshore di Zohr, e più a Est in quelle del Leviathan a Sud di Israele. La disputa (anche di altre major straniere) si concentra soprattutto sulle riserve attorno al piccolo Stato dell’Ue conteso dalla Turchia: a ottobre Ankara aveva alzato il livello dello scontro, inviando una nave da trivellazione proprio in un blocco esplorativo affidato da Nicosia a Eni e alla francese Total. Un’entrata a gamba tesa anche nel progetto EastMed – la pipeline concorrente alla russo-turca TurkStream – che passando per Creta dovrebbe portare il gas in Europa. Non a caso, con l’Egitto l’Ue, Italia in testa, ha dichiarato illegittimo l’accordo marittimo turco-libico. Ma mentre l’Ue parla, Erdogan agisce.
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