A Rabat la questione migratoria sta diventando sempre più urgente. Gli ultimi naufragi agitano la monarchia. Che fatica a gestire gli arrivi dal Sahara occidentale. Il reportage.
Nel mezzo della notte, almeno un paio di enormi barconi di legno chiamati Kayoko prendono il largo dalla spiaggia di Nador, nel Nord del Marocco, una delle città della regione del Rif. «Ormai succede sempre più spesso, nonostante siano stati intensificati i controlli», racconta un membro della direzione generale della Sicurezza nazionale. A Rabat, la questione migratoria sta diventando sempre più urgente e, sebbene per mesi non sia stata considerata una emergenza, ora le cose stanno cambiando.
UN TERZO DELLE VITTIME DELL’IMMIGRAZIONE CLANDESTINA È MAROCCHINO
A scuotere gli apparati della monarchia sono stati gli ultimi morti denunciati dalla Ong Alarm Phone: a metà dicembre sono stati recuperati sette cadaveri, almeno 20 i dispersi su 63 persone che sono state tratte in salvo. «Si parla sempre di Libia e di Tunisia ma mai di Marocco. Eppure è anche dalle nostre coste che si comincia a partire in massa», spiega Amal El Ouassif, assistente di ricerca in Relazioni internazionali e Geopolitica presso il Centro politico per il Nuovo Sud del Marocco. Un recente rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) ha rivelato che i marocchini rappresentano oltre un terzo delle vittime dell’immigrazione clandestina e circa otto vittime su 10 non vengono recuperate. Secondo i dati raccolti nel rapporto, relativi al 2019, 425 persone sono annegate durante la navigazione tra Marocco e di Spagna e Italia, 240 migranti sono morti nelle acque dell’Oceano Atlantico nel tentativo di raggiungere le coste delle Isole Canarie spagnole. Ancora,146 persone sono morte nell’affondamento di barche nello stretto di Gibilterra e 228 nel Mare di Albran, l’area del mare tra Al Hoceima e Oujda nel Nord-Est del Marocco verso il Sud-Ovest dell’Andalusia, che si estende tra le province di Granada e Almeria.
Molte rotte migratorie dall’Africa sub-sahariana terminano qui in Marocco, sono migranti che attraversano il Sahara occidentale. Arrivano dal Mali, dal Niger, dalla Mauritania
Amal El Ouassif, Centro Politico per il Nuovo Sud del Marocco
«Molte rotte migratorie dall’Africa sub-sahariana terminano qui in Marocco», spiega Amal, «e sono migranti che attraversano il Sahara occidentale. Arrivano dal Mali, dal Niger, dalla Mauritania dove i carovanieri sono diventati trafficanti di uomini». Questa tratta è poco raccontata ma milioni di storie arrivano ugualmente sulle spiagge del Marocco, sulle coste di Nador ma anche di Al Hoseyma, sempre nella zona del Rif, e di Larache, porto nel Nord del Paese. In quelle zone sono stati intensificati i controlli e proprio qualche notte fa sono state bloccate 25 persone pronte a salpare. Dalla direzione generale della Sicurezza Nazionale hanno fatto sapere di aver arrestato una persona sospettata di essere collegata a un’organizzazione che gestisce l’immigrazione clandestina. «L’attenzione sui migranti irregolari che arrivano in Marocco è cresciuta via via che è cresciuta la forza dei gruppi terroristici del Niger, del Ciad e del Mali legati prima all’Aqmi, Al Qaeda del Maghreb islamico, e poi all’Isis», dice Amal El Oussif.
LA GERMANIA APRE LE PORTE ALL’IMMIGRAZIONE REGOLARE
Ai migranti irregolari si aggiungono poi i marocchini che vogliono partire per i problemi che attanagliano il Paese, mancanza di lavoro e povertà. In questo contesto, la Germania starebbe per varare una nuova legge sull’immigrazione legale destinata a coloro che dispongono di certificati di formazione professionale, così da superare la carenza di manodopera qualificata del Paese. Lo ha fatto sapere l’Ambasciata della Repubblica Federale Tedesca a Rabat che in una nota ha incoraggiato l’immigrazione legale per dare un stop a quella clandestina. L’ambasciatore tedesco in Marocco, Goets Schmidt Prem, ha confermato che la Germania nel 2020 aprirà nuove porte all’immigrazione legale dal Marocco.
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Baghdad e Teheran pronte a rispondere a Washington. La prima prepara una bozza contro Trump da presentare all’Onu. Mentre la Repubblica islamica è pronta a stracciare quello che resta dell’accordo sul nucleare. La situazione.
Iran e Iraq si dicono pronti a rispondere agli Stati Uniti dopo la morte del generale Qassem Soleimani. Mentre il feretro dell’ex comandante delle forze Qudsattraversa la Repubblica islamica per i tre giorni di lutto decisi dalla autorità, Teheran e Baghdad provano ad alzare la voce. In particolare per quanto riguarda la cacciata delle truppe americane dalla regione. Ma Donald Trump ha già messo in chiaro che il Pentagono tiene il mirino 52 siti iraniani.
LA RABBIA DEI PARLAMENTARI IRANIANI
Mentre i Pasdaran hanno confermato di avere almeno 35 obiettivi Usa nel mirino, nella sessione parlamentare del 5 gennaio diversi deputati hanno chiesto una rappresaglia per le azioni di Washington, scandendo slogan come «Abbasso gli Usa», «Abbasso Israele», »Il martirio è il nostro onore». Lo speaker del parlamento, Ali Larijani, si è rivolto direttamente al capo della Casa Bianca, affermando: «Mr. Trump! Ascolta, questa è la voce della nazione iraniana». «Tutti i Paesi del mondo», gli ha fatto eco il ministro della Difesa Amir Hatami, «hanno la responsabilità di prendere posizione appropriata contro le mosse terroristiche degli Usa, se vogliono evitare che si ripetano atti odiosi e senza precedenti come l’uccisione del generale Soleimani».
VERSO UNO STRALCIO DELL’ACCORDO SUL NUCLEARE
Il Paese degli Ayatollah, in particolare, potrebbe far accelerare la sua completa uscita dall’accordo sul nucleare. Secondo l’agenzia Bloomberg entro il 6 gennaio Teheran deciderà se avviare una nuova fase della sua uscita. Si tratterebbe della quinta fase del disimpegno iraniano dall’accordo firmato nel 2015 con Unione europea, Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Questi ultimi ne sono già usciti due anni fa. «La decisione è già stata presa ma, considerata la situazione attuale, importanti cambiamenti saranno discussi in un importante incontro questa sera», ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri Abbas Mousavi.
ANCHE L’IRAQ PRONTO A CACCIARE GLI AMERICANI
Per gli Usa potrebbe però aprirsi un altro fronte, quello iracheno. Il governo di Baghdad ha infatti convocato l’inviato degli Stati Uniti nel Paese per protestare contro «la violazione della sovranità» compiuta con il raid che ha colpito ucciso il generale iraniano. Il ministero degli Esteri iracheno ha convocato l’ambasciatore americano Matthew Tueller e ha condannato i raid. «Sono stati una palese violazione della sovranità dell’Iraq», ha ribadito il ministero in una nota e «contraddicono le regole concordate nell’ambito delle missioni della coalizione internazionale». Intanto l’inviato iracheno alle Nazioni Unite ha presentato denuncia formale contro «gli attacchi americani».
HEZBOLLAH CHIEDE A BAGHDAD DI CACCIARE GLI AMERICANI
L’appello a cacciare il nemico americano è arrivato anche dal capo del movimento sciita libanese Hezbollah, Seyed Hassan Nasrallah, che ha rivolto un appello all’Iraq perché si liberi «dall’occupazione americana». «La nostra richiesta, la nostra speranza è che i nostri fratelli al parlamento iracheno adottino una legge per la fuoriuscita degli Stati Uniti dall’Iraq», ha dichiarato Nasrallah in un intervento alla tv.
LA COALZIONE ANTI-ISIS SOSPENDE LE OPERAZIONI IN IRAQ
Intanto la coalizione internazionaleanti Isis ha intanto fatto sapere di aver sospeso tutte le operazioni nel Paese. In un comunicato la coalizione ha spiegato che gli attacchi contro i militari Usa impegnati nell’addestramento delle forze locali «ha limitato la nostra capacità di svolgere le nostre attività di formazione assieme ai nostri partner. Per questo abbiamo deciso di sospenderle».
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Baghdad e Teheran pronte a rispondere a Washington. La prima prepara una bozza contro Trump da presentare all’Onu. Mentre la Repubblica islamica è pronta a stracciare quello che resta dell’accordo sul nucleare. La situazione.
Iran e Iraq si dicono pronti a rispondere agli Stati Uniti dopo la morte del generale Qassem Soleimani. Mentre il feretro dell’ex comandante delle forze Qudsattraversa la Repubblica islamica per i tre giorni di lutto decisi dalla autorità, Teheran e Baghdad provano ad alzare la voce. In particolare per quanto riguarda la cacciata delle truppe americane dalla regione. Ma Donald Trump ha già messo in chiaro che il Pentagono tiene il mirino 52 siti iraniani.
LA RABBIA DEI PARLAMENTARI IRANIANI
Mentre i Pasdaran hanno confermato di avere almeno 35 obiettivi Usa nel mirino, nella sessione parlamentare del 5 gennaio diversi deputati hanno chiesto una rappresaglia per le azioni di Washington, scandendo slogan come «Abbasso gli Usa», «Abbasso Israele», »Il martirio è il nostro onore». Lo speaker del parlamento, Ali Larijani, si è rivolto direttamente al capo della Casa Bianca, affermando: «Mr. Trump! Ascolta, questa è la voce della nazione iraniana». «Tutti i Paesi del mondo», gli ha fatto eco il ministro della Difesa Amir Hatami, «hanno la responsabilità di prendere posizione appropriata contro le mosse terroristiche degli Usa, se vogliono evitare che si ripetano atti odiosi e senza precedenti come l’uccisione del generale Soleimani».
VERSO UNO STRALCIO DELL’ACCORDO SUL NUCLEARE
Il Paese degli Ayatollah, in particolare, potrebbe far accelerare la sua completa uscita dall’accordo sul nucleare. Secondo l’agenzia Bloomberg entro il 6 gennaio Teheran deciderà se avviare una nuova fase della sua uscita. Si tratterebbe della quinta fase del disimpegno iraniano dall’accordo firmato nel 2015 con Unione europea, Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Questi ultimi ne sono già usciti due anni fa. «La decisione è già stata presa ma, considerata la situazione attuale, importanti cambiamenti saranno discussi in un importante incontro questa sera», ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri Abbas Mousavi.
ANCHE L’IRAQ PRONTO A CACCIARE GLI AMERICANI
Per gli Usa potrebbe però aprirsi un altro fronte, quello iracheno. Il governo di Baghdad ha infatti convocato l’inviato degli Stati Uniti nel Paese per protestare contro «la violazione della sovranità» compiuta con il raid che ha colpito ucciso il generale iraniano. Il ministero degli Esteri iracheno ha convocato l’ambasciatore americano Matthew Tueller e ha condannato i raid. «Sono stati una palese violazione della sovranità dell’Iraq», ha ribadito il ministero in una nota e «contraddicono le regole concordate nell’ambito delle missioni della coalizione internazionale». Intanto l’inviato iracheno alle Nazioni Unite ha presentato denuncia formale contro «gli attacchi americani».
HEZBOLLAH CHIEDE A BAGHDAD DI CACCIARE GLI AMERICANI
L’appello a cacciare il nemico americano è arrivato anche dal capo del movimento sciita libanese Hezbollah, Seyed Hassan Nasrallah, che ha rivolto un appello all’Iraq perché si liberi «dall’occupazione americana». «La nostra richiesta, la nostra speranza è che i nostri fratelli al parlamento iracheno adottino una legge per la fuoriuscita degli Stati Uniti dall’Iraq», ha dichiarato Nasrallah in un intervento alla tv.
LA COALZIONE ANTI-ISIS SOSPENDE LE OPERAZIONI IN IRAQ
Intanto la coalizione internazionaleanti Isis ha intanto fatto sapere di aver sospeso tutte le operazioni nel Paese. In un comunicato la coalizione ha spiegato che gli attacchi contro i militari Usa impegnati nell’addestramento delle forze locali «ha limitato la nostra capacità di svolgere le nostre attività di formazione assieme ai nostri partner. Per questo abbiamo deciso di sospenderle».
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L’ex produttore musicale, che da tempo attraversava problemi finanziari, si è tolto la vita in un albergo di Fidenza in provincia di Parma.
È morto suicida in un albergo di Fidenza (Parma) Franco Ciani, musicista, autore e produttore ed ex marito di Anna Oxa. La morte sarebbe avvenuta nella sera di giovedì 2 gennaio, mentre il corpo è stato ritrovato il giorno dopo dai dipendenti dell’albergo. La notizia è stata diffusa solo un paio di giorni dopo dalla stampa locale. Secondo una prima ricostruzione sarebbe morto per soffocamento utilizzando un sacchetto di plastica. Ciani, 62 anni, autore di successi come Tutti i brividi del mondo, cantato da Anna Oxa, e Ti lascerò (che vinse il Festival di Sanremo 1989) avrebbe spiegato le ragioni del gesto in un biglietto lasciato nella camera e indirizzato al suo impresario Nando Sepe. Pare infatti che Ciani stesse attraversando problemi finanziari, culminati con il pignoramento dei diritti dei suoi vecchi successi da parte della Siae.
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Secondo Repubblica l’azienda di viale Mazzini avrebbe respinto la proposta di Amadeus di invitare la giornalista palestinese. E Iv prepara la battaglia in commissione vigilanza.
La Rai sembra intenzionata a tenere fuori da SanremoRula Jebreal. Secondo quanto scrive Repubblica, l’azienda di Viale Mazzini sarebbe intenzionata a respingere l’idea di Amadeus, direttore artistico del Festival, di avere la giornalista come ospite in una delle serate della kermesse. Stando a quanto scrive il quotidiano la decisione sarebbe maturata per le polemiche arrivate sopratutto dal fronte sovranista che si è scagliato contro la giornalista palestinese naturalizzata italiana nel timore che la gara canora venisse politicizzata.
VERSO LA BATTAGLIA IN COMMISSIONE VIGILANZA
Il caso però non è chiuso. Il presidente dei senatori di Italia Viva, Davide Faraone, ha già annunciato battaglia in commissione Vigilanza. «Dieci donne a Sanremo 2020 ma non Rula Jebreal. Nessuno spazio ad una nuova italiana di successo», ha attaccato, «Nella narrazione sovranista stona e anche parecchio. La Rai, la tv pubblica, si piega al diktat di Salvini. Credo sia semplicemente vergognoso. Ho deciso di portare il caso in vigilanza Rai ed intanto denuncio pubblicamente un’autentica discriminazione di Stato. Non possiamo stare zitti».
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VERSO LA BATTAGLIA IN COMMISSIONE VIGILANZA
Il caso però non è chiuso. Il presidente dei senatori di Italia Viva, Davide Faraone, ha già annunciato battaglia in commissione Vigilanza. «Dieci donne a Sanremo 2020 ma non Rula Jebreal. Nessuno spazio ad una nuova italiana di successo», ha attaccato, «Nella narrazione sovranista stona e anche parecchio. La Rai, la tv pubblica, si piega al diktat di Salvini. Credo sia semplicemente vergognoso. Ho deciso di portare il caso in vigilanza Rai ed intanto denuncio pubblicamente un’autentica discriminazione di Stato. Non possiamo stare zitti».
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Due furono quelli che ne determinarono la fine politica. Il primo fu avere troppo tollerato nel Psi personaggi a dir poco improbabili. Il secondo aver sottovalutato la forza organizzativa e l’istinto di sopravvivenza del Pci.
Per ricordarsi in modo chiaro di Bettino Craxi uomo politico occorre avere almeno 50 anni e quindi circa metà degli italiani ricordano il leader socialista italiano, scomparso il 19 gennaio de 2000 a 65 anni in esilio ad Hammamet in Tunisia, poco e male, e i più non lo ricordano affatto. Morì da latitante con due condanne per finanziamento illecito della politica e con quattro processi ancora in corso. Tuttavia c’è chi ritiene gli vada restituito un posto più dignitoso nella storia politica del Paese, a incominciare dal posto che gli spetta nella storia della sinistra italiana.
A un condannato? Si può rispondere con un’altra domanda: quanti capi di partito avrebbero potuto e magari dovuto essere come lui condannati per finanziamento illecito della politica, per soldi arrivati illegalmente al partito, dall’Italia o dall’estero, e non certo a loro insaputa? Sarebbe giusto rispondere a entrambe le domande, e non solo alla prima. Le colpe principali di Bettino Craxi furono probabilmente due, e ne determinarono la fine politica. La prima implica anche responsabilità morali e fu quella di avere troppo tollerato nel suo partito, il Psi, personaggi a dir poco improbabili, in un clima dove abbondavano “nani e ballerine” come ebbe a dire il ministro socialista Rino Formica negli anni 80, cioè sicofanti e profittatori. Ma Bettino era convinto di poter gestire questa corte forte delle proprie capacità e del fatto di essere, insieme a Filippo Turati che mai però riuscì a portarsi dietro tutto il socialismo italiano, l’unico leader capace di far marciare i socialisti italiani sui binari del socialismo democratico europeo, non peninsulare massimalista e velleitario, ma con orizzonti più ampi e obiettivi più chiari. Craxi aveva capacità e forza di governo che a Turati, più pensatore che capo, in parte mancavano.
LE ANIME DEL SOCIALISMO ITALIANO
Non si capisce Craxi, e non si capisce nemmeno il Pietro Nenni dopo il 1956, se si dimentica che il socialismo italiano ebbe sempre almeno due anime se non cinque, diviso fra socialdemocratici di stampo europeo e massimalisti, spesso ancor più rivoluzionari quest’ultimi (a parole) dei comunisti, che del massimalismo socialista diventarono l’ala organizzata e disciplinata, e in pochi anni di totale ispirazione sovietica. Già ben presenti a fine 800, i socialdemocratici si affermarono rapidamente in Germania subito dopo il ciclone bellico che aveva lacerato nel 1914-18 la grande famiglia socialista europea, e in risposta (anche armata) al bolscevismo russo. Non si sa se la socialdemocrazia si sarebbe allora affermata anche in Italia, perché il fascismo, uscito in pieno inizialmente dalla costola del socialismo italiano, chiuse a partire dal 1923 la partita. Ma è certo che dal 1912 al 1914 furono i massimalisti con Benito Mussolini a guidare il Psi, tornando alla testa (senza Mussolini) nel 1919 quando a Bologna al XVI Congresso aderirono per acclamazione all’Internazionale Comunista moscovita; nel ’22 Turati e i moderati furono espulsi.
LA CELEBRE PROFEZIA DI TURATI
È rimasta famosa la profezia che Turati lanciò parlando il 19 gennaio del 1921 al XVII Congresso socialista di Livorno, quello che vide la scissione comunista in risposta all’appello bolscevico. Il mito della rivoluzione russa non sarebbe durato a lungo, disse Turati; si sarebbe innervato, per durare, sulla forza del nazionalismo russo, diventandone l’ultima incarnazione; se innescata anche in Italia, la rivoluzione bolscevica avrebbe portato una durissima reazione, essendo l’Italia certo non sviluppata come la Germania, ma neppure arretrata come la Russia, ma una via di mezzo dove la borghesia non avrebbe accettato il bolscevismo. Tutto vero. Sessant’anni dopo (1982), uno che a Livorno c’era e da protagonista comunista, Umberto Terracini, disse alcune cose che non piacquero al suo partito e le disse anche Camilla Ravera, un’altra che da comunista a Livorno c’era: dissero che allora Turati aveva ragione, e i comunisti torto.
Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo
È partendo da questo che Craxi commise il suo secondo grave errore: la sottovalutazione della forza organizzativa e dell’istinto di sopravvivenza del Pci. Craxi aveva uno schema mentale piuttosto semplice con cui misurare i rapporti con il comunismo, italiano e sovietico, e ne traeva una conclusione altrettanto semplice: sono partiti con il piede sbagliato e, avendo fallito le grandi promesse, hanno perso la partita. Come dargli torto? Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo. «È lui che ci ha aiutato, dal Pci solo alcune buone parole di Giorgio Napolitano, perché il Pci parlava con la Cecoslovacchia ufficiale, non con noi», diceva il cecoslovacco Jiri Pelikan. Craxi, il cui ego come spesso accade ai leader politici non era certo di modeste dimensioni, pensava che lui stesso, se medesimo, e la Storia avrebbero risolto l’equivoco comunista. Il suo piccolo (e non tanto piccolo) trionfo su scala italiana doveva essere la caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989 e tutto quanto ne seguì, ma fu invece l’inizio della sua fine. La causa fu il combinato-disposto fra “nani e ballerine” e tutto il conseguente, e l’istinto di sopravvivenza di un partito, e di una cultura, che il detestato Palmiro Togliatti, l’uomo che copriva di insulti nell’aprile 1932 la memoria di un Turati da pochi giorni scomparso, aveva modellato come una macchina da guerra, non ancora del tutto spompata.
C’è un passaggio illuminante nella prima biografia di Massimo D’Alema nuovo segretario PDS (così si chiamava dal 1991 l’ex Pci dopo la scissione di Rifondazione), uscita nel 1995 a firma di Giovanni Fasanella e Daniele Martini. «Eravamo – diceva D’Alema – come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista…. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista in Italia». Concetti analoghi, un po’ meno strategici e bellicosi, avevano già espresso anni prima altri esponenti Pci o ex Pci, tra cui già nel 1987 l’ex segretario generale Cgil, Luciano Lama.
IL RAPPORTO CONFLITTUALE COL PCI
Per capire Craxi resta fondamentale il suo rapporto conflittuale con il Pci, e con il comunismo in genere e sovietico in particolare. La storia delle relazioni con la Dc è cosa diversa, una ripresa del centrosinistra con meno ambizioni e più cinismo, dove un partito indebolito da troppe correnti e da 40 anni ininterrotti di governo – grazie a un Pci troppo legato a Mosca per governare in un Paese della Nato e deciso a rimanere nell’Alleanza – poteva accomodare un’alternanza socialista mantenendo però ben salde le leve del potere economico e finanziario nell’ampio mondo di grandi imprese e banche Iri. Entrambi, socialisti e democristiani, utilizzarono abbondantemente in quell’ultimo scorcio di Guerra Fredda la spesa pubblica italiana per governare, con un salto di qualità negativo per il debito che il Paese non ha più saputo recuperare.
Con il Pci fu per Craxi diverso, una storia assai più lunga nel tempo. Gli ex comunisti si sono già abbondantemente cosparsi il capo di cenere, più in privato che in pubblico ma è umanamente comprensibile, per una serie di scelte discutibili, la prima delle quali fu continuare a credere nella Rivoluzione sovietica anche quando questa, a partire dal 1924-1926, si trasformava in uno strumento del nazionalismo russo e di un gruppo dirigente semi-asiatico attorno a Stalin. La forza del mito russo, la prima grande rivoluzione del 900 secolo si pensava delle rivoluzioni, era comunque irresistibile. Craxi rimase invece fedele a quanto Turati, già nell’ottobre del 1919, diceva al citato XVI Congresso, a Bologna, preconizzando il “triste effetto” dell’ottobre russo: miseria, terrore, “mancanza di ogni libero consenso”, militarizzazione dell’economia, “una rivoluzione a oltranza per la quale” il popolo russo “è manifestamente immaturo” e avvio di “una infinita odissea di dolori”, mentre un graduale riformismo socialdemocratico rispettoso delle libertà avrebbe potuto portare ben altri risultati. Ma non c’era un granché in Russia come tradizione rispettosa delle libertà, e il Grande Partito non ha certo cambiato le cose.
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Due furono quelli che ne determinarono la fine politica. Il primo fu avere troppo tollerato nel Psi personaggi a dir poco improbabili. Il secondo aver sottovalutato la forza organizzativa e l’istinto di sopravvivenza del Pci.
Per ricordarsi in modo chiaro di Bettino Craxi uomo politico occorre avere almeno 50 anni e quindi circa metà degli italiani ricordano il leader socialista italiano, scomparso il 19 gennaio de 2000 a 65 anni in esilio ad Hammamet in Tunisia, poco e male, e i più non lo ricordano affatto. Morì da latitante con due condanne per finanziamento illecito della politica e con quattro processi ancora in corso. Tuttavia c’è chi ritiene gli vada restituito un posto più dignitoso nella storia politica del Paese, a incominciare dal posto che gli spetta nella storia della sinistra italiana.
A un condannato? Si può rispondere con un’altra domanda: quanti capi di partito avrebbero potuto e magari dovuto essere come lui condannati per finanziamento illecito della politica, per soldi arrivati illegalmente al partito, dall’Italia o dall’estero, e non certo a loro insaputa? Sarebbe giusto rispondere a entrambe le domande, e non solo alla prima. Le colpe principali di Bettino Craxi furono probabilmente due, e ne determinarono la fine politica. La prima implica anche responsabilità morali e fu quella di avere troppo tollerato nel suo partito, il Psi, personaggi a dir poco improbabili, in un clima dove abbondavano “nani e ballerine” come ebbe a dire il ministro socialista Rino Formica negli anni 80, cioè sicofanti e profittatori. Ma Bettino era convinto di poter gestire questa corte forte delle proprie capacità e del fatto di essere, insieme a Filippo Turati che mai però riuscì a portarsi dietro tutto il socialismo italiano, l’unico leader capace di far marciare i socialisti italiani sui binari del socialismo democratico europeo, non peninsulare massimalista e velleitario, ma con orizzonti più ampi e obiettivi più chiari. Craxi aveva capacità e forza di governo che a Turati, più pensatore che capo, in parte mancavano.
LE ANIME DEL SOCIALISMO ITALIANO
Non si capisce Craxi, e non si capisce nemmeno il Pietro Nenni dopo il 1956, se si dimentica che il socialismo italiano ebbe sempre almeno due anime se non cinque, diviso fra socialdemocratici di stampo europeo e massimalisti, spesso ancor più rivoluzionari quest’ultimi (a parole) dei comunisti, che del massimalismo socialista diventarono l’ala organizzata e disciplinata, e in pochi anni di totale ispirazione sovietica. Già ben presenti a fine 800, i socialdemocratici si affermarono rapidamente in Germania subito dopo il ciclone bellico che aveva lacerato nel 1914-18 la grande famiglia socialista europea, e in risposta (anche armata) al bolscevismo russo. Non si sa se la socialdemocrazia si sarebbe allora affermata anche in Italia, perché il fascismo, uscito in pieno inizialmente dalla costola del socialismo italiano, chiuse a partire dal 1923 la partita. Ma è certo che dal 1912 al 1914 furono i massimalisti con Benito Mussolini a guidare il Psi, tornando alla testa (senza Mussolini) nel 1919 quando a Bologna al XVI Congresso aderirono per acclamazione all’Internazionale Comunista moscovita; nel ’22 Turati e i moderati furono espulsi.
LA CELEBRE PROFEZIA DI TURATI
È rimasta famosa la profezia che Turati lanciò parlando il 19 gennaio del 1921 al XVII Congresso socialista di Livorno, quello che vide la scissione comunista in risposta all’appello bolscevico. Il mito della rivoluzione russa non sarebbe durato a lungo, disse Turati; si sarebbe innervato, per durare, sulla forza del nazionalismo russo, diventandone l’ultima incarnazione; se innescata anche in Italia, la rivoluzione bolscevica avrebbe portato una durissima reazione, essendo l’Italia certo non sviluppata come la Germania, ma neppure arretrata come la Russia, ma una via di mezzo dove la borghesia non avrebbe accettato il bolscevismo. Tutto vero. Sessant’anni dopo (1982), uno che a Livorno c’era e da protagonista comunista, Umberto Terracini, disse alcune cose che non piacquero al suo partito e le disse anche Camilla Ravera, un’altra che da comunista a Livorno c’era: dissero che allora Turati aveva ragione, e i comunisti torto.
Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo
È partendo da questo che Craxi commise il suo secondo grave errore: la sottovalutazione della forza organizzativa e dell’istinto di sopravvivenza del Pci. Craxi aveva uno schema mentale piuttosto semplice con cui misurare i rapporti con il comunismo, italiano e sovietico, e ne traeva una conclusione altrettanto semplice: sono partiti con il piede sbagliato e, avendo fallito le grandi promesse, hanno perso la partita. Come dargli torto? Craxi fu, in Italia e non solo, il grande protettore degli apostati ed esuli del comunismo. «È lui che ci ha aiutato, dal Pci solo alcune buone parole di Giorgio Napolitano, perché il Pci parlava con la Cecoslovacchia ufficiale, non con noi», diceva il cecoslovacco Jiri Pelikan. Craxi, il cui ego come spesso accade ai leader politici non era certo di modeste dimensioni, pensava che lui stesso, se medesimo, e la Storia avrebbero risolto l’equivoco comunista. Il suo piccolo (e non tanto piccolo) trionfo su scala italiana doveva essere la caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989 e tutto quanto ne seguì, ma fu invece l’inizio della sua fine. La causa fu il combinato-disposto fra “nani e ballerine” e tutto il conseguente, e l’istinto di sopravvivenza di un partito, e di una cultura, che il detestato Palmiro Togliatti, l’uomo che copriva di insulti nell’aprile 1932 la memoria di un Turati da pochi giorni scomparso, aveva modellato come una macchina da guerra, non ancora del tutto spompata.
C’è un passaggio illuminante nella prima biografia di Massimo D’Alema nuovo segretario PDS (così si chiamava dal 1991 l’ex Pci dopo la scissione di Rifondazione), uscita nel 1995 a firma di Giovanni Fasanella e Daniele Martini. «Eravamo – diceva D’Alema – come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista…. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista in Italia». Concetti analoghi, un po’ meno strategici e bellicosi, avevano già espresso anni prima altri esponenti Pci o ex Pci, tra cui già nel 1987 l’ex segretario generale Cgil, Luciano Lama.
IL RAPPORTO CONFLITTUALE COL PCI
Per capire Craxi resta fondamentale il suo rapporto conflittuale con il Pci, e con il comunismo in genere e sovietico in particolare. La storia delle relazioni con la Dc è cosa diversa, una ripresa del centrosinistra con meno ambizioni e più cinismo, dove un partito indebolito da troppe correnti e da 40 anni ininterrotti di governo – grazie a un Pci troppo legato a Mosca per governare in un Paese della Nato e deciso a rimanere nell’Alleanza – poteva accomodare un’alternanza socialista mantenendo però ben salde le leve del potere economico e finanziario nell’ampio mondo di grandi imprese e banche Iri. Entrambi, socialisti e democristiani, utilizzarono abbondantemente in quell’ultimo scorcio di Guerra Fredda la spesa pubblica italiana per governare, con un salto di qualità negativo per il debito che il Paese non ha più saputo recuperare.
Con il Pci fu per Craxi diverso, una storia assai più lunga nel tempo. Gli ex comunisti si sono già abbondantemente cosparsi il capo di cenere, più in privato che in pubblico ma è umanamente comprensibile, per una serie di scelte discutibili, la prima delle quali fu continuare a credere nella Rivoluzione sovietica anche quando questa, a partire dal 1924-1926, si trasformava in uno strumento del nazionalismo russo e di un gruppo dirigente semi-asiatico attorno a Stalin. La forza del mito russo, la prima grande rivoluzione del 900 secolo si pensava delle rivoluzioni, era comunque irresistibile. Craxi rimase invece fedele a quanto Turati, già nell’ottobre del 1919, diceva al citato XVI Congresso, a Bologna, preconizzando il “triste effetto” dell’ottobre russo: miseria, terrore, “mancanza di ogni libero consenso”, militarizzazione dell’economia, “una rivoluzione a oltranza per la quale” il popolo russo “è manifestamente immaturo” e avvio di “una infinita odissea di dolori”, mentre un graduale riformismo socialdemocratico rispettoso delle libertà avrebbe potuto portare ben altri risultati. Ma non c’era un granché in Russia come tradizione rispettosa delle libertà, e il Grande Partito non ha certo cambiato le cose.
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È iniziato il lungo corteo funebre per l’ultimo saluto al generale ucciso in Iraq. Vie affollate nella città di Ahvaz. Poi domani il passaggio per la capitale fino alla sepoltura prevista per il 7 gennaio.
Una marea umana ha invaso le strade di Ahvaz per il primo corteo funebre in memoria del generale Qassem Soleimani, ucciso venerdì 3 gennaio in un raid americano in Iraq, nel primo di tre giorni di lutto proclamati in Iran. Al corteo la gente sventolava bandiere rosse, il colore del “sangue dei martiri”), verdi (il colore dell’Islam) e bandiere bianche decorate con slogan religiosi, oltre a ritratti del generale, piangendo e gridando «Morte all’America». La televisione di Stato ha trasmesso una diretta del corteo con lo schermo listato a lutto.
Un camion ornato di fiori e coperto da un telo con disegnata la cupola della Roccia di Gerusalemme trasportava le bare di Soleimani e Abu Mehdi al-Mouhandis, capo militare iracheno filo-iraniano ucciso nella stessa azione, facendosi strada molto lentamente attraverso la folla venuta a piangere nel centro di Ahvaz, anche dalle città vicine, il comandante militare più amato dal popolo. Molti i ritratti, alzati dalla folla, del generale che comandava la forza Quds, l’unità delle Guardie rivoluzionarie per le operazioni all’estero.
IL LUNGO SALUTO A SOLEIMANI
L’agenzia semi-ufficiale Isna ha parlato di una quantità di partecipanti «innumerevole», l’agenzia Mehr, vicina agli ultra-conservatori, di un «numero incredibile» e la tv di Stato di una «folla gloriosa». Città nel sud-ovest dell’Iran con una folta minoranza araba, Ahvaz è la capitale del Khuzestan, una provincia martire della guerra Iran-Iraq (1980-1988), durante la quale la stella del generale iniziò a brillare. L’omaggio a Soleimani si ripeterà a Machhad, nel nord-est, a Teheran, tra il 6 e 6 gennaio, poi a Qom (nel centro del Paese), prima della sepoltura in programma per il 7 nella città natale del generale, Kerman, nel sudest.
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È iniziato il lungo corteo funebre per l’ultimo saluto al generale ucciso in Iraq. Vie affollate nella città di Ahvaz. Poi domani il passaggio per la capitale fino alla sepoltura prevista per il 7 gennaio.
Una marea umana ha invaso le strade di Ahvaz per il primo corteo funebre in memoria del generale Qassem Soleimani, ucciso venerdì 3 gennaio in un raid americano in Iraq, nel primo di tre giorni di lutto proclamati in Iran. Al corteo la gente sventolava bandiere rosse, il colore del “sangue dei martiri”), verdi (il colore dell’Islam) e bandiere bianche decorate con slogan religiosi, oltre a ritratti del generale, piangendo e gridando «Morte all’America». La televisione di Stato ha trasmesso una diretta del corteo con lo schermo listato a lutto.
Un camion ornato di fiori e coperto da un telo con disegnata la cupola della Roccia di Gerusalemme trasportava le bare di Soleimani e Abu Mehdi al-Mouhandis, capo militare iracheno filo-iraniano ucciso nella stessa azione, facendosi strada molto lentamente attraverso la folla venuta a piangere nel centro di Ahvaz, anche dalle città vicine, il comandante militare più amato dal popolo. Molti i ritratti, alzati dalla folla, del generale che comandava la forza Quds, l’unità delle Guardie rivoluzionarie per le operazioni all’estero.
IL LUNGO SALUTO A SOLEIMANI
L’agenzia semi-ufficiale Isna ha parlato di una quantità di partecipanti «innumerevole», l’agenzia Mehr, vicina agli ultra-conservatori, di un «numero incredibile» e la tv di Stato di una «folla gloriosa». Città nel sud-ovest dell’Iran con una folta minoranza araba, Ahvaz è la capitale del Khuzestan, una provincia martire della guerra Iran-Iraq (1980-1988), durante la quale la stella del generale iniziò a brillare. L’omaggio a Soleimani si ripeterà a Machhad, nel nord-est, a Teheran, tra il 6 e 6 gennaio, poi a Qom (nel centro del Paese), prima della sepoltura in programma per il 7 nella città natale del generale, Kerman, nel sudest.
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Violento bombardamento delle forze di Khalifa Haftar nei pressi di Tripoli contro un centro di addestramento. Almeno una trentina i morti.
La battaglia per Tripoli di Khalifa Haftar, divenuta una «guerra santa» per difendere la Libia da una preannunciata invasione turca, ha avuto un sanguinoso inasprimento: un raid aereo delle forze del generale contro l’Accademia militare di Tripoli ha causato almeno una trentina di morti e quasi 20 feriti fra i miliziani-cadetti, con un bilancio di vittime che però potrebbe essere anche doppio stando a quanto rivendicato dalla propaganda dell’uomo forte della Cirenaica.
PER HAFTAR I MORTI SONO OLTRE 70
«Ventotto martiri e 18 feriti fra gli studenti dell’Accademia militare di Tripoli in seguito a un raid dell’aviazione straniera che sostiene il criminale di guerra ribelle Haftar», ha riferito la pagina Facebook dell’operazione “Vulcano di collera” delle forze filo-governative che difendono la Tripoli dove è insediato il premier Fayez al-Sarraj. La cifra di 28 morti per il raid «dell’aviazione di Haftar» è stata accreditata da una fonte ufficiale del ministero della Sanità libico. La “divisione informazione di guerra” delle forze del generale ha però sostenuto che «l’aviazione ha preso di mira un raggruppamento di cento miliziani presso l’Accademia militare che si preparavano a partecipare ai combattimenti in corso e almeno 70 fra loro sono stati uccisi».
RAPPRESAGLIA CONTRO UN PRESUNTO RAID TURCO
L’incursione viene presentata come una rappresaglia per un «bombardamento turco» compiuto all’alba contro la «brigata salafita 210». Immagini diffuse da “Vulcano di collera” mostrano un piazzale con una decina di corpi a terra, pozze di sangue e quattro automezzi bianchi oltre a feriti che vengono curati in una struttura sanitaria. Il raid, assieme a un altro che avrebbe colpito di nuovo l’aeroporto internazionale Mitiga, è stato condotto mentre l’Italia e le altre potenze europee lavorano a una missione diplomatica che eviti un’escalation militare in Libia.
LA JIHAD DI HAFTAR CONTRO ERDOGAN
Il raid è stato sferrato poche ore dopo che Haftar, il quale da aprile cerca di conquistare Tripoli, ha lanciato una drammatica chiamata alle armi: un appello a tutti i libici contro un eventuale intervento militare di Ankara, dove il parlamento ha autorizzato il presidente Recep Tayyip Erdogan a inviare soldati per rafforzare il governo di Tripoli sostenuto dall’Onu. «Noi accettiamo la sfida e dichiariamo il jihad e una chiamata alle armi», ha attaccato Haftar in un discorso trasmesso in tv, invitando «uomini e donne, soldati e civili, a difendere la nostra terra e il nostro onore». L’uomo forte di Bengasi ha quindi insultato Erdogan dandogli dello «stupido sultano» e ha accusato Ankara di essere intenzionata a «riprendere il controllo della Libia», che è stata una provincia dell’Impero Ottomano fino alla conquista coloniale italiana nel 1911.
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Un veicolo ha centrato un gruppo di turisti tedeschi nei pressi di Lutago. Nell’impatto ferite anche 11 persone, tre in modo grave. Fermato il guidatore trovato positivo all’alcol test.
È di 6 morti e 11 feriti il bilancio di un tragico incidente stradale avvenuto la scorsa notte a Lutago, in Valle Aurina in Alto Adige. Secondo le prime informazioni, verso le ore 1.15 un’auto ha centrato a grande velocità un gruppo di persone che si trovava sul bordo della strada.
ALMENO TRE FERITI GRAVI
Le vittime sono giovani cittadini tedeschi. Dopo aver passato la serata in un locale, la comitiva si trovava accanto a un pullman turistico quando è stata centrata in pieno dell’automobile. Sei sono morti sul colpo, mentre 11 hanno riportato ferite. Tre sono in gravi condizioni. Tra loro una donna che è stata trasferita d’urgenza di notte con l’elicottero del Aiut Alpin alla clinica universitaria di Innsbruck, in Austria. L’automobilista, un uomo del posto di 28 anni, di Chienes, è stato fermato. Secondo le prime informazioni, avrebbe avuto un tasso alcolemico molto elevato.
KOMPATSCHER: «IL NUOVO ANNO INIZIA CON UNA TRAGEDIA»
«Il nuovo anno inizia con una tragedia», ha commentato il governatore altoatesino Arno Kompatscher che a Lutago ha partecipato alla conferenza stampa sull’incidente stradale con sei morti. Le vittime facevano parte di una comitiva di turisti della Germania settentrionale, che si trovava in valle Aurina per la settimana bianca. Kompatscher ha spiegato che subito dopo l’incidente è partita la macchina dei soccorsi. Dei sopravvissuti si stanno occupando degli psicologi. Trattandosi di una comitiva molto grande, complessivamente un’ottantina di persone, è stata istituita una hotline che fornisce informazioni ai parenti in Germania. «In questo triste momento siamo vicini alle vittime e ai loro parenti», ha ribadito Kompatscher.
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L’Ue fuori gioco nel Mediterraneo. Dopo il via libera di Ankara all’invio di truppe, nell’ex colonia italiana si va verso una spartizione tra Erdogan e Putin. Come a Damasco e dintorni.
L’accordo sugli armamenti di Ankara con il governo di Tripoli a fine 2019 e, come primo atto del 2020, l’ok del parlamento turco a un contingente in Libia è l’istituzionalizzazione di una proxy war iniziata nel 2011, con le Primavere arabe. Segnata dall’accelerazione del 2014, che portò gli islamisti al governo nella capitale libica, e dalla volata di queste settimane imposta dalla marcia del nemico Khalifa Haftar su Tripoli. I rinforzi sul campo dei contractor russi alle milizie di mercenari del generale libico fanno la differenza, rendendo possibile la battaglia finale contro gli islamisti fallita da mesi da Haftar. Alla minaccia concreta i turchi, che un rapporto dell’Onu ha certificato violare «regolarmente e a volte apertamente» l’embargo sulle armi verso la Libia, sono costretti a uscire allo scoperto. Svelando come la guerra per procura sia anche, se non prima di tutto, una guerra del gas nel Mediterraneo.
ISLAMISMO CONTRO AUTORITARISMO
Da una parte scorre il corridoio di armi e di vari rifornimenti che parte dalla Turchia e, soprattutto attraverso i porti e lo scalo di Misurata, raggiunge Tripoli e ilgoverno di unità nazionale (Gna) guidato dagli islamisti. Aiuti, militari ed economici, pagati soprattutto dal ricco Qatar verso i gruppi di ribelli sponsorizzati nelle Primavere arabe contro i regimi autoritari, e a capo all’esecutivo di Fayez al Serraj legittimato dalla comunità internazionale (in seguito ai negoziati dell’Onu del 2015), ma sempre più circoscritto a Tripoli. Un governo caotico, frammentato, corrotto e composto da milizie anche violente. Dall’altra, ricorda lo stesso report sulla Libia del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del novembre scorso, c’è il fronte dei regimi sopravvissuti alle Primavere arabe che armano Haftar e conducono raid per lui: l’Egitto (finanziato dai sauditi) e gli Emirati arabi contrastano le mire neo-ottomane dei turchi in Libia, in asse con la Russia amica dei regimi.
ERDOGAN SI IMPOSSESSA DEL MEDITERRANEO
Il Leitmotiv è riportare la stabilità dell’era Gheddafi. Barattare il miraggio della democrazia con l’autoritarismo, nel nome di una sicurezza perduta e inseguita, è una tentazione ormai dalla maggioranza dei libici. Nell’ultimo anno Haftar ha raccolto simpatie anche in zone governate dagli islamisti (inclusi alcuni quartieri di Tripoli) dove da anni le aziende turche ricostruiscono strutture e infrastrutture – rilevando talvolta anche vecchi cantieri italiani. A questi grossi interessi geopolitici, che comprendono anche il Mediterraneo, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, un po’ come con i curdi nel Nord della Siria, non intende rinunciare, quand’anche come si profila le Primavere arabe dovessero soccombere alle forze di restaurazione. Il memorandum di novembre tra la Turchia e la Libia sulla giurisdizione dei due Stati nelle acque mediterranee (allegato all’accordo di cooperazione militare) è un’entrata a gamba tesa di Erdogan anche nei dossier energetici.
Complice il vassallo al Serraj, Erdogan ha diviso arbitrariamente il Mediterraneo tra Turchia e Libia
A GAMBA TESA NEL DOSSIER ENERGETICO
Egitto, Grecia, Israele, per non parlare di Cipro in contenzioso storico con la Turchia, sono insorte alla demarcazione unilaterale dei confini marittimi di Erdogan e al Serraj. Un colpo di spugna che dà mano libera ad Ankara alle esplorazioni di gas e petrolio nel Mediterraneo, per le quali i turchi si erano fatti largo nel Mediterraneo orientale già nella scorsa estate, al solito senza chiedere il permesso alla Grecia e a Cipro, lambendo anche la zona economica esclusiva egiziana e i minando i progetti dei gasdotti dei tre Paesi con Israele. Complice il vassallo al Serraj, Erdogan ha diviso arbitrariamente il Mediterraneo per scongiurare «l’emarginazione della Turchia» a terra. Anche gli accordi militari e di spartizione delle acque territoriali con la Libia furono ratificati a tambur battente dal parlamento di Ankara, in «aperta violazione del diritto di navigazione e dei diritti sovrani della Grecia e di altri Paesi», commentò il titolare della Farnesina Luigi Di Maio.
IL VIA LIBERA ALLE TRUPPE DEL PARLAMENTO TURCO
I memorandum dell’autunno erano l’antipasto della mozione per l’invio di truppe turche a sostegno del governo di Tripoli, approvata il 2 gennaio dai deputati di Ankara (325 favorevoli, 184 contrari) in un parlamento riaperto eccezionalmente dopo Capodanno, in anticipo dalla ripresa dei lavori l’8 gennaio. Curiosamente Erdogan, corso in soccorso alla battaglia finale libica, fa leva sul pretesto della «minaccia alla stabilità anche della Turchia»: con la Libia senza un «governo legittimo» si favorirebbero «gruppi terroristici come l’Isis e al Qaeda», che proprio le violazioni all’embargo anche della Turchia hanno fatto proliferare per anni, in reazione ai regimi autoritari e per sottrarre loro territori con ogni mezzo e scontri anche cruenti. Sebbene l’invio di rinforzi navali, aerei e a terra non si preveda immediato, l’escalation turca favorirà gli scontri in Libia e le tensioni nel Mediterraneo. Mentre l’Italia, e con Roma buona parte dell’Ue, staranno a guardare.
LA SPARTIZIONE TRA ERDOGAN E PUTIN
Alla condanna degli accordi «illegittimi» tra la Turchia e la Libia non seguiranno fatti. I progetti dino fly zoneventilati in un’operazione di Francia, Germania e Italia sono irrealistici, considerati il disastro dell’intervento nel 2011 contro Gheddafi e le manovre francesi inconfessabili di oggi con Haftar. E poi per difendere i libici da chi? L’Ue riconosce il governo filoturco di al Serraj a Tripoli (l’Italia ha una missione di assistenza agli islamisti a Misurata) non quello del generale nell’Est, con il quale tuttavia tiene aperti canali. Gli alt a Erdogan non possono tradursi in azioni, pena l’appoggio degli europei a regimi autoritari quali l’Arabia Saudita e i suoi satelliti (Emirati ed Egitto) e alla Russia di Vladimir Putin. Dalla Conferenza di Berlino sulla Libia di metà gennaio (se si terrà) non si attendono risultati ed è probabile che, nell’impotenza europea, mostrando i muscoli come in Siria Erdogan si ritaglierà la sua fetta di Libia – e di Mediterraneo – in accordo con Putin.
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Ai piccoli nomi servono i grandi per crescere. E a questi ultimi serve un sistema compatto che garantisca loro un humus fertile per continuare a svilupparsi e anche a scippare talenti ed eccellenze, all’occorrenza.
L’unico vantaggio di avere 15670 messaggi nella memoria e 4446 mail ancora da leggere in uno solo degli account diposta elettronica di cui siamo disgraziatamente titolari è la possibilità di verificare fatti ormai remoti per la velocità e le capacità mnemoniche di oggi. Per esempio, che cosa ci venisse proposto come moda maschile di tendenza nel 2010 e 2011 attraverso i comunicati delle aziende espositrici di Pitti Uomo. La nuova edizione, la numero 97, aprirà ufficialmente domani sera, 6 gennaio, con una cena presso il Maggio Musicale Fiorentino (neanche il tempo di ammirare l’Arno, ed ecco il nuovo sovrintendente Alexander Pereira pronto a replicare la formula-Scala dell’evento sponsorizzato a go-go, nell’obiettivo di allontanare gli spettri del profondo rosso di bilancio prodotti dal mastodontico edificio): la data dimostra in via inequivocabile quanto il business conti davvero per questo settore e come i calendari internazionali se ne infischino delle “Befane”.
L’EVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO
L’edizione di Pitti Uomo del 2010, la numero 77, venne inaugurata il 12 gennaio (si apre sempre il secondo martedì dell’anno nuovo, con cena di gala la sera precedente), prevedeva il nuovo allestimento di Patricia Urquiola nel Padiglione Centrale, concentrato sul tema dei Pop Up Store e delle “moderne combinazioni” dell’abbigliamento maschile fra i temi forti. Marina Yachting aveva allestito fra la ghiaia dell’antico forte militare un porto di derive d’epoca, e ricordiamo che accorremmo per vedere il primo Skiff inglese, (anno 1860), e il mitico Dinghy di George Cockshott, icona degli appassionati dal 1913. Il tutto era sintetizzato dalla società organizzatrice, Pitti Immagine, in un paio di pagine. Il lessico delle aziende espositrici ruotava attorno a concetti come “tradizione e innovazione”, “molteplici esigenze dell’uomo metropolitano”, “nuovo appeal in tagli classici”.
FENOMENOLOGIA DI UN GIGANTE
Essendo il linguaggio dell’edizione 97, cioè di un decennio dopo, perfino invecchiato, tanto da risultare incredibilmente ancorato agli Anni 80 (pesco a caso dalle decine di comunicati giunti in queste ore: “appeal pratico ma raffinato”, “innovazione e lusso in un unico tessuto”, “una collaborazione che stupisce e affascina”), ed essendo i giacconi impermeabili e high tech di dieci anni fa non proprio diversissimi, ecosostenibilità a parte, da quelli che ci verranno mostrati dopodomani e sui quali i più sgraneranno gli occhi come davanti a un’apparizione (la moda è business per tutti, bellezza), ci domandiamo dunque che cosa sia cambiato in un decennio di moda maschile per far sì che Pitti Uomo da Firenze sia diventato un gigante in grado di dettare legge all’intero sistema mondiale, che il suo comunicato abbia assunto le dimensioni di un saggio monografico, i suoi eventi muovano circa 20 mila persone e il presidente della Camera della Moda Carlo Capasa abbia dato fondo a tutte la propria vis diplomatica per riportare Gucci non solo a sfilare a Milano, cosa che farà il 14, ma a dividere nuovamente le presentazioni delle collezioni uomo e donna nel tentativo di difendere quella che appariva fino a ieri come la progressiva e ineluttabile estinzione del calendario milanese maschile.
LA CAPACITÀ DI FARE SPETTACOLO E CULTURA
Possiamo buttare a mare le nostre dissertazioni, più o meno competenti e dotte, sulle sfilate co-ed e sulle tante ragioni logistiche, ecologiche, industriali, commerciali, per cui le presentazioni congiunte della moda uomo e donna, lanciate cinque anni fa, avessero tanto senso (e continuiamo a pensarlo): i nostri articoli resteranno negli annali come prova, quelli sì, di un mondo che fu e di una stagione davvero finita di fronte alle esigenze di un business che, per sostenersi a moltiplicarsi in nome di quel bene superiore che è il made in Italy, deve continuare ad andare in scena il più spesso possibile e con il maggior sfarzo possibile. Le ragioni per le quali Pitti Uomo e in generale tutto il network di Pitti Immagine chiude bilanci in crescita ogni anno e sia abbastanza liquido da essersi potuto comprare a fine 2018 la Stazione Leopolda dove ogni anno Matteo Renzi organizza i propri stati generali, risiedono in questa capacità di fare spettacolo e cultura attorno alla banalità del giaccone impermeabile high tech, cioè dell’azienda che non può permettersi il geniale estensore delle cartelle stampa di Gucci e fa accorpare quattro luoghi comuni dalla nipote laureata in comunicazione, corso triennale.
BRET EASTON ELLIS DIXIT
La forza risiede nel benchmark, nel marchio di garanzia, negli eventi speciali come saranno, per questa edizione, il ritorno di Sergio Tacchini, la sfilata di Jil Sandr, brand di culto nonostante un percorso societario e commerciale non sempre semplice, le celebrazioni per il 190esimo anniversario di Woolrich, il debutto di Chiara Boni nel maschile (e se mai le sue giacche “trailblazer” dovessero “fittare” come i suoi abitini femminili e non sgualcirsi mai, darà certamente del filo da torcere ai competitor), la presentazione di un raffinato “naso” come Sileno Cheloni. Lo spostamento e l’adeguamento progressivo dell’asse del potere nella moda maschile, unico fatto davvero rilevante del decennio in Italia, dimostra senza ombra di dubbio che ai piccoli nomi servono i grandi per crescere, e che a questi ultimi serve un sistema compatto che garantisca loro un humus fertile per continuare a svilupparsi e anche a scippare talenti ed eccellenze, all’occorrenza. Per usare una di quelle formule sentimentali che piacciono tanto in questi anni e che Bret Easton Ellis ha infilzato in quella meraviglia di saggio che è Bianco, nessuno si salva da solo.
I GRANDI MARCHI A RACCOLTA
Per questo, dopo aver visto la rilevanza della settimana della moda maschile milanese assottigliarsi sempre di più, Capasa ha chiamato a raccolta i grandi marchi, le aziende potenti, mettendo a disposizione tutte le risorse di cui dispone e che non sono pochissime, e per questo ha fatto molto bene: perché la moda, più di ogni altro settore, non può permettersi di non fare sistema. Ne va dell’indotto che genera (alberghi, ristoranti, shopping, anche per gli stessi turisti, attirati ed eccitati dalla speciale “fauna” del comparto) e della sua stessa esistenza. «Caro Carlo, grazie per il tuo invito: le sfilate di Milano incarnano la forza e la bellezza del Made In Italy, rappresentano un appuntamento fondamentale per il mondo della moda e riconfermano a ogni appuntamento stagionale il ruolo fondamentale, creativo e manifatturiero, dell’Italia», scriveva il ceo di Gucci Marco Bizzarri qualche mese fa a Capasa, e non faccia specie l’evidenza che nessuno più di lui, membro del consiglio di Camera Moda e figura di spicco nel sistema mondiale, dovrebbe saperlo. Dirlo era una riconferma e un riconoscimento, e pure una certa, vogliamo dire magnanima, acquiescenza al famoso bene superiore.
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