Eni, al Muse tornano a splendere le casette per l’economia circolare

La multinazionale ha siglato una partnership con il museo trentino per un programma di attività al fine di responsabilizzare i cittadini. A partire da Circular evolutions, installazione visitabile fino a marzo 2020.

Efficienza
energetica, meno sprechi e tecnologie innovative. C’è questo alla base del
concetto di economia circolare. E questi intendimenti sono l’anima di “Circular
Evolutions”, l’installazione di Eni gas e luce che dopo essere stata all’Orto
Botanico di Milano, al Fuorisalone 2018 e a Videocittà a Roma, adesso sbarca al
MUSE. Il museo delle scienze di Trento, infatti, ha siglato un accordo di
collaborazione con Eni, che ha acquisito la qualifica di “Circular Partner”,
all’interno di un articolato programma di attività. La prima declinazione di
questa collaborazione è appunto “Circular Evolutions”, che ha
inaugurato lo scorso 12 dicembre e sarà visitabile nel giardino del MUSE fino a
marzo 2020.

UN’INSTALLAZIONE DI 405 CASETTE

Circular Evolutions, frutto di una più ampia collaborazione tra Eni e MUSE sul tema dell’economia circolare, è un’installazione diffusa formata da 405 casette – realizzata da Eni ed Eni gas e luce e ideata dallo studio internazionale di architettura Mario Cucinella Architects in collaborazione con SOS – School of Sustainability – recuperando e rilanciando, in modo circolare, nel nuovo allestimento di Trento, le casette utilizzate in occasione del FuoriSalone 2018. Protagonista dell’installazione è la casa, intesa come luogo di protezione ma anche crescita ed educazione delle persone. Ogni casa rappresenta, infatti, un laboratorio continuo di scelte che possono contribuire ad aumentare la consapevolezza energetica.

L’OBIETTIVO È RESPONSABILIZZARE I CITTADINI

Metafora dell’evoluzione circolare delle risorse, Circular Evolutions parte quindi dal micro – dall’azione virtuosa del singolo all’interno della propria casa e nei confronti dell’ambiente – e arriva al macro, dove genera effetti positivi creando nuove sinergie con le aziende per le città, i territori, le risorse idriche, forestali e agricole. L’individuo, consapevole e responsabilizzato, diventa quindi il principale attore del cambiamento, mentre la città si trasforma in un vero e proprio ecosistema formato da differenti livelli di comunicazione e da un ritrovato rapporto simbiotico con gli elementi naturali che la circondano. Nasce così uno scenario dove i concetti dell’economia circolare vengono applicati dalle persone, nei loro gesti quotidiani, e dalle aziende, nelle loro strategie, dando così impulso a un nuovo sistema di sviluppo e crescita sostenibile.

UN PALINSESTO DI INCONTRI SULL’ECONOMIA CIRCOLARE

Nell’ambito della collaborazione con Eni, il MUSE sta realizzando alcuni contenuti per il portale web EniScuola, sempre dedicati al tema dell’economia circolare e specialmente inerenti ai rifiuti come risorsa, al ciclo di vita della plastica, ai Repair Café per imparare a riparare e riutilizzare e sta ideando un laboratorio-gioco “Chi vuol essere sostenibile”, erogato nelle scuole primarie coinvolte dal progetto Circular School di Eni, incentrato sulle dinamiche di cooperazione tra i ragazzi e supportato da un videotutorial di approfondimento per i docenti. La collaborazione tra MUSE e Eni prevede, per il prossimo anno, un palinsesto di incontri e appuntamenti sui principi dell’economia circolare e delle relative aree di sviluppo, con un format di dialogo a più voci, allo scopo di ispirare e innescare la presa di coscienza della responsabilità personale nel “fare la differenza” tutti insieme.

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Le cose da sapere in vista del viaggio di Luigi Di Maio in Libia

Il ministro degli Esteri arriva in un Paese dilaniato dalla guerra. Previsti bilaterali con Serraj e Haftar. E sul terreno si muovono anche Turchia e Libia. Lo scenario.

Il ministro degli Esteri Luigi di Maio è in Libia. A quanto si apprende, il titolare della Farnesina è atterrato nella mattinata del 17 dicembre a Tripoli dove vedrà Fayez al Sarraj, il vicepresidente del consiglio presidenziale Ahmed Maitig, il ministro degli Affari esteri Mohamed Siala e il ministro degli Interni Fathi Bashaga. Subito dopo si sposterà a Bengasi per incontrare Khalifa Haftar. Infine Tobruk, per vedere il presidente della Camera dei rappresentanti Aghila Saleh. Al centro dei colloqui il conflitto in corso, la conferenza di Berlino, il memorandum e altri temi centrali. L’ultima visita di un esponente di governo italiano in Libia fu quella del presidente del Consiglio il 23 dicembre dell’anno scorso, quando Conte si recò prima a Tripoli e poi a Bengasi.

UN CONTESTO DI GUERRA PERMANENTE

Sul terreno la tensione è alle stelle: per ore si sono rincorse indiscrezioni da fonti vicine ad Haftar, rilanciate anche dalla tv panaraba Al Arabiya ma non confermate, di un attentato a colpi di arma da fuoco contro il ministro dell’Interno libico Fathi Bashagha nella notte a Misurata, poi fotografato in mattinata sotto l’ombrellone di un caffè di Tripoli. La città a est della capitale, detta ‘la Sparta di Libia’ per la sua potenza militare che garantisce quasi la metà (7.500) dei miliziani impegnati nella difesa di Tripoli, ha annunciato «la dichiarazione dello Stato d’emergenza generale» e la volontà di mobilitare «tutte le proprie capacità» a sostegno di Sarraj e contro «il totalitarismo» incarnato da Haftar.

LA TENUTA DI MISURATA E L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA

Il sostegno di Misurata è la spiegazione più diffusa all’incapacità di Haftar di prendere Tripoli anche dopo aver annunciato, all’inizio di dicembre, lo scoccare dell’ “ora zero” della battaglia decisiva. In un conflitto già trasformatosi in una guerra per procura con l’impiego semi-segreto di forze di altri Stati, la possibilità di un coinvolgimento diretto turco si è fatta ancora più concreta con l’approvazione – da parte della Commissione Esteri del Parlamento di Ankara – della parte sulla “cooperazione militare” del memorandum d’intesa siglato a fine novembre dal presidente Recep Tayyip Erdogan con Sarraj. L’altro accordo invece, quello che stabilisce la controversa demarcazione dei confini marittimi tra i due Paesi, è già stato approvato dal Parlamento turco.

ANCHE L’EGITTO PRONTO A INTERVENIRE

In questo quadro il governo Sarraj ha dichiarato di considerare una «minaccia» di voler intervenire in Libia le frasi pronunciate domenica da Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente egiziano ha detto che l’Egitto «sarebbe dovuto intervenire direttamente in Libia» e che è «in grado di farlo», pur aggiungendo di «non averlo fatto perché il popolo libico non dimenticherebbe mai un intervento». Ancora prima della missione di Di Maio, la diplomazia internazionale si era mossa con una telefonata fra il presidente russo Vladimir Putin e la cancelliera tedesca Angela Merkel che hanno «sottolineato l’importanza di evitare un’ulteriore escalation» in Libia. «Solidarietà politica e comune visione in vicende come quelle che coinvolgono da troppo tempo la Libia sono indispensabili e sarebbero giovevoli», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia degli auguri al Corpo diplomatico.

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Le cose da sapere in vista del viaggio di Luigi Di Maio in Libia

Il ministro degli Esteri arriva in un Paese dilaniato dalla guerra. Previsti bilaterali con Serraj e Haftar. E sul terreno si muovono anche Turchia e Libia. Lo scenario.

Il ministro degli Esteri Luigi di Maio è in Libia. A quanto si apprende, il titolare della Farnesina è atterrato nella mattinata del 17 dicembre a Tripoli dove vedrà Fayez al Sarraj, il vicepresidente del consiglio presidenziale Ahmed Maitig, il ministro degli Affari esteri Mohamed Siala e il ministro degli Interni Fathi Bashaga. Subito dopo si sposterà a Bengasi per incontrare Khalifa Haftar. Infine Tobruk, per vedere il presidente della Camera dei rappresentanti Aghila Saleh. Al centro dei colloqui il conflitto in corso, la conferenza di Berlino, il memorandum e altri temi centrali. L’ultima visita di un esponente di governo italiano in Libia fu quella del presidente del Consiglio il 23 dicembre dell’anno scorso, quando Conte si recò prima a Tripoli e poi a Bengasi.

UN CONTESTO DI GUERRA PERMANENTE

Sul terreno la tensione è alle stelle: per ore si sono rincorse indiscrezioni da fonti vicine ad Haftar, rilanciate anche dalla tv panaraba Al Arabiya ma non confermate, di un attentato a colpi di arma da fuoco contro il ministro dell’Interno libico Fathi Bashagha nella notte a Misurata, poi fotografato in mattinata sotto l’ombrellone di un caffè di Tripoli. La città a est della capitale, detta ‘la Sparta di Libia’ per la sua potenza militare che garantisce quasi la metà (7.500) dei miliziani impegnati nella difesa di Tripoli, ha annunciato «la dichiarazione dello Stato d’emergenza generale» e la volontà di mobilitare «tutte le proprie capacità» a sostegno di Sarraj e contro «il totalitarismo» incarnato da Haftar.

LA TENUTA DI MISURATA E L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA

Il sostegno di Misurata è la spiegazione più diffusa all’incapacità di Haftar di prendere Tripoli anche dopo aver annunciato, all’inizio di dicembre, lo scoccare dell’ “ora zero” della battaglia decisiva. In un conflitto già trasformatosi in una guerra per procura con l’impiego semi-segreto di forze di altri Stati, la possibilità di un coinvolgimento diretto turco si è fatta ancora più concreta con l’approvazione – da parte della Commissione Esteri del Parlamento di Ankara – della parte sulla “cooperazione militare” del memorandum d’intesa siglato a fine novembre dal presidente Recep Tayyip Erdogan con Sarraj. L’altro accordo invece, quello che stabilisce la controversa demarcazione dei confini marittimi tra i due Paesi, è già stato approvato dal Parlamento turco.

ANCHE L’EGITTO PRONTO A INTERVENIRE

In questo quadro il governo Sarraj ha dichiarato di considerare una «minaccia» di voler intervenire in Libia le frasi pronunciate domenica da Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente egiziano ha detto che l’Egitto «sarebbe dovuto intervenire direttamente in Libia» e che è «in grado di farlo», pur aggiungendo di «non averlo fatto perché il popolo libico non dimenticherebbe mai un intervento». Ancora prima della missione di Di Maio, la diplomazia internazionale si era mossa con una telefonata fra il presidente russo Vladimir Putin e la cancelliera tedesca Angela Merkel che hanno «sottolineato l’importanza di evitare un’ulteriore escalation» in Libia. «Solidarietà politica e comune visione in vicende come quelle che coinvolgono da troppo tempo la Libia sono indispensabili e sarebbero giovevoli», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia degli auguri al Corpo diplomatico.

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La sinistra stia alla larga dalla liaison tra Renzi e Salvini

Non ci sono le condizioni per un governo di tutti. Che richiederebbe una tregua inimmaginabile da parte del leader leghista. E porterebbe a un disastro peggiore di questo esecutivo con Di Maio.

Quando un partito che si appresta a vincere le elezioni politiche (secondo i sondaggi) propone agli altri partiti un governo di tregua diretto da un personaggio indiscutibile come Mario Draghi, si dovrebbe sviluppare una gran discussione. Invece accade che Matteo Salvini, su suggerimento di Giancarlo Giorgetti, proponga questo governo e quel primo ministro e nessuno ne parli tranne Matteo Renzi. Su quel “tranne Renzi”, anzi, si è sviluppato un retroscena secondo cui la proposta salviniana è il primo passo per una marcia di avvicinamento reciproca fra i due Matteo, i gemelli separati alla nascita. È probabile.

UNA LUNGA STORIA DI FALLIMENTI

Resta il fatto che la proposta di Salvini è caduta, finora, nel vuoto. Forse la ragione sta nel fatto che questo Paese ha discusso decine di volte di governo di emergenza o solidarietà nazionale o come diavolo volete chiamarli. Alcune discussioni, come quella sul compromesso storico, furono molto alte, altre dettero vita a piccolo cabotaggio parlamentare. Quasi sempre queste esperienze hanno fallito. La sinistra, che avrebbe potuto vincere le elezioni con Pier Luigi Bersani, fu costretta dal Quirinale a ingoiare il governo Monti che, con i suoi esodati e altre decisioni anti-popolari, fece perdere milioni di voti. Quindi, come si dice, “anche basta”. Basta governi di solidarietà nazionale. Tu vinci e governi e io mi ti oppongo fino a farti cadere.

Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno

C’è però un dato innegabile nella proposta di Giorgetti mal raccontata da Salvini ed è che la situazione italiana è effettivamente quella che richiederebbe la Grossa coalizione. Soprattutto lo richiederebbe lo spirito pubblico. E già qui ci scontriamo sulle ragioni per cui la Grossa coalizione non si può fare. Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede una tregua fra le parti, non una pace fra i partiti né la rinuncia alla propria identità e alla polemica fra i partiti, ma la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno. Il giorno che Salvini diventasse civile come una sardina, si ridurrebbe al 5%, cioè sarebbe un Renzi qualsiasi. È la fantasia della guerra civile che alimenta il suo successo oggi minacciato solo dal ritorno a casa della destra tradizionale che vede in Giorgia Meloni la leader dura che sognava.

UN GOVERNO CON SALVINI SAREBBE DISTRUTTIVO

Per la sinistra un governo con Salvini sarebbe distruttivo, peggio di questo governo con Luigi Di Maio. Il prezzo potrebbe essere pagato solo se ci fosse un vero breve programma e una intesa di ferro attorno a ciò che può fare Draghi senza che gli rompano i maroni. Sprecare una grande alleanza e un uomo come Draghi per i postumi di una serata in birreria non vale proprio la pena. Di più: quando si propone un governo di tutti, si propone una analisi della situazione e quello che si pensa debba diventare l’Italia nel caso di successo di questo governo. Solo così la proposta sarebbe credibile. Dire solo che c’è grande casino e quindi bisogna chiamare il pompiere Draghi pronti a incendiargli l’autobotte è pura follia. Se poi Renzi e Salvini vogliono una discussione o addirittura una esperienza di governo che li aiuti a vivere assieme, non cerchino scorciatoie. In fondo viviamo in tempi di amori liberali. Se si vogliono bene, si mettano assieme.

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La sinistra stia alla larga dalla liaison tra Renzi e Salvini

Non ci sono le condizioni per un governo di tutti. Che richiederebbe una tregua inimmaginabile da parte del leader leghista. E porterebbe a un disastro peggiore di questo esecutivo con Di Maio.

Quando un partito che si appresta a vincere le elezioni politiche (secondo i sondaggi) propone agli altri partiti un governo di tregua diretto da un personaggio indiscutibile come Mario Draghi, si dovrebbe sviluppare una gran discussione. Invece accade che Matteo Salvini, su suggerimento di Giancarlo Giorgetti, proponga questo governo e quel primo ministro e nessuno ne parli tranne Matteo Renzi. Su quel “tranne Renzi”, anzi, si è sviluppato un retroscena secondo cui la proposta salviniana è il primo passo per una marcia di avvicinamento reciproca fra i due Matteo, i gemelli separati alla nascita. È probabile.

UNA LUNGA STORIA DI FALLIMENTI

Resta il fatto che la proposta di Salvini è caduta, finora, nel vuoto. Forse la ragione sta nel fatto che questo Paese ha discusso decine di volte di governo di emergenza o solidarietà nazionale o come diavolo volete chiamarli. Alcune discussioni, come quella sul compromesso storico, furono molto alte, altre dettero vita a piccolo cabotaggio parlamentare. Quasi sempre queste esperienze hanno fallito. La sinistra, che avrebbe potuto vincere le elezioni con Pier Luigi Bersani, fu costretta dal Quirinale a ingoiare il governo Monti che, con i suoi esodati e altre decisioni anti-popolari, fece perdere milioni di voti. Quindi, come si dice, “anche basta”. Basta governi di solidarietà nazionale. Tu vinci e governi e io mi ti oppongo fino a farti cadere.

Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno

C’è però un dato innegabile nella proposta di Giorgetti mal raccontata da Salvini ed è che la situazione italiana è effettivamente quella che richiederebbe la Grossa coalizione. Soprattutto lo richiederebbe lo spirito pubblico. E già qui ci scontriamo sulle ragioni per cui la Grossa coalizione non si può fare. Un governo di tutti, o quasi tutti, richiede una tregua fra le parti, non una pace fra i partiti né la rinuncia alla propria identità e alla polemica fra i partiti, ma la rinuncia ai toni da guerra civile. Salvini non è in grado di prendere questo impegno. Il giorno che Salvini diventasse civile come una sardina, si ridurrebbe al 5%, cioè sarebbe un Renzi qualsiasi. È la fantasia della guerra civile che alimenta il suo successo oggi minacciato solo dal ritorno a casa della destra tradizionale che vede in Giorgia Meloni la leader dura che sognava.

UN GOVERNO CON SALVINI SAREBBE DISTRUTTIVO

Per la sinistra un governo con Salvini sarebbe distruttivo, peggio di questo governo con Luigi Di Maio. Il prezzo potrebbe essere pagato solo se ci fosse un vero breve programma e una intesa di ferro attorno a ciò che può fare Draghi senza che gli rompano i maroni. Sprecare una grande alleanza e un uomo come Draghi per i postumi di una serata in birreria non vale proprio la pena. Di più: quando si propone un governo di tutti, si propone una analisi della situazione e quello che si pensa debba diventare l’Italia nel caso di successo di questo governo. Solo così la proposta sarebbe credibile. Dire solo che c’è grande casino e quindi bisogna chiamare il pompiere Draghi pronti a incendiargli l’autobotte è pura follia. Se poi Renzi e Salvini vogliono una discussione o addirittura una esperienza di governo che li aiuti a vivere assieme, non cerchino scorciatoie. In fondo viviamo in tempi di amori liberali. Se si vogliono bene, si mettano assieme.

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OpenCUP, l’informazione al centro

Giunto alla fine della seconda fase, il progetto del DiPE, Invitalia e Sogei mette a disposizione i dati sugli investimenti pubblici.

Si
è tenuto il 16 dicembre 2019 a Roma presso il Talent Garden, l’evento
conclusivo del progetto OpenCUP, dati che creano valore.

L’iniziativa,
nata dall’idea del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento
della politica economica
(DiPE), ha voluto valorizzare la banca dati del
Sistema Codice Unico di Progetto – CUP
con la pubblicazione in formato open
dell’Anagrafe dei progetti d’investimento pubblico sulPortale
OpenCUP.  All’indirizzo opencup.gov.it,
il portale, infatti, mette a disposizione di tutti, cittadini, istituzioni ed
altri enti, i dati, in formato aperto, sulle decisioni di
investimento pubblico
finanziate con fondi pubblici nazionali, comunitari o
regionali o con risorse private registrate con il Codice Unico di Progetto.

L’iniziativa
è giunta al compimento della sua seconda fase ed è finanziata dai fondi europei
(PON Governance e Capacità istituzionale 2014-2020): l’evento è stato
l’occasione per condividere l’esperienza maturata negli ultimi tre anni
anche nell’ambito delle solide collaborazioni che si sono instaurate con
i partner Invitalia e Sogei; illustrare i risultati raggiunti
e prospettare gli sviluppi futuri del progetto OpenCUP.

Tra
i presenti, oltre ai protagonisti dell’iniziativa, l’Autorità di Gestione del
PON finanziatore del progetto, Invitalia S.p.A. e Sogei S.p.A, i testimonial
del riuso dei dati OpenCUP
, da Bankitalia fino al caso di Tom Tom che
attraverso i dati OpenCUP può creare servizi di geo-referenziazione ad alto
valore aggiunto. Presente anche il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Mario Turco, che ha dichiarato: “I sistemi di monitoraggio degli investimenti pubblici sono
diventati strumenti cruciali nell’attuazione degli interventi programmati,
perché consentono sia di seguirne i progressi, che di evidenziare i casi di
blocco nei processi e di effettuare le opportune riprogrammazioni di risorse.
Bisogna però precisare che in questo ambito, ci sono ad oggi delle criticità a
più livelli che ne impediscono una piena operatività. Il rafforzamento del
monitoraggio deve necessariamente passare per un cambiamento culturale che
porti gli attori coinvolti, monitoranti e monitorati, ad un dialogo tra centro
e periferia per ritenere tale azione non solo come un onere ma anche come
un’opportunità.”
 

I
NUMERI DEL PORTALE OPENCUP

La
seconda fase del progetto ha ingrandito e ampliato il pannel dei dati.
Opencup.gov.it, online dal dicembre del 2015, ha reso disponibili ad
oggi i dati su 3,3 milioni di interventi pubblici (tra questi 1
milione di records
riguardano i lavori pubblici (erano già 800mila
nel 2015); 2,2 milioni di dati sugli incentivi alle imprese e circa 100mila
records sui contributi per la ricostruzione post eventi sismici
. Tutto è
rilasciato in formato aperto e scaricabile in un unico dataset complessivo.

Durante
l’evento il DiPE ha annunciato anche la consegna delle chiavi di accesso al
sistema MGO
per il monitoraggio delle grandi opere a favore della DIA,
per aumentare la legalità e contrastare le infiltrazioni mafiose negli appalti.
Attualmente sono monitorate 67 grandi opere per 66 miliardi di euro.

IMPORTANTI COLLABORAZIONI

Un portare che propone, dunque, uno sguardo d’insieme sugli investimenti pubblici. Tutto questo è stato possibile grazie all’interoperabilità tra diversi sistemi informativi e all’ottimizzazione del corredo informativo. Tramite il portale OpenCUP, infatti, è possibile ricercare un determinato progetto e se esistono dati su quest’ultimo, si può cercare anche su altri portali. Le cooperazioni già attive sono con OpenCoesione, OpenCantieri e Italia sicura scuole. Collaborazioni come quella con il Centro Nazionale delle ricerche e il Politecnico di Milano hanno contribuito, infine, all’innalzamento della qualità dei dati.

«Oggi
tradurre le esigenze di innovazione del Paese in benefici per i cittadini
significa mettere il cittadino stesso al centro dei servizi pubblici e
consentirgli di interagire con lo Stato in trasparenza anche
attraverso canali e strumenti digitali di Open Government – ha dichiarato Andrea
Quacivi
, Ad di Sogei. #NoidiSogei supportiamo i nostri Clienti in progetti
reali, Open Cup rappresenta una eccellenza dell’Italia, un esempio di progetto
innovativo digitale
, oltre ad essere un servizio pubblico precursore
nell’uso degli Open data, creato e sviluppato per favorire la conoscenza e la
consapevolezza dei cittadini sulle decisioni di investimento pubblico. L’Italia
si posiziona al 4’ posto nell’ambito della componente Open data
dell’indice DESI 2019
, dietro solo all’ Irlanda, alla Spagna e alla
Francia, questo è un risultato significativo di cui si parla troppo poco, gli Open
data
costituiscono una risorsa primaria, un bene comune come
l’aria e l’acqua, disponibile senza barriere tecniche, giuridiche, di prezzo».

I RICONOSCIMENTI PER OPERNCUP

Il progetto, per la sua utilità e trasparenza, ha ricevuto importanti riconoscimenti come l’Open Data Maturity Report 2018 – Best practice europea (20 novembre 2018); il Premio “Agenda digitale” dell’Osservatorio del Politecnico di Milano (13 dicembre 2018) e il Premio Innovazione 2018 conferito dal Senato della Repubblica in collaborazione con la Fondazione COTEC (Roma, 4 marzo 2019).

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OpenCUP, l’informazione al centro

Giunto alla fine della seconda fase, il progetto del DiPE, Invitalia e Sogei mette a disposizione i dati sugli investimenti pubblici.

Si
è tenuto il 16 dicembre 2019 a Roma presso il Talent Garden, l’evento
conclusivo del progetto OpenCUP, dati che creano valore.

L’iniziativa,
nata dall’idea del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento
della politica economica
(DiPE), ha voluto valorizzare la banca dati del
Sistema Codice Unico di Progetto – CUP
con la pubblicazione in formato open
dell’Anagrafe dei progetti d’investimento pubblico sulPortale
OpenCUP.  All’indirizzo opencup.gov.it,
il portale, infatti, mette a disposizione di tutti, cittadini, istituzioni ed
altri enti, i dati, in formato aperto, sulle decisioni di
investimento pubblico
finanziate con fondi pubblici nazionali, comunitari o
regionali o con risorse private registrate con il Codice Unico di Progetto.

L’iniziativa
è giunta al compimento della sua seconda fase ed è finanziata dai fondi europei
(PON Governance e Capacità istituzionale 2014-2020): l’evento è stato
l’occasione per condividere l’esperienza maturata negli ultimi tre anni
anche nell’ambito delle solide collaborazioni che si sono instaurate con
i partner Invitalia e Sogei; illustrare i risultati raggiunti
e prospettare gli sviluppi futuri del progetto OpenCUP.

Tra
i presenti, oltre ai protagonisti dell’iniziativa, l’Autorità di Gestione del
PON finanziatore del progetto, Invitalia S.p.A. e Sogei S.p.A, i testimonial
del riuso dei dati OpenCUP
, da Bankitalia fino al caso di Tom Tom che
attraverso i dati OpenCUP può creare servizi di geo-referenziazione ad alto
valore aggiunto. Presente anche il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Mario Turco, che ha dichiarato: “I sistemi di monitoraggio degli investimenti pubblici sono
diventati strumenti cruciali nell’attuazione degli interventi programmati,
perché consentono sia di seguirne i progressi, che di evidenziare i casi di
blocco nei processi e di effettuare le opportune riprogrammazioni di risorse.
Bisogna però precisare che in questo ambito, ci sono ad oggi delle criticità a
più livelli che ne impediscono una piena operatività. Il rafforzamento del
monitoraggio deve necessariamente passare per un cambiamento culturale che
porti gli attori coinvolti, monitoranti e monitorati, ad un dialogo tra centro
e periferia per ritenere tale azione non solo come un onere ma anche come
un’opportunità.”
 

I
NUMERI DEL PORTALE OPENCUP

La
seconda fase del progetto ha ingrandito e ampliato il pannel dei dati.
Opencup.gov.it, online dal dicembre del 2015, ha reso disponibili ad
oggi i dati su 3,3 milioni di interventi pubblici (tra questi 1
milione di records
riguardano i lavori pubblici (erano già 800mila
nel 2015); 2,2 milioni di dati sugli incentivi alle imprese e circa 100mila
records sui contributi per la ricostruzione post eventi sismici
. Tutto è
rilasciato in formato aperto e scaricabile in un unico dataset complessivo.

Durante
l’evento il DiPE ha annunciato anche la consegna delle chiavi di accesso al
sistema MGO
per il monitoraggio delle grandi opere a favore della DIA,
per aumentare la legalità e contrastare le infiltrazioni mafiose negli appalti.
Attualmente sono monitorate 67 grandi opere per 66 miliardi di euro.

IMPORTANTI COLLABORAZIONI

Un portare che propone, dunque, uno sguardo d’insieme sugli investimenti pubblici. Tutto questo è stato possibile grazie all’interoperabilità tra diversi sistemi informativi e all’ottimizzazione del corredo informativo. Tramite il portale OpenCUP, infatti, è possibile ricercare un determinato progetto e se esistono dati su quest’ultimo, si può cercare anche su altri portali. Le cooperazioni già attive sono con OpenCoesione, OpenCantieri e Italia sicura scuole. Collaborazioni come quella con il Centro Nazionale delle ricerche e il Politecnico di Milano hanno contribuito, infine, all’innalzamento della qualità dei dati.

«Oggi
tradurre le esigenze di innovazione del Paese in benefici per i cittadini
significa mettere il cittadino stesso al centro dei servizi pubblici e
consentirgli di interagire con lo Stato in trasparenza anche
attraverso canali e strumenti digitali di Open Government – ha dichiarato Andrea
Quacivi
, Ad di Sogei. #NoidiSogei supportiamo i nostri Clienti in progetti
reali, Open Cup rappresenta una eccellenza dell’Italia, un esempio di progetto
innovativo digitale
, oltre ad essere un servizio pubblico precursore
nell’uso degli Open data, creato e sviluppato per favorire la conoscenza e la
consapevolezza dei cittadini sulle decisioni di investimento pubblico. L’Italia
si posiziona al 4’ posto nell’ambito della componente Open data
dell’indice DESI 2019
, dietro solo all’ Irlanda, alla Spagna e alla
Francia, questo è un risultato significativo di cui si parla troppo poco, gli Open
data
costituiscono una risorsa primaria, un bene comune come
l’aria e l’acqua, disponibile senza barriere tecniche, giuridiche, di prezzo».

I RICONOSCIMENTI PER OPERNCUP

Il progetto, per la sua utilità e trasparenza, ha ricevuto importanti riconoscimenti come l’Open Data Maturity Report 2018 – Best practice europea (20 novembre 2018); il Premio “Agenda digitale” dell’Osservatorio del Politecnico di Milano (13 dicembre 2018) e il Premio Innovazione 2018 conferito dal Senato della Repubblica in collaborazione con la Fondazione COTEC (Roma, 4 marzo 2019).

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Il traditore fuori dalla corsa all’Oscar per il miglior film straniero

L’opera di Marco Bellocchio che racconta la storia di Tommaso Buscetta interpretato da Pierfrancesco Favino è fuori dalla shortlist. Ci sono Almodovar e il coreano Parasite.

È finita la corsa italiana per il Best international feature film, nuova definizione dell’Oscar per il miglior film straniero. Il traditore di Marco Bellocchio, che narra le vicende del pentito di mafia Tommaso Buscetta e della sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone, è fuori dalla shortlist diffusa dall’Academy. Una vera delusione per una pellicola che, dopo l’anteprima a Cannes, aveva suscitato molto interesse all’estero, riscuotendo gli applausi del pubblico e di gran parte della critica per la sua capacità di discostarsi dai cliché del “cinema di mafia” e, come ha scritto Liberation, di raccontare i personaggi «non come eroi o antieroi, ma come persone normali, a loro modo perbene, che credono ancora in un’etica all’interno di un mondo dove i valori si sono fatti sempre più rari, ciascuno a modo proprio e ciascuno dalla sua parte».

DELUSE LE SPERANZE DI BELLOCCHIO

Ad alimentare le speranze la superba interpretazione di Pierfrancesco Favino, come di tutto il cast, la ricostruzione fedele dell’epoca, il rispetto e la rivalutazione della lingua siciliana e, soprattutto, il mettere al centro di quest’opera la naturale teatralità, tragicità di questi personaggi degni di un’opera verdiana. Anche Bellocchio sembrava crederci: «Sono contento di questa candidatura. È una possibilità, una chiave per entrare nella grande gara. Non mi faccio illusioni, ma farò tutto il possibile per aiutare Il traditore in questo lungo cammino. Pur da vecchio anarchico pacifista e non violento, sento come un onore e una responsabilità di rappresentare l’Italia in questa sfida», aveva commentato dopo la candidatura.

PARASITE E DOLORE E GLORIA RESTANO IN LIZZA

Dieci i titoli ancora in corsa, tra cui Parasite di Bong Joon-ho (Sud Corea), Dolore e gloria di Pedro Almodovar (Spagna), Atlantics di Mati Diop (Senegal). Se quest’ultimo ricevesse la nomination, sarebbe la prima volta per il Senegal. In maggio Diop è diventata la prima donna di colore a competere per il primo premio a Cannes, andato alla fine a Parasite. Il film ha vinto pero’ il Grand Prix honor.

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Il traditore fuori dalla corsa all’Oscar per il miglior film straniero

L’opera di Marco Bellocchio che racconta la storia di Tommaso Buscetta interpretato da Pierfrancesco Favino è fuori dalla shortlist. Ci sono Almodovar e il coreano Parasite.

È finita la corsa italiana per il Best international feature film, nuova definizione dell’Oscar per il miglior film straniero. Il traditore di Marco Bellocchio, che narra le vicende del pentito di mafia Tommaso Buscetta e della sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone, è fuori dalla shortlist diffusa dall’Academy. Una vera delusione per una pellicola che, dopo l’anteprima a Cannes, aveva suscitato molto interesse all’estero, riscuotendo gli applausi del pubblico e di gran parte della critica per la sua capacità di discostarsi dai cliché del “cinema di mafia” e, come ha scritto Liberation, di raccontare i personaggi «non come eroi o antieroi, ma come persone normali, a loro modo perbene, che credono ancora in un’etica all’interno di un mondo dove i valori si sono fatti sempre più rari, ciascuno a modo proprio e ciascuno dalla sua parte».

DELUSE LE SPERANZE DI BELLOCCHIO

Ad alimentare le speranze la superba interpretazione di Pierfrancesco Favino, come di tutto il cast, la ricostruzione fedele dell’epoca, il rispetto e la rivalutazione della lingua siciliana e, soprattutto, il mettere al centro di quest’opera la naturale teatralità, tragicità di questi personaggi degni di un’opera verdiana. Anche Bellocchio sembrava crederci: «Sono contento di questa candidatura. È una possibilità, una chiave per entrare nella grande gara. Non mi faccio illusioni, ma farò tutto il possibile per aiutare Il traditore in questo lungo cammino. Pur da vecchio anarchico pacifista e non violento, sento come un onore e una responsabilità di rappresentare l’Italia in questa sfida», aveva commentato dopo la candidatura.

PARASITE E DOLORE E GLORIA RESTANO IN LIZZA

Dieci i titoli ancora in corsa, tra cui Parasite di Bong Joon-ho (Sud Corea), Dolore e gloria di Pedro Almodovar (Spagna), Atlantics di Mati Diop (Senegal). Se quest’ultimo ricevesse la nomination, sarebbe la prima volta per il Senegal. In maggio Diop è diventata la prima donna di colore a competere per il primo premio a Cannes, andato alla fine a Parasite. Il film ha vinto pero’ il Grand Prix honor.

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Lo spread e la Borsa italiana del 17 dicembre 2019

Attesa per l’avvio delle contrattazioni a Milano. Spread stabile a 156 punti. I mercati in diretta.

La Borsa italiana riparte dal +0,8% del 16 dicembre. Piazza Affari ha fatto segnare un avvio di settimana positivo, in linea coi mercati europei. Rally di Londra a +2,25% seguita da Parigi (+1,23%), Madrid (+1,22%) e Francoforte (+0,94%) .

SPREAD INTORNO A QUOTA 156 PUNTI

Apertura con poche oscillazioni per lo spread tra Btd e Bund. Il differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco si attesta stamani a 156,2 punti mentre il rendimento del Btp è all’1,26%.

I MERCATI IN DIRETTA

8.51 – SHANGHAI CHIUDE IN POSITIVO

Le Borse cinesi chiudono la seduta in rialzo sfruttando la spinta dei nuovi record di Wall Street e dei dati migliori delle attese sulla produzione industriale e sulle vendite al dettaglio di novembre, diffusi ieri a Pechino: l’indice Composite di Shanghai sale dell’1,27% a 3.022,42 punti, mentre quello di Shenzhen si porta a quota 1.708,78 (+1,33%). Lo yuan cede 56 punti base sul dollaro dopo che la Banca centrale cinese ha fissato la parità bilaterale a 6,9971: il renminbi, a ridosso della chiusura dei listini azionari, fa segnare uno spot rate di 7,0014 (+0,13%)

8.32 – ASIA SEMPRE IN POSITIVO

Seduta in rialzo sulle Borse asiatiche in un clima di euforia dopo che Wall Street ha raggiunto nuovi massimi tra l’ottimismo sui colloqui commerciali tra le due maggiori economie del mondo. L’indice benchmark della regione ha guadagnato fino allo 0,7% sui massimi da giugno 2018, guidato dal rimbalzo di Corea (+1,27%) e Hong Kong (+1,02%). Bene anche Tokyo che ha guadagnato lo 0,59% e Shanghai l’1,36 per cento.

7.45 – CHIUSURA BORSA DI TOKYO IN RALZO

La Borsa di Tokyo termina la seduta in aumento, sulla scia dell’ultimo record degli indici azionari statunitensi, sostenuti dalle notizie incoraggianti che arrivano dalle trattative sul commercio internazionale tra Cina e Usa. L’indice Nikkei mette a segno un guadagno dello 0,47%, assestandosi ai massimi in 14 mesi, a quota 24.066,12, aggiungendo 113 punti. Sul fronte dei cambi lo yen si è indebolito sul dollaro a 109,50, e con l’euro a un livello di 122,10

1.34 – APERTURA BORSA DI TOKYO IN RIALZO

La Borsa di Tokyo avvia gli scambi col segno più, sostenuta dall’andamento positivo degli indici azionari statunitensi, freschi di record, sulla scia delle notizie incoraggianti che arrivano dalle negoziazioni sul commercio internazionale tra Cina e Usa. L’indice Nikkei guadagna lo 0,52% a quota 23.077,62, aggiungendo 125 punti. Sul fronte valutario lo yen si è andato deprezzando, sul dollaro a 109,50 e con l’euro poco sopra a un livello di 122.

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Dieci curiosità sui Simpson

La serie creata da Matt Groening ha debuttato il 17 dicembre 1989. Da allora ha conquistato il mondo diventando un cult. Ecco il nostro modo di celebrare Homer & Co.

Trenta anni de I Simpson: il 17 dicembre 1989 sbarcava in prima serata nelle tivù americane il cartoon firmato da Matt Groening e James L. Brooks destinato a entrare nella storia.

A fine novembre però un’indiscrezione ha fatto tremare i polsi ai fan: il compositore Danny Elfman, autore della sigla, in una intervista al sito Joe ha lasciato intendere che la serie sarebbe agli sgoccioli. «Da quello che ho sentito», sono state le sue parole, «si avvicina la fine». Aggiungendo che la prossima stagione potrebbe essere l’ultima.

LEGGI ANCHE: Quali sono i cinque migliori episodi dei Simpson

Notizia presto smentita dal produttore esecutivo Al Jean: «Stiamo realizzando la 32esima stagione, non ci sono piani per fermarci». Rasserenati dalla smentita, celebriamo il 30ennale della famiglia gialla di Springfield con 10 curiosità.

Il cast completo dei Simpson (screenshot da YouTube).

1. IL LIBRO CELEBRATIVO DI FINK

I Simpson. Trent’anni di un mito di Moritz Fink è arrivato puntuale in libreria come regalo di compleanno. Il libro (Leone Editore) ripercorre la storia della famiglia che ha fatto da apripista a diverse serie a cartoni come I Griffin, South Park o Bob’s Burger. Questo di Fink non è certo il primo libro che analizza il successo del cartoon. Nel 2012 uscì La vera storia dei Simpson – La famiglia più importante del mondo di John Ortved.

2. L’EPISODIO PILOTA DEDICATO AL NATALE

Era dedicato al Natale l’episodio pilota che andò in onda in America il 17 dicembre 1989 sul canale Fox. Si intitolava Simpson Roasting on an Open Fire, in italiano Un Natale da Cani: 30 minuti di spasso puro, con Homer alle prese con la tredicesima tagliata dal malvagio Signor Burns.

3. DAL FUMETTO ALLA TIVÙ

In realtà, prima di diventare una serie indipendente nel 1989, I Simpson apparvero come cortometraggio animato nel 1987, all’interno del Tracey Ullman Show come adattamento del fumetto underground settimanale Life in Hell ideato da Groening.

4. LA CRITICA DI GEORGE BUSH

I Simpson furono presi di mira dal presidente degli Stati Uniti George Bush che disse di «voler continuare a rafforzare la famiglia americana, renderla più come i Walton e meno come i Simpson». Lo show, neanche a dirlo, continuò con success. E mentre oggi tutti sanno chi sono Bart, Marge, Lisa o Maggie, quasi tutti googolano ‘Walton’ in cerca di lumi.

5. UNA FAMIGLIA PIÙ TRADIZIONALE DI QUELLO CHE SI POSSA PENSARE

Nel saggio di Paul A. Cantor nel libro I Simpson e la filosofia (Isbn Edizioni) la famiglia di Springfield è definita «ri-creazione post moderna della prima generazione delle sit-com familiari televisive». È ovvio, è il ragionamento, «che non si tratti di un semplice ritorno agli Anni 50 ma il programma fornisce elementi di continuità che lo rendono molto più tradizionale di quello che si possa pensare».

I Simpson andarono in onda per la prima volta il 17 dicembre 1989.

Non è trascurabile il fatto che i Simpson vivano in una cittadina di provincia. «Nonostante lo show si incentri sulla famiglia nucleare», si legge nel saggio, «mette in relazione la famiglia con le grandi istituzioni della vita americana, con la Chiesa, la scuola e persino le stesse istituzioni politiche, come il governo municipale». E anche i Simpson se ne fanno beffe, facendole sembrare ridicole e prive di valore, il cartoon riconosce la loro importanza rispetto alla famiglia. Anche l’avversione di Bart alle regole sotto sotto rispetta l’«archetipo americano» visto che gli Usa sono fondati su un «atto di ribellione».

6. LA VERA SPRINGFIELD

La cittadina in cui vivono i Simpson, come tutti sanno, è Springfield. Matt Groening ha dichiarato di averla chiamata così proprio perché è un nome piuttosto comune negli States. Per questo, nello spettatore scatta facilmente l’identificazione. Ma Springfield – si è scoperto solo in seguito – è anche la città natale dello stesso Groening. La Spingfield di Groening oggi – grazie ai Simpson – è diventata davvero la Springfield di tutti. 

La stella dedicata ai Simpson nella Walk of Fame.

7. UN PALMARES DA RECORD

Nella loro trentennale carriera, i Simpson hanno collezionato un ricco bottino di premi. Il Time li ha definiti la «Miglior serie tivù del secolo»; l’Economist ha scritto che «un qualsiasi fenomeno può dirsi entrato nella cultura di massa solo dopo che è stato rappresentato satiricamente nei Simpson». Del resto, nel suo curriculum, la famiglia gialla vanta 31 Primetime Emmy Awards, 30 Annie Awards e un Peabody Awards. Potevano mai mancare i Simpson sulla Walk of Fame di Hollywood? Certamente no. Ed ecco che Homer&Co si sono beccati la stella. La loro popolarità è sempre stata ripagata dagli ascolti, seppure oggi nettamente inferiori rispetto all’inizio: negli anni 90 veleggiavano su una media di 20 milioni.

8. LA TRASFORMAZIONE DEI PERSONAGGI NEGLI ANNI

Dall’inizio della serie a oggi i personaggi dei Simpson sono parecchio cambiati, sia caratterialmente sia graficamente. I protagonisti hanno acquisito maggiore rotondità. E Homer, in particolare, è lentamente diventato più pigro che irascibile.

9. LA PASSIONE PER LA SCIENZA

Uno degli aspetti più affascinanti della serie sono i tanti rimandi a teoremi, missioni spaziali, e argomenti di attualità tecnico-scientifica. Non a caso fra gli autori della serie ci sono laureati in matematica e fisica. Sull’argomento sono usciti anche due volumi: La formula segreta dei Simpson: Numeri, teoremi e altri enigmi di Simon Singh (Rizzoli, 2014) e La scienza dei Simpson. Guida non autorizzata all’universo in una ciambella di Marco Malaspina (Sirone Editore, 2015). Per lettori un po’ geek.

10. UN ESERCITO DI GUEST STAR

Tante, tantissime le guest star della serie: si parla di più di 600. Da Meryl Streep a Liz Taylor, da Dustin Hoffman a Michelle Pfeiffer passando per Micheal Jackson, Susan Sarandon, Gleen Glose, Katy Perry, Tom Hanks, Ron Howard, Stephen King, tanto per citarne alcuni. Tra i no più eclatanti Bruce Springsteen e Clint Eastwood.

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Maxi sequestro contro il caporalato nel facchinaggio

Sigilli a 120 immobili riconducibili a un imprenditore della logistica, Giancarlo Bolondi, accusato, oltre che di frodi fiscali e riciclaggio, anche di sfruttamento del lavoro.

Un maxi sequestro di 120 immobili tra Milano, Lodi, Brescia, Torino, Genova e altre città è stato disposto a carico di un imprenditore della logistica, Giancarlo Bolondi della società Premium Net, accusato, oltre che di frodi fiscali e riciclaggio, anche di sfruttamento del lavoro, in particolare di ‘caporalato’ nel facchinaggio. Lo ha deciso la Sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano, su richiesta dei pm Bruna Albertini e Paolo Storari e i sequestri sono stati eseguiti dalla Guardia di finanza di Pavia.

OPERAI COSTANTEMENTE SOTTO MINACCIA

A Bolondi, 63 anni, residente in Svizzera e già ai domiciliari, come si legge nel provvedimento della Sezion presieduta da Fabio Roia, è stato contestato dai magistrati di Pavia di essere stato a capo, tra il 2012 e il 2018, di un «network di consorzi e cooperative», attraverso il quale avrebbe anche «reclutato manodopera in condizioni di sfruttamento», approfittando dello «stato di bisogno dei lavoratori, tenuti costantemente sotto la minaccia di perdere il lavoro». Operai che dovevano accettare condizioni diverse rispetto ai contratti collettivi nazionali su turni, ferie e gestione dei riposi. Nelle oltre 100 pagine del decreto i giudici Rispoli-Cernuto-Pontani spiegano che all’indagine di Pavia è collegata l’amministrazione giudiziaria che venne disposta a maggio per Ceva Logistic Italia srl, ramo della multinazionale leader nel settore della logistica. Un commissariamento per «sfruttamento di manodopera», ossia sempre per un caso di caporalato, il primo che si era concluso con una misura di questo genere da parte dell’autorità giudiziaria.

«SISTEMA FRAUDOLENTO PER EVADERE LE IMPOSTE»

Ceva, che nel Pavese ha la ‘Città del libro’, una sorta di hub logistico per la distribuzione di materiale editoriale, chiariscono i giudici, era proprio «una delle clienti del ‘sistema Bolondi’» e impiegava nella ‘Città del libro’ «manodopera fornita dalla Premium Net». Il consorzio di Bolondi, infatti, spiegano ancora i giudici, era «in grado di interfacciarsi sul mercato dell’outsourcing con i principali attori economici pubblici e privati (nel provvedimento l’elenco delle imprese clienti, ndr)». Allo stesso tempo, almeno dal 2009 l’imprenditore avrebbe portato avanti, tra la Lombardia e il Lazio (un procedimento a suo carico anche dei magistrati di Velletri), «un sistema fraudolento di gestione delle attività economiche finalizzato ad evadere le imposte», affiancato «da un’attività» di «occultamento della provenienza illecita dei profitti», con ‘schermi’ societari e prestanome. Il tutto, tra cui anche proventi di «truffe ai danni del sistema previdenziale e del mancato pagamento ai dipendenti del Tfr (gli operai venivano spesso licenziati e poi riassunti in altre cooperative, ndr)», poi riciclato, secondo i giudici, «in investimenti immobiliari».

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Quando la manovra si blinda sacrificando il parlamento

Nel 2018 il Pd attaccava una legge di bilancio extra-parlamentare con cui il governo calpestava i diritti delle Camere. Ma 12 mesi dopo è successa la stessa cosa. Il 2010 di Berlusconi, il Salva Italia montiano, la scommessa (persa) di Renzi: i precedenti.

«Per la prima volta si fa una legge di bilancio completamente extra-parlamentare. Il governo ha calpestato i diritti del parlamento e nelle ultime ore è stata usata violenza». Lo gridava, ormai a tarda sera, dal suo scranno in Senato, il capogruppo del Partito democratico Andrea Marcucci. Esattamente 12 mesi fa.

TEMPI DELLA DISCUSSIONE ANCORA TAGLIATI

La votazione si concluse alle 3 del mattino del 23 dicembre 2018. Alla Camera il suo compagno di partito, Emanuele Fiano, dopo aver lanciato l’intero testo – un plico di diverse centinaia di fogli – contro i banchi del governo (colpendo il sottosegretario all’Economia, il leghista Massimo Garavaglia) andò oltre, evocando manifestazioni di piazza e l’intervento della Consulta. Il Pd si stringeva attorno alla Costituzione per difendere la centralità del parlamento. Atto più che dovuto, si dirà. Ma 12 mesi dopo è stato il governo giallorosso sostenuto da dem e Movimento 5 stelle a tagliare i tempi della discussione alle Aule. E non è nemmeno la prima volta che accade nella storia repubblicana.

IL RISCHIO DA SVENTARE: L’ESERCIZIO PROVVISORIO

Lo spettro che il governo vuole allontanare è finire nell’esercizio provvisorio. Sarebbe un paradosso dal forte sapore beffardo per un esecutivo nato sul finire dell’estate 2019 esattamente con lo scopo di disarmare le clausole di salvaguardia dell’Iva, che invece si attiverebbero automaticamente nel caso in cui il parlamento non licenziasse la manovra 2020 entro il 31 dicembre.

VALANGA DI 4.500 EMENDAMENTI: TUTTI CADUTI

Soltanto il 18 novembre le Camere bombardavano la finanziaria con una gragnuolata di emendamenti: 4.500 (più di mille quelli presentati dalla stessa maggioranza: 900 dal Pd, 400 dal M5s, 200 da Italia viva). Non sono stati mai discussi. Anzi, la stessa legge di bilancio è stata compattata in un maxi-emendamento di un solo articolo, da votare a scatola chiusa. Con tanto di due soli passaggi nelle assemblee, e il sacrificio inevitabile della terza lettura. Ma ecco i precedenti nella Seconda Repubblica.

2010 – PRIMA LA MANOVRA E POI LA SFIDUCIA (SVENTATA) A SILVIO

La prima volta che la discussione parlamentare fu sacrificata sull’altare della speditezza dei lavori è stato nel 2010. Il 15 novembre di quell’anno si consumò la rottura tra Gianfranco Fini, allora presidente della Camera nonché leader di Futuro e libertà e Silvio Berlusconi, che guidava il governo sostenuto dal Popolo della libertà e dalla Lega Nord di Umberto Bossi.

Gianfranco Fini.

Il 2 dicembre Fini, Pier Ferdinando Casini, Francesco Rutelli e Raffaele Lombardo chiesero a nome del Terzo polo le dimissioni del presidente del Consiglio, ma vennero prontamente richiamati all’ordine dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, che pretese di congelare la mozione di sfiducia così da dare precedenza a una lettura accelerata della finanziaria. Che fu così licenziata il 7 dicembre, la sfiducia messa ai voti il 14 dello stesso mese, mentre Roma veniva attraversata da un corteo che, tra scontri, auto incendiate e cariche della polizia, chiedeva a gran voce le dimissioni dell’esecutivo.

Silvio Berlusconi e Domenico Scilipoti.

Dimissioni che non arrivarono: nella settimana “in più” che fu concessa al governo, Berlusconi andò a caccia di voti tra gli indecisi (risaltò alle cronache soprattutto il soccorso di due ex dell’Italia dei valori, Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, ma anche quattro finiani tradirono all’ultimo il proprio leader) e il parlamento rinnovò la fiducia al governo, regalandogli altri 11 mesi.

2011 – L’ARRIVO DEI TECNICI E IL SALVA ITALIA A PACCHETTO CHIUSO

Gli eventi del dicembre 2010 sono strettamente connessi alla seconda volta in cui il parlamento fu ridotto al ruolo di mero spettatore nell’iter di approvazione della legge di bilancio, appena 12 mesi dopo. Il governo Berlusconi IV, sopravvissuto a stento a fine 2010, terminò la sua corsa il 12 novembre dell’anno successivo, attanagliato dallo spread e dagli attacchi speculativi subiti in Borsa. Subentrarono in corsa i tecnici guidati da Mario Monti che approntarono in tutta fretta una maxi manovra da 40 miliardi (21,43 per ridurre il debito pubblico e 18,54 miliardi per la ripresa economica e le spese indifferibili). Una cifra monstre che pure non fu discussa dal parlamento. Il decreto Salva Italia fu approvato in via definitiva dal Senato con 257 sì e 41 no tre giorni prima di Natale.

2016 – LA SCOMMESSA (PERSA) DA RENZI E LA LEGGE BLINDATA

L’ultimo episodio risale infine al 2016, quando cioè l’allora premier Matteo Renzi legò la sopravvivenza del proprio esecutivo all’esito del referendum del 4 dicembre. La storia è nota: la riforma costituzionale che avrebbe dovuto scardinare il bicameralismo perfetto fu bocciata dall’elettorato e il governo arrivò a fine corsa. Non prima, però, di licenziare la finanziaria, come richiesto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che voleva che lo Stato concludesse l’anno con i conti in ordine. Solo la Camera ebbe modo di ritoccare il pacchetto di misure da 29 miliardi nella votazione del 28 novembre antecedente alla tornata referendaria. Al Senato il testo arrivò blindato il 7 dicembre con la richiesta di approvarlo in tutta fretta. Alcuni osservatori notarono che la scelta di escludere dalla discussione la Camera Alta costituisse la prova fattuale che la riforma renziana che puntava a ridurne gli ambiti di intervento in campo legislativo fosse ormai realtà nonostante l’esito referendario.

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Le vere cause della bancarotta della Popolare di Bari

Parlare di «fallimento della logica di mercato» è un controsenso: il crack è arrivato, come sempre, per colpa di chi ha agito al di fuori delle regole della compravendita. E di chi gli ha permesso di farlo.

Da Taranto a Bari ci sono meno di 90 chilometri. Due città colpite duramente da vicende economiche rilevanti: la crisi Ilva, con annessa questione spegnimento altiforni da parte di ArcelorMittal e Banca Popolare di Bari di cui Bankitalia ha dovuto avviare (l’ennesimo) commissariamento.

IL PROBLEMA NON È IL MERCATO

Il commento che si sente più spesso fare, quando assistiamo a una bancarotta, è che si tratta di un «fallimento della logica di mercato». Un ragionamento che parla direttamente ad un ventre ferito, lacerato da una ferita fresca che reclama una cura, ma si tratta di un ragionamento che è un vero controsenso. La logica di mercato è tale proprio perché prevede che le cose che non funzionano falliscano. «Follow the money» si ripete più volte nel film Tutti gli uomini del presidente, che racconta – tra l’altro – il mestiere del giornalismo investigativo, un processo lungo e noioso pieno di vicoli ciechi e compiti monotoni, ma che risulta necessario per non delegare ai lettori l’intero percorso.

UNA CRISI CHE ARRIVA DA LONTANO

La situazione della Banca Popolare di Bari era critica da molto tempo, almeno dal 2010 quando iniziarono a girare insistenti voci sull’utilizzo delle sue risorse; non era buona nemmeno quando lo Stato le chiese di intervenire in “salvataggio” di Banca Tercas (Cassa di Teramo), la quale – va ricordato – fu fatta acquisire dalla Pop Bari quando era già in amministrazione controllata, ma nonostante il regime di commissariamento era riuscita comunque a generare esigenze di bilancio.

IL VALORE DELLE AZIONI DETERMINATO DALLA BANCA STESSA

Esigenze che la Popolare di Bari ha “risolto” come molte altre volte (e come molte altre banche: Pop Bari è infatti la dodicesima banca italiana che salta dal 2015), facendosi sottoscrivere nuove azioni da correntisti ignari o con operazioni “baciate” (sottoscrizione di azioni in contropartita a finanziamenti offerti dalla banca stessa), tutte pratiche realizzabili solo “grazie” al fatto che le azioni della banca non sono quotate, non hanno un prezzo di mercato e ai correntisti veniva così comunicato il “valore” delle azioni determinato dalla banca stessa. Esattamente come fecero le banche Venete a loro tempo.

LO SCHEMA RICORRE DI BANCA IN BANCA

A conferma di ciò, il caso Banca Etruria è emblematico: visto che la banca era quotata, invece di raccogliere sottoscrittori sulle azioni, venivano emesse obbligazioni non quotate e fatte sottoscrivere agli ignari clienti della banca stessa. Lo schema è ricorrente: l’abuso verso i correntisti si è perpetrato sempre e solo attraverso gli strumenti non di mercato. Quando Pop Bari ha usato strumenti di mercato, emettendo prestiti obbligazionari subordinati, si sono trovati sottoscrittori di dubbia identità come veicoli di diritto maltese della cui consistenza patrimoniale nulla si sa.

INACCETTABILE L’INDIGNAZIONE DELLA POLITICA

È normale che il comune cittadino “scopra” ora, con l’annuncio del decreto da parte del governo, che la Banca Popolare di Bari entri a far parte dell’elenco delle banche fallite, molto meno normale (anzi inaccettabile) che i protagonisti della politica facciano i consueti proclami e “J’accuse”. Sono tanti e di vario colore i governi che abbiamo avuto dal 2010, nessuno ha mai voluto fare qualcosa sulle banche che sono poi fallite.

LO SCARICABARILE DI CHI GOVERNA

Ogni governo spera che il cerino rimanga in mano a qualcun altro (il che offre anche l’opportunità di denunciare, dall’opposizione, lo scandalo), ma questo accade perché il consenso popolare premia questi comportamenti. La Banca Popolare di Bari è stata esentata dall’adeguarsi alle regole imposte per le Popolari, che le obbligava a trasformarsi in SpA. La bancarotta della banca pugliese, come quella delle banche venete, non è il fallimento della logica di mercato, ma il fallimento di chi ha agito al di fuori del perimetro delle regole di mercato. E l’ha fatto perché gli è stato permesso di farlo.

LE SOLUZIONI NON RISOLVONO MAI LE CAUSE

Ancora oggi, alla dodicesima banca dell’elenco, la soluzione che viene proposta è un misto di statalismo, interventismo, idee come la creazione di una banca d’investimenti pubblica per il Sud, tutto ignorando deliberatamente che l’efficacia delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno si è dimostrata nulla, se non addirittura negativa, trascurando che il caso di Tercas ci ha già insegnato che una banca commissariata può continuare ad allargare il buco che si è scavata. Invochiamo l’intervento di uno Stato risolutore, come se gli organismi pubblici di vigilanza fossero al di sopra di ogni dubbio.

NON LASCIARE AL MANAGEMENT LA POSSIBILITÀ DI AGIRE FUORI DAL MERCATO

Quella che emerge, in questa vicenda, è l’ennesima richiesta di un risolutore che si faccia carico dei problemi e li possa sgarbugliare. Ma ciò che ha permesso il realizzarsi di questo ennesimo caso che coinvolge correntisti, risparmiatori, dipendenti e contribuenti, è la facoltà data al management di agire al di fuori della disciplina di mercato. La confusione che viene alimentata è fra le vicende delle persone coinvolte e le regole di sistema: dietro l’intento nobile di voler proteggere le persone dagli eventi, si nasconde la mancata assunzione di responsabilità, e promettere come soluzione l’intervento pubblico per sterilizzare gli effetti della logica di mercato è, nella migliore delle ipotesi, l’errore del medico clemente che – nella vecchia massima – fa la piaga purulenta.

LE LEZIONI DELLA STORIA E LE RESPONSABILITÀ DEI SINGOLI

La Storia ci ha già insegnato che quando un lato del mondo aspettava da Mosca l’indicazione di quanto grano seminare perché tutte le informazioni e le decisioni erano accentrate, un’altra parte del mondo consentiva ad ognuno di provare a fare ciò che riteneva, assumendosene benefici e rischi. Uno dei due sistemi ha dovuto cedere il passo all’altro, riconoscendogli maggiore efficienza, riconoscendogli il ruolo di miglior generatore e distributore di prosperità. Ragionare di quale sistema sia migliore su base aggregata è diverso dal discutere degli alti e bassi del destino di singoli individui, ma un’offerta politica sana e affidabile si occuperebbe di presentare proposte per generare e distribuire prosperità e benessere, cercando – con i dovuti ammortizzatori – di tutelare le persone che vivono delle difficoltà, anziché sfruculiarle per cavare consenso dai loro drammi personali.

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