Violenza sulle donne, quei segnali d’allarme tra gli adolescenti

Il 25 novembre è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il premier Giuseppe Conte ha dichiarato: «La violenza..

Il 25 novembre è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il premier Giuseppe Conte ha dichiarato: «La violenza contro le donne rimane un’emergenza. Lavoriamo per una svolta culturale, che parta dai giovani». Ma, al netto degli interventi (doverosi) della politica, come si può capire nel concreto se una relazione rischia di sfociare in un rapporto violento o comunque malsano? È utile, sia per i ragazzi sia per le ragazze, riconoscere alcuni segnali. Un vademecum per i più giovani, (Non) È amore se – Piccola guida per adolescenti su come dare vita a una relazione d’amore senza abusi né prevaricazioni – è scaricabile gratuitamente a questo link.

I SEGNALI PER I RAGAZZI…

Parlando dei ragazzi, gli autori spiegano: «Non è amore se, involontariamente, ti trovi spesso ad essere insensibile, irrispettoso o diffidente; se aggredisci verbalmente la tua ragazza e ti arrabbi sconsideratamente quando non sei d’accordo con lei; se ti capita di insultarla, di deriderla o di sminuire i suoi sentimenti o le cose che per lei sono importanti, se la umili su Facebook o davanti ai tuoi amici, se sei eccessivamente geloso delle sue amicizie, del tempo passato in famiglia e dei suoi spazi “senza di te”, se le imponi di non vedere i suoi amici o se glielo permetti, poi ti vendichi trattandola male o mostrando indifferenza e allontanandoti, se non ti fidi di lei e la costringi spesso a mostrarti il cellulare o il suo profilo Facebook».

…E QUELLI PER LE RAGAZZE

Nella guida si parla anche di ragazze. Spesso si tende a sminuire episodi violenti, a non ‘capirli’, a inquadrarli. Ci sono segnali per capire se la relazione sta andando nella direzione sbagliata. Ad esempio, continuano gli autori, se «il tuo partner controlla il tuo cellulare o i tuoi account aocial senza autorizzazione, tende ad umiliarti costantemente, mostra una gelosia estrema: fa scenate, urla, spacca cose o ti sequestra il cellulare e vuole sapere esattamente dove vai o con chi, ti isola dalla famiglia o dagli amici, ti accusa di cose che non hai mai fatto, ha frequenti sbalzi d’umore e ti accusa di essere la causa di ogni suo male, insiste nel voler fare sesso anche se tu non vuoi e ti aggredisce verbalmente e si arrabbia sconsideratamente se dici di no o se cambi idea dopo aver detto di sì».

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Guidare con la pioggia, i consigli di Pirelli

Sull’asfalto bagnato l’aderenza è ridotta, la direzionalità diminuisce e aumentano gli spazi di frenata. Ecco come contenere i rischi

Siamo
ormai entrati ufficialmente nella stagione della pioggia, uno dei nemici
più insidiosi
di chi si trova alla guida, che sia per lunghi o brevi
tratti. Sebbene le auto di oggi siano più sicure rispetto a quelle del passato,
la pioggia resta un nemico da non sottovalutare mai. Lo ricorda a tutti
gli automobilisti Pirelli, l’azienda dalle forti radici italiane con
stabilimenti in 12 Paesi del pianeta tra i principali produttori mondiali di
pneumatici
e di servizi a questi collegati.

ADERENZA E VISIBILITÀ

Diverse sono le problematiche con le quali il guidatore deve fare i conti quando piove. Prima tra tutti la diminuzione dell’aderenza soprattutto in presenza di pozzanghere le quali possono innescare l’aquaplaning, il temibile fenomeno di “cuscinetto” d’acqua che fa venir meno il contatto tra le gomme e l’asfalto. Freddo e foglie poi, in autunno, non fanno che rincarare la dose perché cadono intasando i tombini e trasformandosi in “saponette”. Oltre che con l’aderenza ridotta, chi guida deve tenere sempre ben presente che a causa delle gocce di pioggia la visibilità è limitata, motivo per cui i tergicristallo devono essere in perfetta efficienza. A questo si aggiunge, inoltre, la “nube” sollevata dai pneumatici che viene limitata solo dai tratti di strada con asfalto drenante.

ALCUNI ACCORGIMENTI DA ADOTTARE IN AUTO

Partiamo ora con i consigli veri e propri che l’azienda ha ritenuto segnalare. «Quando piove – spiega Pirelli – sterzo, acceleratore e freno vanno usati più dolcemente del solito. Se l’Esp c’è, non va disinserito come molti pensano. Se manca, occorre sfruttare le marce più alte compatibili con la velocità alla quale si procede: in questo modo le ruote tenderanno meno a slittare. Inoltre, bisogna attivare il “clima” per ridurre il rischio che i vetri si appannino. Nel caso, deviare l’aria sul parabrezza (spesso esiste un tasto specifico) per ripulirlo alla svelta».

ATTENZIONE A SEGNALI E POZZANGHERE

Messe in chiaro alcune impostazioni di guida, Pirelli pone l’attenzione sui segnali stradali, mai da sottovalutare soprattutto in caso di pioggia. «Attenzione, quindi, ai cartelli che avvisano di fondi sdrucciolevoli in caso di pioggia e anche a quelli che annunciano cunette o sottopassi – segnala Pirelli – sono le situazioni più a rischio di allagamento». Importante inoltre è prestare attenzione alle pozzanghere, senza mai sminuire la loro profondità: «Potrebbero nascondere una buca in grado di provocare seri danni a gomme, cerchi e sospensioni, oltre che far perdere il controllo della vettura. Meglio evitarle, o comunque superarle lentamente. Identico è il consiglio nel caso di un allagamento: il rischio, nello specifico, è di far aspirare acqua al motore o di bagnare l’impianto elettrico» ribadisce l’azienda produttrice di pneumatici. Fatte queste premesse, Pirelli non dimentica di ricordare che il primo consiglio per guidare sul bagnato è quello di adottare uno stile più prudente, moderando la velocità, evitando distrazioni e aumentando la distanza di sicurezza.

COME CONTRASTARE L’AQUAPLANING

Come detto quando parliamo di pozzanghere e guida con pioggia tiriamo in ballo anchel’aquaplaning che si presenta quando si entra in una pozzanghera già a partire dai 50 km/h. Cosa succede nello specifico? L’azienda lo spiega in modo semplice: «Il pneumatico, non riuscendo ad espellere l’acqua tramite la scolpitura del battistrada, tende a far ‘galleggiare’ la vettura con la conseguente perdita di direzionalità. Non per forza il fenomeno è causato da un avvallamento della sede stradale, ma entrano in gioco uno stato d’uso avanzato o una pressione errata delle nostre gomme». Per contrastare l’aquaplaning, il primo consiglio proposto da Pirelli è quello di cercare di restare calmi tenendo lo sterzo ben saldo ed eventualmente toccare lievemente i freni. Da tenere bene a mente, inoltre, è il fatto che in questi casi anche i più sofisticati sistemi di sicurezza possono avere tempi di risposta “lunghi”, motivo per cui è bene intervenire rapidamente, in modo deciso ma delicato.

OCCHIO ALLA ‘SCHIUMETTA’

Altro fenomeno a cui prestare attenzione quando piove e si è alla guida è il pericoloso viscoplaning che si presenta, di solito, dopo la caduta delle prime gocce di pioggia. «L’acqua si mischia con lo sporco e gli oli che sono depositati sulle strade creando un’emulsione particolarmente viscida: è la famosa ‘schiumetta’ che si vede affiorare sull’asfalto quando inizia a piovere – spiega Pirelli – La prudenza e la velocità ridotta sono i primi rimedi per anticipare situazioni di pericolo che possono portare sovrasterzo o sottosterzo». Come reagire in questi casi? Alleggerire il gas e raddrizzare leggermente il volante fino a quando le ruote non riprendano direzionalità evitando di accentuare la sterzata, azione che per istinto verrebbe di fare.

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Le indagini sul viadotto crollato della Torino-Savona

La procura della città ligure vuole accertare anche lo stato dei piloni. Al momento «è impossibile» stabilire la causa del cedimento. Il gruppo Gavio: «Ricostruzione in quattro mesi».

C’è anche lo stato dei piloni nell’inchiesta della procura di Savona che indaga sul viadotto della A6 “Madonna del Monte” crollato domenica 24 novembre.

Quel tratto di autostrada è di competenza di Autostrada dei Fiori, di proprietà del gruppo Gavio. Una porzione di circa 30 metri è venuta giù «a causa di una frana che ha travolto i pilastri», ha detto Giovanni Toti, governatore della Regione Liguria.

Ma il procuratore di Savona, Ubaldo Pelosi, per il momento non esclude nessuna ipotesi: «Abbiamo fatto alcuni sopralluoghi, per chiarire i fatti ci vorrà del tempo». Di sicuro allo stadio attuale «è impossibile» dire se quanto accaduto debba essere attribuito a problemi strutturali oppure no.

LEGGI ANCHE: Sono quasi 6 mila i viadotti da mettere in sicurezza

Intanto Bernardo Magrì, amministratore delegato di Autostrada dei Fiori, ha stimato in quattro mesi i tempi di ricostruzione della parte crollata del viadotto: «È tecnicamente possibile, con l’ipotesi di una campata in acciaio non sorretta da un pilone». Magrì ha aggiunto che ci sono già aziende pronte a intervenire. I tecnici stanno verificando la tenuta dell’altra carreggiata, per valutare se poterla riaprire su due sensi di marcia.

Mentre una buona notizia arriva dai vigili del fuoco, che hanno ufficialmente terminato le ricerche sulla massa della frana: il crollo non ha coinvolto né automobili, né persone. Sono ora in corso le operazioni per la messa in sicurezza dell’alveo, visto il peggioramento delle condizioni meteo atteso per la giornata del 26 novembre.

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La Cina ha provato a infiltrare una spia nel parlamento australiano

Un cittadino cinese ha anche rivelato ai servizi segreti australiani come Pechino
segretamente controlli le imprese quotate in borsa per
finanziare operazioni di intelligence.

Lo spionaggio cinese sulla politica australiana. Una rete di spionaggio di Pechino ha tentato di far eleggere nel Parlamento federale australiano un proprio operatore come deputato del partito liberale al governo. Inoltre le autorità australiane valutano seriamente, nonostante le smentite di Pechino, le dichiarazioni di un cittadino cinese Wang Liqiang che si dichiara agente dell’intelligence militare cinese e rivela ai servizi segreti australiani come Pechino segretamente controlli le imprese quotate in borsa per finanziare operazioni di spionaggio.

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A Hiroshima il papa ha scritto la sua Pacem in Terris

Nel discorso pronunciato al Memoriale per la pace di Hirsoshima Francesco è si è concentrato sul rischio rappresentato dagli arsenali nucleari, ricalcando i passi di Giovanni XXIII e Paolo VI.

Utilizzare l’energia atomica «per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune». Lo ha affermato papa Francesco durante il suo viaggio pastorale in Thailandia e Giappone durante il quale sta scrivendo un capitolo importante del suo magistero, una sorta di Pacem in Terris per il nostro tempo.

D’altro canto, nel discorso pronunciato al Memoriale per la pace di Hirsoshima, città colpita nell’agosto del 1945 da una delle due bombe atomiche che caddero sul Giappone (l’altra devastò Nagasaki), Francesco ha fatto più volte riferimento all’enciclica di Giovanni XXIII pubblicata nel 1963 che conteneva la visione nuova della Chiesa di fronte ai grandi cambiamenti della seconda metà del secolo scorso: dall’urgenza del disarmo nell’epoca della corsa agli armamenti, alla scossa tellurica prodotta dal processo di decolonizzazione attraverso i continenti, dalle rivendicazioni del movimento dei lavoratori, al nuovo protagonismo civile delle donne, all’affermazione dei diritti umani e civili.

Infine, nel rifiuto totale della guerra da parte del papa, è riecheggiato il magistero di Paolo VI – al cui insegnamento speso guarda Bergoglio – e del celebre discorso pronunciato alle Nazioni Unite il 4 ottobre del 1965 in cui disse li suo «mai più la guerra!».

LA SFIDA DEL FUTURO PER LA CHIESA È LA CONQUISTA DELL’ASIA

Bergoglio, da buon gesuita, sta riprendendo in questi giorni, e più largamente in questi anni di pontificato, la strada dell’oriente che la Compagnia di Gesù ha percorso praticamente fin dalla sua nascita nel XVI secolo seguendo le orme di Francesco Saverio e Matteo Ricci. Dalla Cina al Giappone, infatti, i seguaci di Ignazio di Loyola hanno provato a portare il Vangelo oltre i confini del mondo cristiano aprendo all’evangelizzazione le porte dell’Asia, continente immenso, immensamente popolato e oggi non più misterioso come qualche secolo fa.

La Chiesa non è più organicamente legata all’Occidente, magari lungo l’asse atlantico, guarda ai popoli e alle nazioni di tutti i continenti

Non per caso Francesco ha già visitato Corea del Sud, Myanmar, Bangladesh, Filippine, Sri Lanka, e in questi giorni ha toccato Thailandia e Giappone. La sfida della Chiesa per i prossimi decenni del resto, è quella di riuscire a ‘entrare’ in Asia non più, come pure avvenne spesso nei secoli in passati, a bordo delle navi delle grandi compagnie commerciali europee o sotto scorta dei contingenti miliari delle potenze un tempo coloniali, ma con la forza del messaggio cristiano, un messaggio che, di conseguenza, non può imporsi con la forza di un’ideologia – non può insomma essere inteso come dottrina spirituale ufficiale dell’occidente – ma che deve incontrarsi e amalgamarsi con le tradizioni culturali e religiose incontrate lungo il cammino.

Papa Francesco con l’imperatore del Giappone Naruhito (foto LaPresse).

Se questo è l’obiettivo, il papa da tempo ha messo in atto una strategia globale che va in tale direzione: la Chiesa non è più organicamente legata all’Occidente, magari lungo l’asse atlantico, guarda ai popoli e alle nazioni di tutti i continenti – come dimostrano le tante nomine fatte dal pontefice di cardinali di località e Paesi del Sud del mondo e di tutti i continenti – propone muovi modelli di sviluppo per curare le ingiustizie sociali, affronta i grandi temi globali del disarmo nucleare, della tutela del Creato, delle migrazioni. D’altro canto non va dimenticato che la storia dei gesuiti in Giappone è stata anche segnata da incomprensioni, persecuzioni e martirio racconta Silence, un recente film del grande regista americano Martin Scorsese.

LA SVOLTA GREEN E L’ATTACCO ALLA PROLIFERAZIONE DEGLI ARMAMENTI

Sul piano diplomatico la Santa Sede ha sviluppato un intenso dialogo con Pechino riuscendo, dopo lunghi negoziati, a sottoscrivere un accordo, certo ancora fragile, per la nomina condivisa dei vescovi; accordo che ha spaventato e allarmato la Casa Bianca in pieno conflitto economico con la Cina e che pure in oriente non tutti hanno visto di buon occhio. D’altro canto la battaglia apertasi a Hong Kong fra i giovani e le autorità cinesi ha messo in qualche imbarazzo la Santa Sede, chiusa fino ad ora in uno stretto riserbo sulla crisi nell’ex colonia britannica

Il possesso di ordigni nucleari per Francesco è «immorale»

Ora, con la visita in Giappone, Francesco ha compiuto una tappa fondamentale del suo pellegrinaggio verso oriente e a Hiroshima e Nagasaki è tornato su un tema cruciale che passa dal secolo scorso a quello successivo: quello del rischio rappresentato dagli arsenali nucleari. Se Giovanni XXIII nella Pacem in Terris chiedeva la «messa al bando» degli armamenti nucleari e Giovanni Paolo II nel 1981 a Nagasaki impegnava la Chiesa a battersi per «l’abolizione delle armi nucleari», Francesco ci sta dicendo che finita ormai da un trentennio la Guerra fredda – si celebra in questi giorni il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino – la minaccia nucleare pesa ancora su di noi, tanto che «l’intimidazione bellica nucleare» viene utilizzata dagli Stati come risorsa legittima «per la risoluzione dei conflitti», mentre lo stesso possesso di ordigni nucleari per Francesco è «immorale».

Papa Francesco durante l’incontro con un monaco buddista durante l’incontro per commemorare le vittime di Fukushima (foto LaPresse).

Il papa, inoltre, ha allargato il discorso alla proliferazione delle armi convenzionali sempre più raffinate, al persistere di conflitti tragici, al loro legame con la povertà, con la scarsa attenzione alla cura della «casa comune», cioè della Terra, col diffondersi di odio e discriminazioni. Ancora, incontrando a Tokyo i sopravvissuti del disastro di Fukushima (dove nel 2011 vi fu un gravissimo incidente nella centrale nucleare in seguito a un terremoto), ha espresso «preoccupazione» per l’uso civile dell’energia nucleare, mentre con l’imperatore del Giappone Naruhito ha toccato il tema delle guerre del futuro che potrebbero essere combattute per il controllo delle risorse idriche. Una cosa sembra ormai certa: il papa declina il suo magistero sociale in chiave “green” disegnando un pontificato che collega sempre di più i temi dell’ambiente, della crisi ecologica del Pianeta, all’annuncio cristiano.

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Nuovo record per le emissioni di gas serra

Nessun rallentamento nell’ultimo bollettino pubblicato dall’Organizzazione meteorologica mondiale. Ancora in crescita i livelli di anidride carbonica.

Nuovo, preoccupante record dei livelli di gas serra. Lo ha comunicato l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) nel bollettino pubblicato il 25 novembre. Questa tendenza a lungo termine, dicono gli esperti, si traduce in «impatti sempre più gravi dei cambiamenti climatici, con temperature in aumento, condizioni meteo più estreme, stress idrico, innalzamento del livello del mare e perturbazione degli ecosistemi marini e terrestri». Inoltre, «non vi è alcun segno di rallentamento, per non parlare di un calo», ha detto il segretario generale dell’Omm, Petteri Taalas.

ANCORA IN CRESCITA I LIVELLI DI ANIDRIDE CARBONICA

Il bollettino dei gas serra dell’Omm ha dimostrato che le concentrazioni medie globali di anidride carbonica (Co2) hanno raggiunto 407,8 parti per milione nel 2018, rispetto a 405,5 parti per milione (ppm) nel 2017. L’aumento di Co2 dal 2017 al 2018 è stato molto vicino a quello osservato dal 2016 al 2017 e appena sopra la media nell’ultimo decennio. I livelli globali di Co2, che resta in atmosfera per secoli e negli oceani ancora più a lungo, hanno attraversato il benchmark simbolico e significativo di 400 parti per milione nel 2015. Anche le concentrazioni di metano e protossido di azoto sono aumentate in misura maggiore rispetto allo scorso decennio, secondo le osservazioni della rete Global Atmosphere Watch che comprende stazioni nell’Artico remoto, aree montane e isole tropicali.

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Nuovo record per le emissioni di gas serra

Nessun rallentamento nell’ultimo bollettino pubblicato dall’Organizzazione meteorologica mondiale. Ancora in crescita i livelli di anidride carbonica.

Nuovo, preoccupante record dei livelli di gas serra. Lo ha comunicato l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) nel bollettino pubblicato il 25 novembre. Questa tendenza a lungo termine, dicono gli esperti, si traduce in «impatti sempre più gravi dei cambiamenti climatici, con temperature in aumento, condizioni meteo più estreme, stress idrico, innalzamento del livello del mare e perturbazione degli ecosistemi marini e terrestri». Inoltre, «non vi è alcun segno di rallentamento, per non parlare di un calo», ha detto il segretario generale dell’Omm, Petteri Taalas.

ANCORA IN CRESCITA I LIVELLI DI ANIDRIDE CARBONICA

Il bollettino dei gas serra dell’Omm ha dimostrato che le concentrazioni medie globali di anidride carbonica (Co2) hanno raggiunto 407,8 parti per milione nel 2018, rispetto a 405,5 parti per milione (ppm) nel 2017. L’aumento di Co2 dal 2017 al 2018 è stato molto vicino a quello osservato dal 2016 al 2017 e appena sopra la media nell’ultimo decennio. I livelli globali di Co2, che resta in atmosfera per secoli e negli oceani ancora più a lungo, hanno attraversato il benchmark simbolico e significativo di 400 parti per milione nel 2015. Anche le concentrazioni di metano e protossido di azoto sono aumentate in misura maggiore rispetto allo scorso decennio, secondo le osservazioni della rete Global Atmosphere Watch che comprende stazioni nell’Artico remoto, aree montane e isole tropicali.

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L’insopportabile leggerezza del dibattito sul Mes

La polemica sovranista rischia di far dimenticare che si tratta di un’istituzione necessaria, soprattutto per un Paese con un debito monstre come l’Italia. E che a gridare «al lupo al lupo» sono gli stessi lupi: coloro che più di tutti hanno contribuito a rendere fragile il nostro Paese con parole a vanvera e azioni dissennate gridate dal balcone.

Il confuso dibattito sul Mes, dominato dalle grida dei sovranisti, rischia di far dimenticare che il Mes è un’istituzione molto utile, soprattutto per un Paese come l’Italia con il suo debito pubblico monstre

L’esigenza di dotare il sistema comunitario di un fondo in grado di sostenere le economie più deboli si manifestò prima con la crisi greca e poi con quelle di Cipro, Portogallo, Irlanda e Spagna. Proprio l’esperienza greca convinse l’Eurogruppo a costituire uno stabile sistema di salvaguardia, il Mes, dotato di un capitale molto consistente (704 miliardi sottoscritti, di cui 80 versati) e della possibilità di emettere una grande quantità di obbligazioni per finanziare a tassi di favore e con scadenze fino a 40 anni Paesi in difficoltà.

I prestiti del Mes sono inoltre la porta di accesso alle Omt (Outright Monetary Transaction), operazioni teoricamente illimitate a sostegno di un Paese che furono introdotte assieme alla famosa affermazione di Mario Draghi nel 2012 che l’euro sarebbe stato salvato con qualunque mezzo (whatever it takes).

IL MES È UNA RETE DI SICUREZZA PER I PAESI IN DIFFICOLTÀ

In sostanza il Mes è una rete di sicurezza a favore di Paesi in difficoltà; è proprio quel prestatore di ultima istanza di cui molti avevano denunciato l’assenza. È anche utile ricordare ai nostri sovranisti che il Mes è una manifestazione di solidarietà dei Paesi più solidi nei confronti degli altri: la Germania, con una quota del 27%, è infatti di gran lunga il principale contributore, anche se è del tutto improbabile che possa aver bisogno della sua assistenza. Anche se andassero in crisi le maggiori banche tedesche, la Germania, avendo un debito inferiore al 60% del Pil, sarebbe in grado di cavarsela sa sé. L’Italia invece contribuisce con il 17% (che corrisponde a 14 miliardi). 

LA RIFORMA NON STRITOLA IL NOSTRO PAESE

È anche sbagliato vedere la riforma come un modo per stritolare l’Italia, come è stato detto in questi giorni. Nessun leader europeo ha voglia di trovarsi a dover gestire il guaio immenso che sarebbe per l’intera Europa un default dell’Italia. La finalità della riforma è quella di rendere più solida l’Eurozona, attraverso il potenziamento dei prestiti precauzionali e l’introduzione del backstop bancario, ossia della rete di sicurezza per il Fondo di Risoluzione Unico delle banche; questi sono passi avanti, anche se abbastanza limitati. 

IL NODO DELLA RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO

Il punto critico riguarda la possibile ristrutturazione dei debiti pubblici. Qui va subito chiarito che, come ha spiegato nei giorni scorsi l’ex-ministro Giovanni Tria, non è passata la linea oltranzista, sostenuta in particolare dall’Olanda, secondo cui un Paese che si rivolge al Mes per assistenza deve preventivamente ristrutturare il proprio debito. La proposta di revisione del Trattato, che dovrebbe essere approvata dai governi a dicembre e sottoposta successivamente alla ratifica dei parlamenti nazionali, prevede infatti una cosa diversa e cioè una preventiva analisi di sostenibilità del debito. Solo se l’esito di tale analisi è negativo si apre la strada della ristrutturazione. L’aver definito questa sequenza di adempimenti in modo assai prescrittivo è il motivo per il quale molti analisti economici, a cominciare dal governatore Visco, hanno espresso delle perplessità

GLI UNICI A PREOCCUPARSI SONO GLI ITALIANI

Il timore è che si replichi il guaio di Deauville, la cittadina francese in cui, a margine di vertice europeo, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, nell’ottobre del 2010, parlarono per la prima volta di «coinvolgimento del settore privato» che è una perifrasi per ristrutturazione del debito pubblico; il riferimento era alla Grecia, ma gli effetti di contagio furono notevoli sull’Italia e sugli altri Paesi della cosiddetta periferia dell’Eurozona. Ma anche qui è bene chiarire che queste preoccupazioni derivano dal fatto che l’Italia è un Paese che sta perennemente sull’orlo del baratro a causa dell’alto debito pubblico e della mancanza di politiche che possano rilanciare la crescita, migliorare l’avanzo primario e, in definitiva, porre su una traiettoria chiaramente discendente il rapporto debito/Pil. Non è un caso che gli unici che si preoccupano di questa riforma sono gli italiani; gli altri Paesi hanno fatto le riforme che erano necessarie e sono oggi tutti più solidi dell’Italia, come mostra il fatto che il nostro spread con la Germania è il più alto dell’intera Eurozona. 

I MOTIVI ALLA BASE DELLA RIFORMA

Se l’Italia fosse riuscita a fare le riforme che ha fatto per esempio la Spagna non si preoccuperebbe oggi del nuovo Trattato Mes le cui finalità, per quello che riguarda la gestione dei debiti pubblici, sono, di per sé, ragionevoli. La prima ragione della riforma riguarda l’azzardo morale. Si sostiene che occorre mantenere aperta la possibilità di una ristrutturazione, altrimenti viene meno qualunque incentivo a mettere ordine nei conti pubblici. Sapendo che tanto, in caso di crisi, interverrà il Fondo Salva Stati, i mercati non prezzano il rischio di un Paese e il governo può accumulare debiti quasi senza limiti. La seconda ragione della riforma nasce dall’esperienza della Grecia: nel periodo fra il 2010, quando scoppiò la crisi, e il 2012, quando fu attuata la ristrutturazione del debito, i prestiti dell’Efsf (l’istituzione temporanea che fu poi sostituita dal Mes) andarono in parte a rimborsare i creditori della Grecia e, fra questi, le banche tedesche e francesi che erano molto esposte con la Grecia. Per evitare questo esito e far sì che i prestiti vadano effettivamente ad aiutare la nazione in difficoltà, occorre aver attuato preventivamente una ristrutturazione del debito. È curioso che proprio coloro che sostengono che il Mes serve per salvare i creditori, allora le banche francesi e tedesche, ora strepitino contro l’unica soluzione che può effettivamente evitare che ciò avvenga.    

I TIMORI SONO LEGATI ALLE NOSTRE MANCANZE

In conclusione, i timori di un giudizio negativo sulla sostenibilità del nostro debito da parte di Mes e Commissione attengono più alla nostra incapacità di dotarci di una disciplina di bilancio che guardi alla crescita e alle riforme e meno agli sforamenti del deficit. A gridare «al lupo al lupo» sono gli stessi lupi, ossia coloro che più di tutti hanno contribuito a rendere fragile l’Italia, con parole a vanvera e azioni dissennate gridate dal balcone. 

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L’insopportabile leggerezza del dibattito sul Mes

La polemica sovranista rischia di far dimenticare che si tratta di un’istituzione necessaria, soprattutto per un Paese con un debito monstre come l’Italia. E che a gridare «al lupo al lupo» sono gli stessi lupi: coloro che più di tutti hanno contribuito a rendere fragile il nostro Paese con parole a vanvera e azioni dissennate gridate dal balcone.

Il confuso dibattito sul Mes, dominato dalle grida dei sovranisti, rischia di far dimenticare che il Mes è un’istituzione molto utile, soprattutto per un Paese come l’Italia con il suo debito pubblico monstre

L’esigenza di dotare il sistema comunitario di un fondo in grado di sostenere le economie più deboli si manifestò prima con la crisi greca e poi con quelle di Cipro, Portogallo, Irlanda e Spagna. Proprio l’esperienza greca convinse l’Eurogruppo a costituire uno stabile sistema di salvaguardia, il Mes, dotato di un capitale molto consistente (704 miliardi sottoscritti, di cui 80 versati) e della possibilità di emettere una grande quantità di obbligazioni per finanziare a tassi di favore e con scadenze fino a 40 anni Paesi in difficoltà.

I prestiti del Mes sono inoltre la porta di accesso alle Omt (Outright Monetary Transaction), operazioni teoricamente illimitate a sostegno di un Paese che furono introdotte assieme alla famosa affermazione di Mario Draghi nel 2012 che l’euro sarebbe stato salvato con qualunque mezzo (whatever it takes).

IL MES È UNA RETE DI SICUREZZA PER I PAESI IN DIFFICOLTÀ

In sostanza il Mes è una rete di sicurezza a favore di Paesi in difficoltà; è proprio quel prestatore di ultima istanza di cui molti avevano denunciato l’assenza. È anche utile ricordare ai nostri sovranisti che il Mes è una manifestazione di solidarietà dei Paesi più solidi nei confronti degli altri: la Germania, con una quota del 27%, è infatti di gran lunga il principale contributore, anche se è del tutto improbabile che possa aver bisogno della sua assistenza. Anche se andassero in crisi le maggiori banche tedesche, la Germania, avendo un debito inferiore al 60% del Pil, sarebbe in grado di cavarsela sa sé. L’Italia invece contribuisce con il 17% (che corrisponde a 14 miliardi). 

LA RIFORMA NON STRITOLA IL NOSTRO PAESE

È anche sbagliato vedere la riforma come un modo per stritolare l’Italia, come è stato detto in questi giorni. Nessun leader europeo ha voglia di trovarsi a dover gestire il guaio immenso che sarebbe per l’intera Europa un default dell’Italia. La finalità della riforma è quella di rendere più solida l’Eurozona, attraverso il potenziamento dei prestiti precauzionali e l’introduzione del backstop bancario, ossia della rete di sicurezza per il Fondo di Risoluzione Unico delle banche; questi sono passi avanti, anche se abbastanza limitati. 

IL NODO DELLA RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO

Il punto critico riguarda la possibile ristrutturazione dei debiti pubblici. Qui va subito chiarito che, come ha spiegato nei giorni scorsi l’ex-ministro Giovanni Tria, non è passata la linea oltranzista, sostenuta in particolare dall’Olanda, secondo cui un Paese che si rivolge al Mes per assistenza deve preventivamente ristrutturare il proprio debito. La proposta di revisione del Trattato, che dovrebbe essere approvata dai governi a dicembre e sottoposta successivamente alla ratifica dei parlamenti nazionali, prevede infatti una cosa diversa e cioè una preventiva analisi di sostenibilità del debito. Solo se l’esito di tale analisi è negativo si apre la strada della ristrutturazione. L’aver definito questa sequenza di adempimenti in modo assai prescrittivo è il motivo per il quale molti analisti economici, a cominciare dal governatore Visco, hanno espresso delle perplessità

GLI UNICI A PREOCCUPARSI SONO GLI ITALIANI

Il timore è che si replichi il guaio di Deauville, la cittadina francese in cui, a margine di vertice europeo, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, nell’ottobre del 2010, parlarono per la prima volta di «coinvolgimento del settore privato» che è una perifrasi per ristrutturazione del debito pubblico; il riferimento era alla Grecia, ma gli effetti di contagio furono notevoli sull’Italia e sugli altri Paesi della cosiddetta periferia dell’Eurozona. Ma anche qui è bene chiarire che queste preoccupazioni derivano dal fatto che l’Italia è un Paese che sta perennemente sull’orlo del baratro a causa dell’alto debito pubblico e della mancanza di politiche che possano rilanciare la crescita, migliorare l’avanzo primario e, in definitiva, porre su una traiettoria chiaramente discendente il rapporto debito/Pil. Non è un caso che gli unici che si preoccupano di questa riforma sono gli italiani; gli altri Paesi hanno fatto le riforme che erano necessarie e sono oggi tutti più solidi dell’Italia, come mostra il fatto che il nostro spread con la Germania è il più alto dell’intera Eurozona. 

I MOTIVI ALLA BASE DELLA RIFORMA

Se l’Italia fosse riuscita a fare le riforme che ha fatto per esempio la Spagna non si preoccuperebbe oggi del nuovo Trattato Mes le cui finalità, per quello che riguarda la gestione dei debiti pubblici, sono, di per sé, ragionevoli. La prima ragione della riforma riguarda l’azzardo morale. Si sostiene che occorre mantenere aperta la possibilità di una ristrutturazione, altrimenti viene meno qualunque incentivo a mettere ordine nei conti pubblici. Sapendo che tanto, in caso di crisi, interverrà il Fondo Salva Stati, i mercati non prezzano il rischio di un Paese e il governo può accumulare debiti quasi senza limiti. La seconda ragione della riforma nasce dall’esperienza della Grecia: nel periodo fra il 2010, quando scoppiò la crisi, e il 2012, quando fu attuata la ristrutturazione del debito, i prestiti dell’Efsf (l’istituzione temporanea che fu poi sostituita dal Mes) andarono in parte a rimborsare i creditori della Grecia e, fra questi, le banche tedesche e francesi che erano molto esposte con la Grecia. Per evitare questo esito e far sì che i prestiti vadano effettivamente ad aiutare la nazione in difficoltà, occorre aver attuato preventivamente una ristrutturazione del debito. È curioso che proprio coloro che sostengono che il Mes serve per salvare i creditori, allora le banche francesi e tedesche, ora strepitino contro l’unica soluzione che può effettivamente evitare che ciò avvenga.    

I TIMORI SONO LEGATI ALLE NOSTRE MANCANZE

In conclusione, i timori di un giudizio negativo sulla sostenibilità del nostro debito da parte di Mes e Commissione attengono più alla nostra incapacità di dotarci di una disciplina di bilancio che guardi alla crescita e alle riforme e meno agli sforamenti del deficit. A gridare «al lupo al lupo» sono gli stessi lupi, ossia coloro che più di tutti hanno contribuito a rendere fragile l’Italia, con parole a vanvera e azioni dissennate gridate dal balcone. 

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Bosco Pantano di Policoro, rimosse le trappole dei bracconieri

Nell’ambito dell’attività di vigilanza e controllo delle aree protette e dei siti di rete natura 2000, i funzionari e agenti di polizia ambientale dell’Ufficio Parchi, Biodiversità e Tutela della Natura della Regione Basilicata Sandrino Caffaro e Biagio Sampogna hanno rinvenuto nei giorni scorsi una decina di lacci di cattura in acciaio e relative aste di metallo su un’area abbastanza frequentata da animali selvatici (cinghiali, caprioli, istrici e lupi) del “Bosco Pantano di Policoro”.

Lo rende noto il Dipartimento Ambiente ed Energia della Regione Basilicata, specificando che le trappole, probabilmente utilizzate da bracconieri, sono state rimosse e rese inefficaci.

“Nel territorio del bosco Pantano di Policoro – afferma l’assessore regionale all’Ambiente Gianni Rosa – dove è presente un habitat naturale di grande pregio, si registra una buona presenza di fauna selvatica. La presenza attiva della polizia ambientale si conferma quindi come un presidio essenziale per tutelare la fauna, ma soprattutto per proteggere i tanti cittadini che in questo territorio vivono esperienze naturalistiche uniche e loro malgrado possono essere vittime di infortuni seri se finiscono per cadere in una di queste trappole poste dai bracconieri”. 

Matera 2019, laboratorio di ceramica e terracotta con Lopergolo

Il 26 e 27 novembre, lo Spazio dell’Angelo, un luogo ipogeo del Sasso Caveoso, ospiterà, nell’ambito del programma ufficiale di Matera 2019, il laboratorio di terracotta e ceramica, condotto dall’artista lucano Nisio Lopergolo.

“Gli oggetti in terracotta e ceramica – si legge in una nota della Fondazione Matera Basilicata 2019 – fanno parte della grande tradizione lucana. Vasi, anfore, piatti e bicchieri sin dai tempi antichi sono stati ricavati dall’argilla essiccata o cotta diventando prima oggetti di solo uso quotidiano e poi elementi artistici ed estetici, attraverso la decorazione pittorica. Nei due laboratori coordinati dal maestro Nisio Lopergolo si potranno apprendere e sperimentare le tecniche alcune volte ‘segrete’ per la realizzazione di oggetti in terracotta e ceramica, in un intreccio tra sapienza artigianale locale e cura artistica”.

Dopo il diploma in scultura presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli e Firenze, Nisio Lopergolo ha dato avvio ad una produzione artistica molto ricca, testimoniata da numerose mostre personali e collettive. Ha partecipato a molte mostre collettive, ricevendo premi importanti tra i quali quello nel 2017 del concorso Waiting for Florence Biennale, per il quale è stato premiato come vincitore assoluto, nella sezione scultura.

“Tutti i cittadini – conclude la nota della Fondazione – sono inviati a partecipare al laboratorio, che si svolgerà dalle 16 alle 18. Per l’accesso, è necessario il Passaporto per Matera 2019.

Perché Uber non potrà più operare a Londra

Le autorità municipali non rinnovano la licenza. Ultimo atto di una controversia che dura dal 2017. Il motivo? Problemi legati a sicurezza dei passeggeri e tutela del lavoro.

Uber non potrà più operare a Londra. Le autorità municipali della capitale britannica hanno infatti annunciato il 25 novembre di aver negato il rinnovo della licenza al colosso americano dei taxi online evocando «violazioni» delle regole che mettono a rischio i passeggeri e la loro sicurezza. L’azienda farà appello e potrà restare attiva finché questo non verrà esaminato. Transport for London (Tfl), l’agenzia comunale dei trasporti, aveva già sospeso Uber nel 2017, salvo concedere poi due proroghe, l’ultima scaduta il 24 novembre.

UNA CONTROVERSIA CHE DURA DA DUE ANNI

Tfl ha ricordato di aver contestato violazioni e negligenze a Uber nell’ambito del conflitto legale innescatosi già due anni fa, sottolineando come l’azienda vi abbia posto rimedio solo in parte. Mentre ha liquidato il modus operandi dell’app come tuttora «non adeguato né corretto» rispetto alla normativa locale. Nel 2017 Uber era finita sotto accusa per non aver denunciato alla polizia alcuni reati commessi dai suoi autisti, fra cui molestie sessuali nei confronti dei clienti. Ma anche per le precarie condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i driver.

OLTRE 3,5 MILIONI DI UTENTI E 45 MILA AUTISTI A LONDRA

Lo stop imposto dal Comune nel 2017 era stato seguito da una prima estensione temporanea della licenza di 15 mesi e da una seconda di due, concesse dopo una serie di impegni assunti dall’azienda in materia di sicurezza dei passeggeri e della tutela del lavoro, nonché dopo la sostituzione dei vertici manageriali nel Regno Unito. Uber, che ha ora 21 giorni per formalizzare l’appello di fronte alla giustizia britannica, ha bollato la decisione dell’autorità municipale – con cui è entrata in conflitto fin dall’elezione a sindaco del laburista Sadiq Khan al posto del conservatore (e attuale primo ministro) Boris Johnson – «incredibile e sbagliata». Circa 45 mila autisti lavorano a Londra per Uber, con un’utenza di oltre 3,5 milioni di persone.

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Perché Uber non potrà più operare a Londra

Le autorità municipali non rinnovano la licenza. Ultimo atto di una controversia che dura dal 2017. Il motivo? Problemi legati a sicurezza dei passeggeri e tutela del lavoro.

Uber non potrà più operare a Londra. Le autorità municipali della capitale britannica hanno infatti annunciato il 25 novembre di aver negato il rinnovo della licenza al colosso americano dei taxi online evocando «violazioni» delle regole che mettono a rischio i passeggeri e la loro sicurezza. L’azienda farà appello e potrà restare attiva finché questo non verrà esaminato. Transport for London (Tfl), l’agenzia comunale dei trasporti, aveva già sospeso Uber nel 2017, salvo concedere poi due proroghe, l’ultima scaduta il 24 novembre.

UNA CONTROVERSIA CHE DURA DA DUE ANNI

Tfl ha ricordato di aver contestato violazioni e negligenze a Uber nell’ambito del conflitto legale innescatosi già due anni fa, sottolineando come l’azienda vi abbia posto rimedio solo in parte. Mentre ha liquidato il modus operandi dell’app come tuttora «non adeguato né corretto» rispetto alla normativa locale. Nel 2017 Uber era finita sotto accusa per non aver denunciato alla polizia alcuni reati commessi dai suoi autisti, fra cui molestie sessuali nei confronti dei clienti. Ma anche per le precarie condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i driver.

OLTRE 3,5 MILIONI DI UTENTI E 45 MILA AUTISTI A LONDRA

Lo stop imposto dal Comune nel 2017 era stato seguito da una prima estensione temporanea della licenza di 15 mesi e da una seconda di due, concesse dopo una serie di impegni assunti dall’azienda in materia di sicurezza dei passeggeri e della tutela del lavoro, nonché dopo la sostituzione dei vertici manageriali nel Regno Unito. Uber, che ha ora 21 giorni per formalizzare l’appello di fronte alla giustizia britannica, ha bollato la decisione dell’autorità municipale – con cui è entrata in conflitto fin dall’elezione a sindaco del laburista Sadiq Khan al posto del conservatore (e attuale primo ministro) Boris Johnson – «incredibile e sbagliata». Circa 45 mila autisti lavorano a Londra per Uber, con un’utenza di oltre 3,5 milioni di persone.

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Sono quasi 6 mila i viadotti da mettere in sicurezza

L’allarme del presidente dell’Upi: nessuna iniziativa concreta intrapresa dopo il monitoraggio seguito al crollo del Ponte Morandi.

Quasi 6 mila viadotti che necessitavano di un intervento urgente e per i quali non è stato fatto ancora nulla. L’allarme è stato lanciato dal presidente dall’Upi (unione delle Province italiane) all’indomani del crollo sulla Torino-Savona e dei danni pesantissimi alle infrastrutture viarie causati dal maltempo. «Nell’agosto del 2018, all’indomani della tragedia del ponte Morandi», ha spiegato Michele De Pascale, «ci venne chiesto un monitoraggio urgente sugli oltre 30 mila ponti, viadotti e gallerie in gestione. In poche settimane consegnammo al ministero delle Infrastrutture un quadro da cui emergeva la necessità di intervenire su 5.931 strutture, su cui avevamo già pronti i primi progetti, e di procedere con indagini tecnico diagnostiche urgenti su 14.089 opere».

«CI ASPETTAVAMO RISPOSTE MIRATE, MA NULLA È STATO FATTO»

«Ci aspettavamo che questa analisi dettagliata portasse a risorse mirate, invece nulla è stato fatto», ha aggiunto il presidente dell’Upi. «Non solo, le Province continuano a essere sottoposte a un assurdo blocco di assunzioni, del tutto ingiustificabile, che non ci permette di avere personale tecnico specializzato, ingegneri, progettisti, tecnici, indispensabili per far procedere rapidamente gli investimenti. Un blocco che sembra essere tutto ideologico, non giustificato da motivi tecnici né di spesa, frutto del pregiudizio contro le Province che non fa che riflettersi sui servizi ai cittadini e perfino sulla loro incolumità e sicurezza».

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Sono quasi 6 mila i viadotti da mettere in sicurezza

L’allarme del presidente dell’Upi: nessuna iniziativa concreta intrapresa dopo il monitoraggio seguito al crollo del Ponte Morandi.

Quasi 6 mila viadotti che necessitavano di un intervento urgente e per i quali non è stato fatto ancora nulla. L’allarme è stato lanciato dal presidente dall’Upi (unione delle Province italiane) all’indomani del crollo sulla Torino-Savona e dei danni pesantissimi alle infrastrutture viarie causati dal maltempo. «Nell’agosto del 2018, all’indomani della tragedia del ponte Morandi», ha spiegato Michele De Pascale, «ci venne chiesto un monitoraggio urgente sugli oltre 30 mila ponti, viadotti e gallerie in gestione. In poche settimane consegnammo al ministero delle Infrastrutture un quadro da cui emergeva la necessità di intervenire su 5.931 strutture, su cui avevamo già pronti i primi progetti, e di procedere con indagini tecnico diagnostiche urgenti su 14.089 opere».

«CI ASPETTAVAMO RISPOSTE MIRATE, MA NULLA È STATO FATTO»

«Ci aspettavamo che questa analisi dettagliata portasse a risorse mirate, invece nulla è stato fatto», ha aggiunto il presidente dell’Upi. «Non solo, le Province continuano a essere sottoposte a un assurdo blocco di assunzioni, del tutto ingiustificabile, che non ci permette di avere personale tecnico specializzato, ingegneri, progettisti, tecnici, indispensabili per far procedere rapidamente gli investimenti. Un blocco che sembra essere tutto ideologico, non giustificato da motivi tecnici né di spesa, frutto del pregiudizio contro le Province che non fa che riflettersi sui servizi ai cittadini e perfino sulla loro incolumità e sicurezza».

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Nel castello di Dresda il furto d’arte più grosso del Dopoguerra

Rubati gioielli antichi per il valore di un miliardo dalla celebre sala delle volte verdi, Gruene Gewoelbe, del castello di Dresda.

La Bild, il più diffuso quotidiano di Germania e d’Europa, lo ha definito il furto d’arte più clamoroso della storia del Dopoguerra. Il 25 novembre gioielli antichi dal valore di circa 1 miliardo di euro: è il bottino di un furto clamoroso, avvenuto nella sala delle famosissime Gruene Gewoelbe (volte verdi) nel castello di Dresda. La polizia ha confermato il fatto e i ladri si sono dati alla fuga, secondo quanto riporta la Bild.

Un’immagine della sala delle volte verdi, gruene gewoelbe, così come appare sul sito del Castello di Dresda.

Le nove sale del Castello di Dresda contengono la collezione di gioielli più grande d’Europa, che dalla metà del 700 ha raccolto il tesoro degli elettori di Sassonia e delle corone che da loro dipendevano, in primis quella di Polonia.

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Mittal, trovato l’accordo per il pagamento dell’indotto

Nel frattempo, prende quota l’ipotesi di un rinvio dell’udienza sul ricorso dei commissari. La condizione è che la multinazionale si impegni a riprendere l’attività che aveva iniziato a sospendere.

Spunta l’ipotesi di un rinvio di qualche settimana dell’udienza fissata per il 27 novembre sul ricorso cautelare presentato dai commissari dell’ex Ilva per fermare l’addio di ArcelorMittal. Secondo quanto riferito dall’Ansa, se si troveranno le condizioni, e in particolare se il gruppo franco-indiano si impegnerà a riprendere l’attività che aveva iniziato a sospendere, i legali delle parti in via congiunta potrebbero chiedere una nuova data per dar tempo, nella trattativa a tre in cui si inserisce anche il governo, di arrivare a un accordo anche a seguito dell’incontro di venerdì 22 novembre.

L’INCONTRO DECISIVO TRA MITTAL E UNA DELEGAZIONE DI IMPRESE

Nel frattempo, all’ottavo giorno di presidio, è stato raggiunto l’accordo per il pagamento delle aziende dell’indotto. Ad annunciarlo è stato il governatore pugliese Michele Emiliano: «Abbiamo raggiunto un accordo per il quale entro domani (26 novembre, ndr) sarà pagato il 100% dello scaduto al 31 ottobre. Significa che si allineano con i pagamenti». Emiliano ha parlato a conclusione di un incontro nel siderurgico di Taranto sul pagamento delle imprese dell’indotto con il capo del personale di ArcelorMittal Arturo Ferrucci e altri dirigenti dello stabilimento, il presidente di Confindustria Taranto Antonio Marinaro, il sindaco Rinaldo Melucci e una delegazione di imprese dell’indotto.

Domani, se verrà pagato il 100% dello scaduto al 31 ottobre, il blocco verrà rimosso e si ricomincerà a lavorare normalmente

Michele Emiliano

«L’incontro», ha aggiunto Emiliano, «si è concluso positivamente. Domani ne è previsto un altro qui per verificare, davanti ai nostri occhi, l’emissione dei bonifici. Speriamo che tutto vada bene. Io non sono né ottimista né pessimista: devo però dare atto che dopo la riunione di ieri e con la presa di posizione così severa e forte di tutte le imprese che rimangono unite e compatte, ArcelorMittal ha risposto positivamente e questa sicuramente è una buona notizia. Quindi lo stabilimento rimane ancora e continua pur sotto pressione a funzionare». Il presidio, per ora, resta: «Domani, se verrà pagato il 100% dello scaduto al 31 ottobre, il blocco verrà rimosso e si ricomincerà a lavorare normalmente».

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Le cose da sapere sullo sciopero del trasporto aereo del 25 novembre

L’agitazione è stata ridotta a quattro ore (dalle 13 alle 17) dalle 24 iniziali. Ma ha costretto comunque Alitalia a cancellare 137 voli. Nelle stesse ore previsto anche lo stop dei casellanti autostradali.

Durerà quattro ore lo stop del trasporto aereo indetto per lunedì 25 novembre, ma ha già costretto Alitalia a cancellare 137 voli e causerà comunque disagi ai viaggiatori che nella stessa giornata dovranno vedersela con lo sciopero dei casellanti autostradali e, il 29, anche con quello del personale delle Ferrovie dello Stato.

L’AGITAZIONE PREVISTA DALLE 13 ALLE 17

A fermarsi dalle 13 alle 17 (dopo la riduzione dell’agitazione inizialmente di 24 ore imposta dal ministero delle Infrastrutture) saranno su scala nazionale innanzitutto i controllori di volo dell’Enav aderenti a Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugl Ta, Assivolo Quadri, il personale Alitalia di Cub trasporti e AirCrewCommittee e il personale navigante di Air Italy per lo stop proclamato da Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugl Ta. In polemica con l’ordinanza del Mit, l’Usb di Alitalia ha invece deciso di far slittare lo sciopero inizialmente programmato per domani al 13 dicembre, data in cui è già programmato un altro sciopero del trasporto aereo proclamato dalle categoria di Cgil, Cisl, Uil e Ugl per il perdurare della crisi della compagnia e con la richiesta di rifinanziamento del Fondo di solidarietà del trasporto aereo.

ALITALIA PREDISPONE UN PIANO PER I PASSEGGERI

Annunciando le cancellazioni, Alitalia ha predisposto un piano straordinario di riprotezione dei passeggeri su velivoli più grandi e capienti, in modo che il 60% di coloro che hanno un biglietto datato 25 novembre riescano a viaggiare comunque in giornata. Giornata di agitazione anche sulle autostrade. Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Sla Cisal e Ugl Viabilità e Logistica denunciano il blocco da parte dell’organizzazione datoriale Fise Acap del rinnovo del contratto nazionale, scaduto ormai da mesi. Lo sciopero riguarderà dunque solo le concessionarie autostradali iscritte all’associazione (tra le altre l’Autostrada dei Parchi, il Traforo del Frejus e del Gran San Bernardo, l’Autostrada del Brennero, la A7 Milano Serravalle e Milano Tangenziali e l’autostrada Pedemontana Lombarda Milano Serravalle).

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Citroën lancia il Nuovo Suv C5 Aircross

Il Suv, versione rinnovata del modello lanciato a fine 2018, punta su design, comodità e modularità. Le novità? Sospensioni di nuova generazione, tecnologia e comfort di guida.

Citroën ha deciso di proseguire la sua offensiva nel settore dei Suv lanciando anche in Europa la Nuova C5 Aircross, di cui sono già stati venduti 40mila esemplari in Cina. Lo sbarco di questo nuovo modello segue C3 Aircross, un successo da 80mila vendite.

AIRBUMP ALLE PORTIERE E AMPIA PERSONALIZZAZIONE

Il segmento dei SUV rappresenta il più del 40% delle
vendite del mercato automobilistico e Citroën ha investito nel settore con
l’obiettivo di offrire una risposta differente e innovativa che incarni tutti i
valori del brand. Nuovo SUV C5 Aircross, lungo 4,50 m, si distingue dagli altri SUV per le ruote
di grandi dimensioni, da 720 mm di diametro, per la distanza dal suolo
di 230 mm e per le barre al tetto, oltre che per innovazioni
esclusive Citroën come gli Airbump, che proteggono le portiere
dagli urti. Al pari degli ultimi modelli della casa francese, Nuovo SUV C5 Aircross
propone un’ampia offerta di personalizzazione, con 32
combinazioni per gli esterni e cinque combinazioni per gli ambienti interni. La
vettura può essere personalizzata grazie a sette tinte per la
carrozzeria, una colorazione bi-colore con tetto a contrasto Black e 3 Pack
Color, costituiti da dettagli colorati sul paraurti anteriore, sugli
Airbump nella parte inferiore delle porte anteriori e sul profilo
inferiore delle barre al tetto.

IL COMFORT DI GUIDA, DALLE SOSPENSIONI AI SEDILI

Nuovo SUV C5 Aircross, al pari di tutta la gamma Citroën, si caratterizza
per l’elevato comfort di guida, incarnando tutti i valori del
riconosciuto progetto Citroën Advanced Comfort. Nuovo SUV C5 Aircross presenta infatti due esclusive tecnologie a vantaggio
del comfort di tutti gli occupanti: le sospensioni Citroën con
smorzatori idraulici progressivi
e i sedili Advanced
Comfort, capaci di filtrare le asperità della strada e garantire un comfort di
guida di livello superiore. Ancora, i tre sedili posteriori individuali e scorrevoli sono ribaltabili a
scomparsa e il volume del bagagliaio “Best in Class” varia da 580 a 720 litri,
attestandosi come il più grande della categoria.

LE TECNOLOGIE DI ASSISTENZA ALLA GUIDA

Tutte vetture Citroën si distinguono poi per le moderne tecnologie di
assistenza alla guida
. Nuovo SUV C5 Aircross non fa eccezione, grazie
al display digitale da 12,3 pollici, al Touch Pad da 8 pollici
con schermo capacitivo, ai 20 sistemi di assistenza alla guida
di ultima generazione, tra cui spicca la tecnologia Highway Driver
Assist
, e alle sei tecnologie di connettività all’avanguardia. Nuovo SUV C5 Aircross è offerto con efficienti motorizzazioni benzina e
diesel da 130 cv e 180 cv, anche in abbinamento alla trasmissione automatica ad
otto rapporti EAT8, ed è il primo modello Citroën a utilizzare la tecnologia Plug-in
Hybrid PHEV
per offrire nuovi ed inediti livelli di comfort, efficienza e piacere di
guida.
Nuovo SUV C5 Aircross, commercializzato in Italia a partire da fine 2018, è
prodotto in Francia, nella fabbrica di Rennes – La Janais.

IL DG JACKSON: «È IL NUOVO MODELLO DI PUNTA CITROEN»

Linda Jackson, direttore generale di Citroën,
ha presentato con orgoglio Nuovo SUV C5 Aircross, vettura commercializzata in
quasi 92 paesi nel mondo: «Si tratta di un Next Generation SUV
che completa la gamma recentemente rinnovata di Citroën e affronta il segmento
dei SUV con tutti gli elementi identificativi della marca: design,
comfort e modularità. Nuovo SUV C5 Aircross è
il nuovo modello di punta di Citroën, un elemento chiave per la crescita
internazionale del brand».

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Il Suv, versione rinnovata del modello lanciato a fine 2018, punta su design, comodità e modularità. Le novità? Sospensioni di nuova generazione, tecnologia e comfort di guida.

Citroën ha deciso di proseguire la sua offensiva nel settore dei Suv lanciando anche in Europa la Nuova C5 Aircross, di cui sono già stati venduti 40mila esemplari in Cina. Lo sbarco di questo nuovo modello segue C3 Aircross, un successo da 80mila vendite.

AIRBUMP ALLE PORTIERE E AMPIA PERSONALIZZAZIONE

Il segmento dei SUV rappresenta il più del 40% delle
vendite del mercato automobilistico e Citroën ha investito nel settore con
l’obiettivo di offrire una risposta differente e innovativa che incarni tutti i
valori del brand. Nuovo SUV C5 Aircross, lungo 4,50 m, si distingue dagli altri SUV per le ruote
di grandi dimensioni, da 720 mm di diametro, per la distanza dal suolo
di 230 mm e per le barre al tetto, oltre che per innovazioni
esclusive Citroën come gli Airbump, che proteggono le portiere
dagli urti. Al pari degli ultimi modelli della casa francese, Nuovo SUV C5 Aircross
propone un’ampia offerta di personalizzazione, con 32
combinazioni per gli esterni e cinque combinazioni per gli ambienti interni. La
vettura può essere personalizzata grazie a sette tinte per la
carrozzeria, una colorazione bi-colore con tetto a contrasto Black e 3 Pack
Color, costituiti da dettagli colorati sul paraurti anteriore, sugli
Airbump nella parte inferiore delle porte anteriori e sul profilo
inferiore delle barre al tetto.

IL COMFORT DI GUIDA, DALLE SOSPENSIONI AI SEDILI

Nuovo SUV C5 Aircross, al pari di tutta la gamma Citroën, si caratterizza
per l’elevato comfort di guida, incarnando tutti i valori del
riconosciuto progetto Citroën Advanced Comfort. Nuovo SUV C5 Aircross presenta infatti due esclusive tecnologie a vantaggio
del comfort di tutti gli occupanti: le sospensioni Citroën con
smorzatori idraulici progressivi
e i sedili Advanced
Comfort, capaci di filtrare le asperità della strada e garantire un comfort di
guida di livello superiore. Ancora, i tre sedili posteriori individuali e scorrevoli sono ribaltabili a
scomparsa e il volume del bagagliaio “Best in Class” varia da 580 a 720 litri,
attestandosi come il più grande della categoria.

LE TECNOLOGIE DI ASSISTENZA ALLA GUIDA

Tutte vetture Citroën si distinguono poi per le moderne tecnologie di
assistenza alla guida
. Nuovo SUV C5 Aircross non fa eccezione, grazie
al display digitale da 12,3 pollici, al Touch Pad da 8 pollici
con schermo capacitivo, ai 20 sistemi di assistenza alla guida
di ultima generazione, tra cui spicca la tecnologia Highway Driver
Assist
, e alle sei tecnologie di connettività all’avanguardia. Nuovo SUV C5 Aircross è offerto con efficienti motorizzazioni benzina e
diesel da 130 cv e 180 cv, anche in abbinamento alla trasmissione automatica ad
otto rapporti EAT8, ed è il primo modello Citroën a utilizzare la tecnologia Plug-in
Hybrid PHEV
per offrire nuovi ed inediti livelli di comfort, efficienza e piacere di
guida.
Nuovo SUV C5 Aircross, commercializzato in Italia a partire da fine 2018, è
prodotto in Francia, nella fabbrica di Rennes – La Janais.

IL DG JACKSON: «È IL NUOVO MODELLO DI PUNTA CITROEN»

Linda Jackson, direttore generale di Citroën,
ha presentato con orgoglio Nuovo SUV C5 Aircross, vettura commercializzata in
quasi 92 paesi nel mondo: «Si tratta di un Next Generation SUV
che completa la gamma recentemente rinnovata di Citroën e affronta il segmento
dei SUV con tutti gli elementi identificativi della marca: design,
comfort e modularità. Nuovo SUV C5 Aircross è
il nuovo modello di punta di Citroën, un elemento chiave per la crescita
internazionale del brand».

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