Il cantante di Latina apre la polemica per una canzone del 2011: «Non si scherza sulla sessualità, serve una legge contro l’odio». La replica del marito della Ferragni: «Strano tempismo, ma se si è offeso mi spiace. Facciamo qualcosa insieme contro le discriminazioni».
Una polemica su bullismo, odio e (presunta) omofobia scoppiata con quasi 10 anni di ritardo. Lo scontro è avvenuto fra due big della canzone italiana, per successi ottenuti e seguito sui social: Tiziano Ferro e Fedez. Il primo ha accesso la miccia a Milano parlando durante la conferenza di presentazione del suo nuovo albumAccetto miracoli: «Mi si tira in ballo e io sono ironico, finché si scherza va bene, mi spiace solo quando queste cose sono legate al sentimento e alla sessualità, perché anche una battuta può mettere un adolescente a disagio, e che un idolo dei ragazzini mi prenda in giro su questo è un atto di bullismo molto forte, non solo verso di me».
«IL BULLISMO VIENE ANCHE DA CHI SCRIVE CANZONI»
L’idolo dei ragazzini in questo caso è “mister Ferragni“, visto che Tiziano ha fatto riferimento alle offese ricevute spiegando che «il bullismo non è finito a 13 anni» e che viene anche da chi scrive canzoni. A chi gli ha chiesto se si riferisse a Fedez, ha risposto che lui è «”uno dei”, dai…».
QUELLE BATTUTE SU OUTING E WÜRSTEL
Il testo della canzone “incriminata”, Tutto il contrario, uscita nel 2011, fa così: «Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing; Ora so che ha mangiato più würstel che crauti; Si era presentato in modo strano con Cristicchi; “Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?”».
Serve una legge contro l’odio, perché le parole sono importanti. Bisogna imparare a dire le cose, esistono forme e tempi
Tiziano Ferro
Ferro ha poi sottolineato la necessità di «una legge contro l’odio, perché le parole sono importanti. Bisogna imparare a dire le cose, esistono forme e tempi». Insomma «anche questo è bullismo, non ci si deve scherzare».
FEDEZ: «A 19-20 ANNI MI ESPRIMEVO IN MANIERA DIVERSA»
La risposta di Fedez non si è fatta attendere ed è arrivata su Instagram, tramite le story: «Mi stupisce il tempismo di questa dichiarazione, all’epoca avevo 19-20 anni, ero una persona diversa che si esprimeva in modo diverso. Però nella canzone io già dal titolo volevo far capire che la sessualità dell’artista è accessoria al giudizio che do dell’artista. Poi l’ho condita con il linguaggio dissacrante che avevo».
Penso negli anni di aver dimostrato che io e l’omofobia viaggiamo in parallelo e non ci incontriamo mai
Fedez
E ancora: «Penso negli anni di aver dimostrato che io e l’omofobia viaggiamo in parallelo e non ci incontriamo mai, con Mika a X-Factor abbiamo fatto un sacco di cose contro bullismo e omofobia».
«RENDIAMO COSTRUTTIVA QUESTA BRUTTA PARENTESI»
Infine le scuse e un appello: «Non pensavo che la canzone potesse aver offeso Tiziano, ora che lo so mi sento dire che non era quella l’intenzione e mi dispiace. Cerchiamo di rendere costruttiva questa brutta parentesi, io e Tiziano possiamo fare tante cose assieme per la lotta a omofobia e bullismo».
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Da una parte, lo schiaffo del Senato alla Cina. Dall’altra, la cautela del presidente. Che teme la polarizzazione dello scontro. E vuole tener fede alla propria retorica sovranista. v
Schiaffo del Congresso americano alla Cina. Il Senato ha approvato un disegno di legge a favore dei dimostranti di Hong Kong, spingendo così la Casa Bianca a imporre delle sanzioni ai funzionari del governo cinese che violino i diritti umani. Il testo prevede, tra l’altro, che venga elaborata una strategia per tutelare i cittadini statunitensi nell’ex colonia britannica. «Il Senato degli Stati Uniti ha preso una posizione a sostegno del popolo di Hong Kong», ha affermato il senatore repubblicano Jim Risch in un comunicato. «Approvare questo disegno di legge è un importante passo avanti nel ritenere il Partito comunista cinese responsabile della sua erosione dell’autonomia di Hong Kong e della sua repressione delle libertà fondamentali». Parole condivise anche dal collega democratico, Ben Cardin.
Durissima la reazione di Pechino, con il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, che ha sostenuto che la norma «viola gravemente il diritto internazionale e le leggi basilari che regolano i rapporti internazionali. La Cina lo condanna e si oppone fermamente». Lo scorso ottobre, la Camera dei Rappresentanti aveva già approvato un provvedimento simile a larghissima maggioranza. I due rami del Congresso dovranno quindi ora ratificare un testo comune da inviare a Donald Trump, il quale dovrà a sua volta decidere se concedere la propria firma o porre il veto.
LA SVOLTA DEL 2008 NEI RAPPORTI CON LA CINA
Che il Campidoglio fosse abbastanza agguerrito nei confronti di Pechino sulla questione di Hong Kong non è del resto esattamente una novità: a partire da alcuni settori del Partito Repubblicano, che vedono nella Repubblica Popolare un crescente pericolo. Si tratta d’altronde di una linea che non nasce oggi ma che affonda, se vogliamo, le proprie radici soprattutto nella crisi economica del 2008. Sino ad allora, i repubblicani avevano mantenuto un atteggiamento relativamente aperto nei confronti della Cina, soprattutto in ossequio a logiche economiche energicamente liberoscambiste. E, in tal senso, avevano in gran parte spalleggiato a livello parlamentare la politica di amichevolezza commerciale condotta negli Anni 90 dall’allora presidente democratico, Bill Clinton. Beninteso, questo non vuol dire che non si siano verificati anche attriti (basti pensare al delicato dossier di Taiwan). Ma, in generale, l’Elefantino tendeva a mostrare un atteggiamento di apertura.
LA LINEA DURA DEL PARTITO REPUBBLICANO
A seguito della recessione, la situazione è mutata, con molti repubblicani che hanno iniziato a vedere nella Cina un pericoloso concorrente sul piano geopolitico, militare ed economico. In particolare, negli ultimissimi anni, a risultare decisamente attivi nella linea dura contro Pechino si sono rivelati i senatori repubblicani Ted Cruz, Tom Cotton e Marco Rubio. Proprio quest’ultimo è stato del resto tra i principali promotori dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, approvato al Senato.
Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta
A fronte di questa postura non poco assertiva da parte del Congresso, la Casa Bianca ha finora scelto una linea molto più cauta. Trump è intervenuto poco sulla questione di Hong Kong e lo stesso segretario di Stato, Mike Pompeo, ha esposto il 15 novembre una posizione non troppo netta. Pur sostenendo di non escludere alcuna opzione (soprattutto qualora la Cina ricorresse all’intervento dell’esercito), il capo del Dipartimento di Stato ha tuttavia affermato di voler tutelare il principio “un Paese, due sistemi”. Trump teme d’altronde che un’eccessiva sottolineatura della questione dei diritti umani possa portare a una polarizzazione dello scontro tra Washington e Pechino. Senza poi contare che un intervento diretto sul dossier di Hong Kong rischierebbe per così dire di inficiare la sua dottrina di politica estera: una dottrina che ha sempre trovato il proprio centro gravitazionale nella difesa e nel rispetto del principio di sovranità nazionale.
I TIMORI DI TRUMP E L’IMPASSE DEL 1989
Pur condividendo con i senatori repubblicani preoccupazione e ostilità nei confronti di Pechino, l’inquilino della Casa Bianca è rimasto finora convinto che la leva principale da usare nel confronto con la Cina debba infatti essere quella della pressione commerciale. In altre parole, nella sua ottica realista, Trump teme che una battaglia in gran parte incentrata sui diritti umani rischi di far deragliare completamente le relazioni con la Repubblica Popolare. Il presidente americano potrebbe quindi dover affrontare un’impasse simile a quella in cui si ritrovò George H. W. Bush nel 1989, ai tempi delle proteste di Piazza Tienanmen, quando – come racconta Henry Kissinger nel suo libro On China – dovette barcamenarsi tra le esigenze del realismo geopolitico e le istanze di chi – soprattutto al Congresso – invocava la linea dura contro Pechino.
I presidenti di Cina e Usa, Xi Jinping e Donald Trump.
Tutto questo non deve comunque portare automaticamente a ritenere che il realismo politico equivalga ipso facto a un disinteresse nei confronti dei manifestanti dell’ex colonia britannica. L’estate scorsa, l’inquilino della Casa Bianca ha infatti vincolato i progressi nelle trattative commerciali anche alle reazioni del governo cinese verso i dimostranti. Sotto questo aspetto, non bisogna trascurare un elemento importante. La guerra dei dazi in corso tra Washington e Pechino ha determinato duri contraccolpi per entrambi i Paesi: se gli Stati Uniti stanno soffrendo soprattutto nel settore agricolo, la Cina ha riscontrato forti problemi nel manifatturiero. Il punto è che, a causa di queste tensioni commerciali, la Repubblica Popolare sta iniziando a dover affrontare anche questioni legate alla disoccupazione e a un welfare state in affanno: due fattori, questi ultimi, che rischiano di produrre serie conseguenze anche sul piano della politica interna cinese.
LE DIFFICOLTÀ DI XI E IL BIVIO DI DONALD
Tutto ciò evidenzia come, quello attuale, non possa esattamente definirsi un periodo felice per il presidente Xi Jinping: se i fatti di Hong Kong lo hanno posto sotto i riflettori di una sempre più critica opinione pubblica internazionale, le tensioni commerciali con Washington possono determinare un’erosione del suo potere interno. Trump, dal canto suo, è chiamato a scegliere quale strategia adottare. Rompere con il Congresso (come accaduto sullo Yemen). Oppure cercare un’articolata coordinazione, che permetta agli Stati Uniti di portare compattamente avanti il confronto con Pechino, pur su piani differenti.
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Una fotografia del 1898 ritrae una ragazzina molto simile alla 16enne svedese. Lo scatto ha generato teorie cospirazioniste sull’attivista. Che, in realtà, arriverebbe dal passato.
Dopo la versione «Greta finanziata da Soros» e quella «Greta bambina manovrata dai potenti» è arrivato l’ultimo complotto che vede protagonista l’attivista ecologista impegnata a scuotere le coscienze ambientaliste a suon di Fridays For Future. È quella di «Greta viaggiatrice nel tempo».
Alla base della teoria cospirazionista su Greta Thunberg, secondo il Daily Mail, è una fotografia sbucata dagli archivi dell’University of Washington Libraries in cui è immortalata una bambina di 121 anni fa intenta a lavorare in una miniera d’oro, nello Yukon, in Canada. Gli occhietti vispi e due lunghe trecce a fare da contorno hanno subito rimandato al volto che da mesi è divenuto il simbolo della lotta a difesa del Pianeta. Un viso che, a settembre 2019, è arrivato fino al summit sul clima di New York. E che, si scopre ora, potrebbe addirittura appartenere a un’altra epoca.
SUI SOCIAL C’È CHI LANCIA LA TEORIA DI GRETA GIUNTA DAL PASSATO
«Questa foto non può che convincervi. Greta Thunberg viaggia nel tempo!», ha commentato qualche utente su Twitter, postando l’immagine in bianco e nero dove la sosia dell’attivista svedese appare in un campo, in compagnia di altri due ragazzini. E ancora. «Greta è arrivata dal passato fino a noi per salvarci». Tra il serio e il faceto, la teoria cospirazionista sta rimbalzando sui social, tratteggiando un’attivista svedese addirittura in grado di riavvolgere il nastro del tempo. Per curare l’emergenza climatica del caso (e del secolo).
So, ‘Greta Thunberg’ is in a photo from 120 years ago, and it’s my new favourite conspiracy. Greta’s a time traveller, from the future, and she’s here to save us. pic.twitter.com/5ObTjPFXvk
L’ATTIVISTA IN VIAGGIO VERSO IL VERTICE SUL CLIMA DI MADRID
Sono in tanti gli animi rimasti affascinati dalla fotografia, scattata da Eric A. Hegg. Ma, per il momento, ancora nessuna replica da parte dell’attivista svedese. Per qualcuno, chissà, potrebbe essere troppo impegnata a fare le valigie per cavalcare i secoli e raggiungere la prossima crisi climatica. Più verosimilmente, però, Greta è diretta a Madrid, dove spera di prendere parte alla Cop25, la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2019 che si tiene nella capitale spagnola dal 2 al 13 dicembre. Sta attraversando l’Atlantico insieme con due YouTuber australiani Riley Whitelum e Alayna Carausu, che le hanno dato uno strappo a bordo del loro catamarano di nome Le Vagabonde. A emissioni zero, ça va sans dire.
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Una fotografia del 1898 ritrae una ragazzina molto simile alla 16enne svedese. Lo scatto ha generato teorie cospirazioniste sull’attivista. Che, in realtà, arriverebbe dal passato.
Dopo la versione «Greta finanziata da Soros» e quella «Greta bambina manovrata dai potenti» è arrivato l’ultimo complotto che vede protagonista l’attivista ecologista impegnata a scuotere le coscienze ambientaliste a suon di Fridays For Future. È quella di «Greta viaggiatrice nel tempo».
Alla base della teoria cospirazionista su Greta Thunberg, secondo il Daily Mail, è una fotografia sbucata dagli archivi dell’University of Washington Libraries in cui è immortalata una bambina di 121 anni fa intenta a lavorare in una miniera d’oro, nello Yukon, in Canada. Gli occhietti vispi e due lunghe trecce a fare da contorno hanno subito rimandato al volto che da mesi è divenuto il simbolo della lotta a difesa del Pianeta. Un viso che, a settembre 2019, è arrivato fino al summit sul clima di New York. E che, si scopre ora, potrebbe addirittura appartenere a un’altra epoca.
SUI SOCIAL C’È CHI LANCIA LA TEORIA DI GRETA GIUNTA DAL PASSATO
«Questa foto non può che convincervi. Greta Thunberg viaggia nel tempo!», ha commentato qualche utente su Twitter, postando l’immagine in bianco e nero dove la sosia dell’attivista svedese appare in un campo, in compagnia di altri due ragazzini. E ancora. «Greta è arrivata dal passato fino a noi per salvarci». Tra il serio e il faceto, la teoria cospirazionista sta rimbalzando sui social, tratteggiando un’attivista svedese addirittura in grado di riavvolgere il nastro del tempo. Per curare l’emergenza climatica del caso (e del secolo).
So, ‘Greta Thunberg’ is in a photo from 120 years ago, and it’s my new favourite conspiracy. Greta’s a time traveller, from the future, and she’s here to save us. pic.twitter.com/5ObTjPFXvk
L’ATTIVISTA IN VIAGGIO VERSO IL VERTICE SUL CLIMA DI MADRID
Sono in tanti gli animi rimasti affascinati dalla fotografia, scattata da Eric A. Hegg. Ma, per il momento, ancora nessuna replica da parte dell’attivista svedese. Per qualcuno, chissà, potrebbe essere troppo impegnata a fare le valigie per cavalcare i secoli e raggiungere la prossima crisi climatica. Più verosimilmente, però, Greta è diretta a Madrid, dove spera di prendere parte alla Cop25, la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2019 che si tiene nella capitale spagnola dal 2 al 13 dicembre. Sta attraversando l’Atlantico insieme con due YouTuber australiani Riley Whitelum e Alayna Carausu, che le hanno dato uno strappo a bordo del loro catamarano di nome Le Vagabonde. A emissioni zero, ça va sans dire.
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l colosso dell’e-commerce, con la più grande Ipo in un decennio alla Borsa dell’ex colonia, ha reso noto che collocherà 500 milioni di azioni al prezzo unitario di 176 dollari dell’ex colonia.
Alibaba punta a raccogliere quasi 13 miliardi di dollari dalla quotazione secondaria a Hong Kong. Il colosso dell’e-commerce, con la più grande Ipo in un decennio alla Borsa dell’ex colonia, ha reso noto che collocherà 500 milioni di azioni al prezzo unitario di 176 dollari di Hong Kong, sotto quota 188 indicata la scorsa settimana. Saranno raccolti 11 miliardi di dollari che, con i 75 milioni di titoli aggiuntivi in caso di boom di richiesta, saliranno alla cifra complessiva di 12,9 miliardi.
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Il trio composto da Paolo Fresu, Uri Caine e Daniele Di Bonaventura ha riletto a Pesaro la Petite messe solennelle. Una “provocazione” riuscita che conferma la straordinaria originalità di quello che il maestro marchigiano definiva il suo «ultimo peccato di vecchiaia».
La città di Gioachino Rossini, sotto le insegne del Rof, lo storico festival a lui dedicato. E il grande capolavoro sacro, quella Messapiccola e solenne che oltre la civetteria dell’autore, che la definì il suo «ultimo peccato di vecchiaia», afferma ancora oggi un’originalità così prepotente da risultare quasi sconcertante. Aveva tutto, la Petite (jazz) messe solennelle realizzata in prima assoluta il 16 novembre a Pesaro per costituire l’evento dell’anno nell’ambito sfuggente e complesso, eppure sempre più frequentato, in cui il jazz incrocia la musica cosiddetta colta.
UNA “PROVOCAZIONE” PORTATA NEL SANTUARIO ROSSINIANO
C’era la singolarità un po’ provocatoria dell’iniziativa, portata nel “santuario” del compositore, quel teatrino ottocentesco eponimo che dai lontani Anni 80 è il cuore del rossinismo internazionale. Ma soprattutto c’era l’originalità del progetto: una sfida temibile, mai osata prima, che metteva in campo da un lato un monumento della vocalità sacra del XIX secolo, solistica e corale, sostenuto peraltro da una scrittura pianistica di originalissima quanto singolare cifra stilistica e dall’altro tre musicisti di punta della scena jazz internazionale. E se la connotazione pianistica dell’approccio era doverosamente quanto inevitabilmente salvata (e anzi, come vedremo, per molti aspetti esaltata) grazie alla presenza di Uri Caine, la rimanente combinazione strumentale sembrava fatta apposta per disegnare traiettorie solo apparentemente comode e naturali, costituita com’era dal flicorno (a volte sostituito dalla tromba) di Paolo Fresu e dal bandoneón di Daniele Di Bonaventura.
Il trio Fresu-Caine -Di Bonaventura al Teatro Rossini di Pesaro (foto Studio Amati Bacciardi).
UNA CARTOGRAFIA MUSICALE FEDELE E INSIEME INNOVATIVA
La sfida si deve a proprio a Di Bonaventura, marchigiano di Fermo, forse non a caso l’unico dei tre a essere conterraneo di Rossini. Sua l’idea di affrontare una buona volta il periplo della partitura rossiniana – suddividendosi poi il lavoro specialmente con Uri Caine – per trarne una cartografia musicale che riuscisse a essere nello stesso tempo fedele e innovativa. Riesecuzione e riscrittura come postilla Fresu. Sua la convinzione che la tanto sbandierata “modernità” della scrittura pianistica rossiniana nella Petite messe potesse diventare il terreno di confronto (e magari anche scontro) per una rivisitazione arricchita dalla dialettica fra gli strumenti a fiato e il bandoneón, vedi caso strumento nato proprio in ambito religioso, prima di conoscere e assumere la dimensione etnica e tanguera che è oggi la sua più conosciuta.
UN WORK IN PROGRESS DA NON ABBANDONARE
L’ascolto ha dato l’impressione che questa navigazione musicale abbia appena spiegato le vele, nello stesso tempo fornendo suggestioni tali da far sperare che il work in progress non sia abbandonato, che l’elaborazione continui e si prenda il tempo necessario per crescere nel confronto con la monumentale partitura rossiniana e nella rilettura dei suoi mille dettagli. Forse, il punto principale riguarda proprio la natura della “riscrittura”, assodato che l’approccio della “riesecuzione” è risultato sostanzialmente fedele al modello, eliminando solo (si fa per dire) tre numeri del Gloria: i primi due e la conclusiva doppia Fuga, Cum Sancto Spiritu.
Il trio jazz ha eseguito la Petite messe solennelle del maestro marchigiano (foto Studio Amati Bacciardi).
IMPROVVISAZIONI A CORRENTE ALTERNATA
Il versante improvvisatorio ed elaborativo in senso profondo è sembrato infatti procedere un po’ a corrente alternata. Fluiva libero e suggestivamente provocatorio nella tastiera di Uri Caine, un musicista integrale che conosce bene quanto sia complesso ma quanti succosi frutti possa dare il confronto con la scrittura degli autori “classici” (dai lui lungamente e ampiamente frequentati non solo nell’ambito pianistico). Lo si coglieva subito – e l’attacco era affascinante – nello spostamento degli accenti dentro l’introduzione pianistica del Kyrie, lo si notava nella fremente libertà di spaziare da un capo all’altro della tastiera, un po’ meno nelle pur accattivanti ma forse un po’ manierate accensioni swing, anche perché il problema della drammaticità possibile dentro lo swing resta aperto. Ma non si poteva non apprezzare la colta consapevolezza stilistica rossiniana del pianista americano, che per esempio lo ha portato, nella pagina per solo pianoforte (così è l’originale) del Preludio religioso, a inserire il suo apporto improvvisatorio laddove nel belcanto di Rossini sono previste le variazioni, cioè nelle ripetizioni o nei “da capo”.
FRESU, SUGGESTIVO MA STANDARD
Questo meccanismo è parso evidente anche nell’apporto di Fresu, che si è confermato strumentista di gran vaglia e di sensibilità musicale decisamente inclusiva e comunicativa, all’interno tuttavia di una prova più manierata e prevedibile. Non era facile: toccavano a lui le trasposizioni più dirette e immediate (quelle di cui ogni rossiniano tradizionale, in questi casi, resta in attesa) delle melodie vocali, e se è innegabile che siano state in genere risolte con eleganza, ci è parso però che il loro trattamento fosse un po’ quello riservato a certi “standard” usurati: magari suggestivo, ma solo a tratti in grado di lasciar leggere una riscrittura davvero alternativa che andasse a costruire una dimensione nuova oltre quella naturalmente costituita dal rifacimento in chiave più o meno “calligrafica”. A bilanciare gli elementi di questo difficile equilibrio è stato Di Bonaventura con il suo bandoneón: il suo apporto al trio e soprattutto i suoi dialoghi con il flicorno o la tromba di Fresu hanno costruito spesso una dimensione sonora inedita e poetica, capace di disegnare un pensiero originale dentro alla voluta fedeltà al punto di partenza, regalando sottigliezze timbriche e sottili trine armoniche e melodiche che molto hanno giovato anche alla dimensione solistica di Fresu, arricchendole di una dimensione dialettica intrigante.
Daniele Di Bonaventura sul palco (foto Studio Amati Bacciardi).
APPLAUSI E DUPLICE BIS
Teatro Rossini al gran completo, esecuzione contrappuntata da numerosi applausi e salutata alla fine da vivo entusiasmo, che ha spinto il trio a un duplice bis. Come doveva essere, la rilettura del Domine Deus e del Quoniam dal Gloria si è svolta con l’apporto di ulteriori improvvisazioni e non senza una musicale boutade da parte di Uri Caine, il quale a un certo punto ha fatto risuonare alla tastiera anche la celeberrima “galoppata” che chiude la Sinfonia del Guillaume Tell. Una firma e un omaggio allo stesso tempo.
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Il nuovo movimento nato per contrastare Salvini si sporchi le mani. E scenda anche nel Mezzogiorno per rimediare allo scempio che Pd e soci stanno facendo in Puglia e Calabria.
Il dilagare delle Sardine è una buona cosa non solo perché indica una vitalità crescente contro la politica di Matteo Salvini, ma perché dice che la società reagisce agli stimoli, brutti o buoni (in questo caso brutti), della politica.
Non è una novità nella storia recente del Paese veder scendere in piazzaauto-organizzati movimenti di protesta. Si può partire dai girotondi, si può indicare un punto di svolta nelle donne di «Se non ora quando». Ancora le donne presero l’iniziativa a Torino e Roma così male amministrate e oggi abbiamo in Emilia-Romagna questo nuovo fervore ribelle che si starebbe estendendo in tutta Italia.
LE PARABOLE DEI MOVIMENTI A-PARTITICI
Il dato saliente è che si tratta di movimenti a-partitici anche se prevalentemente di sinistra. Tranne i girotondi che ebbero riferimenti in area Ds e nel sindacato, tutti gli altri si sono tenuti alla larga dalle formazioni politiche. Questo ha segnato la loro “purezza”, ma anche la loro temporaneità. Il tema che propone lo svilupparsi e il morire di movimenti di questo tipo è che non trovano mai un interlocutore politico che, rispettandone l’autonomia, sappia dialogare con loro e li aiuti a strutturarsi come componenti della società civile.
Le Sardine si muovono di fronte alla pretesa di Salvini di «liberare l’Emilia-Romagna». È una stupidaggine troppo grande. Tutto si può capire, anche la eventuale voglia di cambiare da parte dei cittadini (fu così con Giorgio Guazzaloca che, a differenza di Lucia Borgonzoni, era un signore sveglio e preparato), ma la ridicolaggine di rappresentare Bologna e le altre città emiliano-romagnole come sentina di vizi poteva venire in mente solo ai leghisti a giornalisti ex clintoniani che in tivù sparlano di città governate dalla sinistra.
IL DISASTRO DELLA SINISTRA IN CALABRIA E PUGLIA
Le Sardine, però, estendendosi dovranno sporcarsi le mani con le crisi della sinistra. Possono essere indifferenti alla scempio di sé che sta facendo la sinistra in Calabria? Si può accettare che in Puglia si combattano il solito Michele Emiliano, una ex deputata europea ed ex assessora regionale e un consigliere regionale attuale? Siamo ormai al numero chiuso, siamo di fronte al fatto che non deve crescere un pianta. Ecco in queste regioni meridionali le Sardine devono avere un impatto forte nel dibattito nella sinistra. Devono pretendere il cambiamento. E il partito che Nicola Zingaretti vuole rifondare deve chiedere aiuto a queste forze nuove per congedare chi non si rassegna a occupare posti e ne cerca sempre altri. E basta, no?
SERVE PULIZIA E UN AIUTO A QUESTA RIVOLUZIONE
Le Sardine se sapranno nuotare senza paura dei gatti di Salvini devono anche evitare la pesca a strascico dei vecchi marpioni di sinistra. Il tema della democrazia italiana non sta solo nella minaccia che un uomo inadatto arrivi al potere, ma anche nel fatto che chi dovrebbe contrastarlo è altrettanto inadatto, anche se per ragioni diverse. Mi piacerebbe se qualche vecchio dirigente, un po’ alla Bernie Sanders, decidesse di incoraggiare ragazze e ragazzi a fare un po’ di pulizia nella grande e ormai sbrindellata casa della sinistra. Io insito a pensare, e a scrivere, che la destra salviniana non durerà a lungo: in primo luogo perché sarà insidiata dalla destra tradizionalista di Giorgia Meloni; in seconda battuta perché a furia di madamine e di Sardine alla fine ci sarà un vero grande movimento che spazzerà via tutto. Spero che la sinistra aiuti questa “rivoluzione”.
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L’allenatore del Bologna è alle prese con la leucemia. Ad attenderlo fuori dal reparto di ematologia dell’Ospedale Sant’Orsola c’era la moglie.
Di solito la parola “dimissioni” associata a un allenatore non ha mai un’accezione positiva. Per Sinisa Mihajlovic sì: perché si intendono quelle dall’ospedale dove era ricoverato per curarsi dalla leucemia. Il tecnico del Bologna ha terminato il terzo ciclo della terapia.
TRE FOTO CON LA MOGLIE ALL’USCITA
Ad annunciarlo, attraverso Instagram, è stata la moglie Arianna, che intorno alle 13 ha pubblicato tre foto che la ritraevano abbracciata al marito all’uscita del padiglione 8 di ematologia del Sant’Orsola di Bologna. «Più bella cosa non c’è. Back Home», è stato il messaggio allegato alle immagini che annunciava il ritorno a casa del serbo.
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Mostre fotografiche e pittoriche, film, opere teatrali, libri e percorsi di lettura realizzati all’interno degli istituti penitenziari al centro della manifestazione “Con lo sguardo ‘di dentro’: Matera 2019, capitale europea della cultura. Diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale della comunità”, che avrà luogo dal 22 al 24 novembre presso il teatro comunale Guerrieri di Matera. L’iniziativa, organizzata dal CESP-rete delle scuole ristrette e dalla Fondazione Matera Basilicata 2019 con il sostegno del Mibac, “vuole essere – spiega una nota della Fondazione – la narrazione del percorso di ricerca compiuto dai docenti e dagli studenti della rete delle scuole ristrette nell’ambito dei laboratori interdisciplinari e di educazione diffusa che la rete ha progettato e realizzato”.
Si inizia con le mostre di pittura: i ritratti ad acquerello di detenuti e sorveglianti della Casa di reclusione di Spoleto, dell’artista Paola de Rose, i cui “Sguardi, da dentro” accompagnano gli spettatori nel viaggio e “I Tarocchi reclusi”, i 21 arcani maggiori delle carte, realizzati nella Bottega di pittura del maestro Piero Sacchi (interna al penitenziario) dai detenuti della Casa di reclusione San Michele di Alessandria. Una ricerca basata sulla presenza dei tarocchi come esperienza culturale nella vita dei detenuti e sulla necessità di individuare identità simboliche capaci di rappresentare il detenuto artista.
Si prosegue con gli scatti di backstage e ritratti di Viniie Porfilio, “Lo sguardo di dentro” realizzati durante lo spettacolo “Nessuno” al 60’festival dei 2 Mondi di Spoleto e le Fotocomposizioni di Bruno Appiani, Monica Dorato e Valter Ravera Tra il dentro e l’Inferno di Dante dei laboratori di Artiviamoci, che hanno riprodotto insieme agli allievi “ristretti” le parti più significative della Divina Commedia, realizzando ritratti che hanno interpretato i sentimenti dei canti danteschi. La mostra “Riscatti” è invece frutto di un laboratorio che il fotografo pratese Andrea Abati ha condotto con i detenuti della Casa circondariale La Dogaia durante l’attività didattica del Centro provinciale istruzione adulti di Prato, nel corso del quale sono state selezionate opere di pittori appartenenti ad un periodo che va dal XV al XIX secolo, che sono diventate la base per un serio gioco di interpretazione e sostituzione, nel quale i detenuti si ritraggono nella stessa posa e con la stessa luce usata per il personaggio protagonista del dipinto da loro scelto.
Si continua con la sezione proiezioni: la prima dedicata alle donne in carcere, come contributo e partecipazione della rete alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne, con la proiezione del lavoro teatrale Desdemona non deve morire, della Compagnia gli Scatenati-Teatro dell’Arca-Teatro Necessario, realizzato dai detenuti della Casa di Reclusione di Marassi-Genova e (nella giornata successiva del 23 novembre) del Film Sezione Femminile, per la regia di Eugenio Melloni, film che nasce da un laboratorio di cinema tenutosi all'interno del Carcere femminile di Bologna, un'elaborazione artistica e toccante della prigionia e della solitudine. Accanto a queste Maria e la Luna di Egle Mazzamuto, viaggio tra la violenza e la poesia delle anime vaganti, nella quale Maria, anima che popola una delle tante zone fatiscenti di Palermo, delinea gli ultimi momenti della sua umile vita di ragazza richiusa in un "carcere" sociale in cui la sottomissione di genere e la violenza divengono pane quotidiano.
In posizione centrale nelle produzioni della rete, si collocano poi le azioni teatrali (accesso con Passaporto per Matera 2019 e prenotazione) della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano/Spoleto, direttore artistico e regista Giorgio Flamini, che presenta due lavori, il “Cantico dei Cantici” nella versione laica di Guido Ceronetti, con 3 detenuti, due attrici e musica registrata, un mezzosoprano e “Storia vera ‘e capite comm’è”, già rappresentato nell’ambito del Festival dei 2 Mondi da #SIneNOmine con un adattamento sul romanzo in due libri “La Storia VERA”, racconto fantastico scritto in forma immaginaria e autobiografica da Luciano di Samosata, unito a Pinocchio di Collodi e alle città invisibili di Calvino. Un contributo importante proviene dalla FUNDACJA JUBILO (Wroclaw-Polonia, capitale europea della cultura 2016), direttore artistico e regista Diego Pileggi che presenta, con attori detenuti del penitenziario di Wroclaw, KAIN in Absentia – Installazione performativa presentata per la prima volta a Poznan nell’aprile 2019, all’interno del VI Festival nazionale polacco di teatro in carcere (accesso con Passaporto per Matera 2019 e prenotazione). Durante questa occasione l’installazione ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria del Festival con la seguente motivazione: “Per la toccante interpretazione della tematica di “Caino e Abele”, la proposta di una forma alternativa alla presenza dal vivo ed il costante atteggiamento degli attori”.
All’interno di questa cornice si svolgerà il seminario, che inizierà nel pomeriggio, con i docenti delle scuole della rete che faranno il punto sui laboratori formativi-interattivi, da quelli teatrali a quelli di lettura alle biblioteche carcerarie, con la presentazione del libro di un ergastolano, Pierdonato Zito, “Indimenticabile padre: ricordi di un ergastolano”, che sarà presente in sala, insieme al magistrato di sorveglianza Margherita Di Giglio e la presentazione del teaser, del cast del Docu-film “Lo cunto dei ristretti” in corso di produzione, con finanziamento Monitor 440 2018-2019 MIUR-MIBACT Prodotto da Rete delle scuole ristrette e CESP. Al termine del seminario la rete delle scuole ristrette dopo un anno vissuto all’insegna della cultura trarrà un Bilancio dell’attività della rete e traccerà le linee degli interventi futuri.
Lì dove non specificato, l’accesso agli appuntamenti è libero fino ad esaurimento posti. La prenotazione degli spettacoli che richiedono il Passaporto per Matera 2019 è disponibile sul sito www.materaevents.it o presso L’Infopoint di Matera 2019.
Le società degli appalti riprenderanno lo stop ai lavori alle 12 del 21 novembre se non arriveranno i pagamenti.
Le aziende degli appalti dell’acciaieria ex Ilva di Taranto «in assenza del saldo dei crediti riprenderanno con il blocco delle attività interne allo stabilimento a partire dalle 12 di domani». Lo indica ConfindustriaTaranto sottolineando che non c’è stato «nessun pagamento effettuato da parte di ArcelorMittalItalia alle aziende dell’indotto neanche in minima percentuale, contrariamente a quanto dichiarato dall’azienda nella serata di ieri a Confindustria e sindacati».
«NESSUN CREDITO È STATO SODDISFATTO»
«Nessun credito è stato soddisfatto neanche come anticipo rispetto alla mole creditizia maturata da parte delle aziende fornitrici», spiega Confindustria Taranto. «Le imprese, che da lunedì scorso continuano a tenere il presidio spontaneo e auto di tutto davanti allo stabilimento hanno assicurato già da ieri sera, accogliendo la richiesta di Confindustria Taranto, gli interventi necessari per la messa in sicurezza degli impianti». Tuttavia, avverte l’associazione degli industriali, «in assenza del saldo dei crediti riprenderanno con il blocco» da domani.
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Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iraq. Ma il regime change per ora è una chimera.
Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da unaprotesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.
Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.
Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.
L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA
Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.
L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele
L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gazasu Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.
Le proteste in Iraq.
L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.
NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI
Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.
Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie
Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.
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Centinaia di morti e migliaia di arresti per sedare le piazze in rivolta. Proteste che contagiano anche Libano e Iraq. Ma il regime change per ora è una chimera.
Centinaia di morti, cecchini che sparano dai tetti sulla folla, 3 mila arresti, forca per i manifestanti arrestati, internet bloccato da giorni nonostante gli estremi danni all’economia interna: il “riformismo” iraniano di Hassan Rohani che tanto piace all’Europa sta dando il meglio di sé nelle piazze sconvolte da unaprotesta popolare spontanea che è identica a quella che sconvolge da settimane le piazze libanesi e irachene.
Il Vecchio continente non vuole prenderne atto, ma è evidente che la rivolta popolare libanese, quella irachena e quella iraniana hanno la stessa origine e lo stesso, identico avversario: il modello di potere degli ayatollah.
Tra tutti gli slogan urlati nelle piazze iraniane, risalta «Chissenefrega della Palestina!», perfetta sintesi della rivolta contro gli enormi costi sociali che ha l’impegno militare “rivoluzionario” all’estero dei Pasdaran.
L’IRAN VUOLE ESPORTARE LA RIVOLUZIONE KHOMEINISTA
Identico e uno solo, il centro di comando che ordina di sparare sulla folla a Teheran, a Beirut o a Baghdad: i Pasdaran e i paramilitari agli ordini di quel generale Ghassem Suleimaini che era volato due settimane fa nella capitale irachena promettendo sangue nelle strade «come ben sappiamo fare in Iran». Simili, se non identici, peraltro gli slogan delle piazze iraniane, irachene e libanesi: la corruzione, i soprusi, la fame, i miliardi per le spese militari a scapito del welfare. Tutti prodotti dal modello di regime che l’Iran ha esportato in Iraq e Libano: la rivoluzione khomeinista.
L’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: la distruzione di Israele
L’Europa non ne vuole prendere atto, ma l’Iran ha uno e un solo obiettivo strategico: esportare la rivoluzione iraniana, processo nel quale passaggio fondamentale è la distruzione di Israele. Per questo obiettivo il regime degli ayatollah ha investito decine di miliardi di dollari per foraggiare da cinque anni le Brigate Internazionali sciite che hanno mantenuto sul trono il macellaio Bashar al Assad e trasformato l’Iraq in un protettorato iraniano, per riempire gli arsenali siriani di missili destinati a Israele, per finanziare la Jihad islamica che spara razzi -iraniani- da Gazasu Israele e per sostenere i ribelli sciiti Houti in Yemen.
Le proteste in Iraq.
L’originalità del “modello iraniano” è stata di affiancare alle forze di fatto egemoni nel Paese (il blocco militare incentrato sui Pasdaran, che controlla anche l’economia iraniana) che gestiscono l’esportazione della rivoluzione khomeinista in Medio Oriente, con un apparato amministrativo di governo dalle forme, ma non dalla sostanza, riformista col volto pacioccone di Rohani. Questa duplicità non è stata colta dall’Europa, che ha assistito complice, dopo la normalizzazione della collocazione internazionale dell’Iran voluta da Barack Obama con l’accordo sul nucleare, alla espansione dell’egemonia politica e militare dell’Iran su Iraq, Siria, Yemen e Libano.
NON ESISTE UNA OPPOSIZIONE POLITICA VERA AI REGIMI
Non è la prima volta che il “riformismo iraniano” spara a zero sulla folla, l’ha fatto nel 1999, l’ha fatto conto l’Onda Verde del 2008, l’ha fatto nel 2017 e 2018 e lo rifá oggi. La novità, enorme, è che ormai la reazione contro il regime, contro il centro di comando iraniano unisce le piazze iraniane a quelle irachene e libanesi. Un fenomeno clamoroso e inedito, acuito dall’effetto delle sanzioni promosse da Donald Trump dopo la sua denuncia dell’accordo sul nucleare.
Forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie
Detto questo, non è possibile a oggi farsi illusioni sull’effetto di questa rivolta agli ayatollah contemporanea nei tre Paesi. Né in Iran, né in Libano esiste una opposizione politica, dei partiti, che sappiano e possano dare uno sbocco alla formidabile protesta popolare. Queste forze politiche antagoniste all’Iran esistono solo in Iraq, ma sono a oggi minoritarie. Dunque, nessun regime change in vista in Iran o in Libano nel breve periodo, ma comunque una situazione di estrema instabilità alla quale purtroppo il regime degli ayatollah può essere tentato di reagire affiancando alla più feroce repressione interna una situazione bellica calda contro Israele o nel Golfo.
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Il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, avverte il governo sulle modifiche al fondo salva-Stati europeo: «Cosa fa la Repubblica per tutelare il debito pubblico?».
Le banche italiane sono pronte alla “rivolta” se le regole del Mes, il fondo salva-Stati europeo, dovessero cambiare.
Il presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi), Antonio Patuelli, non ha usato mezzi termini: «Noi siamo liberi di comprare titoli sovrani, non abbiamo un vincolo di portafoglio e in questa fase abbiamo circa 400 miliardi di debito pubblico italiano». Ma il problema è «cosa fa la Repubblica italiana per tutelare il debito pubblico. Non si tratta di debito delle banche».
Quindi l’avvertimento: «Se le condizioni relative al debito si alterano, o per maggiori assorbimenti o per elementi che favoriscono sinistri, è chiaro che le banche sottoscriveranno meno debito pubblico, non compreremo più» Btp.
I possibili cambiamenti evocati da Patuelli si riferiscono proprio all’approvazione definitiva della riforma del Mes. Al processo manca ancora una riunione dei capi di governo europei fissata a dicembre, poi toccherà ai parlamentinazionali portare avanti il percorso di ratifica.
Alcuni Paesi nordici dell’Eurozona hanno chiesto con insistenza di modificare le cosiddette clausole di azione collettiva (Cac), che definiscono le procedure in caso di ristrutturazione di un debito sovrano facente parte della moneta unica.
In futuro, secondo questa impostazione, il fondo salva-Stati potrebbe intervenire per aiutare un Paese in difficoltà solo se il deficit non supera il 3% del Pil e solo se il rapporto debito/Pil è inferiore al 60%.
In alternativa il Paese in questione (ad esempio l’Italia, che ha un rapporto debito/Pil pari al 134,8%) dovrebbe approvare un piano di riforme strutturali con cui portare il differenziale alla soglia desiderata a un ritmo di un ventesimo all’anno nella media dei due anni precedenti. È inoltre richiesta l’assenza di «gravi vulnerabilità» del settore finanziario, capaci di mettere a rischio la stabilità.
Queste proposte di riforma hanno allarmato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default».
Il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, avverte il governo sulle modifiche al fondo salva-Stati europeo: «Cosa fa la Repubblica per tutelare il debito pubblico?».
Le banche italiane sono pronte alla “rivolta” se le regole del Mes, il fondo salva-Stati europeo, dovessero cambiare.
Il presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi), Antonio Patuelli, non ha usato mezzi termini: «Noi siamo liberi di comprare titoli sovrani, non abbiamo un vincolo di portafoglio e in questa fase abbiamo circa 400 miliardi di debito pubblico italiano». Ma il problema è «cosa fa la Repubblica italiana per tutelare il debito pubblico. Non si tratta di debito delle banche».
Quindi l’avvertimento: «Se le condizioni relative al debito si alterano, o per maggiori assorbimenti o per elementi che favoriscono sinistri, è chiaro che le banche sottoscriveranno meno debito pubblico, non compreremo più» Btp.
I possibili cambiamenti evocati da Patuelli si riferiscono proprio all’approvazione definitiva della riforma del Mes. Al processo manca ancora una riunione dei capi di governo europei fissata a dicembre, poi toccherà ai parlamentinazionali portare avanti il percorso di ratifica.
Alcuni Paesi nordici dell’Eurozona hanno chiesto con insistenza di modificare le cosiddette clausole di azione collettiva (Cac), che definiscono le procedure in caso di ristrutturazione di un debito sovrano facente parte della moneta unica.
In futuro, secondo questa impostazione, il fondo salva-Stati potrebbe intervenire per aiutare un Paese in difficoltà solo se il deficit non supera il 3% del Pil e solo se il rapporto debito/Pil è inferiore al 60%.
In alternativa il Paese in questione (ad esempio l’Italia, che ha un rapporto debito/Pil pari al 134,8%) dovrebbe approvare un piano di riforme strutturali con cui portare il differenziale alla soglia desiderata a un ritmo di un ventesimo all’anno nella media dei due anni precedenti. È inoltre richiesta l’assenza di «gravi vulnerabilità» del settore finanziario, capaci di mettere a rischio la stabilità.
Queste proposte di riforma hanno allarmato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default».
Dopo i tentativi di Netanyahu di trovare una maggioranza, vanno a vuoto anche quelli del rivale del partito Blu Bianco.
Sono falliti i tentativi di AvigdorLieberman (leader del partito di destra IsraelBeitenu) di dar vita a un «governo unitario nazionale e liberale» con il Likud di BenjaminNetanyahu e con i centristi di BennyGantz, leader di Blu Bianco. Lo ha affermato Lieberman alla Knesset osservando che «a causa della loro mancanza di leadership, esiste il rischio di nuove elezioni». Nella notte tra il 20 e il 21 novembre scade il termine massimo per il premier incaricato Gantz di annunciare la formazione di un governo.
LIEBERMAN CONTRO NETANYAHU E GANTZ
Lieberman ha polemizzato sia con Netanyahu, il quale «non ha voluto separarsi dal blocco dei partiti ortodossi e messianici» sia con Gantz «il quale non ha accettato il tracciato indicato dal presidente Reuven Rivlin» per superare il blocco fra Likud e Blu Bianco. Lieberman ha rilevato che la situazione si è fatta adesso particolarmente preoccupante «a causa delle due sfide con cui Israele deve misurarsi: quella della sicurezza e quella economica». Lieberman ha inoltre accusato i deputati della Lista araba unita di essere «una quinta colonna» nel Paese e ha messo in guardia dal rafforzamento di correnti anti-sioniste che a suo parere si avverte anche nei partiti degli ebrei ortodossi.
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Dopo i tentativi di Netanyahu di trovare una maggioranza, vanno a vuoto anche quelli del rivale del partito Blu Bianco.
Sono falliti i tentativi di AvigdorLieberman (leader del partito di destra IsraelBeitenu) di dar vita a un «governo unitario nazionale e liberale» con il Likud di BenjaminNetanyahu e con i centristi di BennyGantz, leader di Blu Bianco. Lo ha affermato Lieberman alla Knesset osservando che «a causa della loro mancanza di leadership, esiste il rischio di nuove elezioni». Nella notte tra il 20 e il 21 novembre scade il termine massimo per il premier incaricato Gantz di annunciare la formazione di un governo.
LIEBERMAN CONTRO NETANYAHU E GANTZ
Lieberman ha polemizzato sia con Netanyahu, il quale «non ha voluto separarsi dal blocco dei partiti ortodossi e messianici» sia con Gantz «il quale non ha accettato il tracciato indicato dal presidente Reuven Rivlin» per superare il blocco fra Likud e Blu Bianco. Lieberman ha rilevato che la situazione si è fatta adesso particolarmente preoccupante «a causa delle due sfide con cui Israele deve misurarsi: quella della sicurezza e quella economica». Lieberman ha inoltre accusato i deputati della Lista araba unita di essere «una quinta colonna» nel Paese e ha messo in guardia dal rafforzamento di correnti anti-sioniste che a suo parere si avverte anche nei partiti degli ebrei ortodossi.
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La Commissione europea ha dato l’ok. Ma restano le preoccupazioni sul debito. In primavera nuovo giudizio su conti e flessibilità, con Gentiloni agli Affari economici. A rischio violazione anche Belgio, Francia e Spagna.
La Commissione europea ha detto sì alla manovraeconomica italiana 2020, sebbene sussista il rischio di un mancato rispetto del Patto di stabilità e crescita.
La legge di bilancio del governo giallorosso, infatti, potrebbe portare a una «deviazione significativa» dagli obiettivi di medio termine per la sostenibilità delle finanze pubbiche. La Commissione europea tornerà a valutare i nostri conti in primavera, ma a farlo sarà la nuova squadra guidata da Ursula Von Der Leyen, con Paolo Gentiloni commissario agli Affari economici.
Anche il criterio della progressiva riduzione del debito pubblico rischia di essere disatteso. È quasi una certezza, ma sotto questo profilo l’Italia è in “buona” compagnia. Lo stesso discorso vale infatti anche per Belgio, Spagna, Francia, Portogallo, Finlandia, Slovenia e Slovacchia.
Tanto che il vicepresidente dell’esecutivo comunitario, Valdis Dombrovskis, ha sottolineato che da tali Stati membri «ci si aspetta che non rispettino la regola del debito». I Paesi in questione «non hanno usato a sufficienza le condizioni economiche favorevoli per mettere in ordine i loro conti pubblici e nel 2020 non pianificano alcun significativo aggiustamento». Un elemento che preoccupa l’Unione europea, «perché i debiti molto alti limitano la capacità di rispondere agli choc economici e alle pressioni del mercato».
Per quanto riguarda in particolare l’Italia, la Commissione europea precisa che «la sostenibilità a breve termine delle finanze pubbliche continua ad apparire vulnerabile agli aumenti del costo di emissione del debito». Ma Bruxelles si dice pronta ad analizzare ex post la richiesta di flessibilità motivata dalle emergenze idrogeologiche e quantificata nello 0,2% del Pil, ovvero in 3,6 miliardi di euro.
È probabile che i recenti eventi meteorologici estremi che hanno colpito Venezia e Matera peseranno in modo favorevole. E in ogni caso anche questa analisi spetterà alla nuova Commissione targata Von Der Leyen.
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Secondo le rilevazioni di Cittadinanzattiva la Tari in media ammonta a 300 euro. La regione più economica è il Trentino Alto Adige dove si spendono 190 euro l’anno, la più tartassata la Campania. La mappa.
L’immondizia costa, e pure parecchio. In media la tassa sui rifiuti nel 2019 (la Tari) è di 300 euro, ma le differenze da regione a regione sono piuttosto marcate. A spendere meno sono i cittadini del Trentino Alto Adige con 190 euro, i più tartassati quelli della Campania con 421 euro l’anno. Scendendo ai capoluoghi di provincia, a Catania la tassa arriva a 504 euro, la più alta d’Italia, con un aumento del 15,9% rispetto al 2018. Potenza, invece, è la città più economica con 121 euro e un decremento del 13,7% rispetto al 2018.
SMALTIRE I RIFIUTI COSTA MENO AL NORD
È questo il quadro che emerge dalla rilevazione dell’Osservatorio prezzie tariffe della onlus Cittadinanzattiva. L’indagine sui costi sostenuti dai cittadini per lo smaltimento dei rifiuti in tutti i capoluoghi di provincia prende come riferimento nel 2019 una famiglia tipo composta da tre persone e una casa di proprietà di 100 metri quadri. A livello di aree geografiche, i rifiuti costano meno al Nord (in media 258 euro). Segue il Centro (299 euro), infine il Sud, il più costoso (351 euro).
A MATERA L’AUMENTO PIÙ CONSISTENTE
Analizzando le tariffe dei 112 capoluoghi di provincia, sono state riscontrati aumenti in circa la metà, 51 capoluoghi, tariffe stabili in 27 e in diminuzione in 34. A Matera si registra l’incremento più consistente (+19,1%), a Trapani il calo più netto (-16,8%). Le 10 città più costose per la tassa rifiuti dopo Catania sono Cagliari (490), Trapani (475), Benevento (471), Salerno (467), Napoli (455), Reggio Calabria (443), Siracusa (442), Agrigento (425), Messina (419). Quelle più economiche Potenza (121 euro), Udine (167), Belluno (168), Pordenone (181), Vibo Valentia (184), Isernia (185), Bolzano (186), Brescia (191), Verona (193), Trento e Cremona a pari merito (195).
Tra le regioni dove la tassa sui rifiuti è più leggera oltre il Trentino Alto Adige ci sono il Molise (219), la Basilicata (221), il Friuli Venezia Giulia (228), il Veneto (234), le Marche (235), la Lombardia (241), l’Emilia-Romagna (274), la Valle d’Aosta (275), il Piemonte (276), la Calabria (296), l’Umbria (301), la Toscana (323), il Lazio (325), l’Abruzzo (326), la Liguria (333), la Sardegna (345), la Puglia (373), la Sicilia (394) e maglia nera la già citata Campania (421). La Tari è diminuita in Lazio (-2%, con Roma che cala del 4,1%), l’Emilia-Romagna con un -0,8%, le Marche (-1,4%), la Sicilia (-1,3%) e la Valle d’Aosta con un calo del 2,3%.
CITTADINANZATTIVA: «IN MOLTE AREE RITARDI E INEFFICIENZE»
«In tema di smaltimento dei rifiuti continuano a registrarsi in molte aree del Paese ritardi e inefficienze», spiega Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva, «e la transizione verso un‘economia circolare, prevista dalla strategia 2020, sembra essere ancora lontana». Si continua a registrare, continua Gaudioso, «una modalità di calcolo dei costi che non tiene conto dei rifiuti realmente prodotti e quindi non incentiva il cittadino a cambiare i propri comportamenti. Molto marcate sono le differenze territoriali, non solo in termini di costi del servizio, ma anche di qualità: vivere in una città anziché un’altra può voler dire disporre di un servizio gestione rifiuti costoso e insoddisfacente».
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Il candidato del centrosinistra Bonaccini avanti nelle preferenze sulla leghista Borgonzoni. Ma tra le liste è testa a testa.
In vista delle elezioni regionali in Emilia–Romagna, un’alleanza tra Pd e M5s vedrebbe Stefano Bonaccini avanti con il 40%, molto più dietro la candidata del centrodestra Borgonzoni con il 29,2%. Senza il Movimento le preferenze rimangono simili con Bonaccini in testa con il 41,2% dei voti e Borgonzoni al 29,4%. Il 68% degli elettori avrebbe al momento più fiducia inBonaccini, contro il 45% riservato allaBorgonzoni. A rivelarlo è un sondaggio Ixè condotto per la trasmissione CartaBianca in onda su Rai 3.
TESTA A TESTA TRA LE LISTE
Sugli scenari di voto alle liste siamo di fronte a un testa e testa. Una eventuale alleanza del centrosinistra con il M5svedrebbe il centrodestra avanti con il 33,1%, dietro invece il centrosinistra con il 31,6. In caso contrario (ossia se il centrosinistra decidesse di correre smarcandosi dal Movimento) le preferenze vedrebbero sempre la lista di centrodestra leggermente in testa con il 34,0% rispetto al 33,7 del centrosinistra.
IL PD QUATTRO PUNTI DAVANTI ALLA LEGA
Una preferenza confermata dalle intenzionidivoto relative ai singoli partiti, che vedono in testa il Pd con il 34,3%, in crescita di tre punti percentuali rispetto alle elezioni Europee dello scorso maggio. Cala invece nei sondaggi la Lega, che in Emilia–Romagna scende dal 33,8% al 30,9% rispetto al voto europeo. Stessa sorte per il Movimento5 Stelle, in perdita di due punti percentuali, mentre cresce Fratelli d’Italia passando dal 4,7% delle europee al 6%.
SUL PIANO NAZIONALE FRENA IL CARROCCIO
Sul piano nazionale, la Lega registra dopo settimane una battuta d’arresto e scende al 31,9 da 32,6% dei consensi della scorsa settimana. In lieve crescita il Pd al 21,2 dal 21 mentre il Movimento 5 stelle ferma la sua discesa al 16,3. Nella maggioranza cresce ancora Iv che arriva al 4,6 dal 4,3. All’opposizione sale Fdi al 9,9 dal 9,6 mentre sale Fi dal 7,3 al 7,5. In crescita +Europa al 3,1 dal 2,7.
Nota Metodologica: Soggetto realizzatore: istituto Ixè srl. Soggetto acquirente: Rai – Cartabianca Metodologia: indagine quantitativa campionaria metodo di Raccolta dati: telefono fisso (cati), mobile (cami) e via web (cawi) universo: popolazione italiana maggiorenne campione intervistato: rappresentativo (quote campionarie e ponderazione) in base a: genere, età, zona di residenza, ampiezza comune, votato 2018/2019 dimensione campionaria: 1.000 casi (margine d’errore massimo 3,10%) periodo di rilevazione: dal 18 al 19 novembre 2019.
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In vista delle elezioni regionali in Emilia–Romagna, un’alleanza tra Pd e M5s vedrebbe Stefano Bonaccini avanti con il 40%, molto più dietro la candidata del centrodestra Borgonzoni con il 29,2%. Senza il Movimento le preferenze rimangono simili con Bonaccini in testa con il 41,2% dei voti e Borgonzoni al 29,4%. Il 68% degli elettori avrebbe al momento più fiducia inBonaccini, contro il 45% riservato allaBorgonzoni. A rivelarlo è un sondaggio Ixè condotto per la trasmissione CartaBianca in onda su Rai 3.
TESTA A TESTA TRA LE LISTE
Sugli scenari di voto alle liste siamo di fronte a un testa e testa. Una eventuale alleanza del centrosinistra con il M5svedrebbe il centrodestra avanti con il 33,1%, dietro invece il centrosinistra con il 31,6. In caso contrario (ossia se il centrosinistra decidesse di correre smarcandosi dal Movimento) le preferenze vedrebbero sempre la lista di centrodestra leggermente in testa con il 34,0% rispetto al 33,7 del centrosinistra.
IL PD QUATTRO PUNTI DAVANTI ALLA LEGA
Una preferenza confermata dalle intenzionidivoto relative ai singoli partiti, che vedono in testa il Pd con il 34,3%, in crescita di tre punti percentuali rispetto alle elezioni Europee dello scorso maggio. Cala invece nei sondaggi la Lega, che in Emilia–Romagna scende dal 33,8% al 30,9% rispetto al voto europeo. Stessa sorte per il Movimento5 Stelle, in perdita di due punti percentuali, mentre cresce Fratelli d’Italia passando dal 4,7% delle europee al 6%.
SUL PIANO NAZIONALE FRENA IL CARROCCIO
Sul piano nazionale, la Lega registra dopo settimane una battuta d’arresto e scende al 31,9 da 32,6% dei consensi della scorsa settimana. In lieve crescita il Pd al 21,2 dal 21 mentre il Movimento 5 stelle ferma la sua discesa al 16,3. Nella maggioranza cresce ancora Iv che arriva al 4,6 dal 4,3. All’opposizione sale Fdi al 9,9 dal 9,6 mentre sale Fi dal 7,3 al 7,5. In crescita +Europa al 3,1 dal 2,7.
Nota Metodologica: Soggetto realizzatore: istituto Ixè srl. Soggetto acquirente: Rai – Cartabianca Metodologia: indagine quantitativa campionaria metodo di Raccolta dati: telefono fisso (cati), mobile (cami) e via web (cawi) universo: popolazione italiana maggiorenne campione intervistato: rappresentativo (quote campionarie e ponderazione) in base a: genere, età, zona di residenza, ampiezza comune, votato 2018/2019 dimensione campionaria: 1.000 casi (margine d’errore massimo 3,10%) periodo di rilevazione: dal 18 al 19 novembre 2019.
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