Il 21 giugno è la Festa della Musica, ma ne abbiamo davvero bisogno?
Dal 1985 il 21 giugno si festeggia in Europa la Festa della Musica. Ne avevamo davvero bisogno? In genere si tende a dire che queste giornate siano utili per accendere l’attenzione dell’opinione pubblica intorno a un tema altrimenti tenuto sottotraccia, quasi invisibile. Per questo, per dire, esiste una Giornata contro la violenza sulle donne e non una contro la violenza sugli uomini. O una giornata contro l’omotransfobia e persino un mese dedicato al Pride. La musica è argomento sicuramente sensibile, se vi si guarda pensando ai lavoratori della filiera, quelli che durante i periodi di fermo a causa della pandemia sono rimasti letteralmente a bocca asciutta, senza lavoro e senza sostegno economico, ma non è a loro che è dedicata la giornata del 21 giugno, quanto proprio alla musica. E mai come oggi la musica è ovunque, pervasiva, onnipresente. Pensateci un attimo, quando avete passato una intera giornata senza che una canzone o un motivetto vi sia arrivato anche involontariamente alle orecchie? Certo, parlo di una condizione di vita quotidiana tipo, non certo di chi magari opera come guardiano del faro di un’isola deserta. Ecco, la musica, quella cui è dedicata la giornata del 21 giugno, è ovunque. Sempre.
Se Lars Von Trier girasse oggi il sequel de Le onde del destino lo infarcirebbe di musica
Facciamo un salto indietro nel tempo. È il 1996, è appena uscito quello che viene considerato, a ragione, il film che ha regalato al controverso regista danese Lars Von Trier la fama che di lì in poi lo ha sempre accompagnato: Le onde del destino. Ai tempi si parlò molto di questa pellicola, la cui protagonista era una ancora sconosciuta Emily Watson, e se ne parlò anche per l’adesione del regista al manifesto del movimento Dogma 95 sui valori di un cinema dedito alla recitazione, lontano da effetti speciali e tecnologie elaborate. Una sorta di purismo non troppo diverso da quello portato in letteratura, qualche anno dopo, dai New Puritans, capitanati da Nicholas Blincoe. Chiunque, ai tempi, fosse incappato nel trailer del film sarebbe rimasto affascinato dal susseguirsi suggestivo delle scene ambientate nei mari del Nord, accompagnate da una colonna sonora a suon di rock, dai Mott The Hopple ai Roxy Music, passando per i Procol Harum e i T-Rex. Chi, invece, fosse poi andato a vedere il film, due ore e mezzo circa di storia iperdrammatica, avrebbe notato come di quella colonna sonora vi fosse poca traccia. E come fosse tutta concentrata nelle cornici tra un capitolo e l’altro, praticamente assente durante lo svolgimento della trama. Del resto, un film che ambisca a una onestà di fondo, cioè a una adesione totale e totalizzante con il reale, ai tempi, non poteva che muoversi così. Dubito che in un borgo scozzese ci fosse costantemente musica nell’aria. Ecco, se oggi Lars Von Trier, per ragioni che onestamente ci sfuggono, dovesse provare a fare un remake del suo stesso film, ambientandolo negli stessi luoghi e volesse ancora essere fedele al Dogma 95, come non sempre ha fatto in tutti questi anni, credo che potrebbe regalarci una colonna sonora costante, onnipresente, invasiva e capillare. Perché nel mentre, qui volevo arrivare, certo avendola presa decisamente alla lunga, oggi la musica non ci molla mai un attimo, è presente in ogni istante del nostro vivere, in ogni spazio e in modi molteplici.
Dalla filodiffusione alle cuffiette, siamo sottoposti a un bombardamento musicale
Se un tempo, neanche troppi anni fa – Le onde del destino è, ripeto, del 1996 – per ascoltare musica toccava impegnarsi, a meno che non ci fosse una qualche radio in filodiffusione, non così comune come adesso, oggi dai negozi ai ristoranti ai bar, siamo bombardati ogni secondo da canzoni, siano esse fornite da chi ci circonda, al supermercato come in metropolitana, o ascoltate tramite i device e le immancabili cuffiette che ci accompagnano mentre camminiamo, facciamo jogging, studiamo, lavoriamo, cuciniamo e chi più ne ha più ne metta. Questo oltre alla musica che ascoltiamo in auto, a casa, in ufficio. Musica che diventa sottofondo, con buona pace di chi a suo tempo ha pensato a quali motivetti usare come colonna sonora nei nostri viaggi in ascensore (parlo degli ascensori dei grattacieli, quelli destinati a ospitarci per più di qualche secondo) o, Brian Eno santo subito, negli aeroporti. Musica da ascoltare distrattamente e in quanto tale scritta proprio con una cifra destinata a essere coerente al tipo di ascolto preposto.
Viva il Giorno senza musica proposto da Drummond
Musica, musica ovunque. Musica sempre. Musica molto spesso prescindibile, irrilevante, destinata a non lasciare traccia nel tempo. Figuriamoci per noi che la ascoltiamo mentre facciamo altro. Musica che proprio oggi, 21 giugno, primo giorno d’estate, celebra la sua festa, con tutta una serie di iniziative che, toh, vedranno artisti e addetti ai lavori propiziarci altra musica, in nome della musica stessa. A tal proposito potrebbe essere cosa buona e giusta riprendere una vecchia proposta fatta da quel genio situazionista di Bill Drummond, già a capo del gruppo The KLF, oltre che parte dei Big In Japan, scrittore e artista. Anni fa, infatti, Drummond – che già si era fatto notare nel 1994 per aver dato alle fiamme in una performance punk senza precedenti qualcosa come un milione di sterline in banconote, tanto aveva guadagnato con la sua band e divenuta un video artistico dal titolo Watch the K Foundation Burn a Million Quid, quando si dice essere eversivi – buttò lì di istituire il 21 novembre il Giorno senza musica, un digiuno auricolare atto a specificare come esista musica deprecabile, destinata a fungere da colonna sonora di sottofondo per qualsiasi luogo e qualsiasi momento, e musica invece preposta a accompagnarci in momenti specifici, quella che appunto col tempo rischia di scomparire sepolta dal rumore di fondo. Iniziativa, questa, andata avanti per cinque anni, dal 2005 al 2009. L’idea, lanciata da Drummond attaccando alla maniera di artisti quali Banksy, manifesti all’ingresso del Mercey Tunnel di Liverpool, era quella di un piano quinquennale atto a salvaguardare la musica, certo, ma anche l’umanità, ma mai come oggi suona necessario, se non addirittura salvifico.