Perché la Cina ha paura del dissidente Joshua Wong
L’evoluzione da provocatore adolescenziale a lobbista internazionale e politico emergente fa della sua biografia un caso davvero unico. Per questo il giovane attivista di Hong Kong è tra i più temuti dal regime di Pechino.
Magro, quasi esile. A 23 anni ha sempre la stessa faccia da adolescente di quando ne aveva soltanto 15 e già era alla guida di un movimento politico senza precedenti. Lo sguardo però, quello si è indurito da allora.
Sarà stato il carcere, dove chi aveva paura di lui, il governo di Hong Kong, è riuscito a rinchiuderlo per un po’. Sarà perché ormai teme per la propria vita. I suoi occhi non hanno più quell’incoscienza di allora, quella degli inizi, dell’epoca della cosiddetta Rivolta degli ombrelli.
Joshua Wong, questo giovane uomo, dall’aspetto di eterno ragazzino, ha paura ormai. Perché a sua volta fa paura a un gigante mondiale che si chiama Cina.
IL BOICOTTAGGIO COSTANTE DI PECHINO
Wong, con quel suo aspetto sempre un po’ sparuto, vagamente etereo, ormai è considerato il nemico pubblico numero 1 del regime più potente del Pianeta, che è anche uno dei più repressivi. Tanto che una sua visita in Italia, annunciata per la fine del mese alla Feltrinelli di Milano, nei giorni scorsi aveva subito provocato una reazione durissima del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, che si era lamentato formalmente con il nostro Paese affermando tra l’altro – senza mai nominarlo per nome – che «questa persona, invitata da parte italiana, è un attivista per l’indipendenza di Hong Kong, e noi ci opponiamo fermamente a ogni ingerenza straniera negli affari interni della Cina. Hong Kong è una questione interna cinese e fa parte della Cina!».
Non c’è dubbio, il timido Joshua fa paura: molta paura
Il 12 novembre al nostro ministero degli Esteri è arrivata la comunicazione ufficiale che il tribunale di Hong Kong ha negato a Wong – che tecnicamente si trova in «libertà su cauzione» accusato di «manifestazione non autorizzata» – il permesso di espatrio per venire in Europa. Qualche settimana fa aveva escluso la sua candidatura alle prossime elezioni distrettuali del 24 novembre.
Non c’è dubbio, il timido Joshua fa paura: molta paura. A settembre, invitato in Germania, una sua stretta di mano con il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, aveva scatenato l’ira dei cinesi, al punto che Pechino aveva subito convocato l’ambasciatore per protesta. La visita in Italia rischiava di causare più di qualche imbarazzo al governo italiano, specie a Luigi Di Maio, che a Shanghai, dove aveva incontrato di recente il presidente cinese Xi Jinping, si era esibito in una pilatesca dichiarazione, liquidando la questione di Hong Kong come problema «interno alla Cina, nel quale noi non vogliamo interferire».
LA CARRIERA DA DISSIDENTE COMINCIATA A 15 ANNI
Ma chi è Joshua Wong e perché riesce a fare tanta paura a Pechino? L’evoluzione da provocatore adolescenziale a lobbista internazionale e politico emergente fa della sua biografia un caso davvero unico. La lotta per il futuro di Hong Kong attraversa praticamente tutta la giovane vita di Joshua. Nato nell’ottobre del 1996, un anno prima che l’ex colonia britannica venisse restituita alla Cina attraverso un accordo che garantiva alla regione amministrativa speciale mezzo secolo di autonomia relativa, non ha potuto conoscere il dominio inglese e avrà cinquant’anni quando quel tempo finirà e Hong Kong entrerà in un’era imprevedibile.
La nostra guerra continuerà finché non avremo democrazia rappresentativa e garanzie sulle libertà fondamentali a Hong Kong
Joshua Wong
Nessuno sa se, nel 2047, Hong Kong manterrà le sue libertà uniche o sarà obbligata a un più stretto allineamento con le regole estremamente restrittive delle libertà fondamentali in vigore nella madrepatria cinese. Le dimostrazioni di quest’anno sono l’ultimo atto di un malessere dalle radici remote: il malessere di una generazione che ha conosciuto il sapore della democrazia e non vuole – e non sa – più farne a meno. «Finché Xi Jinping, governerà la Cina, noi non vediamo nessuna soluzione», ha detto di recente Wong, «la nostra guerra continuerà finché non avremo democrazia rappresentativa e garanzie sulle libertà fondamentali a Hong Kong. Se necessario, andrà avanti all’infinito».
Nel 2011 Wong ha 15 anni, studia in un liceo cristiano e fonda insieme ad altri il movimento Scholarism per opporsi alla riforma dell’istruzione detta «Educazione Morale Nazionale». Secondo Joshua si tratta di un progetto di «lavaggio del cervello» per rendere inoffensive le nuove generazioni di Hong Kong inculcando negli studenti i valori del Partito comunista cinese e il rifiuto di un sistema democratico. Così lui e altri adolescenti cominciano a raccogliere firme per strada, varano campagne di protesta, usano i social, dove un post di Joshua ottiene centinaia di migliaia di like. Incontra C.Y. Leung, allora a capo del LegCo, il Legislative Council o “miniparlamento” di Hong Kong, sempre controllato da Pechino. Il movimento ottiene un primo importante risultato: la riforma scolastica viene ritirata. Ma è poca cosa, Joshua e i ragazzi di Hong Kong vogliono di più.
IL CARCERE NEL 2018 E LA NOMINA PER IL NOBEL PER LA PACE
Nel giro di due anni sarà sempre lui a guidare la più imponente protesta nella storia della città: Il Movimento degli Ombrelli, che scuote le fondamenta di Hong Kong. Il 29 settembre 2014, dopo un discorso incendiario pronunciato da Joshua la sera prima, un centinaio di studenti occupa la centralissima piazza dove si trova palazzo del governo, e subito scendono in strada migliaia di persone. La polizia usa lacrimogeni, gli studenti rispondono riparandosi dietro gli ombrelli. Bloccheranno il centro di Hong Kong per mesi.
Man mano che la sua fama e influenza crescevano all’estero, secondo molti osservatori la sua leadership in patria diminuiva
Joshua Wong viene arrestato e imprigionato con l’accusa di assemblea illegale, accusato da Pechino di essere un agente degli Stati Uniti e nominato per il premio Nobel per la pace nel 2018. L’anno prima Il filmmaker Joe Piscatella gli aveva dedicato un bellissimo documentario – disponibile su Netflix – Joshua: Teenager vs. Superpower, vincitore del World Cinema Audience Award al Sundance Festival. Da allora il destino e l’immagine di Wong hanno subito un curioso paradosso: man mano che la sua fama e influenza crescevano all’estero, secondo molti osservatori la sua leadership in patria diminuiva.
AD HONG KONG LA SPIRALE DI VIOLENZA AUMENTA
Gran parte del lavoro di Wong in questi ultimi mesi, del resto, si è rivolto verso un pubblico internazionale, nella speranza di ottenere dall’estero il sostegno necessario al movimento, per una svolta decisiva. Ma le notizie degli ultimi giorni, terribili, drammatiche, dicono che le speranze che ciò accada si affievoliscono ogni giorno di più mentre ormai la protesta si incancrenisce, alimentando una spirale di violenza che sembra senza via d’uscita.
Ormai Wong ha assunto il ruolo di una sorta di statista o portavoce internazionale del movimento
Antony Dapiran, scrittore di Hong Kong
Antony Dapiran, scrittore di Hong Kong che ha pubblicato per Penguin La Città della protesta, storia del dissenso a Hong Kong, dice: «Mentre durante le precedenti campagne Wong era stato visto da molti come un leader, questa volta non è stato visto in quel modo dai manifestanti sul campo. Ormai ha assunto il ruolo di una sorta di statista o portavoce internazionale del movimento». Un ruolo che evidentemente fa molta paura al gigante cinese, al punto da spingerlo fino alle dichiarazioni ufficiali contro di lui, alle proteste diplomatiche.
Poco dopo essere stato rilasciato dal carcere e in procinto di partire per gli Stati Uniti e la Germania, rispondendo in fretta alle domande dei giornalisti, che insistevano perché concedesse più tempo, Wong ha risposto: «Non abbiamo più tempo. Siamo in emergenza, le banche e i negozi chiudono e le persone fanno provviste di cibo in casa. Ci sono file ai per ottenere denaro dai bancomat… Se La Cina non capisce che deve darci ascolto, che deve sedersi a un tavolo e dialogare con i cittadini di Hong Kong, finiremo tuti insieme nel baratro, noi e loro. Per questo lo slogan che urliamo nelle manifestazioni dice: “Se brucio io, bruci con me!”».
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